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Ormai è guerra… ricordando Valeria

Ormai è guerra… ricordando Valeria

di Maurizio Tiriticco

 

Non c’è da farsi illusioni: una buona parte del mondo islamico ci ha dichiarato guerra. Si tratta di quel mondo che non è stato contaminato da quei movimenti che hanno interessato da secoli e per secoli noi dell’Occidente del mondo. E quanta fatica e quante sofferenze abbiamo dovuto affrontare per giungere al Rinascimento, all’età dei lumi e a quelle tre grandi rivoluzioni, quella industriale, quella francese e quella russa. Abbiamo combattuto e abbiamo battuto ogni forma di intolleranza religiosa e abbiamo pagato da sempre con scomuniche, torture efferate imposte da una inquisizione cosiddetta santa, roghi a non finire, decapitazioni! Se oggi abbiamo un Papa Francesco, non credo lo si debba tanto alla Chiesa in sé, quanto a quella cultura liberale che anche nella Chiesa con enorme fatica nel corso dei secoli ha fatto breccia. La Chiesa non si è rinnovata per risorse interne: va sempre ricordato che l’insegnamento evangelico nulla ha a che vedere che con la Chiesa secolare costantiniana (Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre! Dante, Inferno XIX).

Ricordiamo l’arretratezza di un Pio IX! I diritti dell’uomo del 1779? Una carta scritta dal demonio! Un papa che ha resistito in mille modi contro il diffondersi dello spirito liberale, saldamente represso con le efferate pubbliche decapitazioni di Mastro Titta, ben 516, fino al 1870, e con una pena di morte che è stata formalmente abolita nello Stato pontificio solo nel 2001. Se poi si è giunti alle Rerum Novarum e, più recentemente alla Laborem excercens, ciò lo si deve a quello spirito liberale – non chiamo in causa lo spirito laico che è altra cosa – che da cent’anni a questa parte ha contaminato la Chiesa.

Quei diritti dell’uomo, fatti propri dall’Onu nella Carta del 1948, che integrano e arricchiscono le quattro libertà fondamentali enunciate dal presidente Usa Roosevelt nel 1941, “di parola, di credo, dal bisogno e dalla paura”, e ben presenti anche nella nostra Carta costituzionale varata nel 1947, sono i fondamenti del nostro convivere insieme nel rispetto del pensiero libero di ciascuno e di tutti.

Non è un excursus inutile ciò che ho scritto finora. Intendo soltanto dire che ogni religione è, per sua originaria natura un’altra cosa rispetto allo spirito liberale! La religione “lega” prima di “liberare”! E quando poi una religione è monoteista, cominciano i guai. Ciascuna sostiene che solo il suo dio è vero! Altra cosa il politeismo! Il politeismo greco e latino è stato uno dei fondamenti di due grandi culture e civiltà. Nel mondo classico non ci sono state quelle guerre di religione che invece hanno sconvolto l’Europa per secoli.

E l’Islam – non vanno dimenticati gli altri credi diffusi sull’intero pianeta; parlo dell’Islam perché è quello che ha a che fare con la nostra civiltà europea e con il nostro continente – ebbene, l’Islam purtroppo non è stato ancora contaminato! So bene che esiste un Islam moderato, ma… si tratta di quell’Islam che obtorto collo convive con religioni e culture “altre”: una moderazione indotta dalla necessità. In effetti quell’Islam che non deve convivere, ma che è dominante, è tutt’altra cosa! Io allibisco quando vedo che a Dubai hanno costruito il grattacielo più alto del mondo e quelle arditissime Palm Islands sul Golfo persico – segno di tecnologie avanzatissime – ma frustano, lapidano e decapitano le donne secondo un diritto degno del più immondo nostrano medioevo! Rileggetevi Tertulliano, un Padre della Chiesa: quante ne dice contro le donne! Il fatto che non debbono uscire a volto scoperto è solo una finezza! D’altra parte, quale valore possiamo attribuire a un essere che è solo una diaboli ianua, una porta del diavolo? E’ tutta colpa di Eva, se Cristo è dovuto salire in croce per liberarci!!! Lo scrive Tertulliano! Allora, come posso stupirmi, se i militanti dell’Isis schiavizzano, stuprano, ammazzano le donne, anche se vecchie e bambine!!! E sono militanti pronti anche a farsi esplodere! Tanto nel paradiso di Maometto troveranno altrettante donne, le Uri, tutte giovani e vergini, pronte a soddisfare tutti i loro bisogni sessuali! Un paradiso ridotto a casa di tolleranza! Non vorrei!

Con i fanatici che non solo aspirano a rafforzare l’Isis (Islamic State Iraq Syria), ma a costruire con la forza uno Stato islamico mondiale c’è poco da scherzare! Abbiamo già percorso una strada simile, quanto un certo Hitler pensava che solo la pura razza ariana germanica fosse degna di governare il mondo! E quanto abbiamo sofferto.

Sono fortemente preoccupato!

A. Fuiano, Bobo, Gastone, lo scienziato e lo stregone

ANTONELLA FUIANO, Bobo, Gastone, lo scienziato e lo stregone, Illustrazioni di Saverio Romito, MARIO ADDA EDITORE, BARI, 2014 

  
Un libro per bambini.

Un libro singolare.

Un libro che è un albo riccamente illustrato con immagini estremamente significative per i bambini.

Racconti scritti in versi.

Sospesi tra prosa e poesia.

Poesia per i bambini, facile, comprensibile, facilmente memorizzabile.

Si fa amare.

Ma anche ricordare.

E non solo.

Ci sono anche le schede.

Le schede in appendice, che sostituiscono le note a piè di pagina.

Ma soprattutto aiutano a comprendere i significati dei racconti, senza tuttavia risultare didascaliche.

Né noiose né penose.

Ma amabili, piacevoli, amorose.

A tutti i bimbi, ai bimbi di tute le età, io lo consiglio.

 

RECENSIONE DI UMBERTO TENUTA

P. Paterlini, Lasciate in pace Marcello

Per l’idea di un amore

di Antonio Stanca

paterliniA Maggio del 2015 è comparsa presso Einaudi (Torino), nella serie ET Scrittori, la nuova edizione di Lasciate in pace Marcello, breve romanzo pubblicato la prima volta nel 1997 da Piergiorgio Paterlini, giornalista e scrittore italiano, nato a Castelnovo di Sotto, Reggio Emilia, nel 1954 e divenuto, a sessantuno anni, un autore impegnato in molte direzioni. Ha cominciato come giornalista, nel 1975 con “Il manifesto”, nel 1988, insieme a Michele Serra e Andrea Aloi, ha fondato il giornale satirico “Cuore”, in seguito ha collaborato con altre riviste e altri giornali ma poi ha ridotto la sua attività giornalistica, l’ha limitata ai soli “la Repubblica” e “l’Espresso” per potersi maggiormente dedicare alla scrittura narrativa e alla produzione di programmi per la radio, la televisione, di testi per il teatro, di sceneggiature per il cinema.

Molto ha fatto Paterlini, in molti sensi si è impegnato e s’impegna. L’attualità, i suoi problemi sono i temi che attirano la sua attenzione, l’individuo, la società, quelli che in particolare lo muovono ad operare. Anche il Paterlini scrittore è interessato all’attualità, a quanto essa ha comportato per la società e in particolare per le famiglie e per i giovani. Il suo romanzo Ragazzi che amano ragazzi, pubblicato nel 1991, ampliato nel 1998 e nuovamente edito nel 2005, dice dell’infanzia e dell’adolescenza di ragazzi omosessuali, di un problema, cioè, che, nonostante i progressi oggi compiuti in ogni ambito, è rimasto ancora difficile da risolvere per le implicazioni che comporta riguardo alla famiglia, alla scuola, alla società. L’opera ebbe molto successo e diventò quella distintiva dello scrittore. Anche poesie, saggi e un’autobiografia insieme a Gianni Vattimo ha scritto Paterlini ma quello della condizione familiare, coniugale e della conseguente condizione giovanile in un contesto come l’attuale rimane il motivo sul quale ritorna la sua narrativa, il motivo che ha fatto di Paterlini uno scrittore.

Ora, con Lasciate in pace Marcello, che ha avuto una traduzione all’estero, Olanda, che è stato censurato in una regione italiana, Veneto, lo scrittore ha inteso dire in breve dell’esperienza di un sedicenne, Marcello, che s’innamora perdutamente della madre di un suo compagno di scuola, che raggiunge la felicità massima quando da questa si vede corrisposto e soprattutto quando ha con lei un rapporto d’amore. Dopo tanta gioia, però, si rende conto che si tratta di un amore che non può avere seguito e dal momento che è convinto di non poter amare nessun’altra donna decide di scomparire, di sottrarsi a tutti e rinchiudersi in un convento lontano dalla casa sua, di lei e di tutti. Qui, tra i frati, c’è un altro rifugiato, Federico, un professore universitario al quale Marcello narrerà la sua storia senza però ottenere che Federico gli dica di sé, di quanto è successo nella sua vita. Federico morirà quando Marcello avrà venticinque anni e dopo nove anni che è stato in convento. Continuerà a stare, vi rimarrà per sempre, una conquista si convincerà di aver compiuto tramite quella scelta perché della conquista gli sembrerà che abbia tutte le caratteristiche e in particolare quella di essere stata fatta con decisione e continuata con fermezza.

Con Marcello Paterlini ha indagato nella vita di un altro dei suoi giovani, di un ragazzo ha narrato la sua particolare esperienza, il suo bisogno di conservare puro, intatto quell’amore che gli era stato concesso, di vivere della sua idea lontano da tutti. Un esempio di rinuncia della realtà in nome dell’idea offre Paterlini con questa breve narrazione, un tipo di ragazzo che oggi non si crede possibile mostra e non rimane che apprezzare il suo lavoro per il valore di documento che contiene e per la chiarezza del linguaggio che lo esprime.

Dio è morto tradito un’altra volta

Dio è morto tradito un’altra volta

di Vincenzo Andraous

 

Parigi siamo noi, ogni morto e ferito siamo noi, ogni piazza e periferia devastata siamo noi, sopra e sotto l’inferno siamo noi, di lato e al centro di ogni eventuale paradiso siamo noi.
Prepariamoci a un dispendio inusitato di strategie ad alta tensione e retoriche a bassa violenza contrapposta, buonisti e giustizialisti faranno stelle filanti, ci saranno saggi e sapienti che non sono a dirci cosa è accaduto, cosa è meglio fare, cosa accadrà oggi che è già domani.
Il sangue della vergogna come ha detto un mio carissimo amico, si tratta davvero di sangue della vergogna, sangue degli innocenti, sparso all’intorno dalle bugie, delle costruzioni sottobanco, delle menzogne vendute a caro prezzo, sangue che sgorga dagli innocenti trucidati a sangue freddo.

In ogni dove a da ogni parte.

No, non è guerra, non è conflitto, non è mondialità che s’arrocca alla tutela dei principi universali, è ciò che la fede concima quando diventa politica nella volontà di conquista, è sterco di infamia quando il debole serve a fare grande un Dio che non c’è più, perchè spazzato via dalle vendette, ritorsioni, reazioni, nelle carni smembrate di donne, vecchi e bambini, di giovani improvvisamente annientati da ogni diritto e dovere di una possibile speranza.
Parigi siamo noi, forse occorre ritrovare DIGNITA’, consegnare DIGNITA’, fare debita manutenzione alla DIGNITA’ di ognuno e di ciascuno, forse è giunto il momento di smetterla con i veti incrociati, con gli interessi di parte, con le parole valigia in cui fare stare dentro tutto e il contrario di tutto, con i voli pindarici delle guerre sante e delle guerre svolte per fare notizia.

Forse quel sangue innocente una volta per tutte ha dichiarato guerra vera all’ingiustizia, ingiustizia, ingiustizia.

Piano delle attività del Personale ATA

Piano delle attività del Personale ATA

di Gerardo Marchitelli

 

Non è facile avere consapevolezza giuridica del “tutto”, quel tutto da tradurre in atti e disposizioni, spesso in una manciata di secondi, spiccioli di tempo in cui si regola l’intera organizzazione scuola. Di frequente, fermi propositi di approfondimenti, sfumano magicamente nel cammino quotidiano, in quel vortice senza soste delle decisioni che ci catapultano, ancora una volta, lontano, in altre innumerevoli problematiche. E’ un perdersi di continuo, senza soste.

Il territorio sfasciato

IL TERRITORIO SFASCIATO 
di Gian Carlo Sacchi

Una notevole quantità di provvedimenti andrà presto ad influire sulla programmazione del servizio scolastico e dintorni. In parte sono l’epilogo dell’eredità lasciata dalle varie riforme degli enti locali e della pubblica amministrazione messe in atto nell’ultimo decennio del secolo scorso ed in parte riguardano la recente revisione del titolo quinto della Costituzione in vista dell’abolizione delle province e anticipata dalle unioni/fusioni dei Comuni e dalla riorganizzazione dei poteri statali di cui si parla nella legge sulla “buona scuola”.

Gli amministratori in questa prima fase sono più preoccupati di altri servizi: anagrafe, demanio, polizia locale, ecc., meno di tutto ciò che ruota attorno al più generale sistema educativo; nel frattempo lo Stato sta riprendendo in mano non solo quanto nell’ultimo ventennio stava andando verso il decentramento, ma anche ciò che è oggi appannaggio dei Comuni, ai quali potrebbero essere poi conferite le competenze delle Province, oppure quelle che erano soggette esclusivamente alla legislazione regionale. Dentro a questo insieme di scatole cinesi ci dovrebbe essere l’autonomia delle scuole, le quali, come abbiamo più volte sottolineato in questa rubrica, non è una scatola alla pari delle altre nella rete territoriale (statuto delle scuole autonome e loro rappresentanza nei diversi livelli politico-territoriali), ma è dentro a quella più grossa dello Stato (rete tra scuole) che ne delimita il perimetro e ne condiziona i principali strumenti di funzionamento.

La nuova Costituzione mantiene allo Stato l’ordinamento scolastico, si sta statalizzando il segmento 0-6 e si pensa di costituire un’agenzia nazionale con annessa sperimentazione su istruzione e formazione professionale. Alle Regioni un ritorno al DPR 616/1977 per organizzare il servizio scolastico.

Dalle predette unioni/fusioni dei Comuni si dovranno disegnare nuove istituzioni scolastiche, che alcune regioni intenderebbero farle coincidere con i servizi socio-sanitari. In sede di prima applicazione dei provvedimenti sull’autonomia era demandato infatti alle stesse di individuare “gli ambiti territoriali ottimali” e ad una concertazione tra autonomie scolastiche ed enti locali eventuali modifiche successive. Tale impostazione però non fu mai del tutto seguita, perché fu lo Stato ad attribuire l’autonomia sulla base di parametri quantitativi, e così si rimase in balia di un sostanziale conflitto tra le Regioni che deliberavano sulla rete (modificando magari le stesse determinazioni di comuni e province) e il ministero che doveva attribuire il personale; oggi sono gli UUSSRR a definire anche gli “ambiti territoriali” nei quali i dirigenti scolastici andranno a scegliere l’organico e si costituiranno le reti tra le scuole.

Sempre da parte del ministero dell’istruzione sono state emanate linee guida per l’insediamento o il mantenimento di scuole nelle zone di montagna o disagiate del territorio (aree interne).

In conclusione, da una parte c’è di nuovo il sicuro potere del ministero che brandendo l’arma del personale interviene sia nella fornitura dell’organico degli istituti mediante l’approvazione dei piani triennali dell’offerta formativa, sia nella ripartizione dello stesso per ambiti territoriali. Questa situazione pur emancipando la capacità delle scuole stesse di gestire in modo più flessibile le risorse umane, le lascia comunque confinate in un quadro dato. Dall’altra parte c’è la assai più fragile azione degli enti territoriali ai quali manca ancora un quadro generale di programmazione, ma non se ne vede nemmeno l’impegno per una sua rapida elaborazione.

Come si è detto questi temi non sembrano prioritari e sono poco presenti nel pur vivace dibattito in atto sul riordino degli enti locali. Autonomie scolastiche e nuovi agglomerati comunali, senza le province, devono misurarsi con parametri numerici, magari da spending review, che lo Stato potrebbe far crescere: è un po’sibillina l’affermazione contenuta nella legge 107 circa il futuro ridimensionamento del numero delle dirigenze, con esigenze dei territori e nel rapporto tra servizi sociali.

Ricostruire una governance territoriale non sarà ne facile ne breve; a livello intercomunale si può lavorare sul primo ciclo: sarebbe già una conquista se si riuscisse a generalizzare il modello degli istituti comprensivi, anche in vista di una più organica riproposta del predetto percorso 0-6.

Per quanto riguarda il secondo ciclo le attuali province sui generis rischiano di chiudere le scuole per mancanza di riscaldamento, ma non mollano, mentre potrebbe essere proprio questo periodo di transizione il più opportuno per una nuova organizzazione anche qui dei nuovi comuni.

Sul versante dell’istruzione e formazione professionale infine solo alcune regioni hanno cercato di adeguare il proprio impianto legislativo, spingendolo però verso le esigenze del lavoro, mentre il governo nazionale ha già inquadrato tutta la materia riportandola sempre di più sotto l’egida statale: agenzie nazionali per il lavoro e la formazione professionale, apprendistato, linee guida sull’alternanza, laboratori territoriali per l’occupazione.

L’evolversi dei processi normativi da l’idea di un territorio sfasciato e disorientato, incapace di riprendersi una leadership di governo a partire dai peraltro tanti movimenti locali che esprimono esigenza di partecipazione civica. Non si riesce e per certi versi non si vuole ricostruire a partire dal basso, unica modalità che potrebbe far riavvicinare i tanti delusi alle istituzioni.

Le articolazioni della Repubblica rischiano di essere decorative se tutto viene manovrato dal centro ed il recente aspro conflitto tra governo e regioni, oltre ad alcune questioni di merito, fa capire il tentativo in prospettiva di ridurle, come si è detto altre volte, ad uno strumento di gestione amministrativa di area vasta. Nel nostro settore esse sono perlopiù un contenitore nel quale continua a governare indisturbato, anche dalla riforma della pubblica amministrazione, l’ufficio scolastico regionale.

La chiamata diretta degli insegnanti

La chiamata diretta degli insegnanti
Questione pericolosa e fuorviante

di Domenico Sarracino

 

Questa riflessione vuole focalizzare l’attenzione sulla legge 107/2015- la “buona scuola”- per discuterne la rispondenza alle necessità delle scuole italiane e ai cambiamenti che occorrono. Metterei da parte, per il momento, il fatto che essa, come un iceberg, ha una parte emersa, messa nero su bianco, e una gran parte sommersa, , al momento oscura ai più, costituita da importanti rinvii e deleghe che, riferendosi a cruciali, nuovi provvedimenti da venire, costituiscono pesanti punti interrogativi da cui dipenderà ulteriormente il senso dell’intera riforma.

Comunque nella parte di legge emersa ci sono già scelte e decisioni dirompenti e poco ponderate che, per le situazioni a cui possono condurre, non sono di poca importanza. E anche quegli elementi-intenzioni che in sé non si possono che considerare come attesi ed auspicati ( le nuove assunzioni, la riduzione del numero di alunni per classe, l’organico potenziato, etc..) vanno effettivamente valutati solo al momento in cui saranno definiti e tradotti in numeri, indicazioni operative, scelte organizzative. Chi ha operato nel concreto delle situazioni scolastiche sa bene quanto anche le migliori intenzioni debbano sempre fare i conti con la coda del diavolo. E mi pare che le richieste di chiarimenti e i rinvii, i ritardi, i tentennamenti, gli effetti imprevisti– cui già stiamo assistendo – lo dimostrino eloquentemente.

Ma detto questo, tornando all’impianto complessivo della legge, a chi scrive appare evidente quanto esso sia lontano ed “altro” rispetto alle necessità di ripartenza, rimotivazione e rilancio delle scuole italiane, e quanto stia dentro ad un sistema di pensiero che, forzando i bisogni, le realtà e le esigenze più vere delle scuole, tende a piegarle a logiche “mercatiste”, concorrenziali e, in sostanza, ad una sorta di darwinismo sociale. E questo ancoraggio porta con sé alla perdita di vista dello stato reale delle cose e di ciò che veramente occorre. Con il rischio – che io vedo concreto – che la forbice delle disuguaglianze e delle opportunità, possa allargarsi invece che restringersi, come sarebbe oltremodo necessario, anche per la tenuta dell’intero sistema-Paese.

Mi spiego. A me appare chiaro che la chiamata diretta dei docenti, attraverso gli albi territoriali, non risolva granchè rispetto alla necessità di migliorare la complessiva azione formativa ed educativa delle scuole. Con gli ambiti territoriali la platea degli insegnanti resta quella che è, e così pure la loro qualità complessiva: questi (gli insegnanti) possono, potrebbero essere distribuiti diversamente nelle scuole, ma il numero dei “bravi”, dei non bravi e di quelli mediamente bravi resta immutato. Insomma, se da qualche parte – mettiamo- si migliora, da qualche altra parte si peggiora.

Penso, poi, al momento concreto delle scelte, al “mercato” degli insegnanti che si svilupperà….

E,qui, – lasciando stare le tante preoccupazioni sui mille fenomeni esterni ed estranei che pure è fondato poter supporre conoscendo alcuni antichi mali del nostro Paese, soprattutto quando i riflettori si saranno spenti e tutto diventerà necessariamente routine – mi domando come si possa “scegliere” con una certa obiettività e fondatezza. Certo qualche insegnante si può conoscere direttamente, forse anche alcuni, ma i tanti che non si conoscono? Ci si affida ai curricola, ai portfolio, al sentito dire, a chi sa “vendersi2 meglio, alla “disinteressata” segnalazione?

C’è poi un’altra considerazione che più mi sta a cuore. Si dice: così il ds può scegliere i docenti che sono più utili al proprio progetto d’istituto, al proprio Ptof, alle proprie scelte educative…Ma. lasciatemelo dire, qui c’è un’enfasi eccessiva, che non trova riscontro nella realtà, che non rispecchia la realtà delle scuole (e che se la rispecchiasse sarebbe da contrastare decisamente).

Ora, è vero che dalla stagione dell’Autonomia scolastica e dei Pof le scuole hanno potuto sviluppare situazioni differenti per modelli organizzativi, risorse, condizioni strutturali e specificità di proposte educative, ma non esageriamo. Non esageriamo, intanto perché è necessario ribadire che tutte le scuole del medesimo ordine e grado mantengano una buona e diffusa base comune, dovendo rispondere alle Indicazioni Nazionali che fissano obiettivi e traguardi indispensabili per ogni angolo del Paese; e poi perché chi conosce un po’ le scuole sa che le differenze reali che ci sono – cosa diversa è per alcune tipologie di scuole secondarie di secondo grado – sono relative ad aspetti che riguardano modalità didattiche, diverse sensibilità educative e condizioni territoriali (alunni stranieri, campi rom, rischi di dispersione, micro-criminalità) che potrebbero rendere pienamente giustificabile il ricorso a docenti con particolari esperienze. Ma, che questo possa avvenire con il sistema liberista che si propone, nutro qualche forte dubbio: dubito cioè che queste giuste esigenze possano essere risolte con la chiamata diretta, in una situazione di concorrenza e di corsa a chi fa prima. Perché, purtroppo, le scuole più disagiate sono spesso anche quelle più precarie ( per discontinuità dei Ds, dei docenti, per il funzionamento degli uffici,per opportunità, per mezzi, per il sovente inadeguato sostegno delle famiglie, per le debolezze o distrazione degli enti locali, etc, ). E per queste scuole ciò che proprio non occorre è il laissez-faire e la “spontaneità” del mercato che tutto aggiusta e tutto corregge miracolisticamente.

Rafforzato il diritto alle supplenze brevi (Nota 2966/15)

Rafforzato il diritto alle supplenze brevi (Nota 2966/15)

Il MIUR con Nota prot. n° 2966/15 ha stabilito che dal 1/9/2015 le supplenze brevi non dovranno più essere pagate dalle singole scuole, e gravare quindi sul fondo di istituto, ma verranno pagate direttamente dal Ministero dell’Economia e delle Finanze previa trasmissione della documentazione da parte del MIUR.

 


OSSERVAZIONI

 

Questa novità, che può apparire solo contabile, comporta notevoli conseguenze positive e di ciò va dato atto alla CGIL che si è battuta per questo cambiamento. Infatti prima di tale modifica molti dirigenti scolastici, a causa delle croniche insufficienze del fondo di istituto si rifiutavano di nominare supplenti per brevi periodi di tempo. Da ora in poi ciò non avverrà più, anzi per gli alunni con disabilità si avrà un rafforzamento del diritto alla supplenza.

Infatti sino ad oggi molti dirigenti scolastici, in caso di assenze di docenti curricolari, precettavano i docenti per il sostegno per fare supplenze o in altre classi, abbandonando l’alunno con disabilità nella propria, o nella stessa classe di titolarità, violando così il diritto dell’alunno alla compresenza del docente curricolare e quello per il sostegno.

Infine è da tener presente che la recente l. n° 107/15 con l’introduzione dell’organico potenziato, col quale ogni scuola avrà un’aggiunta all’organico tradizionale da un minimo di 3 ad un massimo di 8 docenti in più, ha creato le condizioni per le quali in caso di assenze improvvise o brevi di docenti, questi saranno certamente suppliti dai docenti dell’organico potenziato.

Salvatore Nocera

Il mito seduttivo della carriera docente

IL MITO SEDUTTIVO DELLA CARRIERA DOCENTE 

di Alessandro Basso 

Lo storico percorso di reclutamento che la buona scuola ha accompagnato all’interno del sistema scolastico, ha trascinato con sè un fenomeno particolarmente strano di richiamo di interesse nei confronti della professione docente da parte di persone che avevano scelto nel corso della propria vita di fare tutt’altro.

Non è novità, anzi, è storia che l’accesso al pubblico impiego e alla scuola sia stato legato negli anni passati a una esigenza di reclutamento che a volte ha avuto il sapore di ammortizzatore sociale.

A fianco di persone con una vocazione nei confronti dell’insegnamento particolarmente spiccata, vi sono sacche di insegnanti che sono assurti a tale rango o perché avevano una laurea o perché, peggio ancora, qualcuno li ha chiamati da una graduatoria nella quale ci si inseriva d’ufficio.

Sorge l’interrogativo se esista una vera e propria “vocazione” nei confronti dell’insegnamento e se questa sia necessaria o perlomeno sufficiente per poter esercitare bene la complessa sfida della didattica e dell’educazione.

Volendo riferirsi ad una vocazione di natura innata o addirittura trascendentale, non si spiegherebbero gli sforzi e le attenzioni che abbiamo coltivato nel corso degli ultimi decenni per codificare la professione docente all’interno delle scienze non esatte e per fornire dei parametri sempre più scientifici e meno spontaneistici alla base dei processi di insegnamento- apprendimento.

Per molti l’ insegnamento non ha nulla di scientifico. Invece, è proprio il contrario, perché è un mestiere che si poggia su solide competenze di natura epistemologica che la formazione universitaria accompagna attraverso l’implementazione di altre competenze in campo socio-psico pedagogico- giuridico- relazionale.

Risulta particolarmente evidente che per essere docenti un minimo di approccio vocazionale sia necessario, accompagnato da un congruo “piacere” nello stare a contatto con le nuove generazioni, con una buona dose di pazienza ed empatia. Requisiti necessari, ma non esclusivi.

Ci sono docenti dalla preparazione universitaria spiccatissima con master, corsi di perfezionamento, specializzazioni (anche lasciando da parte il fatto che questi titoli siano stati acquisiti per migliorare la posizione nelle speriamo moribonde graduatorie) che garantiscono alla scuola un certo valore aggiunto che però non si traduce immediatamente in una chiara capacità ad entrare in contatto con gli alunni. Quest’ultimi, a volte, beneficiano maggiormente di insegnanti molto più “semplici” ma che si dimostrano competenti nella relazione e nell’empatia con i propri discenti, a qualsiasi livello di istruzione, costruendo un positivo dialogo educativo prosociale che sta alla base di qualsiasi apprendimento.

 

Durante i primi giorni di settembre si è verificato un fenomeno nuovo per la scuola ovvero l’ingresso nei ranghi di docenti in graduatoria da molti anni, privi di qualsiasi esperienza di insegnamento ( requisito non fondamentale, è bene dirlo) che hanno sentito il richiamo della sirena di un’opportunità da non perdere. Ho sentito frasi del tipo “da bambino volevo insegnare”, o “ricordo ancora la prof. di lettere e volevo provare questa esperienza”o ancora “non volevo lasciare la laurea nel cassetto per tutta la vita.

Risultato dell’esperimento? Non pienamente riuscito, ne sono la riprova i tentativi di fuga in corso d’anno e i pentimenti fuori tempo utile.

Questa esperienza dovrebbe servire al legislatore, al governo in carica o a quelli futuri per accelerare il processo di elaborazione di un codice deontologico del docente, che si accompagni alla disanima della figura del “buon docente” sia dal punto di vista professionale sia, come detto in altre occasioni, quale atto prodromico alla valutazione della qualità della docenza nonchè base di senso e significato per il rinnovo del contratto di lavoro.

Servirà, probabilmente, all’apertura di una nuova fase concorsuale, un’attenta ricognizione della tipologia delle prove, favorendo percorsi attitudinali e pratici piuttosto che l’esplicitazione di conoscenze teoriche, seppur necessarie e fondamentali.

 

Questo a beneficio delle generazioni presenti e future e soprattutto in ossequio ai principi di legalità espressi financo dalla Costituzione, per fare in modo che non siano i giudici, come sta accadendo di fatto, a scegliere chi starà in classe con i notri studenti.

 

 

Su valutazione e comitati vari

Su valutazione e comitati vari
Ricordando Giorgio Israel

di Gabriele Boselli

 

Un mese fa è morto Giorgio Israel, una delle poche menti capaci di cantare fuori dal coro, senza stonare, ovvero in sintonia con i millenni della tradizione scolastica, in particolare ebraica, ma ancor di più con le indicazioni della più avanzata epistemologia. Cantò fuori dal coro dei docimologi integralisti, la setta scelta dal Potere per ridurre in soggezione i docenti e i dirigenti scolastici e costringerli a rendergli conto del proprio operato, reso così non più magistrale (non più magis-stratus). Le sue tesi essenziali erano d’impronta fenomenologica: critica dell’oggettivismo, avversione ai test come prova del valore delle persone e delle istituzioni scolastiche, no alla burocratizzazione del valutare, fiducia nell’intersoggettività e nell’autonomia dinamica e plurale dei percorsi valutativi entro una comunità qualificata di operatori scolastici.

Ricordarlo –senza pretesa di esserne gli interpreti autentici- è trarne motivi per opporsi all’andazzo attuale e pensare a un valutare scientificamente fondato ed eticamente condivisibile.

 

Finalità esplicite e indichiarate

Sono fiducioso che la maggior parte dei membri dei vari comitati di valutazione (valutazione docenti, v. dirigenti) lavoreranno nell’interesse della scuola reale, sapranno comunque riconoscere la qualità del lavoro, incoraggiare i capaci, orientare secondo scienza e coscienza le dinamiche culturali e pedagogiche delle scuole. Questo anche se compito del dirigente scolastico, dei missi dominici (membri esterni dei comitati e ispettori, questi ultimi da tempo degradati a meri “dirigenti tecnici” anche se non dirigono alcunchè e non sono dei tecnici ma quasi sempre degli autorevoli studiosi) sarebbe quello di convincere docenti e gli ancor numerosi dirigenti/Maestri sulla giustezza delle sentenze comunque emesse. Valutazione è affare importante in alto loco perché costituisce la prefigurazione induttiva a ciò che si farà se si vuole ben figurare.

La scuola è importante per chi comanda, sia che si voglia uno sviluppo della democrazia che delle forme neo-autoritarie di governo: influisce sui flussi ideali, forma il pensiero critico. Valutare non dev’essere allora indomito processo di conoscenza secondo idee di valore, né attività costante di ricerca per comprendere le situazioni e introdurre cambiamenti; né attività volta alla valorizzazione di tutti, ad incrementare le consapevolezze. Nell’ottica del Potere valutare significa controllare e premiare/punire. Attività da sempre desiderate dai fortunatamente rari Dirigenti-supermanager in quanto aumenta il loro potere. Non si accorgono questi che la servilizzazione dei docenti asservirebbe anche loro.

 

Gli insegnanti/Maestri. Come riconoscerli

Valutare i docenti dovrebbe comportare una definizione di che significhi valutare e chi sia/debba essere chi insegna. Inizio con quest’ultimo tentativo di definizione

Chi sono i docenti o dirigenti davvero Maestri? Potenziali beneficiari (o vittime) dei Comitati di valutazione potrebbero essere le persone di cultura che amano studiare e che per vivere hanno scelto questo lavoro. I Maestri sono persone che hanno una solida cultura generale, si sono formati su una disciplina, ne sono divenuti corpus e aiutano a conoscerla; sono persone che tentano di prender responsabilmente parte alla storia e all’epoca, aperte all’altro e al non-ancora. L’ascolto del novum del mondo, dell’altro e di sé è fondazionale per capire e per trovare modalità adeguate e gradevoli di lavoro didattico; altrettanto è l’aver qualcosa da dire al mondo.

-I Maestri hanno capacità di critica e detengono autonomia intellettuale, morale ed estetica (Kant). Sono costruttivi e creativi di pensiero.

-Ogni Maestro è Soggetto culturale e pedagogico a pieno titolo, coautore e operatore della “cura” (in senso non clinico) che i vari elementi della costellazione scolastica prestano agli alunni. Il buon Maestro sa essere autore di un invito rivolto a ciascuno a trovare una via personale (non oggettivisticamente serializzabile) alla conoscenza.

-Porta in dono agli alunni una disciplina rigorosamente e filologicamente studiata e fedelmente ricostruita quanto personalmente frequentata, ripensata, interpretata, reinventata.

 

Ogni buon Maestro è essenzialmente uno studioso che ama i libri e ha cura delle persone, infatti

-Insegnare è espressione dell’ “esser-presso” (presso i libri, i laboratori, i colleghi, gli allievi) e prevede per il docente innanzitutto l’accogliersi, l’approvarsi, il riconoscersi come soggetto, come co-autore di un campo di eventi intenzionalizzato (le discipline come officine di senso), di storie essenzialmente improgrammabili

-L’insegnante sa instaurare con l’altro una relazione costitutiva dell’esistenza e della conoscenza, articolata in un tessuto intellettualmente complesso e pedagogicamente orientato. Invita i ragazzi a estendere ma anche a focalizzare disciplinarmente il loro orizzonte degli eventi di cultura, ad articolare in forma più evoluta il loro mondo vitale.

-L’insegnante è protagonista di un cammino continuo, sia sul piano umano che culturale, anche per essere meglio in grado di leggere la diversità e la sofferenza attraverso i segnali che queste mandano. Cerca dunque di capire l’altro con le sue “persecuzioni” e fragilità. Il suo percorso é in gran parte frutto di autocoscienza, ma anche di impegno, dialogo, dialettica (Gentile); cerca di portare all’intelligenza delle destinazioni. Agli alunni e alla società reale servirebbe dunque un lavoratore della conoscenza che, oltre ad aver motivazioni per il lavoro in collaborazione, abbia davvero qualcosa da dire e da dare.

Se chi insegna è o dovrebbe essere quanto sopra, il compito del valutare i docenti e i dirigenti non-manager è davvero arduo e richiede dei Maestri.

 

Il valutare desiderabile e –magari fra qualche decennio- forse possibile

Credo –e Israel credeva, oltre un certo pessimismo di superficie- in un valutare migliore, per quanto lontano, rispetto a quello che oggi si profila. Penso occorra lavorare con rinnovata lena nella costruzione secondo il metodo fenomenologico di una teoria e una prassi della valutazione generativa di pratiche rigorose; su questa poi si farà perno per sistemi di rappresentazione al pubblico che rendano giustizia al grande valore della nostra scuola e dei nostri insegnanti.

E’ allora necessario aprirsi al vedere intersoggettivamente, nell’onesto concorso delle singolarità individuali o di categoria. La tradizione del movimento fenomenologico suggerisce una scienza del valutare che cerca-insieme-a. Il valore che attribuiamo non è mai intrinseco al valutato ma è effetto dell’incontro di quest’ultimo con il suo valutatore entro l’universo valoriale di un determinato ambiente.

La tesi é che sia necessaria, nella valutazione del lavoro svolto nelle scuole, una deontologia ordinata a idee di valore, dunque moralmente ed eticamente avvertita e riferita alla qualità della relazione umana, scientifica e culturale che il personale scolastico sa intrattenere.

Alcuni elementi del valutare sono oggettivamente riscontrabili ma non sono i più importanti. Dev’esser comunque operazione altamente dinamica, nel senso che l’oggetto in sé muta di continuo, oppone alla stabilità degli strumenti ricognitivi la fluidità del suo offrirsi in forme sempre nuove; non è coglibile per ciò che è ma per il suo essere-nel-campo, in un contesto in cui il gioco dei valori è innestato nell’insieme vivente degli attori e dei valutatori.

In ogni campo, i risultati sono spesso (a volte in gran parte) il prodotto dei presupposti metodologici e dei modelli quanti/qualitativi espliciti e impliciti. Le impostazioni della ricerca determinano fortemente gli esiti.

Nella scuola questo significa anche far assumere ai valutati un ruolo attivo nel disegno dei processi e nei metodi di valutazione. Questo è intersoggettività. E l’intersoggettività –come auspicava Israel- esclude approcci oggettivistici come di soggettivismo chiuso.

 

Come non far danni e, ove possibile, essere d’aiuto

Maestri pur di differente indirizzo filosofico e politico -da Piero Bertolini a Silvio Bertoldi a Giorgio Israel a Giuseppe Bertagna- hanno fiducia nel futuro, per quanto non a breve. Piace forse loro –da questo mondo o da quell’altro- pensare che la valutazione degli insegnanti e delle scuole possa essere atto:

-non mortificante, non amministrativo del dato secondo regole consolidate e standardizzate in cui il pur omaggiato oggetto di fatto scompare; sarà una ricerca pensante il vivente, l’esistente concreto;

-non tenderà ad affermare che quel che si vede è ed è assolutamente reale e tutto finisce nel constatare;

-avrà come meta la valutazione dell’esperienza (di ciò per cui si è passati attraverso, non la massa di conferma dei giudizi/pregiudizi );

-sarà una valutazione narrativa, consapevole della propria storicità, concreta;

-si sforzerà di essere pratica, “utile” agli attori del servizio scolastico, in particolare agli alunni;

-non avrà come suo scopo principale lo stilar classifiche, l’archiviare e amministrare discriminando persone e scuole tramite corresponsione di premi e non-premi (ovvero castighi), ma conoscere una regione del mondo della vita e aiutare chi vi si avventura.

 

Bibliografia

Giorgio Israel non ha scritto volumi sul tema della valutazione, ma il suo pensiero lo ha espresso in innumerevoli sedi sulla stampa e su internet, dove è ancora ampiamente consultabile.

Sul tema possono essere utili i seguenti testi

  1. Bertolini ( a cura di) La valutazione possibile, La nuova Italia, Scandicci, 1999
  2. Bertagna, Dall’educazione alla pedagogia. Avvio al lessico pedagogico e alla teoria dell’educazione, La Scuola, Brescia 2010
  3. Boselli Per una valutazione delle scuole e di chi vi lavora, n. 30, annata 2011 di Encyclopaideia (Bononia University Press, Bologna)
  4. Pinto Valutare e punire, Cronopio, 2014