da Superabile
Special Olympics, a Los Angeles la carica dei 101
Al via domani i Giochi estivi del movimento sportivo che promuove l’integrazione degli atleti con disabilità intellettiva. Arrivati negli Usa 7 mila atleti da più di 170 nazioni: gareggiano in 24 discipline e vinceranno tutti, senza eccezioni. Gli azzurri sono 101. Michelle Obama alla cerimonia di apertura
ROMA – Andrea ha 23 anni e una passione per l’acqua: gli piace un sacco nuotare, e non si accontenta della piscina, che peraltro ha anche imparato a raggiungere da solo in treno e in bicicletta. Da poco ha iniziato a giocare a pallanuoto ma, soprattutto, ha talmente tante energie da spendere che è pronto per il nuoto in acque libere, per affrontare il mare. Lucia di anni ne ha 63 e da tre ha sviluppato un amore per le bocce: uno sport grazie al quale è migliorata come persona, facendo grandi passi avanti dal punto di vista tecnico ed emotivo. Carlotta, invece, è molto più giovane, ha 20 anni e di se stessa dice di essere dolce e testarda: le piacciono lo sport e il teatro, da poco ha iniziato a lavorare come assistente in una scuola per l’infanzia di Cagliari. E ha un grande amore per la ginnastica.
Andrea, Lucia e Carlotta sono solo tre dei 101 atleti italiani arrivati a Los Angeles per gli Special Olympics World Summer Games 2015, i giochi mondiali che celebrano le capacità e il talento delle persone con disabilità intellettiva. Un evento planetario, che dal 25 luglio al 2 agosto richiama in California 7mila atleti da 177 nazioni diverse, insieme a 3mila tecnici, 30mila volontari, migliaia e migliaia di spettatori. Alla cerimonia d’apertura avverrà nello storico Los Angeles Memorial Coliseum, sede dei Giochi Olimpici del 1932 e del 1984: e in diretta tv sul canale Usa ESPN sarà la First Lady, Michelle Obama, a dichiarare ufficialmente aperti i Giochi.
I mondiali sono solo la punta dell’iceberg di un movimento al quale il mensile “SuperAbile Inail” ha dedicato un’inchiesta nel suo numero di luglio. Un movimento formato in tutto il mondo da circa 4 milioni e mezzo di atleti, che hanno partecipato nel corso del 2014 a oltre 81mila eventi e competizioni, anche con l’ausilio di un milione e 350mila volontari. E’ il volto migliore dello sport, quello che esalta non tanto le prestazioni agonistiche, ma l’impegno, la determinazione, la costanza, la forza di volontà. Perché qui la competizione è anzitutto una sfida con se stessi, è una lotta per migliorarsi, per raggiungere tutta l’autonomia possibile, superando almeno in parte ostacoli e limiti. Special Olympics è il regno del semplice e dell’incredibile, è quel posto dove le priorità diventano altre e le conquiste a lungo sognate diventano reali, è uno scorrere continuo di emozioni e di sorrisi: è, in definitiva, un posto vero, uno di quei pochi dove senti potente la forza della realtà, dove intravedi netta, evidente, palese, quella cosa che chiamano bellezza, felicità, letizia.
Special Olympics è un concentrato di tutto questo, un’invenzione che nel suo mezzo secolo di vita ha saputo stupire ed emozionare. Nato negli Stati Uniti negli anni Sessanta del secolo scorso (è una delle tante eredità della famiglia Kennedy), è riuscito a dare concretezza a un’idea che oggi definiremmo perfino banale se non fosse stata in realtà, per l’epoca, totalmente rivoluzionaria: mettere insieme tanti ragazzi con disabilità intellettive e farli giocare. Niente di più, niente di meno. Farli giocare e, proprio attraverso lo sport, fare in modo che essi trovassero nella società piena integrazione, inclusione e rispetto. Un cambiamento epocale che la fondatrice Eunice Kennedy raccontava così, nel 1999, rivolgendosi direttamente agli atleti in procinto di disputare quell’edizione dei Summer Games: «Trent’anni fa dicevano che non eravate in grado di correre i 100 metri. Oggi voi correte la maratona. Trent’anni fa dicevano che dovevate rimanere chiusi negli istituti. Oggi siete di fronte alle televisioni di tutto il mondo. Trent’anni fa dicevano che non potevate dare un valido contributo all’umanità. Oggi voi riunite, sullo stesso terreno dello sport, tante nazioni che sono in guerra».
Tutta questa bellezza la vedi negli occhi degli atleti che hanno trovato nello sport un amico prezioso, ma la vedi anche negli sguardi dei loro tecnici e allenatori, dei volontari, degli arbitri, degli altri giocatori senza disabilità, e la vedi soprattutto – accidenti se la vedi – nei volti delle mamme e dei papà, dei fratelli e delle sorelle. Gente che ha pianto, e a lungo, di fronte alle difficoltà; gente lasciata spesso sola, gente ferita dall’indifferenza altrui, gente alla quale più volte si è stretto il cuore nel vedere quell’amatissimo figlio, rifiutato dai compagni di classe, sbeffeggiato, ridicolizzato, perfino insultato.
Padri e madri sul cui volto trovi ora lacrime che scendono gioiose mentre il loro ragazzo alza le braccia al cielo per festeggiare una medaglia appena messa al collo, medaglia che riporta alla mente in un colpo solo tutti i progressi conseguiti nel tempo. Come è successo ad Alessandro, papà di Marta, che due anni fa l’ha accompagnata in Corea del Sud per partecipare ai Giochi invernali: «Vedere la propria figlia sul gradino del podio con la medaglia d’argento intorno al collo è stata un’emozione fortissima, indescrivibile. Ringrazio la mia macchina fotografica che ha nascosto le lacrime che venivano giù lungo il viso. In quel momento penso di essere stato il papà più orgoglioso e felice al mondo e voltandomi ho visto anche una mamma e una sorella che come me pensavano la stessa cosa: orgogliosi di Marta, orgogliosi di quel suo piccolo, grande successo». Un successo che non è tanto e solamente quello sportivo, ma quello della conquista progressiva di una sua autonomia, la capacità di fare da sola: «Marta – racconta la sua allenatrice, Antonella – in quell’esperienza non ha solo fatto una bella prestazione, ma ha vinto la grande sfida del “me la cavo da sola”: la mattina si alzava prestissimo, intorno alle sei, e senza battere ciglio andava al bagno e si preparava. Si lavava, si vestiva con la tuta e tutto il necessario, controllava che avesse preso tutto l’occorrente e via a far colazione per poi andare ad allenarsi aspettando senza problemi il suo turno di prove e poi la gara». Chi conosce i ragazzi con disabilità intellettiva sa quanto sia importante tutto questo, quanto il raggiungimento di un grado di autonomia personale sia fondamentale per migliorare la vita di ogni giorno.
Special Olympics in effetti non è solo sport, ma incarna un’esperienza di vita: permette agli atleti di conoscere ragazzi con altre disabilità, fa capire loro i talenti e i limiti (propri e altrui), consente di rapportarsi con persone senza disabilità e di sentirsi accettati, di essere parte integrante di un gruppo. Allenarsi significa sentirsi impegnati, avere un obiettivo e lavorare sodo per raggiungerlo, veder crescere la propria autostima, migliorare le proprie relazioni interpersonali. E quando ci scappa la partecipazione a un evento – come possono essere anche le gare a livello provinciale o regionale, non necessariamente quelle a livello nazionale o mondiale – c’è anche la novità di un viaggio, del dormire fuori casa (magari per la prima volta), del prendere un aereo o un treno, del fare una valigia, dell’amministrare i cambi da indossare giorno dopo giorno, del doversi insomma gestire da soli in tantissimi aspetti che all’apparenza sembrano poca cosa ma che invece costruiscono una persona autonoma. Questa è la gratificazione più grande, questo è il risultato che Special Olympics – con i suoi team, i suoi tecnici, i suoi allenatori – persegue.
Dall’atletica al tennis, dall’equitazione alla ginnastica, sono almeno 24 le discipline praticate fra ufficiali, sperimentali e dimostrative: alcune vengono ora praticate anche in una versione “unificata”, cioè con la contemporanea presenza in squadra di atleti con disabilità e senza disabilità. “Play Unified” è una delle innovazioni più recenti del movimento Special Olympics, un programma rivolto soprattutto ai giovanissimi (14-25 anni) senza disabilità per incoraggiarli ad annullare ogni differenza e a giocare tutti insieme, uniti, con i propri coetanei disabili. L’obiettivo dichiarato è quello di fermare l’inattività, l’ingiustizia e l’intolleranza verso le persone con disabilità intellettiva, costruendo – sottolinea lo stesso movimento – «la prima generazione di persone giovani che vogliono un futuro di rispetto e di inclusione». Un obiettivo di lungo periodo che intanto nel mondo ha già coinvolto 700mila fra atleti disabili e atleti partner. A Los Angeles si gioca “unificati” a pallacanestro, pallavolo e calcio, ma anche a bocce e nel nuoto in acque libere. Fra i 101 atleti italiani, 17 non hanno disabilità. E anche loro, come tutti gli altri, sono parte integrante della squadra.