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Donne e bambini azzerati

DONNE E BAMBINI AZZERATI

di Vincenzo Andraous

E’ un tempo vestito rosso scarlatto, di tragedie e angoli bui, un tempo in cui non è salutare per niente rimuovere per dimenticare, dunque sarà bene ricordare fino all’ultimo pugno nello stomaco.

Donne a morire, a lasciare spazi vuoti, momenti di vita dilaniati dallo strapotere e dal delirio di onnipotenza maschile.

Donne, ridotte a cose, a oggetti, a insopportabili presenze, non soltanto da spostare, allontanare, sostituire, bensì, da annientare, devastare, ridurre a un buco nero profondo, dove non vi è più possibilità di accesso, di un ritorno.

Donne, compagne, mogli, diventate parti offese dell’inadeguatezza maschile, donne a perdere nella ragione, donne sconfitte dalla fiducia spogliata di ogni onore, figuriamoci di un qualche amore.

Donne e madri accasciate, con gli occhi sgranati, le mani a proteggersi, supplicando la pietà ammutolita e in ritirata.

Donne e madri insufficienti a pagare dazio, divenute insostenibili, irrappresentabili, congrue assenze a rappresentare una ignobile “liberazione”.

A quelle madri colpite, dilacerate, niente va lasciato al caso, neppure i propri figli, i bambini, innocenti, quelli che ancora non fanno carico di colpa, di giustificazione, di pesi e di misure mai concordate.

Bambini fatti a pezzi in tanti modi differenti, un rituale dove la mamma è protagonista designata da accompagnare alle altre vittime sacrificali, bambini che s’accorgono delle bestemmie, delle offese, delle violenze, bambini che ascoltano e tacciono per paura e per amore.

Uomini che non possono esser declinati semplicemente delle bestie, infatti gli animali non fanno di questo male il proprio agire, piuttosto sono persone che non sanno più coniugare l’istinto alla ragione, non riescono più a collocare nel posto dovuto la compassione, si tratta di uomini che non hanno i polsi legati dalle periferie ben note, dai portoni blindati, dalle celle chiuse, uomini che non sono di un ambiente sub-urbano ben conosciuto, sono persone vestite di agio, di benessere, di normalità, di stima tutto intorno.

Uomini di una tranquilla esistenza, dove ogni cosa evidentemente non è al suo posto, non quadra più, qualcosa manca all’appello.

Innumerevoli donne maltrattate sono la traccia marcata di una cultura del possesso, del dominio, del sopruso, cultura di una libertà costretta come una puttana.

Quei bambini azzerati senza un sussulto di pietà, non sono il frutto di una cultura dell’iracondia delinquenziale, di una legge di sangue omertosa, ma il risultato di una inutilità personale-esistenziale, come se a ogni piè sospinto, fosse in agguato la ferocia di una relazione incompiuta, di un amore idealizzato in divieto di sosta, una affettività emozionale inesistente, una spietatezza incolore, dentro una calma piatta, dove chi agisce e si muove non si aspetta più nulla dal presente, perché è già futuro scalzato all’indietro.

Ho chiesto lumi a Massimo, uno mio amico psicologo assai perspicace, il quale alla mia domanda: come è possibile toccare l’intoccabile? Mi ha risposto: è la solitudine, quella dimensione che ti fa sentire solo, che non ti chiama alla responsabilità, ti disgiunge dalla fortezza del sapere chiedere aiuto, ti inchioda nella trappola di una “scissione” silenziosa e opprimente, che scalza ogni emozione approdando a una scelta folle e imperdonabile.

Mi ha fatto l’esempio dei binari, l’equilibrio delle distanze parallele, finchè la solitudine più acciaiosa, non consente più di sopportare il peso del proprio malessere, inadeguatezza, rifiuto, improvvisamente le linee s’allargano, biforcano, si sovrappongono, contorcendosi, dimenandosi, lamentandosi, con l’unico risultato del silenzio nella follia sopraggiunta.

Noi continueremo a parlare di colpa inusitata, di inasprimento delle pene, di fiamme dell’inferno senza possibilità di comprendere questi comportamenti, forse occorrerà parlarne di più e meglio, con un senso ritrovato sugli stili vita,   non tanto e non solo legati al vivere civile, ma al modo in cui fare davvero comunità.

Cesare Pavese poco prima del suo lungo viaggio ebbe a dire: “ Domani tornerà l’alba tiepida con la diafana luce e tutto sarà come ieri, e mai nulla accadrà”.

Giustizia costretta di spalle

Giustizia costretta di spalle

di Vincenzo Androus

Quanto più forte è uno Stato, più forte è il diritto di indignarsi di quanti non vedono riconosciuti i propri diritti: fare giustizia significa sanare una ferita, una lacerazione, costringendo il dolore a trasformarsi nella sofferenza, nella scoperta di essere meno indifesi e impreparati se esiste la possibilità concreta di affidarsi agli altri, a quegli altri che siamo noi.
Il carcere come unico baluardo al ripristino della legalità, all’assunzione di responsabilità, all’educazione da ritrovare: riesce difficile convincersi che sia la strada più efficace da percorrere per raggiungere gli obiettivi di cui sopra, un luogo deputato a saldare conti in sospeso con la collettività, uno spazio adibito alla moltiplicazione del dolore, una sorta di terra di nessuno, dove solo pochi intendono posare lo sguardo.
Non c’è capacità di osservare quel che accade dentro una cella, soprattutto ciò che non accade, è lecito discuterne per ideologie d’accatto, per pancia buttata sottosopra, ma non ci sarà mai abbastanza onestà intellettuale per rimettersi in gioco, per ritrovarsi e infine riparare al male fatto. Finchè la Giustizia permarrà signora costretta di spalle, con gli occhi bassi, non potrà varcare con autorevolezza i cancelli di una galera, per offrire forza sufficiente al riappropriarsi del proprio ruolo e della propria utilità al carcere e alla pena, nella differenza che intercorre tra chi entra in carcere, alla meno peggio rimane affondato al punto di partenza, e chi invece azzera la propria esistenza con un po’ di sapone e un laccio al collo.
Progetti a rimbalzare sulla realtà che non è di carta, dove ci sono le persone, che fanno ben sperare in una condizione umana migliore, persone che sebbene detenute non ci stanno a essere punite due o tre volte da una sopravvivenza imposta.
Esistono le persone in questo pianeta, checchè ne faccia dubitare il disprezzo estremo cui è ridotto il carcere, la disperazione delle parole obbligate a rimanere monche, inutili, perciò impreparate a dare importanza ai morti che si accatastano dentro gli spazi iniqui, agli altri mascherati da vivi ma annientati ulteriormente nella propria dignità.
C’è in atto una neanche tanto sottile strategia a significare che è tutto esagerato, eccessivo, un film squinternato nella sua sceneggiatura, eppure la prigione non è recinto per i soli brutti, sporchi e cattivi, anche chi sta ai piani alti, nel reame dei perennemente onesti, dei buoni a tutti i costi, si muovono le pedine sacrificali, perché non solamente la libertà è comandata a sparire, con essa la dignità dell’ultima volontà di un perdono.
Occorre davvero nutrirsi di resilienza, rifiutando la quotidianità della deresponsabilizzazione, facendo un passo indietro, scegliendo la fatica, la rinuncia, per non dichiararsi sconfitti alla propria ritrovata umanità, anche all’umanità di chi è disposto a tendere significativamente la mano: non si tratta di una mera concessione statuale, bensì di una nuova condivisione che diventa conquista di coscienza.

Quotidianità della sofferenza

Quotidianità della sofferenza

di Vincenzo Andraous

Se ne stava lì in un angolo della stanza, rannicchiata addosso alla parete, come volesse occupare uno spazio invisibile.

Una signora con i capelli argentati, una donna esile, fragile, improvvisamente sola.

Mentre l’accompagnavo da persone amiche disponibili ad accoglierla per la notte, mi raccontava una storia incredibile, ma tragicamente reale.

Ogni tanto le succede di scappare da casa, attraverso i campi raggiunge la città, per recarsi al pronto soccorso: le accade di non riuscire a muovere le braccia, né piegarsi, o respirare bene.

Ogni tanto succede che la testa le ciondola sul collo, svuotata di ogni pensiero, le gambe oppongono resistenza, non c’è più sincronia tra dire e fare, neppure nello sperare che le cose possano cambiare.

Ogni tanto il marito la colpisce forte, la offende e la spintona, per il lavoro che non c’è più, per la malattia sopraggiunta, per lo sfratto imminente.

Le percosse e le umiliazioni la fanno morire un po’ di più: “No, non denuncio a mio marito, perché se lo scopre mi ammazza stavolta, no, non lo denuncio mai, a che servirebbe, rimarrebbe in quella casa, ed io a rischiare di più”.

Guardo quella signora e mi vengono in mente le reiterate sensibilizzazioni a chiamare il numero verde, gratuito ed efficiente a difesa di chi non sa più a che santo votarsi per sopravvivere, se, al diritto di vivere, è negato l’accesso.

Frasi fatte, luoghi comuni, gli scudi levati al grido ” la violenza sulle donne non ha più scuse “.

A questa donna hanno sollecitato “lo denunci signora, lo denunci, e poi vada via subito dal paese”, ma lei mi dice: “Dove vado io, cosa faccio io?”.

Incredibile, chi ha ragione ed è vittima, deve trovare il coraggio di denunciare, nella certezza di finire in strada, a perdere ulteriormente dignità e fiducia negli altri, senza risposte a propria tutela, se non quella di un consiglio ad abbandonare casa e andare lontano, dove e come ha poca importanza, perché di fondi non ce ne sono, il paese non offre lavoro, nonostante i decreti, le nuove normative, la legge è quella che è.

Una donna presa a calci, rifiutata e calpestata, è solamente il frutto di una errata concezione morale, di valori culturali che soccombono ai pugni sferrati dai pregiudizi, si tratta semplicemente di vittime ammutolite dalla consapevolezza di rappresentare poco più di un fattaccio privato, anche quando la bestemmia burocratica è spogliata nella sua menzogna, dall’efferatezza dei dati esponenziali che indicano in migliaia le donne colpite dai sassi psicologici, fisici, sessuali.

Mentre scende dall’auto e la portano nella sua stanza, ho come un magone, ma non è il risultato della compassione, della partecipazione emotiva – solidale verso chi vede martoriati i propri diritti fondamentali.

Il groppo in gola è lì per l’impotenza a intervenire ai fianchi di infamie come queste, che accadono nell’indifferenza e nell’incapacità di porre termine a una delle ingiustizie più miserabili che aggredisce sempre le persone più deboli e indifese.

Ogni tanto la signora è costretta a ricorrere alle cure mediche, a negare l’evidente, a chiedere aiuto e vederselo negato, ogni anno ci sono le ricorrenze, le feste, le coreografie delle pari opportunità, sull’uguaglianza e sulla diversità, sulle quote rosa.

Ogni anno, ci sono pure le mimose che dovrebbero rammentare, a ciascuno, di rispettare le donne. Non solamente qualche volta l’anno.

Droga che non fa prigionieri

DROGA CHE NON FA PRIGIONIERI

di Vincenzo Andraous

 

Una ragazzina s’è sentita male a scuola, una canna di troppo l’ha obbligata in orizzontale, è finita sull’ambulanza e poi in ospedale.

Una minorenne ha comprato la sua dose dietro quell’angolo mai troppo celato, come accade ultimamente vicino alle scuole, dentro le scuole, fin dentro la classe.

Una giovanissima ne ha fatto uso, badate bene, non ho detto abuso, ne ha preso qualche tiro la mattina, ma come qualcuno ostinatamente persiste a ripetere, è importante farlo responsabilmente, consapevolmente, tant’è finita su un lettino del pronto soccorso.

Una adolescente che sentenza della Consulta o meno, non sarà mai autorizzata a comprarla legalmente, neppure in tempo di spaccio statuale.

Di fronte a questo scempio di dignità calpestata, di libertà prese a calci in bocca, c’è chi pervicacemente porta avanti la tesi di un uso responsabile della roba, come a dire: fumatela bene, fatelo con giudizio, sarete al sicuro, non potrà accadere niente di spiacevole, c’è addirittura chi propende per fare svolgere un’ora di ricreazione scolastica per formare al consumo responsabile della canapa.

A questo punto non ha più alcuna importanza se qualcuno per fare del ribellismo spicciolo, userà l’insulto per arginare la propria disonestà intellettuale, non me ne può fregare di meno beccarmi del proibizionista, del rigorista, del moralista.

Quel che mi interessa è mettere al bando le chiacchiere, le bugie, le mistificazioni, i sofismi che vorrebbero coniare nuove argomentazioni filosofiche a supporto di una droga buona, di una droga normale, insalutare quanto un bicchiere di vino, un pacchetto di sigarette.

Come diavolo è possibile sostenere che lo spinello non crea danni, non mette nei guai chi già è nei guai di un’età respingente. Come non dare conto ai tanti e troppi sì, a discapito dei pochi e vituperati no, come non sbatterci il muso in quel tempo da dedicare agli altri che non c’è mai, quel tempo che invece occorre trovare necessariamente per non dovere correre in ospedale a sincerarsi delle condizioni dei propri figli.

Con quale correttezza interiore è dapprima sottaciuta, poi licenziata sbrigativamente la risposta scientifica che indica la cannabis come droga che fa male, che crea dipendenza, contamina il sistema nervoso, con il rischio di diventare malattia se già non lo è.

Quella ragazzina, quegli altri giovanissimi, sono ritornati a casa, rincoglioniti e spaventati, fortunatamente vivi, quelli che hanno venduto la dose sono stati presi, la nuova pratica degli adolescenti che comprano, vendono, guadagnano, poi ricomprano per uso proprio e per spacciarla, ha esteso radici profonde, in questo modo a casa non spariranno più ori e danari, non si chiederanno più troppi soldi, evitando sospetti e tensioni.

Qualcuno vada a dirlo ai genitori di quella ragazzina, che vietare, proibire, equivale a moltiplicare trasgressioni e devianze, fatturoni e Peter Pan di periferia, vadano a dirlo a loro che non è niente di più e niente di meno di una bevuta di buon vino.

Ripetano a quegli adulti che quanto accaduto alla loro bambina è semplicemente un “evento critico”, ma questo/i sacrifici consentiranno di battere le mafie, faranno diminuire i tossicodipendenti, risolveranno il sovraffollamento quale problema endemico dell’Amministrazione Penitenziaria.

Vadano a dirlo a loro, confidando sulla buona sorte che ha risparmiato una vita, perché fosse andata diversamente, a quella porta nessuno avrebbe fatto sosta né passaggio, unicamente ammenda.

Ergastolo è pena certa

Ergastolo è pena certa

di Vincenzo Andraous

Accade sempre in ogni epoca di crisi e di trapasso; chi sta al fondo del barile, all’ultima fila di sedie, inchiodato alla propria condizione per forza o per necessità, non sarà inteso come persona da trattare, ma un numero da contenere e incapacitare.
Carcere, sempre più carcere per risolvere problemi complessi che mettono in ginocchio una società, come a dire è sufficiente buttare via la chiave, omettendo di ricordare che prima o poi invece si esce da quella sorta di terra di nessuno, a volte con i piedi in avanti, altre con le proprie gambe, ma con lo sguardo che non ravvisa alcuna direzione.
Norme, decreti, leggi di nuovo conio, ognuno a scandire le proprie ragioni, a lanciare strali, è battaglia ideologica disegnata dagli slogans, dalla cartellonistica d’accatto, una dislocazione furiosa di parole contrapposte che avvisano del pericolo carceri svuotate dai criminali, di condoni, amnistie, e chi più ne ha, più ne metta. Eppure alla linea d’arrivo, poco meno di qualche centinaia di detenuti usciranno, non ci sarà alcun sollievo nell’inferno carcerario per nessuna delle sue componenti, non ci sarà possibilità di abbassare la recidiva, non ci sarà formazione né rieducazione, solamente una nuova presa per i fondelli.
A questa ipotesi di prevenzione ubriaca, di sicurezza a pochi denari, occorre aggiungere il capitolo della pena nella sua flessibilità e certezza, tant’è che c’è qualcuno che senza andare troppo per il sottile afferma che il cosiddetto”fine pena mai” non è applicato, addirittura non esisterebbe, anzi, con una ventina di anni di carcere scontati, si è belli e pronti all’uscita, chi se ne frega se addirittura infantilizzati.
Ho seri dubbi che questa boutade corrisponda al vero, mentre non ne ho nel ribadire che una pena che sancisce la fine di un tempo che non passa mai, un tempo che non esiste, che non ti assolve né perdona, un tempo bloccato, non è un’astrazione né una combine della mente, certamente non la pena dell’ergastolo.
Quarant’anni di galera scontata costringono il prigioniero a straripare in universi sconosciuti, un mondo fatto di domani che non ci sono, una negazione che rinvia alla morte di ogni umanità e riconciliazione, non è perdita di memoria come scelta individuale per non vedere e non sentire, è lontananza siderale dall’essere, dalla responsabilità di ritrovare e ricostruire se stessi.
L’ergastolo rappresenta quanto accade fuori nella società libera, dentro è ben più visibile, e rimanere fermi alla medesima stazione di partenza scambiata per arrivo non è un bene per alcuno.
Qualcuno si ostina a dire che il “fine pena mai” non si porta sulle spalle come carico di un lungo e lento viaggio di ritorno, eppure quarant’anni di carcerazione sono ben più di una affermazione da play station, obbligano l’uomo della pena identico alla sua colpa, e se questa non arretra, quella persona è un numero destinato a fallire.
L’ergastolo c’è, non è vero che dopo vent’anni come per incanto le porte blindate di un penitenziario si spalancano, la legge contempla la possibilità di accedere a questo beneficio, ma la realtà è ben altra, infatti la liberazione condizionale non viene quasi mai concessa nei tempi stabiliti, se non con una aggiunta di dieci o anche venti anni dai requisiti richiesti.
Chi scrive ha scontato circa quarant’anni di carcere, quattordici in misura alternativa della semilibertà, da un anno ho usufruito della libertà condizionale, potevo accedervi dopo ventisei anni, con gli sconti di pena, intorno ai venti, ebbene solo ora sono ritornato un cittadino libero.
Non cito me stesso per fare della polemica spicciola, nutro gratitudine sincera per le istituzioni che mi sono venute incontro, inoltre so bene perché ero detenuto, nulla mi era dovuto.
In tema di punizione, di castigo, di giustizia, all’angolo delle coscienze, c’è sempre il famoso ergastolo ostativo, quel detenuto che per la natura dei reati commessi, e richiamati in sentenza, non potrà accedere ad alcun beneficio carcerario nè ad alcuna misura alternativa, a meno che l’imputato non accetti di collaborare con la magistratura, di mettere in galera un altro al proprio posto, ultimo ma non per importanza, esser ancora in grado di poterlo fare.
Forse è un bene per i cittadini detenuti ed i cittadini liberi ricordare quanto ebbe a dire Aldo Moro sugli scopi e utilità della pena: è un giudizio negativo che va dato alla pena capitale, come alla pena perpetua, perché contraddicono i principi costituzionali in tema di pena: trattamenti contrari al senso di umanità e alla finalità rieducative, dunque l’ergastolo tanto è costituzionale e legittimo, in quanto non si applichi effettivamente.

Al supermercato della droga

AL SUPERMERCATO DELLA DROGA

di Vincenzo Andraous

Ecco la vulgata farsi avanti, questa volta il trambusto e il rumore di accompagnamento alla richiesta di poter “farsi” è davvero ridondante.
La Consulta ha abrogato la legge Giovanardi-Fini che regolava la materia della droga e delle tossicodipendenze, per cui ora tra chi fuma uno spinello e chi si buca o sniffa cocaina esisterà una grande differenza, d’ora in poi anche la legge tornerà a tenere conto di queste diversità.
La Corte Costituzionale ha infatti “bocciato” la legge Fini-Giovanardi che equipara droghe leggere e pesanti: nella norma di conversione furono inseriti emendamenti estranei all’oggetto e alle finalità del decreto.
E’ tempesta mediatica senza precedenti, come la confusione dialettica tra  significati ben diversi  e distanti, infatti per chi scrive non esiste una droga normale, una droga che fa bene, una droga buona e un’altra cattiva, più semplicemente esiste la droga che fa male.
A sentire esperti e specialisti, il carcere verrà riequilibrato, risolto il  problema endemico dell’Amministrazione Penitenziaria dal sovraffollamento, fatti uscire dalle gabbie migliaia di detenuti, perché adesso è sancita la mistura peregrina per autorizzare una droga leggera, quindi finalmente accettabile.
Quando c’è un grave momento di crisi, trapasso di usi e costumi, l’idea salvifica sta nel rigurgito di vecchie richieste liberticide, che in sintesi vorrebbero significare il comando a dare a ogni singolo individuo adulto la possibilità di scegliere di drogarsi o meno, di dire e fare della propria salute, nonché della propria vita.
Questo pensiero parrebbe esprimere rispetto per le scelte individuali,  invece non è così,  somiglia di più a un inseguimento circolare, meccanico, che riporta al punto di partenza, sempre che ci si arrivi, incolumi, a quel nastro di avvio, in barba alle norme del diritto e di tutela della persona.
In gioco non c’è soltanto la salute e la vita, ma anche la libertà e l’esistenza degli altri, soprattutto degli innocenti, che spesso pagano dazi non  propri, quegli innocenti che rimangono spesso senza giustizia, senza sostegno per le lacerazioni imposte e ingiustamente subite.
Quando sento dire che la canna fa bene, oppure non fa male, non crea danni fisici-psichici collaterali, penso che scienza è non solo coscienza, per comprendere che i principi attivi sono cambiati, esponenzialmente superiori a ogni sopportabilità, che stordirsi equivale a non essere lucidi, né presenti, che sballarsi non è normale, come non lo è mai troncare gambe e vite a chi ci è prossimo.
Farsi le canne comporta il rischio di un progressivo uso di altre droghe, una riduzione-capacità cognitiva, di memoria, psicomotoria, alimentando ansia,  stress, depressione, i più formidabili nemici del tempo, nostro compagno di viaggio. 
Proibizionismo e antiproibizionismo non fanno servizio agli ultimi, non aiutano i più fragili, non accompagnano i più giovani a ben camminare, serve una norma che spinga al recupero della persona, non certamente un manifesto che  incita a sostenere “la libertà della droga, a discapito della  libertà dalla droga”.
Qualcuno mi ha risposto: non sempre finisce come è accaduto a te, non sempre si diventa fatti a vita o tossici, non sempre c’è sangue, assenza, tragedia in agguato, non sempre al divertimento si sostituisce la dipendenza, la patologia, la malattia.
Non amo il pensiero unico che non aiuta le persone, ma spacciare statualmente  significa usare le persone, renderle addomesticate, non certamente liberarle: fumare, calare, tirare, non è slancio in avanti che avvicina al traguardo, bensì allontana ulteriormente da ogni  forma concreta di autorealizzazione.
Fumare canne non fa bene: incidenti stradali, inciampi professionali, rese e abbandoni scolastici, sono dietro l’angolo, per non parlare del fatto che legalizzare non farà abbassare le utenze, il Giudice Borsellino lo ha spiegato bene, non è superata dal tempo passato la sua eredità intellettuale quando afferma che in questo modo  aumenteranno quelle pesanti.
Per chi come me svolge il proprio servizio in una comunità di servizio e terapeutica, a stretto contatto con i più fragili, con i tossicodipendenti,  non è difficile provare che il 90% di queste persone ha iniziato la propria discesa all’inferno scoprendo le droghe erroneamente definite, peggio, interpretate “leggere”. 
Ho l’impressione che il mondo adulto viva malamente la propria condizione di formatore e di guida, come se fosse sufficiente ridurre tutto a una nozione da trasmettere, invece no, non è così, occorre raccontarla la vita, soprattutto ai più giovani, raccontare che le anse non proteggono e le derive portano al macero.
Se non c’è automatismo tra chi fuma e chi sniffa, c’è sicuramente una correlazione e una contaminazione statistica che lo conferma.
Lo stato già vende alcol, tabacco, slot e gioco d’azzardo, perché farsi  tanti problemi? Proprio perché lo stato guarda ai capitolati e ai denari importanti per peso di ingresso, occorre mettersi di traverso. Conosco la fatica e la sofferenza che circondano le persone che stanno tentando di riprendersi la propria vita violentata dall’alcolismo, dalla ludopatia, dal tabagismo, c’è urgenza di mettersi a mezzo per non aggiungere altre lacerazioni a quelle che già ci sono.
C’ è perfino chi protesta per il ritiro della patente se trovato positivo al test per uso di sostanze, una canna non fa niente, non ti mette in coma, non ti fa fare retromarcia durante una corsa dritta.
Ricordo come fosse ieri  quella macchina, i tre ragazzini, le cartine e i pezzetti di fumo, diventa un pugno nello stomaco, l’ammasso di ferraglia contorta tutta intorno al grande albero, il silenzio fermo, acre come l’odore del sangue mischiato all’olio motore. 
Rimasero in due a strisciare sull’asfalto per raggiungere il lago.
Rammento la rabbia feroce e gli improperi nei riguardi di chi guidava fatto, buttando giù guardrail e pezzi di umanità inconsapevole.
Ostinato e cocciuto ritorna l’eco: ognuno decide della propria salute, è libero di farsi del male, senza intromissioni da parte dello stato.
Però esistono i diritti e i doveri, di essere salvaguardato come cittadino, di non pesare sulla collettività a causa delle mie scelte.
Credo occorra maggiore rispetto per chi non ce la fa, per chi non ha imparato ancora a vivere, il resto è davvero retrovia di ogni ideologia.
Siamo il paese dei minori allo sbaraglio, quali maggiori consumatori di cannabis, adolescenti e spinelli che è illegale farsi, ma domani che sarà legalizzata, ci rassicurano i saggi e sapienti, i giovani rimarranno fuori dal consumo autorizzato,  ma continueranno a fumare e tirare, con l’aggravio evidente di un mercato parallelo assai più devastante.
Siamo il paese delle mafie, delle organizzazioni criminali, delle politiche antimafie: legalizzando toglieremo mercato alle organizzazioni antistato, ben sapendo che non sarà così, perché tutte le mafie hanno grande capacità di riciclarsi, la storia ce lo insegna a chiare lettere.
Pensiamo a legalizzare morte, mentre i maggiori sfaceli accadono dentro le nostre belle e tranquille quattro mura, dove rimane a fare da cubista diroccata la famiglia, dove i ragazzi sono alla catena del  messaggio istantaneo, dentro una scuola solitudinarizzata e messa in disparte, ebbene troviamo tempo e modo per delocalizzare attenzione e solidarietà costruttiva, attraverso un effetto spostamento caratteristico, così la buttiamo sulla Maria e sulla Giovanna.
Siccome non siamo mai sazi di parole e di spari alle spalle, c’è anche chi invita  a legalizzare la cocaina se vogliamo vincere la battaglia contro la droga.
Come ci dice qualcuno mai stanco di essere-farsi testimone del nostro tempo:  “c’è necessità di buone a valide ragioni, non solamente di leggi, ma di presenze adulte che sappiano parlare e accompagnare con cuore”.

“I cuscini puzzano di sudore”

“I cuscini puzzano di sudore”

di Vincenzo Andraous

 

L’anno 2014 è iniziato da qualche giorno, suona la campana a morto per qualche disgraziato garrotato dal meccanismo perverso che il carcere mantiene, per poi vergognarsene senza pudore.

Un altro poveraccio se ne è andato con le gambe in avanti, un’evasione silenziosa, che non fa rumore come quell’altra con lima e lenzuola annodate, da qualche tempo s’evade così, con corda e sapone, senza documentazione, privati persino della propria storia personale, quella che non è mai raccontata per quella che è.

In fin dei conti la prigione non è zona di mare, di sole e divertimento, è quello che è, un lazzaretto disidratato, un contenitore, una catasta di cose, di numeri, di eccedenze e scarti, di sovraffollamento, e dunque, c’è bisogno di dare aria ai capannoni in disuso, consentendo disprezzo e indifferenza ulteriore al lessico quotidiano, che parla non di uomini, cittadini reclusi, non di pene da scontare, non di carcere a norma di sicurezza.

Contese politiche e trabocchetti ideologici, dove la sicurezza appunto è strattonata per meglio comprarla a seconda dei punti di vista, delle prospettive, dei vantaggi di casata, quindi per i detenuti rimane solo il tempo di un urlo strozzato in gola, per gli altri cittadini liberi uno sbadiglio, meglio sonnecchiare di fronte all’ultima ingiustizia, perché fin troppe  sono quelle irreggimentate per rendere inquieta e preoccupata una società.

Un altro prigioniero è finito sul ben noto capitolato degli “eventi critici”, letteratura amministrativa per meglio rendicontare certi accadimenti insanabili, che invece meriterebbero maggiore attenzione, dentro sensibilità certamente diverse, ma ognuna in possesso della propria patente di circolazione, ben connessa alla sostanza delle cose, non alla parzialità delle circostanze che di volta in volta fanno gridare, sbattere i pugni, per rivendicare ruoli e competenze, rafforzando i silenzi.

Ci sarebbe bisogno di chiarire questo buco nero profondo in forza di autorevolezza, gli ammanchi esistenziali di una giustizia anch’essa presa per i fondelli, infatti alla galera è possibile trarre un riassunto sociale che non lascia dubbio per il decoro venuto meno, perché autorizzato a scalare le vette più alte dell’inumanità.

Sovraffollamento, suicidi, malattia, solitudinarizzata persino  la morte, patologie border line, aree sempre più corpose di doppia diagnosi, tumefazioni e sangue, confermano il pericolo di un vero e proprio regresso insanabile del carcere italiano.

Qualcuno ha detto che sulle brande arrugginite “ i cuscini puzzano di sudore “. No, non è così: quei cuscini, dove ci sono, perché mancano, sono invisi persino alla consorella discarica più vicina.

A quante palline cadaveriche è arrivato il pallottoliere penitenziario?

Siamo a inizio anno, eppure tra una imu reintrodotta con gli interessi, una tares reinventata, una tasi spocchiosa, lo scoramento di una collettività diseduca alla compassione, alla pietà, alla giustizia che salva  dall’ingiustizia dell’abbandono.

A volte si ha l’impressione di una discussione oziosa sul carcere, è tutto talmente incancrenito e marcio che non c’è difficoltà ad autoassolversi con un giro di parole, raccontandoci una realtà che non esiste, perché non deve esistere.

A cosa serve una prigione che non custodisce, ma si limita a detenere, che non rieduca, ma addomestica all’attesa del morso che verrà, che determina un tempo bloccato, senza alcuna possibilità di crescere, di spostare l’asse di coordinamento sociale da puro terminale dell’esclusione, a linea di partenza per nuovi stili di vita, di responsabilità assunte.

Un carcere che uccide non serve a nessuno, un carcere che accartoccia l’umanità non serve, un carcere dell’ingiustizia genererà soltanto mostri, forse vecchi nel fisico, ma bambini nella testa, deresponsabilizzati dalla sofferenza cieca che non consegna nuove punteggiature.

Il carcere che uccide non serve perché non è con la vendetta travestita di buone intenzioni che si superano le gambe corte delle menzogne, delle panzane mediatiche, una galera che inghiotte, espelle carne morta, non sana il male di vivere, non ripara al male perpetrato, non diventerà mai protagonista attivo di un preciso interesse collettivo.

Amnistia, indulto, decreti, falsi allarmismi, carceri nuove e mantenimento di una politica del più forte contro il debole, significa consolidare una galera dell’intolleranza, che scardina valore all’autorevolezza delle istituzioni.

Non può esser considerata una pena affidabile, quella pena che priva di rispetto della dignità ognuno, una pena in cui il reato diventa l’unica identità possibile del detenuto,  anche quando quella pena verrà scontata, non una volta come Costituzione comanda, ma una volta di più, rendendo vano ogni auspicio di risocializzazione, ogni richiesta di giustizia.

La Cretinetti e la platea plaudente

La Cretinetti e la platea plaudente

di Vincenzo Andraous

Il video della cretinetti che picchia una coetanea con calci e pugni alla faccia e alla testa, imperversa sul social-network, una ubriacatura di violenza gratuita, in bella mostra, alla mercè di emulazioni e fascinazioni, manuale per pavidi e sconfitti della vita.
La cretinetti travestita da combattente, porta colpi sotto la cintura, usa le mani e i piedi come fosse una praticante di MMA, dove possono accedere contendenti di qualsiasi disciplina, invece non pratica proprio un bel niente, perché disconosce la correttezza, la lealtà, soprattutto il rispetto che un atleta vero nutre per il suo avversario.
Una cretinetti come tante altre, circondata da altri ebeti che fanno platea plaudente, che fanno stadio, che fanno gabbia, che fanno recinto dove tutto può e deve esser condiviso.
Una platea di stacanovisti della noia che paralizza i neuroni, della adrenalina agognata invano, del vicolo cieco da perforare con urgenza, un miscuglio di disagi e compromissioni familiari, scolastiche, una adultità perennemente votata all’assenteismo.
Platea vociante di bestemmie e invocazioni a fare più male, a essere più cattivi, a colpire subito senza attendere oltre, giovani a perdere un briciolo di pietà per chi urla disperata: AIUTATEMI VI PREGO.
La vittima cade ripetutamente sotto i colpi intenzionali, persistenti, asimmetrici, è nauseante lo squilibrio, la disparità, tra chi colpisce e chi incassa, il branco ride, schiamazza, incita con ferocia, vuole il divertimento, esige il sangue, il dolore, la sofferenza della sfigata, agnello sacrificale del proprio delirio di onnipotenza.
Senza quella platea di vili imberbi, non potrebbe esistere né proliferare la cretinetti, il bullo di turno.
Credetemi so quello che dico, cos’è la violenza, che rumore fanno le nocche infrante sui denti, so perfettamente che razza di individuo è l’iracondo, il prepotente, il prevaricatore, sono stato bullo, sono stato il mio peggior nemico, la persona peggiore che ho incontrato nella mia vita, proprio perché ne conosco ogni anfratto, nel vedere quel video, quella cretinetti, quel popolo di stolti plaudenti, ho sentito male alla testa, male alla pancia, male alle mani, male alle gambe, ho sentito male al cuore, un male lacerante per quella ragazzina impaurita, sola in mezzo a tanta gente, a cui si è cercato nel modo più miserabile di rapinarle la dignità.
Quel video non è solamente la denuncia sconvolgente di una società bullistica, ma anche la rappresentazione di una solitudine armata nei riguardi della vittima, la giustizia sarà un sollievo passeggero, in fin dei conti come mi ha risposto qualcuno: “Ora non facciamola troppo esagerata, queste cose sono sempre accadute”.
Sarà senz’altro così, ma una volta se non incorro in amnesie, lo scontro era con il mondo adulto, una volta non si diventava degli imperatori, e quando ciò accadeva eri già autoescluso, non c’era bisogno di buttarti fuori da quell’ istituto, accadeva in automatico, dovevi trovartene un altro.
Oggi la competizione è con il gruppo dei pari, con quelli più fragili, oggi non si diventa soltanto bulli o famosi per forza, ma addirittura pezzi pregiati di edilizia scolastica, non si viene allontanati, perché errato criminalizzare, parlarne troppo, è più consono recuperare, riproporre un progetto e un percorso.
Ma la sanzione per accadimenti di questa portata dove sta di casa?
Forse è vero, una volta ogni colpo sotto la cintura rimaneva dentro la classe, perché la forma bullistica ai miei tempi tempi denominata nonnismo, era prontamente addomesticata dall’autorità del docente, degli adulti, dei responsabili della condizione psico-educativa dell’ adolescente.
Oggi i nativi digitali sono accompagnati per l’intera giornata dal loro smartphone, dalle messaggistiche istantanee, dai social, con un semplice movimento sanno che possono sconquassare un paese, una città, un mondo, devastare una vita, mandare in frantumi il futuro di una persona, oppure diventare per una frazione di tempo ciò che non si è, in quanto il bicipite è potere, il denaro è potere, la forza e la furbizia sono il grimaldello del potere.
La cretinetti e quei bulli nascosti dietro la funzione video-fotografica, ci dicono che non c’è soltanto una indifferenza che non fa prigionieri, spesso nessuno vede, ci voltiamo da un’altra parte, non soltanto per paura, omertà, menefreghismo, ma perché non siamo disposti, quindi non ci disponiamo a essere e fare maturità educativa, eludendo il dovere di imparare a conoscere per quello che è il mondo della cretinetti, dei bulli, della stessa vittima, cioè l’universo delle nuove tecnologie che non formano al carico obbligante delle responsabilità.
A quella ragazza ribadisco di non sentirsi mai sola, alla cretinetti di trovare dignità sufficiente per chiederle perdono.

Legalizziamo la nostra ipocrisia

Legalizziamo la nostra ipocrisia

di Vincenzo Androus

Insomma quando il gioco si fa duro ognuno spara a destra e a manca senza badare troppo a chi colpisce, quel che conta è fare muovere le pedine in un senso o nell’altro, se poi ci va di mezzo un giovane, risulterà una sofferenza accettabile.

Effettivamente non sempre accade che chi fa uso di sostanze sia destinato a rovinarsi, a morire, a uccidere, non sempre la vita diventa un vicolo cieco.

Alle mie obiezioni sulla legalizzazione qualcuno risponde così: non sempre, solo qualche volta, c’è il ferito, il morto, il botto e il silenzio.

Forse bisognerebbe farci i conti con quel ”qualche volta”, con quelle vite dimezzate, azzoppate, disperate, annullate, scomparse, per una svista, non certamente causata da un eccesso di zuccheri.

Possiamo metterla giù come meglio crediamo e vogliamo, ma legalizzare non toglierà mercato alle mafie, non farà diminuire le utenze, la pratica del minor danno-sballo non risulterà politica risolutrice.

Ciò che domani sarà mercato istituzionale, consegnerà percentuali importanti di principi attivi, guadagni e sfruttamento dei più deboli e fragili, a un altro mercato parallelo, ben più efficace e provvisto di alternative comode, a pronta consegna.

Salute, vita umana, dignità, responsabilità, capacità di fare delle scelte, di avere soprattutto delle scelte, stanno diventando concime per fintamente nuove ideologie, le quali negano diritti fondamentali ai più giovani, ai più esposti, dentro una società di adolescenti al palo, in attesa di varcare la soglia del vicolo cieco, perché di cecità giovanile si tratta, quindi occorre fare i conti con il  Dna di ogni nuova generazione.

Anche e soprattutto con l’ottusità  politica, etica, morale, di quanti dovrebbero ergersi in piedi, non in quanto rigoristi, ma perché in tutta coscienza e nel rispetto degli altri, non intendono fare da rampa di lancio, da spazio neutro, da finestra cui rimanere a guardare, ingrossando le fila di una indifferenza sociale che non salverà vite umane, non maturerà individui disacerbati, non aiuterà a fare i compiti per conoscere i propri limiti.

Campagne, slogan e manifesti, contro questo e contro quello, adesso occorrerà farne anche contro la Maria, la Giovanna, la Elisa, sarà necessario ferirsi e lacerarsi ancora di più: auto sequestrate, patenti ritirate, pendenze penali, lavoro pubblica utilità, gambe tranciate, corpi in scadenza, assenze eterne che divengono ulteriori presenze costanti.

Qualcuno proporrà, come accade sempre, altri interventi di ripiego, cercheranno di tranquillizzarci sostenendo che i minori non potranno accedere a questo nuovo supermercato dello sballo, ma noi sappiamo bene che potranno ugualmente riempirsi gli zainetti di fumo e erba, infatti c’è sempre chi scalpita e si presta alla festa prossima.

La droga non è normale quanto un bicchiere di vino, la droga non fa bene, uno spinello “aiuta” a lenire “terapeuticamente” il dolore insopportabile a chi è costretto a letto da un male terribile, ma non rende lucidi coloro che sono protagonisti attivi della propria vita e del proprio benessere, responsabili di se stessi e degli altri, come libertà insegna a ognuno.

Uno spinello è sufficiente a pensare, sbagliando, di essere a mezz’aria, sopra e sotto il tuo problema, dentro un’esistenza mai sotto osservazione, subita come una condizione di inferiorità.

Legalizzare la roba non renderà meno duro il linguaggio del mondo, meno feroce l’ansia e lo stress per l’ignoto che ci attende,  è puerile giustificarne l’uso (e l’eventuale abuso ) per risolvere il sovraffollamento carcerario causato dalla severità di alcune leggi di contrasto allo spaccio di sostanze.

Ho l’impressione ci sia davvero urgenza a mettersi di traverso a fronte di dichiarazioni semplicistiche, c’è bisogno di non dare mai le spalle a zone buie come queste, perché sono volti e maschere della stessa identica tragedia, che incombe, non s’allontana, e non sarà la legalizzazione a domare una violenza insita in ogni responsabilità negata.

Caro Presidente

Caro Presidente

di Vincenzo Andraous

Leggo di tante menti alte che offrono il fianco a ogni causa nobile e giusta, quando c’è di mezzo il carcere, penso che occorra avere rispetto per le vittime del reato, ma anche per il cittadino detenuto.

Indipendentemente dalle strumentalizzazioni, dalle speculazioni, dalle pance bene pizzicate, questa marmellata di parole e pronunciamenti, non è di oggi, né di ieri, ma dell’altro ieri.

Allora perché un Governo dovrebbe accettare un’eredità imposta e non condivisa? Perché dovrebbe sopportare un nodo storico che non le appartiene, legando a propria volta  una zavorra che la sua antitesi politica non ha voluto impegnarsi a sciogliere.

Di certo si potrà obiettare che impedimenti di ordine tecnico e giuridico hanno fatto si che tale argomento restasse a mezz’aria. Sta di fatto che ora il fardello è rimpallato a destra, a sinistra, di volta in volta rinculando senza alcun gioco di sponda.

Ecco perchè Le scrivo caro Presidente, vorrei dirLe che davvero gli uomini cambiano, perché davvero l’uomo della pena non è più l’uomo della condanna: nonostante il carcere mantenga perversamente il suo meccanismo di deresponsabilizzazione e infantilizzazione, di maggior riproduttore di sottocultura.

In questa condanna alla condanna, ci sono attimi che attraversano l’esistenza dell’uomo detenuto, e proprio nel sapere, nella ricerca della propria dignità, nasce l’esigenza di un’autoliberazione possibile e non più prorogabile.

La vita, anche all’interno di una prigione, può riservare incontri con te stesso e con gli altri, che disotturano le intercapedini dell’anima: le visioni unidimensionali, gli assoluti, i vicoli ciechi si sgretolano, i  dis-valori di un tempo si accasciano nei valori che sono venuti avanti.

Allora l’uomo che convive con la propria pena, coglie il senso di ciò che si porta dentro, il peso del dramma, quel bagaglio personale come non è possibile immaginare.

Venti, trenta, quarant’anni di carcere demoliscono certezze e ideologie, rendono l’uomo invisibile a tal punto da risultare difficile dialogare con un’identità scomposta, che occorre ritrovare e ricostruire, unicamente insieme agli altri.

Caro Presidente, chi sbaglia e paga ( assai meglio sarebbe ripara ), il suo debito con la collettività con decenni di carcere, attraversa davvero tempi e contesti di un lungo viaggio di ritorno, lento e sottocarico.  Non c’è più l’uomo sconosciuto a se stesso, ma qualcuno che tenta di riparare al male fatto, con una dignità ritrovata, accorciando le distanze tra una giusta e doverosa esigenza di giustizia per chi è stato offeso, quella società che è tale perché offre, a chi è protagonista della propria rinascita, opportunità di riscatto e di riconciliazione.

Lei ha parlato con lo sguardo in alto del fallimento e dell’ingiustizia in cui versa il carcere italiano, ritengo sia stato un atto doveroso il Suo, che non Le porterà voti o ulteriori consensi,  un atto coraggioso oltre che giusto, soprattutto per la ricerca ostinata di una Giustizia giusta perchè equa, che comprenda un granello di pietà, perché la pietà non è un atto di debolezza.

Penso ai tanti uomini che in un carcere sopravvivono a se stessi, inchiodati alle loro storie anonime, blindate, dimenticate.

Non esiste amnistia, indulto, sanatoria d’accatto, per il detenuto, non esistono slanci in avanti utopistici, esistono solamente uomini sconfitti, perché in un carcere non sopravvivono miti vincenti, ma esistenze sconfitte dal tempo e dalle miserie che ci portiamo addosso.

Caro Presidente, in conclusione che dirLe ancora, se non che quando il carcere è allo stremo fino al punto di uccidere, è un carcere senza scopo nè utilità, forse c’è davvero bisogno di cambiarlo, non cancellarlo, ma neppure mantenerlo così com’è.

Cè urgenza e necessità di un nuovo percorso penitenziario che sappia finalmente scegliere fra tanti dubbi, un progetto significativo su cui giocarsi un pezzo di vita, per il bene di tutti, società libera e cittadini detenuti.

Corresponsabilità testimone-imputato più che mai assente

A tredici, quindici, diciotto anni, il mondo sta racchiuso nel proprio pugno, si tratta di un mondo che ancora non c’è, ostacolato dal fascino maledetto del vicolo cieco, ma all”entrata un cartello seminascosto avverte: la paura di vivere non si vince con l’alcol, la droga, la recita di un film non ancora in onda. Sveglia giovani sveglia, è la possibilità di una scelta che fa la differenza.

CORRESPONSABILITA’ TESTIMONE-IMPUTATO PIU’ CHE MAI ASSENTE

di Vincenzo Andraous

Il ragazzo è disteso a terra, il vomito alle labbra, un adolescente in rianimazione, tra la vita e la morte, la balbuzie esistenziale che non porta conforto né riparazione, solamente disperazione, coma etilico a tredici, quindici, diciotto anni, morire per abuso di sostanze non è un reality da playstation,
Poco più di un bambino, strangolato dall’alcol, dalla cecità ottusa dell’età, dai desideri adulti improvvisamente insopportabili, sconosciuti e prepotenti.
Quando un ragazzo rotola giù dall’amore che non arriva al cuore, la consuetudine sta nell’uso delle parole sempre più inutili, anche false, perché giustificano sempre e comunque, oppure nel rifugiarsi nella riparazione della “deduzione logica “, negli editti delle buone intenzioni, le solite frasi a effetto.
Un giovanissimo o poco di più, la spirale del rischio estremo, come se tutto fosse nella norma, accadimenti di routine, una specie di ben nota abitudine all’evento critico, non c’è altro da fare che raccogliere i cocci e sperare di riuscire ancora a rimetterli insieme, ma come amaramente s’è visto non sempre s’arriva in tempo.
Invece c’è qualcosa in più che deteriora gli anni più belli della gioventù, c’è qualcosa in meno a cui aggrapparsi per non andare incontro a un coma etilico a quattordici anni, c’è qualcosa che si sottrae confermando la sua presenza.
Rammento qualche anno addietro in una scuola del trentino, anche lì, un ragazzo di quattordici anni, stramazzato al suolo, in coma etilico, pensate: alle nove del mattino.
Fui invitato come operatore della Comunità Casa del Giovane di Pavia a raccontare la mia storia personale, senza badare troppo alla punteggiatura, per fare prevenzione, informare, comunicare, e non dare scampo alle giustificazioni, smetterla con l’incoerenza ipocrita, quando la richiesta di aiuto rimane appesa a mezz’aria, quando con amarezza ti accorgi che l’intero uditorio, ammutolito e scosso, è mancante di qualcosa, di qualcuno, c’è un’assenza che non è riconducibile solamente a quel giovane scivolato tra la vita e……………. La morte.
Ma ieri, e ieri l’altro ancora, qui, più lontano, più vicino, quando quell’adolescente crollava a terra, dove erano gli adulti deputati a conoscere, a leggere, a decodificare? Chissà se c’è davvero coscienza della distrazione che ha aiutato a trasformare quel disagio in una tragedia.
Diventa doveroso raccontare ai ragazzi la condanna insita nella bottiglia, nella droga, in quel maledetto vicolo cieco che affascina, posto là, mai troppo distante, a portata di mano, di bocca, di occhio sempre più spento, sempre pronto a colmare le lacune, le ansie, i tormenti degli interrogativi, le inquietudini delle risposte.
La bottiglia se ne sta in silenzio, non spreca parole, convincimenti, rimproveri, è “stronza amica discreta”, non ci mette il dito, né il becco, non azzarda consigli, lezioni di vita, non comanda stili né comportamenti, non fa commenti, neppure di fronte alla paura di un cambiamento che non arriva, ma alimenta inadeguatezza che non fa prigionieri.
Chissà se quest’altro adolescente affogato nei beveroni coloratissimi, ci lascia questo dolore lacerante, obbligandoci a intervenire, a non restare indifferenti, a chiederci con chi abbiamo a che fare, a pensare finalmente che solo l’amore arriva dove la volontà ci guida, solo l’amore per il rispetto di quelli ancora a spasso con il cuore, può sbarrare la strada alla resa più devastante, solo l’amore può trasformare i luoghi più impensabili in dignità ritrovate.

Natale non è un panettone

NATALE NON E’ UN PANETTONE

di Vincenzo Andraous

Se quel Bimbo è Gesù, non potrà sbalordirsi per quanto l’umanità abbia perduto il senso, lo scopo, la strada maestra da seguire.
Quel Bimbo non potrà stupirsi per la dis-umanità che appare di volta in volta assente mai giustificata.
Quel Bimbo non potrà destare ulteriore meraviglia per gli ultimi tra gli ultimi depredati di ogni salvezza e dignità.
Quel Bimbo non potrà rimandare emozione, restando appiedato a mezzo metro di distanza dall’esistenza lacerata.
Quel Bimbo grida dal basso, alla terra, al cielo, al mare sommerso di sguardi che non possono più sollevarsi.
Quel Bimbo è Gesù, là, dove la memoria è costretta all’inciampo, malamente ridotta a una caduta all’indietro.
Quel Bimbo è già un Uomo, frutto di evoluzione, di sofferenza, di speranza, un Uomo buono perché onesto, che diventa sangue, diventa lotta, piu’ ancora orma digitale di un futuro che c’è per ognuno e per ciascuno.
Quel Bimbo nasce a Lampedusa, in quel di Oleppo, nelle savane africane, tra gli alberi della gomma svuotati della loro linfa vitale.
Quel Bimbo nasce in ogni anfratto martoriato dalle etiche e dalle morali d’accatto, nel fallimento di generazioni tradite e colpite alle spalle.
Quel Bimbo dentro la culla è sospinto nel vicolo cieco, dove non c’è copione da ricordare, palcoscenico da allontanare, storia da rigettare, no, in quella culla non c’è possibilità di resettare come alla playstation, ogni gemito è urlo, è pianto, è l’ultima volontà di un perdono.
Quel Bimbo nasce e ci costringe a uscire dal nostro comodo rifugio dell’indifferenza, dall’angolo della nostra stessa disumanità per tentare di essere più semplicemente persone migliori, infine se noi sapremo davvero esserlo, avremo una città migliore, una società migliore.

Le balle hanno le gambe corte

Le balle hanno le gambe corte

 di Vincenzo Andraous

Giovani e adulti, facoltosi e meno abbienti, ognuno a “farsi grande” con l’uso di sostanze stupefacenti.

In questo consumo smodato di illusioni in pillole, non esistono confini sufficienti a identificare le ideologie nè le culture.

Eppure non fa difetto l’eredità pesante che ci portiamo addosso, quell’esperienza dolorosa a indicatore di quei giovani che soccombono nella dose quotidiana.

Continuiamo ad azzuffarci per decidere se sia meglio punire o prevenire, o ancora meglio assolvere chi sniffa, chi si buca, chi fuma.

Mentre inarchiamo le sopracciglia per l’ennesimo giovane perduto, noi replichiamo la sconfitta nella prossima legge emanata a furor di popolo, la quale ammalia il voto ghermito a quattro mani,  ma non porta il risultato voluto.

Viviamo questa vita come fossimo “turisti per caso “, camminiamo tra le incertezze che ci colgono, senza preoccuparci delle macerie che ci lasciamo alle spalle.

Nelle scuole i cani poliziotto delineano scenari incredibili, dove gli adolescenti di ieri appaiono improvvisamente travestiti di tanti domani…. nel fumo di una canna.

Nelle discoteche tribù di giovani si muovono nervosamente, imbottiti di energia in polvere, per guarire da fragilità e solitudini.

Nelle fabbriche, nei laboratori, negli uffici, uomini e donne, ben intruppati nella trasgressione, non più visibile come tale,  divenuta piuttosto una dimensione, una sintesi sgangherata, per  tentare di arginare le proprie rese all’efficienza.

Così nelle strade, nei tanti sguardi stanchi, avamposti alla berlina, per calcolo o per inadeguatezza politica, postazioni mobili del dolore, per nascondere la nuova e logora  assunzione di droghe, per una tantum, per tappe intermittenti, solo per qualche volta, per qualche momento…….

Chissà forse il volo pindarico causato dalla droga sta davvero a divertimento, a svago, a tendenza che attrae, nulla di più e nulla di meno di un tentennamento della ragione.

Forse è proprio così, perché il nostro è proprio il paese di Pirandello: sappiamo urlare, disperarci, condannare, scrivere a caratteri cubitali che non esiste una droga buona, che ogni droga fa male.

Ma poi quando cala il sipario sulle grandi adunate, sulle tracce lasciate indietro dai nobili ideali, ecco che dal Golgota laico, coloro che vergano le leggi per tutelare l’inalienabile diritto alla salute, quindi alla vita, ( che non può essere interpretato come diritto alla sopravvivenza ), improvvisamente, sconfessando se stessi, indossano il passamontagna per rapinare anonimamente la possibilità di una scelta, soprattutto nei riguardi di chi ancora questa possibilità non possiede, trasformando quello che dovrebbe essere il compito più alto, in un dialogo a senso unico.

Nel rispetto dei ruoli e delle competenze

Nel rispetto dei ruoli e delle competenze

di Vincenzo Andraous

Bullismo endemico all’istituzione scolastica come alla collettività intorno?

Mi sono confrontato con la prima linea professorale, ma anche con quell’altra della retrovia, ho incontrato quella genitorialità che non ammette giudizi né sentenze di appello, quando si tratta dei propri figli.

Il fenomeno del bullismo è un problema relazionale, che attraversa le nostre  famiglie, scuole, città, strade, a causa delle nostre ripetute e reiterate mancanze e inefficienze, nessuno può sentirsi autorizzato a non farci i conti.

Per tentare di arginare questo cratere di diseducazione virulenta, è necessario non fare spallucce alle nostre lentezze, e soprattutto alle nostre belle certezze, che non ci consentono di conoscere fino in fondo i dubbi che delimitano aree problematiche di così grande spessore e pericolo per un futuro a misura di uomo per i nostri ragazzi.

E’ l’esperienza a darmi man forte, è la somma degli errori a rendere obbligante un intervento che non può essere procrastinato, tanto meno amputato nella sua incisività da forme di rigetto baronali o peggio padronali, in ambiti che sono demarcati da confini, sì, sottili, ma diventati frontiere da percorrere in lungo e in largo per conoscerne le reali misure di contenimento.

Indipendentemente da chi farà un passo indietro per porsi dove c’è l’intera panoramica da indagare, è  in quest’ottica che dovranno essere presenti quattro poli convergenti: genitori, insegnanti, studenti, territorio, per comunicare tra loro e trasmettere informazioni, movendo una sinergia non di facciata, ma realmente improntata al raggiungimento di obiettivi comuni.

La scuola è di tutti, soprattutto è comunità e condivisione, allora ciascuno abbia il coraggio di mettersi nei panni dell’altro, e una volta tanto, lo faccia con voce liberante, obbligando la scuola, e così se stessi, a muovere dalle gabbie di partenza, quelle recintate con il filo spinato delle deleghe sempre comode.

Occorre sfuggire gli atteggiamenti ottusi, in cui è difficile affrontare con un minimo di onestà e umiltà il dibattito per arginare il fenomeno del bullismo, si preferisce rifugiarsi in fuorigioco, creando una disattenzione che autorizza l’accantonamento del rispetto delle regole, premiando i soliti furbetti dalla botta facile, dal beverone, dallo spinello acceso.

Occorre prendere in esame iniziative volte a indagare non più e non solo il mondo degli adolescenti, ma quello adulto, e non solo a scuola.

E’ necessario approntare servizi di consulto nell’istituzione scolastica, affinché chi è deputato a leggere oltre che a scrivere un voto, possa ritrovare equilibrio e serenità per riconquistare rigore e autorevolezza, rientrando a pieno titolo nel gioco delle relazioni.

Forse è anche il caso di spiegare a chi è genitore sulla carta, che lo è pure sulla linea mediana della tutela, e che solamente insieme si fa promozione, prevenzione, sviluppando capacità di partecipazione per progettare  interventi rivolti ai ragazzi, azioni di sostegno e accompagnamento urgenti in attesa dell’incontro con il proprio futuro.

Una sorta di razzismo al contrario

Una sorta di razzismo al contrario

di Vincenzo Andraous

Ho assistito ad una zuffa tra due automobilisti, uno bianco e l’altro nero, qualche parolaccia, un digrigno di denti, eppoi via ognuno per la propria strada.

E’ andata bene mi sono detto, nessuno si è fatto male, i tribunali italiani notoriamente congestionati da tonnellate di carta vecchia e cause decennali ancore aperte, hanno evitato un sovraccarico dibattimentale.

Di per se la violenza verbale usata da entrambi non è stata la causa che ha messo in moto la mia attenzione o preoccupazione, in fin dei conti accade ben di peggio persino nei salotti bene oppure negli spazi agguerriti di qualche trasmissione televisiva che ha un bisogno disperato di fare audience.

Una discussione come tante, un diverbio per futili motivi, ma in questa scenetta c’era da attenzionare altro rispetto alla fisicità dei contenuti.

C’era “altro” a fare la differenza, a creare un confine sempre più simile a un recinto di filo spinato, infatti il cittadino nero inveiva nei riguardi dell’altra persona, perché a suo parere, l’uomo bianco non ammetteva di avere torto, urlava e usava le parole come sassi, andava in scena una sorta di razzismo al contrario, a tal punto da passare dalla ragione al torto, se mai questa fosse stata dalla sua parte.

Non si tratta di dare addosso a qualcuno perché ha la pelle diversa dalla mia, io non ce l’ho con i cinesi, i coreani, gli asiatici, perché mangiano i cani, io ce l’ho e di brutto anche, con tutti quelli che uccidono i cani e se li mangiano anche, mi pare diversa la sostanza.

L’avversario dalla pelle chiara a sua volta additava lo straniero per arrogante e violento, fino ad apostrofarlo “brut negher”, insomma tra un bianco di merda e un negher di cacca, a più riprese si sono avvicinati e allontanati, fortunatamente senza fare uso delle mani o di altri corpi contundenti.

Chi dei due stava cavalcando la tigre? Ho seguito l’alterco  con una certa urticanza, perché davvero veniva voglia di prenderli a calci nel sedere entrambi, ma per evitare ulteriori dinamiche razziste-globalizzanti, ho desistito da ogni intervento, in controtendenza con la pratica del “vale tudo” appena recitata.

La ragione stava chiaramente dalla parte del conducente che circolava al centro della propria carreggiata, il torto aveva domicilio in chi era posteggiato sbracatamente in doppia fila.

Eppure l’ovvietà della norma infranta, del codice della strada, dell’educazione civica intesa come equilibrio e rispetto di atteggiamenti e comportamenti, soccombevano all’esposizione delle parole brandite come clave, per l’inossidabilità di culture sideralmente distanti, per la violenza insita in ogni forma di incomunicabilità, di conflittualità persistente derivante dal percepire l’altro come un pericolo, una minaccia, un portatore di ulteriore limitatezza umana, un invasore della propria libertà.

Esiste e come il razzismo, permane e progredisce anche una sorta di razzismo al contrario, di illegittima autodifesa, ricercando una provocazione insopportabile a scatenare una reazione anche violenta e qualche volta incontrollata, si comunica sempre più sbrigativamente, in modo tendenzialmente emotivo e spesso violento, per cui chi sta nello spazio del rispetto reciproco, per una sua impreparazione educazionale, per una incapacità a gestire il proprio self-control, si ritrova a pagare un dazio non voluto né cercato, ma soccombente rispetto ai propri diritti calpestati.

Gran brutta bestia il razzismo, ancora peggio se strumentalizzato, fino a farlo diventare una uscita di emergenza per i soliti furbi, siano essi residenti, resistenti, o imparentati con un qualche diritto di cittadinanza.