Più Autonomia alle Regioni

PER LA PROSSIMA LEGISALTURA PIU’ AUTONOMIA ALLE REGIONI

di Gian Carlo Sacchi

La legislatura termina con un impegno trasversale a diverse amministrazioni e parti politiche: il riconoscimento di maggiore autonomia alle Regioni.

E’ noto che Lombardia e Veneto hanno celebrato un referendum in tal senso, ottenendo il conforto dei cittadini, mentre l’Emilia Romagna ha espresso un preciso indirizzo da parte dell’Assemblea Legislativa. Tre regioni che chiedono l’applicazione dell’art. 116 della Costituzione ed avviano una fase interlocutoria con il governo nazionale. Due le novità: la prima è che dalla periferia si torna a sentire il bisogno di contare di più e di valorizzare il ruolo delle istituzioni locali; dopo più di dieci anni dall’approvazione della riforma costituzionale, rimasta lettera morta per paura della competizione tra le forze politiche, qualcosa si muove. E la seconda è che il governo ha risposto positivamente, come mai era avvenuto per tutto questo tempo.

L’iter però è ancora lungo, perché si tratta di approvare da parte del nuovo Parlamento una legge per ogni regione richiedente con le materie per le quali si vuole operare con maggiore autonomia, prese tra quelle che oggi la Costituzione considera “concorrenti” tra Stato e Regioni. Si tratta di una svolta, che dato il numero di queste ultime che si aggiungono, potrebbe riproporre l’esigenza di una nuova riforma costituzionale più mirata ai diversi livelli di governo ed alle questioni fiscali.

I settori sui quali intervenire sono numerosi ma piuttosto affini tra le varie richieste, in modo da far pensare ad una nuova legge costituzionale che possa rimettere in relazione più autonomia da parte delle regioni ordinarie con le competenze esclusive di quelle a statuto speciale. Ma se non si vuole volare troppo alto ci si può accontentare di proseguire il lavoro, già avanzato nei rapporti bilaterali, auspicando che la campagna elettorale non distolga lo sguardo.

Di solito le riforme istituzionali non infiammano gli animi nel periodo preelettorale, ma costituiscono pur sempre il modo di organizzare dei contenitori nei quali sia possibile valorizzare le peculiarità dei territori, offrendo loro maggiore capacità di gestione anche a livello internazionale, prima di tutto per una visione più efficiente di Europa, per creare così maggiore ricchezza che può servire a tutto il Paese, in una prospettiva di solidarietà, ma in primis ai cittadini di quelle località per il miglioramento dei loro servizi. Ciò imporrà una diversa modalità di calcolo delle risorse che lo stato impegna per le regioni ed una compartecipazione alla fiscalità generale, in considerazione anche di un diverso e migliore uso delle stesse, così da rendere più stabile la programmazione al riparo da esigenze di finanzia pubblica.

Da altre regioni arriva la richiesta di voler partecipare alla trattativa e la cosa più interessante è che viene ad arricchirsi ulteriormente il quadro delle forze politiche in campo per quanto riguarda l’applicazione del suddetto art. 116, che pur con motivazioni diverse era stato in questi anni tralasciato. Dal Piemonte e dalla Campania, due amministrazioni di centro-sinistra, insieme a Lombardia, Emilia e Veneto emerge anche un impegno alla stabilità dei bilanci, requisito necessario per giungere alla maggiore autonomia, il che stimola in generale comportamenti virtuosi. Ma anche la Liguria, con una maggioranza di centro-destra, scende in campo e notizie in tal senso giungono dalla Puglia e dall’Umbria: l’Italia delle autonomie si mobilita di nuovo, forse con un po’ di ritardo, ristabilendo il filo conduttore della riforma del titolo quinto della Costituzione e ricercando sul territorio quelle alleanze che mettono al primo posto gli interessi dei cittadini rispetto a quelli della politica; oltre ai referendum che hanno chiamato direttamente la popolazione, questo obiettivo viene condiviso da maggioranze e minoranze dei consigli regionali.  Piemonte e Umbria riportano inoltre alla luce l’antico dibattito sulla revisione dei confini amministrativi; per essi può valere la definizione di “area vasta” già introdotta dalla legge sulla revisione delle province.

Tra le materie che ciascuna regione propone ci sono ricerca, istruzione e formazione professionale, a supporto dello sviluppo economico delle diverse realtà e della loro capacità competitiva: un “sistema” delle autonomie locali che va a rinforzare il livello nazionale e sa confrontarsi in modo più dinamico e flessibile con un’Europa delle Regioni.

Tessuto produttivo, governo e formazione devono trovare sempre più occasioni di integrazione a partire dai territori, allo stato nazionale gli elementi di regolazione e valutazione. Nell’ambito del sistema formativo occorre superare il parallelismo tra le istituzioni valorizzando la dimensione locale, a partire dalla scolarità di base, con il nuovo ciclo 0-6 anni recentemente introdotto dal D. Leg.vo 65/2017, la formazione professionale già di competenza regionale, ma in rapporto stretto con l’istruzione che si esplica attraverso l’autonomia delle scuole e delle università.

Dentro le autonomie scolastiche occorrerà scavare molto di più di quanto non si sia fatto finora, in modo da rendere efficace la loro presenza in relazione alla domanda sociale, assicurando obiettivi e standard precisi, un efficiente valutazione e una governance di carattere pubblico/partecipativo. La legge 107 ha messo in evidenza ancora di più la domanda di autonomia, ma non l’ha soddisfatta, rimanendo legata al centralismo burocratico per molte attività anche di carattere didattico.

Tra le materie indicate si nota che le diverse esigenze regionali hanno molti punti in comune, il che rende possibile da un lato individuare un quadro unitario nazionale, e, dall’altro, riconoscere le peculiarità dei territori. Solo il Veneto esprime la volontà di intervenire a definire le norme generali sull’istruzione che la Costituzione attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato, per il resto tutte vogliono occuparsi di:

– Programmazione della rete scolastica e universitaria e dell’offerta formativa regionale, per aderire alle esigenze del tessuto produttivo

– Modalità di valutazione del sistema,

– Determinazione della consistenza organica del personale

– Rapporti tra istruzione, formazione e lavoro, anche nella recente previsione delle attività di alternanza, orientamento e tirocini aziendali; sistema unico di istruzione tecnica e professionale

– Regionalizzazione delle politiche attive del lavoro

– Disciplina dei rapporti con il personale nel rispetto di uno status giuridico ed economico statale; reclutamento regionale e territorializzazione della contrattazione

– Finanziamento alle scuole non statali

– Organi collegiali territoriali e assunzione da parte delle regioni delle funzioni dell’ufficio scolastico regionale

– Educazione degli adulti

– Edilizia scolastica

– Potestà legislativa nei confronti dell’UE e gestione dei relativi fondi

– Attuazione del federalismo fiscale

– Diritto allo studio e ristorazione collettiva nelle scuole

Sono fatti salvi i limiti derivanti dal rispetto dei “livelli essenziali delle prestazioni” da garantire su tutto il territorio nazionale e la piena valorizzazione delle autonomie scolastiche come indicato dalla stessa Costituzione.

Il trasferimento di tali competenze non sembra una rivoluzione alla catalana, ma una richiesta del tutto plausibile se si vuol veramente far aderire le strutture formative alle esigenze del territorio e migliorarne l’efficienza; anzi per alcune di esse sono già in atto processi di decentramento che sarebbe bene completare.

Iniziamo dall’autonomia delle scuole e dalla loro rappresentanza istituzionale, affinchè l’offerta formativa sia davvero capace di interpretare la domanda sociale e del mondo del lavoro, nell’ambito delle norme generali sull’istruzione, integrandosi con gli altri servizi educativi, la formazione professionale e permanente, e non sia semplicemente un adempimento burocratico vincolato dalle risorse economiche dello stato e dalla rigidità dei curricoli.

Nell’ottica dell’autonomia sarà possibile riconsiderare i rapporti con le scuole non statali e tutta la questione della parità; si aspettavano norme sull’autogoverno delle scuole stesse (statuti, regolamenti, organi collegiali, piani formativi territoriali, ecc.), nemmeno sfiorate dalla buona scuola. Una programmazione regionale-locale era già prevista dal 1988, ma mai realmente attuata. Anche il passaggio delle competenze degli UUSSRR era indicata dai decreti Bassanini; le funzioni fondamentali degli enti locali sono state ribadite dal D.Leg.vo 261/2010 in corrispondenza con l’attuazione del federalismo fiscale.

Che vi sia bisogno di una maggiore autonomia nella definizione degli organici e nell’assunzione del personale lo dimostra l’inefficienza che ogni anno condiziona l’avvio delle lezioni: un timido tentativo fu fatto in passato da parte del coordinamento delle regioni, e la cosa non avrebbe contrastato i rapporti sindacali con l’introduzione di una contrattazione regionale, così come si voleva che l’assegnazione dei contributi statali alle scuole avvenisse su un unico capitolo per agevolare l’autonomia di spesa.

Sull’educazione degli adulti un documento stato-regioni del 2014 attribuiva a queste ultime il compito di realizzare una rete di strutture che oltre ai CPIA coinvolgesse anche le realtà del privato-sociale. Stato e regioni potrebbero lavorare insieme nei rapporti con l’INVAlSI per la valutazione di sistema; riprendere la questione  del canale unico tra istruzione tecnica, professionale e formazione, fino all’istruzione terziaria sarebbe stato importante, mentre il recente decreto ha limitato il riordino agli istituti professionali quinquennali, per finire con le politiche attive del lavoro che devono tornare alle regioni eleminando quella sovrastruttura che è l’ANPAL.

E si potrebbe continuare per dimostrare che il sistema è maturo per una maggiore autonomia da affidare, come avviene in quasi tutta Europa, alla gestione di “regioni virtuose”, quelle cioè con “i conti a posto”, sotto la vigile attenzione del predetto art. 116 e di una legislazione ordinaria chiara ed efficace.

Cosa aspettarci dunque dalla prossima legislatura ? Innanzitutto che non venga mortificato il lavoro fin qui svolto dai tavoli tecnici tra governo e regioni su questi temi, ma anzi che venga sviluppato fino al necessario compimento parlamentare, facendolo uscire dall’angolo degli specifici e spesso marginali rapporti multilaterali per coinvolgere i diversi dicasteri nazionali, tra i quali il Miur che in materia ha sempre assunto un comportamento frenante.

La politica scolastica in questo momento esprime una contraddizione portata dalla buona scuola: il tentativo di liberalizzare alcune procedure per rientrare in una gestione centralistica complessiva del sistema. Forse l’autonomia potrebbe far toccare con mano la necessità di certe aperture se si vogliono offrire convincenti risposte al territorio senza perdere di vista ovviamente il valore unitario del Paese.