Archivi categoria: Informagiovani

La partita truccata del gioco d’azzardo

La partita truccata del gioco d’azzardo

di Vincenzo Andraous

E’ sempre più ricorrente l’impatto con le parole più omologate quando entriamo nel merito del grande raggiro del gioco d’azzardo.

Più cittadini ripetono che per risolvere il disagio, la disperazione provocata dal gioco e dalle sue puntate, la sola opzione per annullare il gap tra distruzione e ricostruzione umana, sta nel vietare il gioco di azzardo in ogni sua esplicitazione.

Senz’altro vietare il gioco patologico, che ingenera devastazione e miserie umane, induce a riformulare stili di vita diversi e più consoni.  Ma il problema vero per cui non c’è un corretto intendimento sociale, sta nella differenza che intercorre tra vietare un diritto acquisito, e vietare qualcosa che danneggia la salute di ogni individuo.

Tutta la partita si gioca in questa in-coerenza.

Non è contro il cittadino imprenditore che bisogna scatenare il finimondo, egli non commette alcun reato, né infrange una norma, tanto meno una legge statuale.

Lo scontro in essere investe la salvaguardia di un diritto alla salute, che assume forma e contenuto di libertà perseguita e mantenuta, e la eventuale restrizione di un altro diritto acquisito ( la possibilità di accedere al gioco d’azzardo),  anch’esso destinatario di pari dignità di scelta, responsabilità e azione morale.

Mentre sui principi generali la discussione è immotivata, dal basso si sovrappongono i rilanci perentori della politica che fa guadagni impensabili sulle debolezze umane, accompagnando questo degrado con le reclame più rumorose e annichilenti, inducendo a credere in un guadagno facile, mentre si tratta di un vero e proprio raggiro.

La partita è truccata non perché il gioco sta nelle mani del baro, ma perché il baro si traveste con la normalità di un sogno che vorrebbe ipotecare i domani: accade che per il trapezista improvvisato non c’è alcuna tutela, c’è dimenticanza colpevole della  fune salvavita.

Il gioco d’azzardo è un capitolo importante delle entrate dello stato, attraverso illeggibili articoli, nascosti qua e là, nelle grandi battaglie democratiche che però sconfessano il diritto alla vita, di chi gioca, di chi in famiglia soffre ogni giorno di più.

Un mare di soldi che circolano indisturbati, pervadono il mercato delle emozioni, polverizzano amori e affetti, denari che è fin troppo facile addebitare alle solite mafie, in passato c’è stato monopolio delle grandi organizzazioni criminali, attualmente a questo massacro di vite umane c’è l’interpretazione a fare la differenza, che scava la fossa a uomini e donne di ogni età, una sorta di dazio indifferente al grande salvadanaio, quaderno dalle voci impossibili di ogni governo, di ieri, di oggi, di domani.

Ho l’impressione che combattere il drago con gli slogans non sia interesse collettivo, forse è il caso di parlare con una nuova punteggiatura dagli accenti collocati al posto giusto della partita della vita, dei diritti e delle libertà da curare, custodire e mantenere, proprio perché sconfiggere la dipendenza-malattia  è più che mai una priorità.

Il gioco d’azzardo patologico è una malattia prevenibile, curabile e guaribile, ma che deve trovare sostegno in  una politica che non si spoglia mai della sua dignità, senza dimenticare le nuove generazioni che osservano e imparano da noi.

 

Violenza appresa e messa in pratica

Violenza appresa e messa in pratica

 di Vicenzo Andraous

Due giovanissimi sopra il treno che li riporterà a casa dopo una giornata di studio o divertimento, stanno rannicchiati in un angolo, stretti come due cuoricini sovrapposti, come quelli che impazzano su facebook, amori belli, amori cari, amori spesso dis-educati.

Un ragazzo e una ragazza identici a tanti altri, con le scarpe slacciate, qualche percing e tattoo di troppo, incarnano la voglia di trasgressione, dove le passioni non sono ”quasi” mai subordinate alle regole, sono passioni imbizzarrite che non conoscono il morso del freno, il rispetto della fermata, dell’accesso consentito dalla ragione.

Arriva il controllore, fa il suo mestiere che poi è il suo dovere, chiede i biglietti, ma non ha riscontro alla sua richiesta, neppure a quella con cui chiede i documenti per redigere la multa, sanzione legittima nei riguardi di chi ha pensato di essere più furbo, e come dice chi sta scrivendo, che non è un saggio cinese: i dazi si pagano sempre, soprattutto quando si pensa di rimanere degli impuniti per sempre.

Accade tutto nella frazione di uno sparo, i toni diventano aspri, le parole come sassi, le mani alzano il tiro, spintonano, urtano le ossa, infrangono i denti, il ragazzo e la ragazza non fanno sconti al malcapitato, al disturbatore di turno, al fastidioso intermezzo, in scena c’è una vera e propria sorta di razzismo al contrario, di ideologia ribaltata, ogni cosa corre sul binario: nel mio territorio non entra nessuno che la pensi diversamente da me, di conseguenza prendi le botte per averci provato.

Quanto è avvenuto su quel treno, qualche volta su un pulman, non sono esternazioni sporadiche, su quel vagone è rappresentato un problema prettamente sociale, uno stile di vita che non è ripetizione delle generazioni precedenti, dei numeri e delle quantità ribelli di tanti anni addietro, non si tratta di giovani che “fanno quello che hanno sempre fatto per reazione all’autorità, alla regola, al comando adulto”. Qui la formulazione sta in un’altra  dinamica, sottoscrizione a una identità che non è legata all’età adolescenziale, dove fatti collaterali o eventi critici sono da sempre negatività prevedibili, perciò messe in conto.

Su quel treno, a quelle fermate degli autobus, dentro le classi, fuori dai pub, è in corso da tempo oramai, una appropriazione indebita di atteggiamenti-comportamenti altrui, è farina di un altro sacco, è violenza messa in gioco dopo averla imparata e fatta propria, un apprendimento sociale che pianta una profonda radice sulla disattenzione, sulla conflittualità verbale e fisica di chi invece dovrebbe risultare esempio autorevole per riformulare percorsi educativi comprensibili per crescere insieme.

Quei due ragazzi sul treno non sono altro che la rappresentazione di una violenza appresa e messa in pratica, che non è parte integrante della nostra struttura biologica, non lo è affatto, è qualcosa che diventa nostro abito mentale, perché il mondo adulto ha deciso da un paio di decenni almeno di mettere in circolo un tradimento culturale, che consiste nel programmare le ferie estreme, le notti insonni, le regalie delle vacanze, autoassolvendo se stessi dalle mancanze e dalle assenze con la più consumata delle barzellette: a volte commettiamo gli stessi errori dei nostri figli……………. Ben sapendo che la verità sta nel suo esatto contrario: sono i ragazzi a recitare da scafati seduttori il nostro repertorio di grossolane bugie, di quotidianità conflittuale ma patologica, di poco rispetto per il valore dei ruoli e delle persone. E mentre ciò accade non proviamo alcuna vergogna, licenziamo il pestaggio su quel treno con una battuta, una risata, una scrollata di spalle, autorizzando a fare passare come una bravata qualcosa che invece non lo è proprio.

Abbiamo perduto tutti

Abbiamo perduto tutti

di Vincenzo Andraous

Un adolescente se ne va, un figlio di tutti noi è rimasto attaccato ad una sciarpa legata al collo, impigliato senza potere reagire né difendersi.

E’ morto così, ma non per sua scelta, impiccato con le nostre mani, i nostri giudizi affrettati, sommari, E somari quanto i nostri silenzi indifferenti.

Un ragazzino di quindici anni reso diverso dalla sua fisicità esile, dalla sua presenza fragile, forse un chiacchiericcio inventato ad arte sulla sessualità non “conforme” ai tanti, un giovane diverso perché messo intenzionalmente alla berlina, volutamente collocato tra i pochi che sono minoranza da deridere, per un sollazzo simile alla malattia della violenza, ben definita  “patologia della diversità” che fa ingiustizia e differenza, imparata e tramandata da padre in figlio, da macho a macho, da chi premeditatamente addita e condanna senza possibilità di appello.

Un ragazzino ha preferito l’oblio allo sberleffo quotidiano, alla viltà asimmetrica che distorce le passioni, le emozioni, gli affetti, annienta i sogni e le speranze di una vita tutta da vivere nella ricerca di una identità vissuta per davvero, di un ruolo definito, uno stare insieme armonioso e felice, dentro la propria diversità che non è un delitto, né un reato o una offesa per nessuno.

Quell’adolescente sospeso a mezz’aria come uno straccio sporco, al chiodo come un qualsiasi Cristo, non suscita un moto di vergogna, un sussulto di dignità: un rimbalzo di ira per la compassione messa al muro dalle giustificazioni inattendibili, dalle difese improponibili, dalle attenuanti sempre prevalenti alle aggravanti.

Tanta ingiusta indifferenza non scalza le responsabilità, le disattenzioni, il disamore di questa  irrispettosa dipartita, poco importa se ognuno afferma  che il ragazzo non era gay, non era quello il motivo per cui è andato a morire.

E’ incredibile come anche di fronte alla morte di un giovanissimo c’è l’urto e il fastidio della negazione alla negazione, come a dire che non può esistere una cosa del genere, che qualcuno si dia la morte per sessualità diversa dal corpo che lo ospita, che qualcuno muoia per solitudine imposta e costretta all’umiliazione sul banco scolastico, in video on line, nella messaggistica istantanea, un  marchio a fuoco per l’inaccettazione più sconsiderata.

Gli adolescenti sanno essere pericolosi nel ferire e nel mettere fuori dal recinto un loro pari, per questo sono da seguire e accompagnare: il mondo adulto-educatori-formatori, non può chiamarsi out da questo atto terroristico al futuro di ciascuno, non può pensare di esser escluso dal farci i conti, perché “ non accadrà mai a mio figlio”.

Essere gay non è un artifizio per non risultare un buon cittadino, un buon essere umano, una persona migliore, essere gay è un diritto di ogni persona, una scelta che non fa danno ad alcuno, non segna il passo a chi ha fretta di arrivare, di essere, di avere quanto gli spetta.

La libertà di quello studente è stata messa in croce da un’altra libertà prostituita dalle inadempienze degli esempi sbagliati che non sanno risultare autorevoli, dalle asserzioni bullistiche che affascinano e creano consenso, creando terreno fertile per intendere che “la mia libertà conta, poi viene la tua se rimarrà tempo da dedicarti”.

Esser libero significa ascoltare quanto cresce nel proprio cuore, nel rispetto di te stesso e degli altri, quel rispetto che però è mancato nei confronti di quel ragazzo, quel rispetto che dovrebbe essere insegnato da chi è un esempio, non brevetto depositato dai duri e dai furbi,  ma da ogni essere umano, soprattutto di chi è più indifeso e fragile.

 

Suicidi e sconfitte sociali

Suicidi e sconfitte sociali

di Vincenzo Andraous

In una settimana due persone hanno tentato di ammazzarsi, due detenuti dello stesso penitenziario.

Tra tanti che riescono nell’intento di farla finita, in questi due accadimenti non è andata così, nel primo caso la prontezza di intervento degli Agenti di Polizia Penitenziaria ha consentito di arrivare per tempo,  il detenuto è in fin di vita, ma ancora vivo. Nel secondo caso la prontezza di riflessi dei compagni di cella hanno letteralmente sradicato dal buco nero più profondo il compagno dai passi perduti.

Due vite per fare una sola parola, predestinati, numeri di un contenitore tritatutto, anche la disperazione più disperante incontra la via più breve per non riuscire a sopportare l’irraccontabile.

E’ già epitaffio per un carcere così ridotto, miserabile e disumano, c’è urgenza di apostrofare la riflessione, innescare la più piccola provocazione per smetterla con gli omissis sulle responsabilità che non ci sono mai, con le posture scandalizzate di una società in preda al panico dialettico e comportamentale.

Come se fare gli indifferenti, i vendicativi a oltranza, i giustizialisti all’ennesima potenza, avesse il potere di rendere più mansueti gli uomini e le donne detenute, ponesse argine alle conseguenze drammatiche della recidiva, nell’intento di inquadrare in una identica civicità spicchi di umanità allo sbando, delinquenti malati e mai curati, malviventi veri e malviventi inventati, trattati nello stesso modo, una popolazione detenuta composta nella stragrande maggioranza da miserabilità, oltre a quella larga fetta di popolazione cosiddetta libera, ma inchiodata al non fare, e quindi nella più che prevedibile commissione di reati.

In questa cartina tornasole dai riflessi opacizzati dalle informazioni, comunicazioni, dati, non sempre esposti correttamente, perché esplicitati a seconda del tornaconto personale, c’è a fare da ponte la richiesta di una giustizia che tuteli le persone oneste, ma che garantisca equilibrio e comprensione umana verso chi sconta dignitosamente la propria carcerazione.

Giustizia giusta non sta a vendetta, peggio, a indifferenza di riordino, neppure è sinonimo di pena certa, quando la pena è un percorso a ostacoli, malamente accidentato, dove è sempre più obbligante morire di dipendenza, di patologia, di malattia.

La Giustizia e il Carcere non possono essere invocati quando qualcuno commette reati indegni o eclatanti, quando il disagio sociale implode-esplode in vere e proprie miserie dis-umane o interessi incrociati devastanti.

La giustizia è un valore alto che cresce dentro una condizione individuale e collettiva che sa schierarsi dalla parte di chi è la vittima, di chi è innocente, di chi  soffre inascoltato senza meritarlo, la Giustizia è tale perché non ha paura, non fa passi indietro nei riguardi di chi non vede riconosciuti i diritti fondamentali, di chi è costretto a sopravvivere, anche di chi ha sbagliato e non ha la possibilità di riparare, di diventare una persona migliore.

Ci si impicca, ci si uccide, quando la pena si traveste e muta in un eccesso di condanna, non c’è solamente la restrizione della libertà personale, ma una vera e propria mancanza di diritto, di corretta interpretazione della misura incapacitante, di non cura della salute e della propria dignità personale.

Il non rispetto di queste “prerogative carcerarie”, deprivano lo scopo e l’utilità sociale della pena stessa, che non può esser considerata una punizione o un castigo se non ricompone la solidarietà collettiva, attraverso lo strumento della riparazione che sta nel Dna di ogni possibile giustizia, per ridare autorevolezza e senso al carcere, che punisce il crimine ma rispetta l’uomo, pur sempre cittadino, detenuto.

 

Il Tempo e l’Avvento

IL TEMPO E L’AVVENTO

di Vincenzo Andraous

La domanda è sorta spontanea, sprovvista di provocazioni premeditate, una necessità espressa a bassa voce  “Tu come hai usato il tuo tempo? E che fai affinche’ altri non abbiano a sprecarlo?”.

Sembrano domande banali, talmente è inusuale chiederci qualcosa sul tempo, il suo significato e senso ricercare.

Eppure è il tempo che scandisce le nostre attese, speranze, il nostro futuro se saremo capaci di approfittare di quanto ci sarà concesso.

E’ un perfetto sconosciuto, un ospite fastidioso, una presenza non sempre gradita, ci costringe a correre o rallentare, a farci a pugni quando non vogliamo aspettare e la fretta irrompe da cattiva consigliera.

Non ne comprendiamo il valore, il ruolo, sebbene lo abbiamo incarcerato, ammanettato, ingabbiato in ogni suo minuto e per tutte le sue ore, quasi a volere magnificare la convenzione stipulata con il nemico più grande: quell’ignoto che ci incute timore, a volte persino terrore.

Il tempo non è una semplice contrattualità, una comoda veduta panoramica, neanche un tour nel paese delle meraviglie. E’ un compagno di viaggio, lo diventa nell’abbraccio fiero, nella mano che stringe la tua, e non è una cartolina illustrata di altri tempi, gettati dietro le spalle, quasi non ci fosse storia sufficiente a raccontarci chi siamo stati, chi siamo, senza più respiro alla nuca per mantenerci all’erta su quanto sarà domani, manco fossimo agli antipodi della nostra origine ontologica, quello stare insieme che il tempo ha rafforzato, nonostante i cedimenti ed i tradimenti.

Un grande signore il tempo, un grande terapeuta, autorevole e onesto, restituirà fino all’ultimo cent di quanto sarai stato capace di dargli, non ci saranno ammanchi né detrazioni. Il tempo è amico che non molla, non teme gli agguati della memoria corta, è spinta in avanti, lavora ai fianchi, urla e scuote quando è urgente esser presente.

Sulla strada i passi contano i suoi minuti, gli accessi, le fermate, è un artista che sa disegnare, dipingere con mille colori la vita di ognuno.

Bisogna fare attenzione e coglierne il senso quando scrolla le spalle, fa rumore di ogni silenzio, è necessario camminargli a fianco con cura, quando ciò avviene riusciamo a sganciare la zavorra, i pesi insistenti, i carichi pendenti, pagati troppe volte con pochi denari.

Lasciamo alle spalle i deliri di onnipotenza, dell’incultura, dell’illegalità, della presunzione di esser il più furbo, i deliri di commiserazione con cui scambiamo di posto, di abito, di nome le ansie e lo stress, avversari formidabili di un tempo azzoppato dall’incuria mascherata di tante e troppe cose da fare.

Usarlo al meglio possibile, è tempo di Avvento, di un Bimbo che nasce, dove ognuno di noi riconosca nel suo profondo quel Bambino, ne divenga padre anche quando padre non ha mai potuto essere, non ha mai voluto essere.

E’ tempo di nascita nuova, di rinnovamento dentro le parole, i gesti, gli stili di vita, è tempo di silenzio e di una promessa potente perché finalmente chiara, di quelle da mantenere e portare a compimento: amare quel Bambino, significa amare il tuo prossimo come fosse te stesso, agire che non è sogno irraggiungibile, ma amore che veste i panni del rispetto di guardare al tempo che ci è consentito, nella gioia di quel Bimbo che nasce, come a qualcuno che è vicino a noi, e spesso sta peggio di noi, a un palmo dal nostro naso, ma non lo vediamo.

Moralità, Onorabilità, Incorruttibilità

Moralità, Onorabilità, Incorruttibilità

di Vincenzo Andraous

Moralità, onorabilità, incorruttibilità: se lo si dice a un bambino, potrebbe farci una bella rima. Se lo si dice a un adolescente, potrebbe travestirsi da samurai e inscenare battaglie epiche dei sogni e delle parole. Se lo si dice a un adulto, a una persona dall’intelligenza sviluppata perché formata dall’educazione, dovrebbe ritenerli carne e sangue di ogni pre-requisito per una buona vita.

Dovrebbe e potrebbe esser così, purtroppo così non è, ci sono innumerevoli motivi che si stagliano all’orizzonte e si frappongono per questo dire e non fare. Motivi seri e motivi artefatti, altri motivi creati ad arte per disegnare confusione e spostare l’attenzione, per irreggimentare le sensibilità, fino a farle diventare sussulti di indignazione a scoppio ritardato.

Quando poi l’indignazione avrà toccato il fondo più inclinato della disperazione, sarà terreno fertile per ogni ulteriore indifferenza.

Un bimbo cresce aggrappato al seno della propria madre, sicuro al suo calore, un adolescente va incontro alla sua maturità attraverso un valore che non è scambiabile con nessuna altra merce: il rispetto.

Il rispetto per se stesso, per gli altri, per la vita che non rilascia patenti da clandestino per meglio riuscire a barare, rispetto che non si  impara con una formuletta chimica edulcorata da un disegno tracciato alla lavagna. Rispetto che si apprende attraverso l’esempio che non fa passi indietro, non si nasconde, che proviene dall’insegnamento delle persone autorevoli che non temono la fatica, l’impegno della solidarietà, quella costruttiva dell’accogliere e accompagnare, nel sudare insieme per un obiettivo comune, un bene comune, una società in comune, rispettosa delle cose e delle persone.

Moralità, onorabilità, incorruttibilità, grandi idealità abbandonate alle intemperie ormonali, senza vergogna o disturbo di coscienza, mentre dovrebbe apparire da ogni azione e comportamento uno stile di vita corretto e condiviso, da perseguire in età dolce, negli anni ancora da venire, da amare, da costruire, da custodire. Invece è sotto gli occhi di tutti il suo esatto contrario: il fastidio e l’imbarazzo con cui si trattano e argomentano i più giovani,  lasciandoli a margine, nella precarietà, privandoli di note importanti di coinvolgimento, di corresponsabilità, di complicità mai sottobanco, come accade sempre più spesso quando si tratta di impegnare tempo e pazienza in spiegazioni plausibili per consentire scelte libere di responsabilità.

Una società più giusta non significa più ricca, opulenta, invasiva e pervasiva dei sentimenti altrui,  una società più equa potrebbe volere dire meno disattenta, meno oppressa dalla droga sparata in vena, inalata o bevuta. Maestro inadempiente che non scende dal pulpito, non riconosce errore, non abilita alcun servizio né utilità sociale, bensì gonfia le tasche dei pochi a dispetto dei tanti, sospinti all’indietro con disprezzo della pietà per ogni dignità calpestata.

Una collettività più giusta non ha paura della verità, di ciò che non è stato fatto, di quanto è da migliorare, non mette in evidenza i soli tratti vincenti, mimetizzando quelli perdenti, i quali hanno contrassegnato un agire passivo  e parassitario, un operare che non è agire, ma barcollare da un bicchiere all’altro di inutili bugie.

Moralità, onorabilità, incorruttibilità, sembrano altezze inarrivabili, un’estenuazione così estenuante da non poter esser scalfita se non addirittura pronunciata, figuriamoci raggiunta.

Eppure è in questa linea mediana, in questa terra di ognuno o forse di nessuno, che è possibile ritrovare un senso da confidare ai nostri figli, soprattutto per tenere barra a dritta noi adulti, evitando di incorrere in quel “ tronco funesto che è l’indifferenza “, quel modo di non essere che induce a non chiamare le cose con il loro nome, non volendo conoscerle per quello che sono.

Gioco d’azzardo

Gioco d’azzardo

di Vincenzo Andraous

Sul gioco d’azzardo ognuno dice la sua, c’è chi bara, chi rilancia senza avere alcun punto tra le mani, chi rimane inchiodato alla botta di adrenalina, chi perde il bene più grande: la propria famiglia.
Associazioni, Enti, Agenzie educative scendono in piazza, in testa ai cortei tanti giovani delusi, in mezzo ai serpentoni gli adulti indaffarati a raccontarsi i motivi della protesta, mentre a chiudere le fila, tante persone incuriosite per il mondo di colori e di voci che fanno impallidire i dubbi e le riserve.
Ecco la domanda, ecco la risposta che non arriva, le parole, tante, spese in fretta per non dire un accidente, e non può essere diversamente dal momento che in “gioco” ci sono vite umane, storie personali, interi nuclei familiari a fare la differenza, a costringere a un soprassalto di vergogna, di dignità, di equità, di libertà.
Ma sono i soldi, i denari, i dobloni a scandire i tempi della macelleria delle emozioni, sempre e solo i quattrini a fare la spesa alla ragione, ubriaca anch’essa per essere giocata al tavolo più inclinato, più le monete d’oro picchieranno sulle rese e le sconfitte, più il futuro prossimo sarà ben peggiore delle bugie, delle promesse e dei fallimenti, delle ire e delle frustrazioni che faranno del male e causeranno sofferenza alle persone che ci amano.
Slot, carte, sisal, gratta e vinci, casinò, cani e cavalli a correre su ogni scommessa, tutto è valido per puntare, per mettere una sopra all’altra improbabili ipoteche sul futuro, verità virtuali, una disperazione che mangia metro dopo metro, toglie visuale, annienta la salute, la dignità personale.
Un ragazzino prova a sfidare la sorte, un padre, un cittadino comune ci si perde senza remore, ora scopriamo che pure l’uomo politico di turno resta impigliato nella patologia, nella dipendenza, nell’ossessione compulsiva del gioco d’azzardo, ripetuto fino allo spasimo, allo stremo, tanto da perdere ruolo e valore del rispetto per se stessi, fino a rubare, a raccontare favole inventate pur di continuare a giocare, a rischiare imperterriti, fino a restarci dentro per intero, strozzato in gola e nell’anima.
Quando il nemico è un ostacolo dai legamenti acciaiosi, senza cuore né gesti di pietà, non c’è coraggio che tenga, solamente paura che induce a perdere contatto con la realtà, con la sostanza delle cose, il nemico diviene amico, scambiato per compagno di viaggio, perché non usa mai rimprovero, mantiene il segreto e non tradisce.
Allora il gioco si arma del cappio, non è più rischio calcolato, ma vita ammanettata e resa insostenibile dai ricatti, dai rimorsi, dal timore di venire scoperto, non c’è alcuna autenticità, ogni volta che si è posti nella stessa condizione, ritorniamo a giocare, a puntare, a prostituire legami affettivi, rapporti amicali, fino a perdere tutto, un’apnea asfissiante che rende inutile persino la sofferenza.
C’è un grande dispendio di parole inefficaci, di incredulità a basso prezzo, ma come è possibile scandalizzarsi se un ragazzino trova il modo di scommettere d’azzardo, se un adulto si gioca la propria credibilità, se un genitore abbandona il suo decoro, quando gli introiti sono talmente elevati e cash, tanti e subito, da non fare troppo caso ai quartieri e alle periferie disadattate, perché tali debbono rimanere per poterne parlare, e assai meno dei locali del gioco appena aperti, delle pubblicità per niente occulte, appiccicate in grande stile, sulle facciate delle case, sui pulman, un po’ dappertutto.
Eppure abbiamo un po’ di mal di pancia per quel minore con la puntata tra le dita, molto meno se non per l’illegalità per l’incultura più diffusa.
E’ urgente ritornare sugli scranni del potere, è necessario rimodulare gli interventi, dove leggi e norme privilegiano gli interessi, occorre rimettere in circolo non soltanto le stive dei galeoni piene di tesori, ma il rispetto della dignità delle persone.

Islam e furbi di ogni generazione

Islam e furbi di ogni generazione

 di Vicenzo Andraous

Non condividere l’Islam, non credere nelle religioni altrui, non è peccato se non  c’è contrarietà affinché ognuno professi la propria in pace e serenità.

Non amare l’Islam non significa odiare quel credo per molti versi sconosciuto, neppure odiare una cultura e una tradizione diverse, oppure odiare chi non la pensa come me.

Cristo è dentro la mia religione ma ciò non mi pone nella condizione di odiare l’Islam, di non rispettare un altro popolo, di non essere fratello di ogni fratello: cristiano, mussulmano, ebreo o altro.

Non c’è Islam a fare la guerra, non c’è Maometto a indossare la muta da sub per sondare sottotraccia quali brecce aprire per conquistare altri territori di disumanità.

Non ci sono dei né semidei a fare da ponte agli estremismi, solamente furbi prezzolati di ogni generazione a ingenerare meccanismi perversi, marionette da mettere in campo, anche là, dove qualcuno ha ben definito la “terra di mezzo “ per indicare dove stanno coloro che rispettano l’uomo e le sue necessità, le sue urgenze di trasformare  un mondo  stanco di essere oppresso dai soliti truffatori di ieri, di oggi, e purtroppo di domani.

Un dittatore crudele muore, un ambasciatore del mondo muore, altri uomini muoiono nelle chiese, nelle moschee, nelle sinagoghe, le orde furiose attaccano, devastano le cose e i corpi, i simboli che appartengono all’umanità intera.

La vita viene presa e buttata di lato, è un film da scantinato impolverato, eppure è il detonatore usato per fare accadere una carneficina, per togliere di mezzo persone disposte a operare dinamiche di pace, di solidarietà, di fratellanza.

Uomini che fanno fatica a tradurre i bisogni di popolazioni sconquassate e tormentate da millenni di violenza, pedestremente raccontati a una parte di mondo colpevolmente disattento.

I paesi si incontrano, si scambiano le proprie esperienze, fanno vita assieme, dai più lontani ai più vicini, ogni paese custodisce la propria bellezza, unica e speciale, come deve essere, anche Dio non mette bandiera né stracci colorati per non rischiare di recintare un altro confine.

Dio, il tuo ed il mio, c’è, ma proprio perché di tutti, non raduna membra stanche e ferite per innalzare barriere invincibili-insormontabili, Dio è quello senza armi né parole di sangue, non tace quando alla sua porta è chiesta presenza, non stampa manuali di guerra, né fabbrica materia esplosiva, Dio è la parte di noi che non odia, non disprezza, non umilia le coscienze.

L’Islam e la sua gente non sono una parte di universo che si allontana, ma radice comune del mondo degli uomini, dove Dio cammina alla ricerca della sua umanità. Chi invece in suo nome non accetta regole di libertà per arginare l’orrore perpetrato intorno, non fa onore a quella religione, a quel Dio, a quel credo, e quando si spara e si uccidono i bambini, si mettono bombe che trucidano donne e vecchi innocenti, non si tratta di comandi dei libri sacri, ma del sangue della vergogna, inaccettabile, perché è prostituzione intollerabile delle verità, le quali non vestiranno mai abiti da mandante di alcun assassinio.

Più semplicemente ci sono i furbi di ogni generazione che attraverso l’oppressione, la prepotenza, la prevaricazione, il lutto di tanti innocenti, ricercano il potere sopra e sotto il diritto di ogni cittadino.

Non c’è l’Islam in discussione, né le religioni, sono gli uomini e le loro ideologie, utopisti “violenti nella pratica e illusi nella teoria”, a dare lineamenti carcerari e assolutismi omicidiari alle proprie azioni.

E’ necessario smetterla di barare con le parole, di giocare con le carte truccate dei significati, occorre abbandonare l’intolleranza che ci portiamo dentro, che non è per un altro Dio, ma per tutto ciò che è diverso da noi, per tutto ciò che non conosciamo, ma siamo bravissimi a giudicare.

Donne atterrate senza pietà

Donne atterrate senza pietà

di Vincenzo Andraous

Un’altra donna fatta  a pezzi ai bordi della carreggiata, dentro un campo incolto, lasciata a imputridire con premeditazione, come a voler significare che il dazio da pagare sarà questo per chi non vorrà sottostare al marchio di fabbrica, a nome pappone oppure cliente.

Padroni di vita, schiave di sopravvivenza, imperatori di sogni e di speranze, prigioniere di una fiducia tradita al primo incontro.

Uomini e prostitute stanno ai margini, inchiodati ai lati non veduti, a loro volta emargineranno quanti arriveranno al banchetto da consumare insieme in fretta.

Donne di ogni colore, cultura, fede, donne nude alla propria carne, donne svestite di ogni diritto, donne sulla strada a vendere un piacere che non sarà mai una storia scritta, raccontata, forse bisbigliata di lontano.

Donne a inseguire una libertà che non c’è, una libertà che non parla, non ascolta, né accompagna, una libertà prostituta, rincorsa, inseguita, afferrata, una illusione già morta in partenza.

Donne rubate, rapinate dell’ultima speranza, donne dimezzate come cose di poco valore, lasciate lì, sacralità violentata.

Donne usate, offese, umiliate, senza più un senso da dare, da ritrovare, da ri-conquistare, donne al marciapiede, allo sterrato, nella polvere dove i fiori scompaiono nel silenzio dell’ipocrisia-indifferenza che fa mercato, offerta, richiesta.

Donne ferite quotidianamente da uomini che non sono neppure lontanamente eroi nostalgici, sono sfruttatori da catena di montaggio, a controllare che il piacere non venga mai meno, mai scoperto per quello che è, una infamia che se non produce complici, sforna bellamente corresponsabili, senza volto, senza identità, cittadini onesti, genitori attenti, adulti educatori a passare in rassegna la mercanzia bene esposta alla gogna.

Ancora donne dilaniate, alcune per propria scelta, la maggioranza per comando, una vita scandita dal colpo di fucile che da un momento all’altro potrebbe arrivare.

Donne sotto i cespugli, dietro i copertoni, davanti ai fuochi, non sono circondate dagli ululati dei lupi di montagna, sono ammucchiate al digrignare di denti, dal sorriso malevolo di chi compra, di chi vende, senza badare alle mani sporche di sangue per una dignità sradicata alla radice.

Donne in vendita per pochi denari, monete senza effige, senza corona, senza alcun segno se non quello del baratto che non si deve profferire.

Donne che non hanno voce, non sanno tenere alto lo sguardo, anche quello a comando sfida la sorte per una carezza che non c’è mai.

Donne nude al palo, legate al giorno e alla notte, con i polsi segnati, il cuore strappato, i piedi appoggiati di traverso ai metri che non avvicinano mai.

Donne e bambine possono apparire ballerine di prima fila, invece non sono in posa, rubano attimi di cielo a una vita di dolore umiliato, di speranza affaticata, di coraggio inebetito dalle botte, dalla droga, da una condizione che non è raccontabile, un insulto a tanti uomini che se ne fanno vanto, occasione di svago, formula chimica a buon mercato per non rischiare di rimanere avvinti alla sofferenza.

Momenti di disumana contaminazione, possedimenti senza parole di contorno, che diseducano al dovere di una urgente azione della responsabilità, là, dove non c’è più rispetto per chi sta peggio, per chi tace per paura, per chi offre il fianco per evitare la fossa.

 

A tredici anni in cerca di sballo

A tredici anni in cerca di sballo

di Vicenzo Andraous

In discoteca ci si diverte, si balla, si urla, si sta insieme per conto proprio, ognuno muove i passi come meglio crede, ciascuno cala giù a proprio piacere.

La musica scaccia i pensieri, in avanscoperta c’è l’urto dell’adrenalina, mentre all’angolo i timori di vivere sono scomparsi. E’ divertimento per ogni età, per chi età non sente, per gli altri che  dell’età fanno imbroglio.

Una ragazzina s’è sentita male, fin qui nulla di eccezionale, può accadere a chiunque di avere un mancamento per troppo impegno, studio, lavoro, stress.

Quel che fa andare su tutte le furie, perché c’è davvero da arrabbiarsi, è prendere atto che una adolescente di tredici anni era in discoteca alle quattro di notte. Cosa ci faceva a quell’ora una bambina nel calderone dello schiamazzo impazzito, a buttare già beveroni colorati fino a rasentare il coma etilico.

La domanda è appropriata alla tragedia sfiorata, per appurare le responsabilità di quanti hanno permesso questo scempio di coscienze inebetite dalla disattenzione, dal  permissivismo e dal  disamore.

Cosa ci fa una ragazzina di tredici anni di notte, a cavallo della zona rossa, predestinata al botto, al rischio estremo in agguato costante, della fascinazione e della paura che veste i panni del drink ripetuto a dismisura, della canna, della roba lasciata inavvertitamente incustodita, e come è che una ragazzina non sia invece a casa propria, nella propria stanza, protetta e amata dai propri genitori.

Pedagoghi, educatori, agenzie educative e di controllo ci parlano di “coscienze disfatte, di gioventù bollita, di ragazzi peluche”, in tanti siamo esperti a fare le pulci ai più giovani, a quanti non hanno ancora buone gambe, cervello sviluppato a sufficienza per riuscire a fare, e non semplicisticamente disfare.

Ci accalchiamo sulle definizioni, le spiegazioni, le castronerie adolescenziali, forse occorrerebbe qualcuno che finalmente fa piazza pulita  delle reiterate giustificazioni di un mondo adulto sempre più annacquato, “costretto a educare”, al dolore e alla fatica per riuscire a ben camminare.

In psicologia si definisce questa mancanza di volontà da parte dei ragazzi “ psicastenia”,  come a dire che ogni resistenza alla fatica è latitante.

Se davvero siamo arrivati a questo punto, c’è da chiedersi dove sta la buca intellettuale, emotiva, affettiva,  che ha generato, autorizzato, lasciato  fare, fino a farla diventare una patologia.

Da quale intelligente amore di padre e di madre può risultare un rapporto così sfilacciato sulle regole, sulle tutele e sulle garanzie, sgangherato a tal punto da consentire alla propria bambina di cavalcare la notte con i suoi fantasmi.

Troppo semplice buttare la croce addosso alla creatura imberbe cresciuta troppo in fretta, è più opportuno domandarsi se educare significa ancora costruire insieme, tirare fuori insieme, camminare insieme, oppure la capacità di educare s’è tacitamente trasformata in una sequela di scuse ben raccontate, bugie interpretate e messe in scena quotidianamente, prassi consolidata per non avere ulteriori rotture di scatole, che invece si ripresentano sottoforma di vere e proprie scosse telluriche, di dolore che colpisce il cuore, paura feroce di avere rischiato di perdere il bene più grande.

Bisogna strappare le tessere fittizie da sindacalisti, da avvocati, da tuttologi, riappropriarsi  dell’unica patente consentita, cioè quella genitore-educatore che non bara, non fugge, non soccombe ai mal di testa annunciati, per tentare di spiegare il valore della vita e della libertà.

Mario non c’è più

MARIO NON C’E’ PIU’

di Vincenzo Andraous

Quanto tempo è passato da quando ti abbiamo visto la prima volta in comunità a faticare, camminare, faticare, e ancora camminare, fino a diventare maratoneta di un percorso di vita vero, con i piedi ben piantati al suolo, ritornando a vivere le tue emozioni, i carichi distribuiti a misura, i pezzi di futuro rimessi insieme.
Tanti anni a fare sudore, a espellere tossine, a buttare fuori il malessere, il disagio sopportato sottocarico, l’amore scambiato per qualche soldo di fiducia tradita.
Mario era un ragazzo come tanti altri, con una famiglia, moglie e figli, un lavoro, tutto sembra filare al dritto in poppa, finchè un giorno arriva a bussare alla porta il bastardo inaspettato, l’amico che ti propone lo sballo, tanto per fare qualcosa di diverso: appare inspiegabile la sua impreparazione, la sua inadeguatezza, la sua resa fatta di fragilità.
Il rapporto con la famiglia s’incrina, il lavoro se ne va da un’altra parte, non c’è alternativa se non il buio che illusoriamente protegge nella strada, la panchina, i luoghi della solitudine, al profumo dell’amore si oppone l’odore acre della lontananza.
I piedi feriti, il corpo indolenzito, il male dentro fin sopra le scapole, giù fino al cuore, un dolore intenso mitigato dalla droga, dall’alcol, un poliabuso sconsiderato a nascondere nella dipendenza il vero problema della testa, della pancia, dell’anima.
Mario e la presunzione che non gli consente di chiedere aiuto, scivola sulla vita che perde senso in ogni giorno da cavalcare, è disarcionato, a terra, solo, senza più se stesso.
La grande città lo espelle, lo getta fuori senza tanti complimenti, lo scarica indietro tra i detriti che non servono più a nulla. Allora Mario si trascina fino a una piccola città, tenta disperatamente di rimettersi in piedi, poggia un passo avanti all’altro, tenta di vedere cosa fare, non solamente come meno subire.
Sniffare e bere diventa un castigo ben peggiore delle difficoltà di ritornare a rispettare la vita, percepisce la necessità e l’urgenza di non mollare gli ormeggi, finalmente alza una mano, la voce taglia a metà la paura, non indietreggia più, avanza con lo sguardo in alto, lasciandosi alle spalle la pazienza della disperazione.
Rammento i primi giorni di accoglienza nella Comunità Casa del Giovane, il suo impegno costante, la sua scelta di non rifiutare la fatica, il bisogno di ritrovare un equilibrio, la ricerca di uno stile di vita diverso e più consono alla cura di se stesso, dentro una solidarietà non di facciata, ma consapevole del valore della reciprocità: noi ci siamo se anche tu ci sei.
Mario ce l’aveva fatta, non aveva più bisogno della bugia più grande per stare bene, cocaina e alcol non avevano più possibilità di fregarlo, di affascinarlo, di metterlo un’altra volta ko.
Si era riavvicinato alla figlia, aveva trovato un lavoro decoroso, preso in affitto una piccola casetta, ripreso in mano le redini di una serenità non più maltrattata.
Mario si ammala, è in rianimazione, per giorni sta immobile su quel lettino, ma poi seppure a tentoni la fa franca all’incedere insolente della malattia.
Riuscimmo a riportarlo a casa, sapeva del tumore al fegato, delle placche estese alla spina dorsale, ma per qualche momento ancora è stato un uomo libero.
Cosa ci lascia in eredità Mario? Sicuramente tante cose, ma un paio sono da tenere a mente, costi quel che costi. La prima è che ogni uomo domiciliato nell’errore, se fa ricorso a tutte le proprie energie interiori, ce la può fare a rialzarsi.
La seconda è che fare uso e abuso di sostanze rendono la vita un calvario, annientano e distruggono ciò che resta, e anche quando la dipendenza è combattuta e vinta con coerenza, spesso restano le ferite, gli scavi, il male inarrestabile sotto il primo strato che non fa sconti a nessuno.

Ci vuole decoro

Ci vuole decoro

 di Vincenzo Andraous

Ci sono tanti giovani in una comunità terapeutica e di servizio, ma anche persone con i capelli bianchi e le difficoltà stampate nella fronte. Una piccola città aperta alla grande città, che non sceglie i propri compagni di viaggio, non rifiuta chi è affaticato, non volta le spalle a chi appare “contro” per forza, ma proprio perché dolore e sofferenza hanno truccato le carte, aiuta l’incontro e l’accoglienza.

Uno spazio per agire oggi, senza rimandare a domani la fatica di un momento di riflessione, di autocritica, di una relazione che impegna.

Una dimensione che muove le idee, che non lascia il cuore in balia delle solitudini imposte, non teme il futuro tutto da generare e in  qualche caso da reinventare, è vita che si presenta sull’uscio ferita, ma entra in questa grande casa e non intende più mollare gli ormeggi.

Droga, alcol, violenza, pregiudizi e discriminazioni, sono gli eserciti del male impazienti a penetrare le mura di ogni fortino, ma se la palestra allena con rispetto e dignità alla vita, non ci saranno palizzate fragili a difesa della propria casa.

Tanti ragazzi alla Casa del Giovane, ognuno con la propria storia personale, fanno il loro ingresso nelle strutture, prendono distanza dalla paura di vivere, da ciò che è lo  studio che non fa sconti, il lavoro che non sarà più possibile relegare all’angolo dimenticato, le relazioni che nascono  e divengono testimoni del tempo che non è mai finito.

Anzi è necessario starci dentro con entrambe le gambe, fino alle ginocchia, per fare i conti con gli alti muri di cinta che abbiamo costruito, noi,  in prima persona,  che il cuore non ha scelto, ma lo tengono prigioniero.

Giovani in bilico, avanzano lentamente non per tattica, ma per paura di quanto sta dall’altra parte della strada, nel tentativo di tenere in alto lo sguardo e non più ai bordi poco illuminati.

“Liberare la libertà”, ebbe a dire don Enzo Boschetti il fondatore di questa realtà salvavita, per riuscire a pensare alla libertà di ciascuno, perché ogni giorno c’è la possibilità incontrare un  domani diverso, costruito sul piano solido di un progetto condiviso, un nuovo stile di vita da rendere finalmente normale.

Durante un’assemblea cui erano invitati i collaboratori e tutti gli ospiti, un carissimo collaboratore della nostra cooperativa CdG, stava raccontando l’importanza di onorare gli impegni assunti, quel patto sociale nella concessione di una seconda possibilità, la necessarietà di una responsabilità da condurre a compimento, perché la fatica dell’apprendimento  di un mestiere, di una professionalità, dentro gli spazi della comunità, nulla altro significa che crescere insieme, mettendo in atto quelle responsabilità che fanno fede al percorso intrapreso.

L’oratore ha indicato, seduto nell’ultima fila del salone, Giancarlo,  la nostra mascotte, piena di acciacchi, ma portatore di un eccezionale entusiasmo e volontà a non darla vinta agli agguati dell’alcol, che lo resero prigioniero più ancora della malattia.

Giancarlo e la sua battaglia vinta sul filo di lana dell’abruttimento,  Giancarlo e il suo inno alla vita che ogni mattino iniziando il proprio lavoro ripete a noi tutti: amici, ci vuole decoro.

Pensandoci bene, decoro non è un termine vetusto, sorpassato dai nuovi superlativi, decoro è sinonimo di educazione, di rispetto per le persone e per le cose intorno, che appartengono a ognuno e ciascuno, e ultimo ma non per importanza, è partecipazione che non consente di saltare furbescamente la fila.

Sono solo ragazzi

Sono solo ragazzi

 di Vincenzo Andraous

Poco più che bambini, adolescenti di poco imbarazzo, giovani con le gambe larghe e le mani in tasca, quando camminano sul marciapiede non consentono a chi arriva in senso contrario di passare, ci scappa la spallatina, la parola di troppo, lo sguardo piccato di chi non è abituato a rispettare le precedenze, manca l’educazione di accettare l’attesa della pazienza. Certo non serve a niente sparare nel mucchio, tanto meno fare confusione con le età, con i colori delle passioni che non collimano con le emozioni, e scavano trincee nei comportamenti quotidiani. Come quel giovanissimo che ho conosciuto attraverso il network, un viso rotondo, gioioso, eppure in ogni parola una clessidra di spigolature, di asprezze, di gomiti in linea di tiro, immagini da scommessa di luna park.

Un adolescente con le movenze da adulto, la postura da combattente di una guerra che non è mai stata sua nè mai lo sarà, con gli occhi di un cerbiatto spaventato.

Un incontro in rete per caso, poche righe buttate lì, svicolando dai segnali di allarme, dalle indicazioni di pericolo, dalle luci rosse di emergenza non più lampeggianti, oramai paralizzate sulla fermata da rispettare.

Poche righe per fare rumore, per mascherare l’inquietudine, e nascondere la paura e l’inadeguatezza, attraverso i tanti beveroni bevuti in fretta, nelle pasticche calate giù tanto per fare qualcosa.

Sono solo ragazzi, alla ricerca di risposte affrettate che bruciano i tempi corti, mentre per le domande ci sarà tempo domani, e poco importa se saremo vivi, storti o morti per prenderne visione.

Facebook e le troppo storie inespresse, piccole parti recitate in qualche bestemmia, nelle imprecazioni isteriche, nei sassi lanciati a casaccio, come a voler raccogliere un rimprovero, un richiamo al proprio dovere negato, un’attenzione che manca all’appello con incredibile indifferenza.

Scorrendo l’home page, quel viso impertinente e provocatore, sprovvisto di fede e di passione, mantiene inalterato l’urto e il fastidio, e seppure banale in ogni sua fuga in avanti, in ogni frase smozzicata, persino nel pugno  raccontato a piccole dosi, c’è un rimando, malcelato, ma c’è ed esiste, a significare come ha ben detto un grande educatore: a volte fanno del male, ma sognano di fare il bene.

Si tratta di un rimando denudato di aggettivi, di superlativi, dei suoni artefatti per sostenere lo sguardo alla richiesta posta tra una riga e l’altra, lasciata lì, per caso: la necessità di un aiuto, di una conoscenza del valore di giustizia, di un perdono che rappresenti una nuova opportunità di slegare i lacci ai polsi,  le bende agli occhi,  i nodi al cuore che non sa più stare in disparte, sottocoperta, ai margini di una età che esige avventura, scoperta, incontro, partecipazione.

Ho incontrato quel ragazzo, l’ho avuto di fronte per un pezzo di strada insieme, un giovane spostato su una trasgressione-ribellione da pochi centimetri in avanti, qualche centinaia di metri indietro, inconsapevole che chi ha da dire cose nuove, ci tiene a farsi capire, invece di rimanere impigliato nelle strade chiuse alle informazioni, barricate alle idee che aiutano a crescere per diventare finalmente più maturi.

Facebook e i suoi territori dove gli amori non sono reciproci, mentre dovrebbero esserlo se fossero veri, pagine impalpabili per slogan da saldi anticipati, emulazioni di falsi eroi,  falsi miti eretti a simulacri di periferie esistenziali.

Più conosco questo ragazzo più mi convinco che sbagliare è umano, ma fondamentale è usare le difficoltà come stimoli per migliorare le proprie capacità, perchè davvero da qualsiasi situazione è possibile apprendere il valore della vita, e non permettere mai alla nostra mente, al nostro cuore di finire in un angolo perso dove non si vede più niente.

L’eufemismo dell’Inferno di Dante

L’EUFEMISMO  DELL’INFERNO DI DANTE

di Vincenzo Andraous

L’estate è sbilanciata in avanti, le temperature alzano il tiro, i corpi ammassati tentano disperatamente di resistere, i malati più deboli muoiono, quelli più sani combattono dentro una resistenza senza riparo, altri stanno lì senza il più piccolo sollievo, nè capacità di avvertire la propria colpa.

Il carcere non è più spauracchio dell’illegalità, strumento deterrente, non è più ultima trincea a difesa di ogni libertà. E’ diventato altro, come Dante e il suo inferno sono diventati un mero eufemismo, e Benigni  un cantore in disuso, entrambi non più corrispondenti alla disperazione di un luogo perduto alle coscienze.

Cos’è il carcere oggi, a cosa ed a quale dissacrante dottrina si è ridotto, se non all’indifferenza? Sovraffollamento che non è più riconducibile al solo problema endemico all’Amministrazione Penitenziaria: è il risultato di recidive alimentate da politiche ingannevoli, più galera per tutti, meno misure alternative che invece insegnano a lavorare, a faticare, a scegliere la responsabilità, in un patto di lealtà sociale.

Carenza di personale professionale e dimezzamento dei fondi di investimento al settore giustizia non sono sufficienti a confermare il livello di disumanità che circonda un penitenziario, una cella, un cittadino detenuto, perché ancora tale è, come sancito dalla Costituzione, dalla condizione di persona momentaneamente privata della libertà, non certamente del diritto di sperare.

Quando penso al carcere, malandato, umiliato, percosso dalle intelligenze addormentate, mi vengono in mente le pretese di giustizia di un certo Peter Moskos, ex funzionario di Polizia, ora docente di diritto penale, salito prepotentemente alle cronache per un report di 154 pagine, con cui ritiene di superare il fallimento del sistema penitenziario americano, debellando il più devastante sovraffollamento carcerario della storia dell’umanità, attraverso la punizione della flagellazione.

E’ soltanto una boutade sconcertante di un illuminato senza più luce né ragione, oppure c’è qualcosa che fa al caso nostro? Al sistema americano certamente sì, con la pena di morte, con il carcere privatizzato, con la violenza intramuraria che neppure i films riescono più a immaginare, figuriamoci raccontare.

Nel paese della selva oscura dell’Alighieri e del Benigni che disconoscono i gironi ben nascosti di un inferno in continua ebollizione, forse qualche nerbata potrebbe passare, come pena alternativa a un carcere che mi ostino a dire che ancora non c’è.

Oppure il solo pensare a una punizione come questa scandalizza, perché ci ricorda la schiavitù, qualche reminiscenza di tortura, di inquisizione, di pene illegali.

Certo non è semplice optare per una condanna alla frustata, al ritorno del sangue statuale, ma con qualche scudisciata ben assestata, il 70% di popolazione detenuta potrebbe nell’immediato lasciare le anguste e sovraccariche celle italiche.

Il dott. Moskos pare più attrezzato a scioccare e banalizzare, che a risolvere una violenza carceraria che ha superato ogni livello di guardia nel suo paese. Ma in questa partitura medioevale è possibile trovare qualche indicazione, quanto meno ripartire da una riflessione.

Disturba fare ricorso anche solo con le parole a una violenza che dovrebbe “sanare”  altra violenza, che “ripara” il male con altro male,  eppure come è possibile inorridire assai meno per una pena che rapina le dignità con inaudita perseveranza, tant’è che a metà anno abbiamo perso il conto dei tanti “evasi” con i piedi in avanti, detenuti e agenti.

Sobbalziamo al pensiero di trascendere alla fustigazione, rimanendo impassibili di fronte al grado di violenza cui è sottoposto il detenuto, e non solo, l’intero impianto penitenziario.

Abbandono e indifferenza, morte dei corpi e delle menti, morte di ogni possibilità di comprendere di sé e del proprio esistere nella vita che rimane, nonostante la cella, nonostante il carcere.

E’ un degrado che polverizza ogni speranza di sentirci ancora utili, parte di una società che professa la difesa del diritto alla riabilitazione, che giustamente rigetta il teatrino dei dinieghi alle frustate,  ma non intende guardare al di là del muro, dove l’ultima solitudine è concessa senza timbri sul passaporto.

E’ morte assunta con una stringa allacciata alla gola, in un giorno dove Dio è morto dentro una cella.