Archivi categoria: Bacheca

Una governance inadeguata

Una governance inadeguata e l’implosione della scuola italiana nella quarta rivoluzione industriale

di Pietro Boccia

La scuola italiana sta implodendo principalmente per l’inadeguatezza della governance, come procedura funzionale alla crescita di un’istituzione, e della leadership, come strategia per il perseguimento di obiettivi condivisi, ad ogni livello. In Italia, anche la lingua è messa ai margini con le stupidaggini dei made in Italy, degli open day e così via. La lingua inglese, imposta dalla democrazia totalitaria degli Stati Uniti per un controllo sui Paesi europei, dovrebbe, pure in Italia, essere impiegata soltanto per comunicare con quelli che non conoscono quella italiana. Non è pensabile che la lingua italiana, la quarta maggiormente adottata a livello mondiale, in Italia, venga, invece, trascurata. Perciò, nella scuola italiana serve una rivoluzionaria e coraggiosa riforma, come è avvenuto nel 1959 negli Stati Uniti con la Conferenza di Woods Hole, coordinata da Jerome Bruner. Già negli anni Novanta del Novecento la scuola italiana incomincia ad implodere. Con il comma 16 dell’art.21 della Legge n. 59/1997 e il relativo D.lgs. n. 59/1998, l’istituzione scolastica italiana viene immersa nel processo di aziendalizzazione neoliberista, producendo un forte appiattimento e, in generale, l’ilotizzazione del personale. La quarta rivoluzione industriale e la società complessa esigono, invece, l’effettiva autonomia non solo didattica e organizzativa ma anche di ricerca, sperimentazione e sviluppo delle istituzioni scolastiche. Solo in tal modo i livelli essenziali di prestazione potrebbero essere perseguiti e raggiunti. Il pensiero di ogni cittadino, all’interno delle società complesse, deve essere fluido, flessibile e critico per acquisire una cultura all’altezza dei tempi e poter rispondere adeguatamente alle gigantesche sfide odierne. In verità, la quarta rivoluzione industriale si è ormai affermata e la scuola italiana ancora non riesce a diventarne consapevole. 

Chi è destinato alla governance delle istituzioni scolastiche, nella società di oggi, complessa e liquida, deve possedere moltissime competenze (normativa riferita al sistema educativo di istruzione e di formazione e agli ordinamenti degli studi in Italia con particolare attenzione ai processi di riforma in atto; modalità di conduzione delle organizzazioni complesse, con particolare riferimento alla realtà delle istituzioni scolastiche ed educative statali; processi di programmazione, gestione e valutazione delle istituzioni scolastiche, con particolare riferimento alla predisposizione e gestione del Piano triennale dell’offerta formativa, all’elaborazione del Rapporto di autovalutazione e del Piano di miglioramento, nel quadro dell’autonomia delle istituzioni scolastiche e in rapporto alle esigenze formative del territorio; organizzazione degli ambienti di apprendimento, con particolare riferimento all’inclusione scolastica, all’innovazione digitale e ai processi di innovazione nella didattica; organizzazione del lavoro e gestione del personale, con particolare riferimento alla realtà del personale scolastico; valutazione ed autovalutazione del personale, degli apprendimenti e dei sistemi e dei processi scolastici; elementi di diritto civile e amministrativo, con particolare riferimento alle obbligazioni giuridiche e alle responsabilità tipiche del dirigente scolastico, nonché di diritto penale con particolare riferimento ai delitti contro la Pubblica amministrazione e in danno di minorenni; contabilità di Stato, con particolare riferimento alla programmazione e gestione finanziaria presso le istituzioni scolastiche ed educative statali e relative aziende speciali; sistemi educativi dei Paesi dell’Unione europea; elementi essenziali in campo socio-psico-pedagogico). Il possesso di tali competenze sono indispensabili per affrontare le numerose sfide che le istituzioni scolastiche quotidianamente sono costrette a risolvere. Oggi, la società vive la quarta rivoluzione industriale

(digitale o meglio di interconnessione e di convergenza tra la robotica, la genomica, l’intelligenza artificiale e le neuroscienze), e, in essa, si realizza pienamente la centralità non solo dell’aziendalizzazione di ogni istituzione ma anche della soggettiva imprenditorialità, attraverso il diventare ognuno imprenditore di se stesso e perfetto consumatore, destinati a sostituire i lavoratori delle precedenti rivoluzioni industriali. 

La società attuale è caratterizzata soprattutto dai processi di imprevedibilità, di velocità e di impatto immediato su tutte le discipline e su tutte le organizzazioni del lavoro. Gli effetti imprevedibili e immediati sui saperi e sul mercato del lavoro non si riesce, ancora, a comprendere e definire. Quello che è chiaro è che alcune professionalità sono destinate a scomparire. Bisogna, perciò, predisporsi, a sostituirle. La sostituzione di una professionalità con un’altra è stata storicamente normale nelle altre rivoluzioni industriali. Nella prima rivoluzione industriale agli artigiani sono subentrati gli operai; nella seconda e nella terza gli impiegati e i consumatori sostituiscono gradualmente il proletariato. Agli inizi della quarta rivoluzione industriale non solo i Paesi dell’Est, ma anche le aree del Sud del mondo sono entrate in conflitto con quelle del Nord. Tali aree calde si sono, così, dislocate, dopo la caduta del muro di Berlino, altrove. Il superamento dei conflitti armati s’intreccia, dunque, con il problema della pace e della tutela dei diritti individuali e collettivi. Le democrazie totalitarie e il capitalismo finanziario si sa che remano contro, perché sono ben consapevoli che non si può mai costruire, quando ai singoli uomini e ai popoli sono negati tali diritti, un ordine mondiale, basato sulla pace. Soltanto le pochissime teste critiche e pensanti, ancora non arruolate ai totalitarismi, sanno che i diritti individuali e collettivi devono essere riconosciuti e garantiti, attraverso una forte e condivisa istituzione sopranazionale, dal diritto internazionale, anche se ciò, oggi, purtroppo, non è nemmeno più sufficiente, giacché è emersa una nuova forma di conflitto armato, ovverosia il terrorismo. Le azioni terroristiche, imprevedibili e, a volte, immotivate, mettono in discussione non solo ogni possibilità di risolvere in maniera razionale le controversie tra le parti in conflitto, ma anche il processo di globalizzazione. I protagonisti di tali azioni sono, tuttavia, ricondotti al fenomeno della globalizzazione, perché sono identificabili e vivono nei non-luoghi, teorizzati dall’antropologo francese Marc Augé. L’attacco dell’11 settembre 2001 alle Twin Towers, vale a dire contro il simbolo della moderne sofisticazioni tecniche, rappresentate da gigantesche costruzioni, ha, da un lato, segnalato l’esistenza di un nemico senza volto, che è difficile rintracciare e combattere, e, dall’altro, l’impossibilità di reagire, in maniera immediata, per trasformare l’angoscia dell’avvenire in forza positivamente propulsiva, affinché le società acquisiscano la sicurezza indispensabile per progettare e per costruire un futuro di pacifica convivenza.

La globalizzazione sta ridisegnando l’ordine gerarchico del sistema mondiale e, contemporaneamente, sta incidendo profondamente sia sulla vita quotidiana degli uomini sia sulla consapevolezza dei problemi da risolvere, che, essendo universali, devono far acquisire una responsabilità condivisa. Essa è un fenomeno complesso e si presenta, per il momento, solo come processo di integrazione economica; si auspica, però, che si diffonda anche come realtà culturale e sociopolitica. Il primo aspetto è prodotto per l’interdipendenza, a livello mondiale, tra i vari Paesi sia per l’esistenza delle multinazionali sia per l’esigenza di importazione e di esportazione delle materie prime e delle merci. Il secondo potrebbe essere rappresentato dall’integrazione culturale di alcuni popoli nei confronti di altri. Il terzo aspetto (sociopolitico) riguarda la nascita, a livello internazionale, di organizzazioni politiche (l’ONU, OCSE e così via) e sociali (OMS, UNESCO e così via). Il processo di globalizzazione ha, oggi, subito una forte accelerazione. Le spinte di liberalizzazione e di deregolamentazione, prima di tutto nel campo economico, hanno condotto, all’affermazione della concezione del neoliberismo e del capitalismo non solo totalitario, ma anche finanziario; quest’ultimo, dopo quello sperimentale (dal mondo classico al Settecento) e conflittuale (dalla prima rivoluzione industriale alla caduta del muro di Berlino – 1989 -), è riuscito, eliminando, al suo interno la classe della borghesia illuminante e degli intellettuali della “coscienza infelice”, ad affermarsi e a diffondersi fino a diventare, annebbiando tutte le coscienze, una modalità naturale per tutti. In tal modo, i capitali e le merci, circolando liberamente, facilitano e favoriscono la formazione, a livello globale, di un unico mercato. In un simile contesto, le banche e le imprese finanziarie hanno acquisito, emarginando gli scambi culturali e le comunicazioni interpersonali, un ruolo preminente. 

I cambiamenti negli apparati degli scambi economici accentuano, invece, di eliminare, a livello mondiale, sperequazioni e contrasti tra gli uomini all’interno delle società. Circa un terzo di cittadini è, infatti, costretto a vivere in totale povertà. Diventa, quindi, necessario, come molti sostengono, un forte impegno per affrontare e risolvere una tale iniquità. Solo in tal modo, il mercato globale diventerebbe, per l’intera umanità, un’opportunità. Gli Stati devono, per conseguire un tal risultato, sostenere, tramite intese e accordi di collaborazione, il processo di globalizzazione con politiche appropriate. Diversamente si producono conseguenze devastanti, come, ad esempio, l’omologazione mondiale dei mercati, e non si riesce a determinare in modo uniforme la distribuzione delle ricchezze. Il processo di globalizzazione ha, anzi, accentuato il divario tra i Paesi ricchi e le aree povere. Oggi, nel mondo, il 18% della popolazione dispone dell’83% del reddito mondiale, mentre l’82% della restante popolazione deve accontentarsi del 17% del reddito). Per Joseph E. Stiglitz, come ha scritto in La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi editore, Torino 2002, p. 5, “se la globalizzazione non è riuscita a ridurre la povertà, non è riuscita neppure ad assicurare la stabilità”. In un recente censimento della FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) si sostiene addirittura che un miliardo e trecento milioni di persone non disponga, per la propria sopravvivenza, nemmeno di un dollaro al giorno. In tal modo, solo alcuni popoli vivono e partecipano al processo di globalizzazione; altri sono, invece, costretti, proprio perché le loro società non riescono a tenere il passo delle nuove tecnologie e dell’economia mondiale, a vivere ai margini o a essere esclusi dai canali di comunicazione e dai mercati internazionali.

Nel capitalismo finanziario e totalitario, per l’avvento della tecnologia informatica e digitale, tutte le attività economiche utilizzano, per essere efficacemente presenti sul mercato, esperti nella raccolta e nell’elaborazione di informazioni. Si sono, perciò, nelle società attuali, formate élites delle reti informatiche e gerarchie tra chi le rappresenta e quelli che sono costretti a subirle. Si produce, di conseguenza, un nuovo conflitto, perché le prime, vivendo nelle loro fortezze, non hanno alcun interesse per il territorio, e i secondi, pur non avendo, per il momento, alcuna possibilità di modificare la realtà, fanno, tuttavia, pressione per migliorare la loro condizione di vita e per riuscire a entrare nel sistema. Nelle società del capitalismo finanziario e totalitario si è, attraverso il processo di globalizzazione, tanto liberalizzato il capitale quanto asservita la vita della maggior parte delle popolazioni di quelle nuove periferie che si trovano nelle aree marginali. In verità, solo il denaro e il capitale sono diventati soggetti liberi. Se, ad esempio, una multinazionale decidesse, infatti, di trasferirsi dall’Europa o dagli Stati Uniti all’Asia o in altre aree emergenti, moltissimi si troverebbero all’improvviso senza lavoro. Non si può assolutamente pensare, in tal caso, a politiche sociali dell’occupazione, perché, mentre il denaro e il capitale si trasferiscono alla velocità dei nuovi mezzi di comunicazione, gli uomini si spostano lentamente o sono costretti a vivere segregati nei loro territori. 

La spietata concorrenza sul mercato mondiale e l’apertura di nuovi canali di comunicazione nei mercati internazionali stanno producendo la scomparsa dei confini e delle barriere nazionali, perché il digitale e le reti informatiche interconnesse non hanno alcun bisogno di confini territoriali e rappresentano i valori reali della globalizzazione. Le imprese, con la globalizzazione, sono facilmente acquisite da grandi organizzazioni economiche senza patrie e transnazionali, perché hanno un’assoluta libertà di manovra, senza essere, a livello territoriale, vincolate e senza avere appartenenza culturale. Oggi le imprese globalizzate sono i colossi delle reti informatiche (Google, Facebook, Amazon e Microsoft). Esse hanno, come scrive Shoshana Zuboff nel libro Il capitalismo della sorveglianza, il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, tradotto da Paolo Bassotti, Luiss University Press, Roma 2019, p. 105, costruito sistemi per trasformare i comportamenti umani attraverso attività pervasive, messe in atto dal capitalismo totalitario, non sfruttando più soltanto la natura, come è avvenuto con quello dialettico, ma, con i mezzi tecnologici, anche l’essere umano, asservendolo. “Il capitalismo industriale trasformava le materie prime naturali in prodotti; allo stesso modo il capitalismo della sorveglianza si appropria della natura umana per produrre le proprie merci.

La natura umana viene raschiata e lacerata per il mercato”. Il capitalismo finanziario e totalitario, attraverso un’architettura globale, agisce, attraverso informazioni e dati, di cui entra in possesso quando noi con un clic diamo il consenso, sui comportamenti umani, asservendo l’anima per i credenti e la mente per tutti gli altri. Già, nel 1980, Jeremy Rifkin in Entropia, Mondadori, Milano, 1982, p.

150, lamenta che “gran parte dell’energia consumata nelle moderne economie industriali rappresenta il prezzo che paghiamo per la velocità e che la categoria degli economisti non ha ancora compreso che la legge dell’entropia è la coordinata fisica di base della scarsità”.

Il sociologo Zygmunt Bauman riesce a cogliere, con la sua teoria di “società liquida”, il divario tra le imprese finanziarie e la politica, che, nella quarta rivoluzione industriale, permetterebbe alla globalizzazione di trasformarsi in una forza dirompente, a livello mondiale; egli, poi, ammonisce, riflettendo sul fatto che i politici, nella maggior parte dei casi, sono incompetenti. Le nuove generazioni, pertanto, non devono far prevalere l’emozione, perché questa non è utile per costruire ma per demolire qualcosa. Nell società liquida, l’esperienza individuale e le relazioni sociali sono contrassegnate da caratteristiche e da realtà fluide e volatili che si decompongono e ricompongono velocemente e in maniera continua. I giovani devono, perciò, assumere la consapevolezza che bisogna, a ogni livello, organizzare il terreno per costruire un nuovo gruppo dirigente. La paura propagata dall’incertezza umana non può durare a lungo. L’uomo, condotto in una situazione di fragilità del tutto inedita, sentirebbe, infatti, per Bauman, il bisogno di costruire qualcosa di “solido” e “vecchio”, come bussola quanto mai attuale, vale a dire “il socialismo”. In un’intervista al “Corriere della Sera”, Bauman afferma: “C’è più bisogno di socialisti da che è caduto il Muro di Berlino”. Egli continua: “Prima il comunismo è stato – Zygmunt Bauman, intervista di Serena Zoli al Corriere della Sera del 13 ottobre 2002 – con il fiato sul collo del capitalismo producendo un meccanismo di ‘controllo ed equilibrio’ che ha salvato il capitalismo stesso dall’abisso. Ora è indispensabile il socialismo: non lo ritengo un modello alternativo di società, ma un coltello affilato premuto contro le clamorose ingiustizie della società, una voce della coscienza finalizzata a indebolire la presunzione e l’auto-adorazione dei dominanti”. Non bisogna, in ogni modo, perdere di vista il liberalismo, perché – continua l’intervista – “la sicurezza dei mezzi di sussistenza e la libertà sono complementari”; per il sociologo polacco è il socialismo, come sintesi di società libera e giusta, l’apripista per la salvezza dell’umanità. Anzi, Bauman conclude nell’ultima sua opera Società, etica e politica, dichiarando nella stessa intervista “come la fenice, rinasce dal mucchio di ceneri lasciate dai sogni bruciati e dalle speranze carbonizzate degli uomini. E sempre risorgerà. Se è così, spero di morire socialista”. Sono idee importanti, espresse da un sociologo, ritenuto di spessore mondiale.

Nel società del capitalismo finanziario e totalitario, bisogna acquisire consapevolezza che gli ideali della democrazia e del socialismo, essendo fragili e precari (Bauman direbbe “liquidi”), sono di difficile attuazione. È più semplice e meno rischioso, a livello individuale, piegare la testa e diventare servili. Comporta meno rischi e minore responsabilità. Sono, tuttavia, i giovani, che, di norma, condividendo tutto quello che è necessario contestare e rifiutare, devono trovare una sintesi sulle risposte da dare a quello che desiderano realizzare, perché il comune denominatore è, oggi, rappresentato dalla precarietà economica e dall’insicurezza psicologica. Da più parti si afferma che ci sia ormai un legame stretto tra la crisi economica degli ultimi anni e quella sociale che sta imperversando un po’ ovunque. Molti sostengono che occorre passare quanto prima da un’economia del consumo a un’economia di produzione, sanando da un lato il debito sovrano dei Paesi in crisi

(Italia compresa) e, dall’altro, rilanciando lo sviluppo economico. Il divario tra i ricchi e i poveri è destinato ad aumentare se continuano a non essere messi sotto controllo dalla politica i mercati, le tecniche finanziarie e gli investimenti economico-capitalistici. All’avvento della cultura neoliberista, venuta fuori per occultare la visione del maltusianesimo, del darwinismo sociale e dell’eugenetica, anche l’Italia è diventata preda della strategia del capitalismo finanziario e totalitario. I partiti di centro-destra sono, in tal modo, costretti a governare decisioni assunte dalla concentrazione capitalistica-finanziaria di destra, mentre quelli di centro-sinistra a governare e scimmiottare le decisioni che assume la concentrazione capitalistica-finanziaria, che, grottescamente, si definisce di sinistra. La politica deve, pertanto, ritornare alla sua centralità. Oggi i politici, a livello globale, non hanno potere, ma assumono e governano decisioni imposte dai poteri finanziari ed economici. In Italia, tale condizione è ancora maggiormente accentuata. Dagli inizi degli anni Novanta, la politica italiana governa, in maniera eterodiretta, decisioni delle forze capitalistico-finanziarie internazionali. Nell’ultimo decennio del Novecento, se alla guida della politica italiana ci fossero stati politici di spessore e non ragionieri, spacciatosi per economisti, si sarebbe sicuramente aperto un dibattito sul ruolo dell’Italia di poter diventare testa e guida dei popoli del mediterraneo oppure di decidere, com’è avvenuto acriticamente, ad accodarsi nemmeno all’Europa dei cittadini, prefigurata dai democratici e socialisti del secolo scorso, ma dei mercati e della finanza. 

Agli inizi degli anni Novanta è, in Italia, presente un deficit economico del 7%. Il 65% del prodotto interno lordo (PIL) è, tuttavia, gestito in maniera diretta o indiretta dallo Stato, che ha, come welfare state, uno scopo sociale. Intanto si decide di entrare nell’Unione europea e secondo i parametri di Maastricht, occorre, per operare a tal fine, privatizzare e portare il deficit dello Stato al 3%.  La politica di allora ragionieristica e non di spessore, invece di confrontarsi sui parametri, fa due devastanti interventi per l’Italia, vale a dire lo smantellamento delle imprese con le privatizzazioni e la disgregazione sociale con la riduzione del deficit dal 7% al 3%. Per quanto concerne le privatizzazioni non c’era efficienza allocativa. Questa “ha a che fare – ha scritto Roberto Fazioli, Dalla proprietà alle regole, Franco Angeli, Milano, 1995, p. 100 – con la relazione fra prezzi e costi marginali di produzione: essa sarà massima quando i primi ricalcano i secondi, quando le quantità desiderate saranno pari a quelle offerte”. Con l’algoritmo della riduzione del debito di quattro punti (dal 7% al 3%) s’interviene con il 2% di aumento delle tasse (dal 27% sino al 53%), con la percentuale del 1,3% attraverso la diminuzione del costo della lira, attivando lo smembramento del ceto medio e, di conseguenza, permettendo l’arricchimento dei pochi e l’impoverimento di molti; infine, con la percentuale del 1,7% di taglio su ricerca e istruzione, vengono messe a repentaglio la cultura e la creazione, in Italia, di una futura classe dirigente. 

Non ci potranno, senza mettere al centro la palla della politica italiana, mai essere misure e interventi adeguati a far crescere il Paese e dare respiro alle nuove generazioni. Bisogna rompere la spirale e l’intreccio (solo i giovani possono farlo, perché non sono ancora socializzati al conformismo) tra la politica e il potere economico-finanziario del capitalismo totalitario. Dopo aver fatto acquisire alla politica un’adeguata autonomia, bisognerebbe intervenire non solo sulla riforma del mercato del lavoro, ma anche operare opportuni interventi sulle politiche fiscali e previdenziali, che, in qualche modo, dovrebbero avere lo scopo di ridurre le disuguaglianze sociali. Si migliorerebbero, di conseguenza, ridistribuendo adeguatamente la ricchezza, le condizioni di ognuno e di tutti. Bisogna, per riscoprire l’orizzonte e ritrovare il cammino, liberare le energie di ogni singolo soggetto e arginare la cultura politica del neoliberismo. La libertà è un processo, che si attua e si afferma in maniera graduale. Attraverso tale processo, la successione dei fenomeni e degli avvenimenti ha una propria forza storica, perché la libertà è interiorizzata e rivissuta, come risultato proiettivo, prima dall’individuo e, poi, dalla società. Questa perenne attività dell’uomo, nel suo cammino, incontra, per forza di cose, il mondo dell’ambiente sociale, che lo circonda e che diviene una sua parte integrante. É chiaro che gli esseri umani sono diversi gli uni dagli altri; essi vivono la diversità nella misura in cui la coscienza è in grado di allargare o di restringere il campo di svolgimento della libertà. Zygmund Bauman in Modernità liquida, Editori Laterza, Bari, 2002, p. 248, scrive, infatti che “gli individui fragili, condannati a vivere in una realtà porosa, si sentono come chi pattina su uno strato di ghiaccio”. Perciò, nei rapporti con la realtà oggettiva, l’uomo quanto più fortemente vive la sua libertà di azione tanto maggiormente comprende il mondo circostante come ostacolo o come risorsa per la sua stessa realizzazione. Il vincolo, posto all’individuo, è tutto ciò che non attiene alla sua libertà interiore.  L’umanità, per superare la condizione di una tale disumanizzante realtà, deve riappropriarsi del presente e, avvalendosi di un pessimismo solare e di un ottimismo crepuscolare, sottrarre il futuro al potere della tecnica e della finanziarizzazione della società. Si deve andare, dunque, verso una globalizzazione non solo economica, ma anche culturale, sociale e politica, attraverso una mobilitazione globale, vista quest’ultima come un processo di cambiamenti sociali, vale a dire disgregazione o rottura, spostamento o sganciamento individuale, mobilitazione psicologica (ritirata o disponibilità), mobilitazione oggettiva, reintegrazione. In un tale contesto, per l’incompetenza e l’insipienza politica che a cascata si espande all’intera società, la scuola italiana sta implodendo e i Dirigenti scolastici non possono più, per la complessità delle sfide quotidiane, governarne i processi. L’implosione della scuola italiana è ormai una realtà. La società attuale, complessa e in continua trasformazione, ha bisogno di più istruzione e formazione, per comprenderne i processi e governarli. La governance della scuola, soggiogata inconsapevolmente dalla democrazia totalitaria che governa l’Occidente, immagina, invece, di ridurre i tempi dell’istruzione e di fornire meno conoscenze e competenze alle future generazioni. Il senso della vergogna è il minimo che si possa provare. 

Sulla scuola bisogna intervenire con una riforma epocale attraverso una rivoluzione dal basso.

Servirebbe riorganizzare la scuola in 2 cicli d’istruzione dai 2 ai 18 anni. Un primo ciclo di 8 anni che dovrebbe comprendere la scuola dell’infanzia dai 2 ai 5 anni (3 anni) e primaria (5 anni); il secondo ciclo di 8 anni che dovrebbe includere la scuola secondaria di primo grado obbligatoria di 5 anni, di cui 3 dell’attuale scuola secondaria di primo grado e 2 del primo biennio della scuola secondaria di secondo grado con elementi di filosofia, letteratura greca e latina, radici della civiltà occidentale (i giovani a 12 anni hanno ormai acquisito un pensiero ipotetico/deduttivo -) e la scuola secondaria di secondo grado (3 anni, di cui 2 anni del secondo biennio e 1 anno del quinto anno della scuola secondaria di secondo grado). In tal modo non solo l’obbligatorietà e la certificazione delle competenze coinciderebbero e avrebbero un’intrinseca e logica conseguenza, ma anche i giovani italiani, come quelli di altri paesi dell’Unione europea, potrebbero affrontare un anno prima l’esame di Stato/maturità. 

Bisognerebbe, poi, abolire i carrozzoni ministeriali (i Dirigenti scolastici, i responsabili e gli Uffici degli ambiti scolastici territoriali), creando un diretto collegamento delle reti di scuole con gli USR e i Dipartimenti generali del Ministero della pubblica istruzione. L’autonomia delle istituzioni scolastiche e l’asfissia dirigenziale sono una contraddizione in termini. Sarebbe necessario introdurre, a tal proposito, l’elezione diretta e democratica di un coordinatore scolastico da parte del collegio dei docenti, perché la scuola dell’autonomia esige democrazia e partecipazione. Nello stesso tempo rafforzare e fortificare, per qualità professionali e competenze, il profilo del Direttore dei servizi generali e amministrativi (laurea in economia aziendale, giurisprudenza o equipollenti) per la governance giuridica-amministrativa delle scuole. Solo in tal modo si potrebbero invertire le proposte dell’accorpamento delle istituzioni scolastiche, finalizzate, nel compromettere ogni forma di didattica e nel sottrarre sedi di scuole alle piccole comunità, al risparmio economico. Si riconoscerebbe anche lo status delle scuole a rischio e di quelle di eccellenza. 

Si dovrebbe, poi, valorizzare massimamente il ruolo dei docenti sia riconoscendo l’insegnamento come una professione logorante e usurante sia equiparando i diritti e i doveri degli insegnanti italiani a quelli europei (compresi orario di lavoro e stipendio – in Germania, ad esempio, a fine carriera, i docenti percepiscono 80.378 euro annuali; invece, in Italia, a fine carriera, ne percepiscono annualmente appena 34.052 -). A proposito dei docenti si dovrebbe anche provvedere a dar vita a corsi specifici di specializzazione per gli insegnamenti STEM per ovviare agli errori, commessi negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, nell’immettere in ruolo soggetti non in possesso di profili adeguati all’insegnamento di tali discipline. La scuola italiana, ancora oggi, specialmente nei Licei, ne sta pagando le conseguenze. Tra le altre cose, per far acquisire alla scuola italiana una certa centralità e prospettarne un futuro, è necessario:  

  • considerare gli allievi come soggetti di diritto e di doveri verso il mondo sociale e immaginare la scuola come un bene pubblico e condiviso. La scuola, in tutte le società democratiche, svolge, infatti, una funzione sociale;
  • far acquisire alle scuole la funzione di palestra della democrazia per costruire, attraverso una cittadinanza attiva, una società aperta e interculturale;
  • abolire il finanziamento delle scuole paritarie e private, rispettando l’art. 33 della Costituzione che recita: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Negli ultimi dieci anni i fondi destinati dallo Stato alle scuole private si sono, invece, moltiplicati (nel 2012 – 286 milioni, nel 2022 – 626 milioni, quest’anno, nella Finanziaria, sono previsti ulteriori 50 milioni di euro per le scuole paritarie dell’infanzia). Gli allievi che intendono liberamente usufruirne dovrebbero con rette mensili pagarsi tale insegnamento;
  • valorizzare e non abolire i titoli di studio. Il mercato e i poteri forti aspirano ad abolire i titoli di studio per emarginare le classi sociali più deboli;
  • introdurre nella scuola primaria insegnanti per aree disciplinari. Non è umanamente immaginabile che un solo insegnante possa svolgere il ruolo di tuttologo;
  • prevedere che ogni docente di una classe di concorso (ad esempio A-12 – Materie letterarie e Storia) sia, dopo che la scuola si sia dato un rigoroso ed equilibrato regolamento, assegnato a un’aula. Gli studenti dovrebbero, in tal modo, scegliere responsabilmente e liberamente l’aula da frequentare. Il docente sarebbe, così, costretto a formarsi e qualificarsi continuamente; 
  • aspirare a un Ministero dell’istruzione che si converta in un Dicastero delle future generazioni per una crescita intelligente, democratica, inclusiva e pubblica.

Con riferimento alla scuola, il diritto amministrativo prefigura che l’interesse pubblico deve manifestarsi tramite il diritto vissuto non come fine ma come strumento. Questo è un principio che nella seconda Repubblica è stato smontato meticolosamente. Trasformare, poi, la scuola in azienda ha l’indiscutibile significato di forgiare le strutture che hanno come fine predominante l’attuazione, in contrapposizione alla “produzione” di un sapere critico, del profitto economico. Ciò avverrebbe, inoltre, in un sistema di spietata concorrenza ed emarginando, in tal modo, socialmente, economicamente e culturalmente i soggetti più deboli e svantaggiati.

La scuola, nella storia, è stata, al contrario, caratterizzata da una traiettoria e da un percorso lineare di democratizzazione dell’educazione, dell’istruzione e della formazione, mettendo, al proprio interno, in moto i processi di: 

  • educazione universale (nel Seicento, pedagogia di Amos Comenio); 
  • scolarizzazione (illuminismo, Rivoluzione francese e istruzione pubblica con Condorcet); 
  • tendenza all’innalzamento dell’obbligo scolastico (legge Gabrio Casati, in Italia, nel 1859, e così via); 
  • orientamento all’unificazione dei sistemi educativi e formativi (riforma dei programmi “Brocca”, in Italia, 1992/1993); 
  • disponibilità all’individualizzazione e personalizzazione dell’insegnamento/apprendimento (riforma Moratti, in Italia, nel 2003); 
  • educazione permanente e inclusione (strategia di Lisbona, nel 2000, Europa/2020, nel 2010, Agenda 2030, nel 2015).

Con l’istruzione permanente e l’inclusione, il processo di democratizzazione dell’educazione, dell’istruzione e della formazione entra nella fase della massima espansione e realizzazione. La scuola deve, dunque, essere un concreto luogo di formazione ricorrente e continua di tutti i cittadini, affinché acquisiscano conoscenze adeguate ad interpretare la complessità della società e a conseguire le competenze, atte a governarne, in maniera autonoma e responsabile, i processi.

Guerra ibrida

Guerra ibrida: un aspetto trascurato nello studio della storia

di Gabriele Boselli

Insegnando quel trascurato corollario della filosofia della pace che chiamiamo “storia”, discorriamo spesso di guerra riferendoci allo scontro ufficialmente dichiarato di forze armate e di soldati portati al massacro con tutti i crismi istituzionali da politici non sazi del loro stato di potere e/o di ricchezza. Con il forte appoggio di gruppi industriali: penso al ruolo della casa tedesca Krupp e della banca statunitense Morgan nella prima guerra mondiale.

Mi soffermerò qui su un tipo di guerra in assoluto non nuovo (ogni guerra è sempre stata in qualche misura ibrida) ma sviluppatosi enormemente dal 2000:  la  “guerra ibrida” concetto formulato da F.Hoffmann nel 2007: la  combinazione militare  solitamente praticata in situazioni di complessiva asimmetria da gruppi di potere e Stati consolidati o nascenti. Il dispositivo si articola in guerra convenzionale, gestita con armi fisiche da forze armate regolari, guerra svolta attraverso operazioni clandestine attuate da milizie mercenarie e organizzazioni private terroristiche. Viene svolta con utilizzo massiccio e “scientifico” di  propaganda e disinformazione, ultimamente anche con forte impiego di sabotaggi cibernetici.

Stratega sommo -quanto per ora militarmente non troppo fortunato a causa delle inefficienze del sistema russo e della reazione di imprevista intensità del sistema americano- è oggi Valerij Gerasimov, capo delle forze armate dell’ex URSS, il quale ha pubblicato fin dal  2013 vari  documenti ove si afferma che:

-le guerre della postmodernità non sono più necessariamente progettate sul presupposto o la presunzione di una quasi-simmetria delle forze economiche e militari;

-si presume -e spesso ci si riesce- di superare lo squilibrio delle forse economiche e militari  con massicci investimenti di propaganda (vedi guerra del Vietnam in cui la potenza economica e militare USA fu costretta a cedere sia sul fronte interno che estero da potenze fortemente inferiori);

-le guerre non vengono più iniziate con  la classica “dichiarazione di guerra”; vengono spesso sospese e riprese attraversando periodi irregolari di alta e bassa intensità;

-continuano indefinitamente  e non hanno un termine preciso;

-gli obiettivi dichiarati dalle parti per aderire a “un cessate il fuoco” sono sempre esagerati e comprendono il totale ritiro della controparte -comunque e sempre criminalizzata- dai territori contestati;

-hanno come strumento, spesso anche obiettivo preminente, il massacro dei civili al fine di destabilizzare i governi o -come nel 1939 o anche oggi a Gaza- la mera riduzione numerica delle popolazioni la cui presenza interferisce con i disegni espansivi:

-i “danni collaterali” (stragi di civili, distruzione di beni naturali e artistici, v. Dresda, Hiroschima, Bassora, diga di Nova Kakhovka) non sono casuali ma programmati; 

-parti sempre più importanti delle operazioni militari sono oggi gestite da intelligenze artificiali programmate e condotte dai paesi “terzi” decisori della guerra o situate direttamente sui pezzi d’arma impiegati (robot militari).

A mio avviso -diverso il parere di Edoardo Greblo (v. bibl.)- il concetto di guerra ibrida è contiguo al concetto “guerre postmoderne” o meglio ne è parte: non solo comprende gli interventi sul teatro delle dirette operazioni militari, ma anche altri elementi come le lesioni della sovranità  dello Stato sotto minaccia e per effetto di sanzioni. Si utilizzano le retoriche  dell’identità per conseguire obiettivi geopolitici. Nelle guerre ibride risulta  spesso difficile distinguere tra militari e non. Impossibile spesso e non solo per le popolazioni interessate ma anche per gli studiosi non partigiani distinguere  tra l’ aggressore e l’aggredito le cui individuazioni sono lasciate al libero gioco delle opposte propagande. Le GI tendono prevalentemente al controllo delle ricchezze, all’omogeneizzazione etnica e all’espulsione/sterminio degli indigeni ( USA 1600/1800,  Guerra di Gaza). Vengono condotte oltre che da eserciti regolari da milizie di ventura internazionali  (Blakwater, Wagner) e da signori della guerra locali (Afganistan).

Diviene cosi estremamente incerto e instabile il confine tra pace e guerra, come nell’attuale conflitto detto da Papa Francesco di “terza guerra mondiale a pezzi”. Il conflitto si sviluppa attraversando  “zona grige” per non pervenire  a scontri catastrofici (spesso annunciati) ma in cui le parti cercano di evitare lo scontro diretto conseguendo comunque  obiettivi strategici di rilevante importanza. La pace non sembra comunque costituire un fine perseguito dagli attuali reggitori del mondo, alla ricerca di pasti ancor più sostanziosi.

Ricerca e insegnamento della storia dovrebbero prescindere dai libri di testo e dalle loro sinossi; richiedono una fenomenologica messa in parentesi di ogni “dato” presunto, la sottrazione ai fronti di propaganda di qualsiasi parte; in particolare, nel caso di cui trattasi l’elusione degli schematismi e dei protocolli accademici di oggettivazione  della ricerca. Questo anche per allenare i giovani a uno studio veramente critico della storia e propiziare in loro un profondo ma disincantato amore per la pace.


F.Hoffmann, Guerra ibrida, 2007 (leggibile ora in Cambridge University Press, 2012)

M.R.Me, Il ritorno della politica di potenza nell’era dei conflitti asimmetrici. In Limes ottobre 2018

C.D.Frate, Gerasimov: chi è il generale che ha inventato la «guerra ibrida», Corriere della sera ,11- 01 -23

E.Greblo, La guerra ibrida. Un nuovo paradigma? in aut-aut n.400, 2023

G. Diotallevi Studiare la guerra in un mondo che cambia in Rivista militare, N 6, 2023

 

Dire e dare educazione oggi

Dire e dare educazione oggi

di Margherita Marzario

Oggi non regna la maleducazione ma la diseducazione o ineducazione.

“«Siamo precipitati in tempi orribili / Il mondo è diventato troppo decadente e malvagio. / La politica è sempre più corrotta / I giovani non rispettano più i loro genitori»: […] traduzione di un’iscrizione caldea del… 3800 a.C. Che fanno ben 5.819 anni fa! Insomma, lo «scontro generazionale» non è un’invenzione di questi nostri tempi depravati, ma fa propriamente parte, da sempre, delle relazioni tra persone di diversa età, e in particolare tra genitori e figli. Ridurre queste dinamiche nostalgicamente a «buoni» (gli adulti, i genitori) e «cattivi» (i giovani, i figli), da una parte coglie certamente un problema, o meglio una fatica che è soprattutto educativa; ma dall’altra ci priva di tutta la ricchezza e la dinamicità della vita. Che evolve più negli scarti anche improvvisi o dolorosi che nella ripetizione assuefatta e meccanica. Dove le radici sono fondamentali, ma l’albero deve crescere e portare nuovi frutti a ogni stagione” (fra Fabio Scarsato, esperto di problematiche giovanili). Attualmente lo scontro generazionale sembra abissale perché da una parte mancano gli adulti e/o dall’altra parte i ragazzi, i giovani tanto in senso fisico quanto in senso metaforico. L’educazione è sempre stata ed è un impegno finalizzato a “preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera” (art. 29 lettera d Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), è un passaggio dal vecchio al nuovo, è una “traduzione della tradizione”, nel senso che bisogna trasmettere i valori conquistati e trasmessi da altri e i principi della vita alle nuove generazioni in base alle esigenze personali e alle circostanze attuali. Tutto ciò comporta fatica e tempo e, per questo, molti si arrendono. 

“«Maestro non è chi dice “fai così”, ma chi dice “fai con me così”»: a scriverlo non è solo don Bosco, ma un ateo, Gilles Deleuze, uno dei più famosi pensatori del XX secolo. Ancora una volta la luce è puntata sugli adulti: genitori ed educatori che, nel loro modo concreto di amare e di lavorare, testimoniano ai figli la verità della vita. Un compito tanto affascinante quanto arduo” (il teologo Angelo Scola). Nell’educazione si è sempre avuto e si ha sempre più bisogno di autenticità, esempio, intelligenza (“leggere dentro”), operosità, umiltà. Ogni educando ha bisogno di amore, emozioni, incontro, orizzonti, univocità.   

L’educazione è come un viaggio in cui sono fondamentali conoscenza, comprensione, consapevolezza. È quanto si ricava anche dall’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia in cui “si parte” dallo sviluppo del fanciullo e “si arriva” al rispetto per l’ambiente naturale. 

Il filosofo Silvano Petrosino scrive: “L’essere del vivente è inseparabile dalla forza che, sollecitandolo a uscire da sé, lo apre all’altro: il singolo vivente non può continuare a vivere e persistere per sé se non si apre all’altro, se non si orienta all’altro, se non va verso l’altro. Ciò che si impone come vita e nella vita è dunque la sorprendente e inarrestabile forza della relazione; tutto ciò che vive, proprio per affermarsi e diffondersi come vivente, deve entrare in relazione con l’altro, deve muoversi all’interno di un’infinita trama di mutue relazioni: da questo punto di vista non è scorretto intendere i termini “vita” e “relazione” come veri e propri sinonimi”. Vita e relazione, il binomio che è scopo dell’educazione e che è responsabilità degli adulti e, di certo, col mondo digitale (e con quanto accaduto durante la pandemia da Covid-19) non si tiene conto della sinonimia tra vita e relazione. Sinonimia tra vita e relazione che si ricava altresì dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, sin dal Preambolo. 

Secondo alcuni psicologi e altri esperti, alcune locuzioni coniate e usate durante l’emergenza sanitaria da coronavirus sono state inadeguate perché hanno aumentato la negatività nelle e tra le persone e soprattutto nei bambini e nei ragazzi. Per esempio non si sarebbe dovuto parlare di “distanziamento sociale” ma “distanziamento fisico”, non di “didattica a distanza” ma di “didattica della vicinanza” e così di seguito. L’educazione, la formazione, lo sviluppo della personalità, le relazioni, la preparazione al e del futuro passano anche attraverso il linguaggio e la cura delle parole, di ogni singola parola. 

“Le persone dimenticano ciò che hai detto, ciò che hai fatto ma non dimenticano come li hai fatti sentire” (la poetessa afroamericana Maya Angelou). Educazione (in particolare quella che si dice sentimentale o emotiva, in realtà l’educazione già in sé è tale) è co-involgimento, avvolgimento reciproco, attivare i sensi per suscitare sentimenti (intelligenza emotiva), esprimere e imprimere la vita, ricordando che “La salute è creata e vissuta dalle persone all’interno degli ambienti organizzativi della vita quotidiana: dove si studia, si lavora, si gioca e si ama. La salute è creata prendendosi cura di se stessi e degli altri” (dalla Carta di Ottawa per la Promozione della Salute, 1986). Genitori e insegnanti, perciò, devono preoccuparsi di meno dei mezzi da fornire, del tempo che passa e fagocita ogni cosa, degli obiettivi a lungo termine, ma occuparsi del momento, del qui e ora. 

L’educazione è come l’edificazione: bisogna scavare in profondità per dare fondamenta solide alla casa che si deve reggere da sola e accogliere ogni vita; poi si costruiscono i piani superiori, i muri esterni, i divisori e così di seguito. Ciò richiede gradualità, sollevamento di pesi (perché educare è allevare che ha lo stesso significato di sollevare), sofferenza, ovvero “pathos”, in altri termini “passione educativa” e anche compassione da ambo i soggetti, educatore e educando. Perché educazione è dialettica, relazione, emozione, azione e reazione, sorprendersi e comprendersi a vicenda. Indicazioni e indici normativi si possono leggere anche nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, tra cui l’art. 27 in cui la locuzione “sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale” del par. 1 dà un’idea delle dimensioni coinvolte nel processo educativo.

Il filosofo Martin Buber scriveva: “Ogni persona è in attesa di conferme, rinforzi e risposte che permettono all’uomo di esistere e che possono venirgli soltanto da un altro essere umano”. Educazione: conferme rinforzi e risposte che si scambiano due esseri umani lungo l’impervio cammino della stessa umanità. 

Nell’educazione non si deve usare il dito indice per imporre o rimproverare o minacciare additando, ma per attirare a sé il figlioo l’educando. L’educazione deve essere una seduzione oltre che conduzione. In tal modo si esplica il vero e giusto senso dell’autorità genitoriale o adulta, dal latino “auctor”, “colui che accresce, che fa prosperare”.

Il pedagogista Daniele Novara precisa: “La vita infantile è diversa da quella adulta ed è popolata dal pensiero magico e da figure che progressivamente scompaiono. Occorre, quindi, accettare i passaggi con serenità e sicurezza, dando fiducia ai figli e mantenendo sempre un atteggiamento positivo verso di loro”. I bambini chiedono agli adulti poche ed essenziali cose: silenzio, sguardo, semplicità, sincerità, sensibilità. I bambini non hanno bisogno di educazione emozionale e affettiva ma, piuttosto, sono essi stessi gli educatori della necessaria rieducazione degli adulti distratti o inariditi. 

Insegnare al figlio (o a un bambino in generale) ad andare in bicicletta è stimolargli l’autonomia, la coordinazione motoria, l’equilibrio, mettere le rotelle alla bicicletta e adeguare l’altezza del sellino nel momento opportuno, sostenerlo da dietro e assumere da lui una certa distanza, costruire un ricordo comune. È metafora dell’educazione. 

L’educazione è utile e necessaria, è funzione umana: serve a edificare vite e a editare storie.

A proposito di integrazione

A proposito di integrazione, quando il made in Italy è indigesto

di Giovanni Fioravanti

Ecco che Galli Della Loggia risale in cattedra, quella con la predella, per dichiarare che è ora di abbattere gli idoli e i loro miti come l’inclusione di tutti nella scuola di tutti.

È giunto il momento di riporre in soffitta la scuola inclusiva e sottrarre alle ragnatele dell’abbandono, spolverata e lustrata, la scuola meritocratica e competitiva.

Sa di parlare all’orecchio di un governo sensibile alle sue sirene e certamente al repertorio suonato dai pifferai, dalla Mastrocola al Gruppo di Firenze, della scuola oltraggiata.

Ora siamo alla “scuola menzogna” che copre lo scandalo — caso unico al mondo —  scrive il nostro professore, per cui nelle nostre aule convivono regolarmente, accanto ad allievi cosiddetti normali, ragazze e ragazzi disabili, alunni con bisogni educativi speciali, ragazze e ragazzi stranieri. Il professore tralascia di dire che questo scandalo ci è invidiato da tutto il mondo.

Un made in Italy di quelli che non rendono quattrini e che semmai turba alcune coscienze, comunque un made in Italy che non piace al professore e non è certo quello che intende promuovere questo governo.

Mi sembra che ora il professor Galli Della Loggia faccia la parte dell’asino che si affaccia alla finestra della classe, quell’asino che Andrea Canevaro, fortemente indiziato per la diffusione del mito dell’inclusione, considera una grossa fortuna per un educatore, come meraviglioso strumento didattico. Noi però, contrariamente a Canevaro, sappiamo cosa pensa l’asino di quello che vede.

La cosa che inquieta in questo paese è che non c’è uno, dico uno, intellettuale a Destra o a Sinistra, che sia in grado di usare il verbo “innovare” o il sostantivo “innovazione” a proposito della scuoia e dell’istruzione. Non c’è una visione di prospettiva, una dimensione di processo, un’idea che sia un’idea per innovare, migliorare quello che questa nostra scuola si è conquistata con l’impegno professionale di tanti insegnanti e educatori, come l’inclusione, che certo non è perfetta, ma non ha bisogno di essere cancellata, piuttosto necessita di idee e risorse per progredire.

Invece no, il solone di turno, che nulla sa di scuola perché non la vive quotidianamente, perché l’avversa culturalmente, trova che anziché curare è meglio liberarsi dell’arto infetto..

E allora ci sono quelli che sottoscrivono Manifesti per improbabili Nuove Scuole, quelli che  la scuola non educa più, che, alla faccia del patriarcato, lamentano che leducazione ha smesso di essere la proiezione della funzione del padre, vedi Adolfo Scotto di Luzio.

Altri, come Susanna Tamaro, che incolpano Rousseau di tutti i mali di cui soffre l’educazione e vagheggiano l’uso del kyosaku, il bastone dei maestri Zen, da impiegare sui ragazzi selvaggi del nostro tempo.

Non so se ci rendiamo conto di sprofondare sempre più nella palude dei pregiudizi culturali che si fanno pensiero diffuso nell’anestesia mentale collettiva che insidia questo paese.

Il problema è che questi asini che infilano il muso dalle finestre nelle nostre aule sono talmente sicuri di se stessi che neppure si prendono la briga di studiare, perché tanto una volta sì che si studiava, quando andavano a scuola loro, e tanto a loro è bastato.

Se avessero letto ad esempio documenti come Nell’Educazione un tesoro, quello della Commissione UNESCO presieduta nel 1996 da Jacques Delors, ignorato nell’occasione della sua morte, a partire dal nostro ministro dell’Istruzione e del Merito.

In quel documento, di circa trent’anni fa, vengono indicati i  quattro pilastri su cui dovrebbe poggiare l’educazione del ventunesimo secolo: Imparare a conoscere, Imparare a fare, Imparare a vivere insieme, Imparare ad essere.

Ora non dovrei essere io a spiegare al ministro dell’Istruzione e del Merito che se Imparare a vivere insieme e Imparare ad essere fossero praticati nelle nostre scuole, costituissero i pilastri portanti dei curricoli, non ci sarebbe bisogno né di ripristinare un arnese arrugginito come il merito né di inventarsi educazioni alla relazione. Non dovrei essere io neppure a spiegare al professor Galli Della Loggia che considerare l’Inclusione un mito da escludere dalle nostre aule fa palesemente a pugni con i due pilastri appena citati sopra.

E visto che sono sulla strada di utili suggerimenti inviterei a leggere l’ultimo documento dell’UNESCO, giusto per uscire dal campanilismo patriottico. È del 2021 e porta come titolo: Re-immaginare i nostri futuri insieme.

Reimmaginare, cioè immaginare di nuovo, non sognare il passato. Il passato, è ovvio, che non si può immaginare, è il futuro che si immagina, capisco che per il professor Galli Della Loggia e quanti come lui il futuro sia difficile da coniugare.

Però l’UNESCO l’ha coniugato anche per loro: Le scuole dovrebbero essere luoghi educativi protetti per linclusione, lequità e il benessere individuale e collettivo […]. Le scuole devono essere luoghi che riuniscono gruppi diversi di persone e li espongono a sfide e possibilità non disponibili altrove.

Non si può equivocare:“luoghi educativi protetti per l’inclusione”, “luoghi che riuniscono gruppi diversi di persone e li espongono a sfide e possibilità non disponibili altrove”, Nietzsche scriverebbe che le scuole sono i luoghi dei “temerari del sapere”.

Fortunatamente l’inclusione è una realtà radicata e destinata a crescere, perché noi vogliamo vivere  e vogliamo che le generazioni in avvenire vivano in un mondo in cui i bambini che si perdono nel bosco appartengano soltanto al mondo delle favole.

Diritto all’istruzione, diritto al futuro

Diritto all’istruzione, diritto al futuro

di Margherita Marzario

“L’economia culturale crea occupazione e contribuisce al benessere delle comunità, all’autostima individuale e alla qualità della vita” (Irina Bokova, politica bulgara, in funzione di Direttore Generale dell’UNESCO, novembre 2013). Nell’art. 4 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si parla congiuntamente di “diritti economici, sociali e culturali”. I diritti culturali sono scritti per ultimo non perché siano ultimi, ma perché obiettivo ultimo. I diritti culturali non si esauriscono nell’istruzione che ne è solo la base, ma sono una continua costruzione della persona e dell’umanità.

La cultura non è solo istruzione ma anche disostruzione mentale e costruzione sociale, astrazione, estrazione…è passato, presente, futuro. È questo il salto di qualità di cui dovrebbe essere artefice la scuola e non adeguarsi alla distruzione che si opera intorno.

“La Convenzione ONU “on the Rights of the Child – CRC”, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia il 27 maggio 1991, riconosce infatti che i bambini, le bambine e gli adolescenti sono titolari di diritti civili, sociali, politici, culturali ed economici. Nonostante i progressi compiuti fino ad oggi, però, ancora molti fanciulli in tutto il mondo continuano a vivere in condizioni di estrema povertà, sono esposti a violenze, abusi e sfruttamento, o sono privati dell’accesso all’istruzione. Quest’ultima è un diritto fondamentale e un mezzo essenziale per permettere ai bambini di raggiungere il loro pieno potenziale” (cit.). I diritti dei bambini sono violati anche nei Paesi più ricchi dove pure il diritto all’istruzione non è adeguatamente tutelato, per esempio edilizia non a misura di bambino, attività didattiche calate dall’altro, classi-pollaio e tante altre situazioni.

La testimonianza di Hanan Al Hroub, maestra elementare in un campo profughi: “[…] insegno ai bambini che l’unica arma buona è la conoscenza, l’unico nemico l’ignoranza”. L’art. 39 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia recita: “Gli Stati parti adotteranno ogni appropriata misura al  fine  di assicurare il recupero fisico e psicologico ed il reinserimento sociale di un fanciullo vittima di qualsiasi forma di negligenza, di sfruttamento o di sevizie, di tortura o di qualsiasi altra forma di trattamento o punizione crudele, inumana o degradante, o di conflitto armato. Tale recupero e reinserimento avrà luogo in un ambiente che favorisca la salute, il rispetto di sé e la dignità del fanciullo”. L’istruzione è uno dei migliori mezzi di recupero e reinserimento per bambini e ragazzi deprivati o a rischio, basti vedere le iniziative di istruzione nei carceri minorili.

Nell’art. 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è disciplinato il diritto all’istruzione e nel par. 2 si specifica: “L’istruzione deve mirare al pieno sviluppo della personalità umana e al rafforzamento dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. È disciplinato in uno degli ultimi articoli della Dichiarazione perché l’istruzione è di supporto e suffragio agli altri diritti. Di questo si dovrebbe tener conto nelle scelte politiche che dovrebbero investire di più e prioritariamente nell’istruzione.

Nell’art. 28 lettera c Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia: “[…] rendere l’istruzione superiore accessibile a tutti sulla base delle capacità con ogni mezzo opportuno”. E i mezzi opportuni per rendere concreto ciò sono vari. “L’allenamento al problem solving, l’educazione alle scelte decisionali, la cooperazione tra pari, il fallire per poi correggere e la partecipazione a storie di vita vissuta sono tutte pratiche che rendono gli adolescenti più autonomi, più consapevoli delle proprie capacità, più fiduciosi nel futuro e più resilienti, tutte caratteristiche che aiutano non poco, sia nella prosecuzione futura degli studi universitari che nell’affrontare il mondo del lavoro” (Addolorata Mazzotta, dirigente scolastica).

Da notare che nella Costituzione si parla di istruzione nell’art. 30, relativo ai genitori, e negli articoli 33 e 34, relativi alla scuola; i tre articoli sono inseriti nella Parte I “Diritti e doveri dei cittadini” e sotto il Titolo II “Rapporti etico-sociali”, per sottolineare la centralità dell’istruzione nella formazione del cittadino e nella vita quotidiana e i differenti (e non diversi) e complementari ruoli della famiglia e della scuola. Inoltre, l’istruzione è una delle attività o funzioni che più rispecchiano l’art. 4 della Costituzione, perché concorre al progresso materiale o spirituale della società.

L’insegnante, “colui che lascia un segno”, pertanto, dovrebbe essere lui stesso “segnato” nel vero senso di sentirsi chiamato a fare questo “mestiere”, parola che etimologicamente deriva da “ministro, servo”. E l’insegnamento è il servizio pubblico per eccellenza.

Oltre alla Costituzione italiana, alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e alla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, riferimenti all’istruzione, e precisamente richiami all’istruzione di qualità, si rinvengono in molte fonti internazionali, tra cui l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile nel cui Obiettivo 4 si prevede quanto di “bello” (che deriva da “buono”) si possa preparare per le nuove generazioni: “Costruire e potenziare le strutture dell’istruzione che siano sensibili ai bisogni dell’infanzia, alle disabilità e alla parità di genere e predisporre ambienti dedicati all’apprendimento che siano sicuri, non violenti e inclusivi per tutti”.

Fra i tanti bisogna porre attenzione a quanto si legge nella Carta di Ottawa per la promozione della salute (1986) sotto la rubrica “I prerequisiti per la salute”: “Le condizioni e le risorse fondamentali per la salute sono la pace, l’abitazione, l’istruzione, il cibo, un reddito, un ecosistema stabile, le risorse sostenibili, la giustizia sociale e l’equità. Il miglioramento dei livelli di salute deve essere saldamente basato su questi prerequisiti fondamentali”.

Nell’Obiettivo 1 dell’Agenda di Seoul: obiettivi per lo sviluppo dell’educazione all’arte (2010) si prescrive: “Garantire che l’educazione all’arte sia accessibile come componente fondamentale e sostenibile di un rinnovamento dell’istruzione”.

In queste fonti l’istruzione è associata alla salute e all’arte, tra le peculiarità più umane, che rendono persona l’essere umano e, perciò, l’istruzione è più di un diritto e di un dovere.

La gestione del conflitto

La gestione del conflitto

di Laura Bertocchi e Mario Maviglia

Premessa

In senso generale possiamo intendere il conflitto come “una situazione sociale in cui due o più individui apertamente si oppongono l’uno all’altro”[1] e questa opposizione può riguardare “pensieri, convincimenti, tendenze, desideri ecc. fra loro differenti.”[2] Da un punto di vista psicoevolutivo i comportamenti conflittuali si manifestano fin dalla più tenera età e costituiscono una tappa fondamentale nel processo di individuazione e di costruzione dell’identità del bambino (oltre che di sviluppo della sua autonomia). “È attraverso l’opposizione con l’altro [in modo particolare con le figure genitoriali] che il bambino sperimenta e afferma la sua indipendenza e individualità; una strategia questa che fa la sua prima ed emblematica comparsa nella crisi di opposizione dei 2 anni, in cui il bambino ricerca sistematicamente il conflitto con l’adulto.”[3] È interessante notare che questa crisi di opposizione ricompare in modo accentuato anche nella fase adolescenziale in cui la ragazza e il ragazzo sono alle prese con la ridefinizione della propria identità in un rapporto di ambivalenza e contrapposizione con le figure adulte di riferimento.

            Già da queste annotazioni si può notare che il conflitto è insito nella natura umana sia in senso intrapsichico (come quando una persona è “influenzata simultaneamente da due forze opposte di intensità approssimativamente uguale”[4], oppure nel caso della “dissonanza cognitiva” elaborata da Festinger[5]), sia in senso interpersonale come preannunciato sopra. Il problema, dunque, non dovrebbe essere quello di accettarne l’esistenza, ma di trovare forme adeguate per affrontarlo in modo positivo. In realtà spesso, in campo educativo, si tende a disconoscere la dimensione conflittuale per un malinteso senso dell’”essere buoni”. Sia in seno alla famiglia che all’interno della classe una delle frasi più ricorrenti delle figure adulte è “non bisogna litigare” ed anzi chi si rende responsabile di un conflitto viene inconsapevolmente sollecitato a sentirsi in colpa. Eppure, analizzando la letteratura specifica del settore si può facilmente scoprire che vi sono vari modi per affrontare il conflitto. S. Bonino[6] individua almeno quattro forme diverse di affrontamento del conflitto:

  1. il primo – molto diffuso – è quello di evitarlo o sottacerlo. Vi possono essere diverse ragioni che portano a questa forma di comportamento: la paura di rimanere soli o di non essere in grado di affrontare il conflitto; il timore di non piacere a tutti; la paura di non riuscire a controllare la propria aggressività in una situazione conflittuale o di subire quella dell’interlocutore. Va però detto che sia in famiglia che a scuola l’espressione del conflitto dovrebbe costituire l’occasione per ragionare proprio sul conflitto e sulle possibilità di esplicitarlo in una dimensione sostenibile per tutti.
  2. La seconda forma è l’inibizione, che si determina di solito quando il rapporto tra i contendenti è asimmetrico per ragioni di ruolo o status (insegnante e studenti, o genitori e figli) o comunque quando l’altro viene percepito come più forte, come nel caso di fratelli di diversa età.
  3. Una terza forma riguarda l’aggressività che costituisce una modalità di soluzione del conflitto a proprio favore. Va sottolineato che ricerche empiriche hanno messo in luce che “il ricorso all’aggressività nel conflitto interpersonale è sollecitato dalla partecipazione a contesti competitivi, che portano a un’escalation del problema, oltre la causa originale del conflitto.”[7] L’aggressività può anche essere la risposta ad una situazione in cui il soggetto sperimenta continuamente la difficoltà a intercettare il consenso degli altri; questo determina una sorta di circolo perverso in quanto il soggetto “rifiutato” tende a mettere in atto condotte sempre più aggressive che però determinano negli altri un comportamento ancor più ostile.
  4. Infine, una quarta forma riguarda la negoziazione, ossia la ricerca di una soluzione per quanto possibile condivisa e tale da non scontentare nessuno. L’affermazione di una modalità negoziale è influenzata da almeno tre fattori: da una parte lo sviluppo del linguaggio e delle capacità espressive che pone il bambino/a o lo studente/ssa nella condizione di poter esprimere e sostenere in modo più adeguato le proprie ragioni o di richiedere spiegazioni a quelle degli altri; dall’altra lo sviluppo delle capacità empatiche e quindi la possibilità di tener conto del punto di vista dell’altro soprattutto all’interno di un possibile conflitto; e infine un assetto cooperativo dell’organizzazione sollecita fortemente la ricerca di soluzioni condivise.

Le ragioni del conflitto

Ma a cosa serve il conflitto? Abbiamo già visto che nel processo evolutivo serve per costruire la propria identità, attraverso il meccanismo di individuazione e differenziazione dall’altro.

I conflitti, soprattutto tra bambini o ragazzi, sono spesso fonte di forte disagio nell’adulto che si trova a doverli gestire. In classe tale disagio è per certi aspetti comprensibile, perché può far sentire l’insegnante impreparato e impotente di fronte a bambini e ragazzi che manifestano comportamenti conflittuali che spesso diventano aggressivi, nelle parole e, talvolta, nei gesti.

Per affrontare queste situazioni serve lucidità ed è indispensabile, innanzitutto, eliminare il giudizio moralistico[8]. Infatti, come abbiamo precisato in precedenza, il conflitto non ha un senso esclusivamente negativo, ma è un aspetto imprescindibile di una sana interazione sociale.

Come può allora l’insegnante intervenire efficacemente durante un conflitto tra alunni?

Molto, chiaramente, dipende dalla fascia di età a cui si fa riferimento. Se in età prescolare non è possibile aspettarsi che i bambini siano autonomi nella gestione del conflitto, è auspicabile pensare che crescendo acquisiscano strategie di risoluzione sempre più autonome e maggiori abilità di gestione delle emozioni coinvolte. D’altro canto, l’esperienza ci insegna che non sempre la ragionevolezza domina il conflitto, nemmeno tra adulti. Ecco allora che mettere in campo delle strategie di gestione diventa essenziale.

Innanzitutto è importante identificare le ragioni del conflitto:

  • Difficoltà di comunicazione

Spesso il conflitto nasce da un malinteso, da un fraintendimento. Soprattutto quando la comunicazione non avviene vis-à-vis (pensiamo per esempio ai social) il contesto è estremamente limitato e non aiuta certo la corretta interpretazione di quanto viene scritto o detto. Per quanto l’uso degli emoticon cerchi di sopperire alla mancanza degli aspetti paraverbali, l’assenza di toni, modulazioni della voce, espressioni, sguardi, sorrisi e gesti può generare numerosi fraintendimenti. È allora importante risalire all’intenzione di ciò che è stato detto, prestando attenzione al mittente, alle sue motivazioni e ai suoi obiettivi, che non sono necessariamente quelli compresi dal destinatario. Altrettanta attenzione va posta anche su chi riceve il messaggio, su ciò che comprende e su quali reazioni suscitino in lui quelle parole.

  • Differenze di obiettivi

Gli attriti naturalmente non si innescano solo per questioni di forma, spesso il disaccordo riguarda la sostanza. Avere obiettivi diversi è certamente uno di questi casi. Due bambini vogliono giocare, uno a calcio, l’altro a basket. Trovare un punto di incontro è complesso, perché le due scelte si contrappongono: optare per una delle due significa escludere l’altra. Spostiamo ora il piano del confronto su temi caldi che possono toccare gli adulti: l’embargo, la guerra. Schierarsi a favore della pace significa necessariamente dire no al sostegno alla guerra. Sono due posizioni opposte, per le quali non è possibile trovare un punto di incontro. In questo caso diventa opportuno chiedersi quali sono le ragioni che spingono verso un determinato obiettivo e, sovente, le ragioni ultime e i grandi principi che muovono scelte e azioni sono identici. Divertirsi, potremmo immaginare nel caso dei bambini, ristabilire o trovare un equilibrio, possiamo azzardare nel secondo caso. Ecco allora, può capitare di scoprire che i fini non sono così diversi, sebbene le scelte iniziali possano apparire diametralmente opposte.

  • Stili non condivisi

In questo caso il risultato perseguito è il medesimo, ma il percorso che si desidera intraprendere per giungere alla meta può essere diverso. Molto dipende dal modo peculiare con cui ognuno di noi, anche sulla base delle esperienze pregresse, affronta un problema o una sfida. Si può essere più interventisti, quando si preferisce agire prontamente, oppure si può prediligere un approccio più riflessivo, analizzando tutte le possibili soluzioni, i vantaggi e gli inconvenienti. Quando due persone con attitudini così diverse devono collaborare, è ragionevole pensare che possa nascere un conflitto che, se mal gestito, può degenerare, tanto più quando il fine da raggiungere rappresenta un importante traguardo per le persone coinvolte.

  • Differenza di metodi e tempi di gestione delle azioni

Altrettanto importanti sono le differenti attitudini che ognuno di noi adotta nella gestione di un problema. Esistono persone che affrontano tutto di petto. Sembrano non temere niente e nessuno, si lanciano nelle imprese e affrontano le sfide con coraggio. Altre persone invece hanno bisogno di tempi più distesi per maturare la consapevolezza delle azioni da compiere e, anche una volta maturata tale consapevolezza, ritornano spesso sulle proprie decisioni. Il confronto tra due tipologie di caratteri così diversi può essere fonte di disaccordo e conflitto, a maggior ragione quando succede che questi debbano collaborare per portare a termine un progetto o raggiungere un traguardo.

  • Differenze nelle credenze e nelle opinioni di base

Le credenze di base sono idee profondamente radicate all’interno di ognuno e influenzano il modo in cui viviamo la vita. Possono avere origine nel background culturale ma anche essere determinate dalla storia personale, da esperienze negative o positive che influenzano convinzioni e percezioni.  Credere, per esempio, che le situazioni che affrontiamo avranno una conclusione positiva fa sì che anche le difficoltà vengano sostenute con un’energia diversa rispetto a chi teme l’insuccesso. Queste attitudini così diverse ovviamente cozzano quando si deve collaborare per un obiettivo.

  • Regole non chiare

Quando si lavora in gruppo è indispensabile, per una proficua collaborazione, che le regole siano chiare a tutti. Gli obiettivi che si perseguono, i tempi, i ruoli, ciò che si deve fare, ciò che si può fare e quanto, invece, non è consentito. Emblematiche sono in tal senso le competizioni di debate, originarie dei paesi anglosassoni ma ora molto diffuse anche in Italia. Si tratta di un confronto di opinioni tra interlocutori, divisi in due squadre che si affrontano per sostenere una tesi a favore e una contro su un tema loro assegnato. Conoscere le specifiche modalità di esecuzione e le regole che guidano la gara è indispensabile. La capacità di esprimere opinioni senza prevaricazioni, le scelte lessicali rispettose dell’altro, il rispetto dei tempi di parola e di ascolto devono essere conosciuti da tutti i partecipanti che, in caso di mancato rispetto di dette regole, vengono squalificati, compromettendo la possibilità di successo di tutta la squadra.

  • Mancanza di definizione dei ruoli

In ogni gruppo, in modo più o meno formale, ogni membro assume un ruolo[9]. L’equilibrio, o la mancanza di esso, regola le dinamiche che si sviluppano. Troviamo chi viene ascoltato, chi non è mai interpellato, chi decide e chi esegue, chi allenta le tensioni e chi le fomenta, chi è più concentrato sul raggiungimento degli obiettivi e chi sulle relazioni che si instaurano, troviamo leader e gregari. Non tutti i membri di un gruppo detengono la stessa importanza e centralità, lo stesso potere e la stessa capacità di consenso. Innegabilmente vi è chi è più ascoltato di altri, chi sa prendere decisioni coinvolgendo tutto il gruppo e prendendosene la responsabilità. L’importanza non è sul piano del valore, poiché tutti i ruoli sono indispensabili, basti immaginare che in un gruppo due leader spesso non possono convivere, quanto piuttosto della capacità di guidare gli altri verso il perseguimento di un obiettivo. È molto importante che questi ruoli siano chiari ad ogni membro ed è auspicabile che i ruoli che vengono a costituirsi informalmente – la leadership non si impone, ma ci viene riconosciuta dagli altri – corrispondano ai ruoli formalmente attribuiti. Diversamente possono generarsi attriti e caos che sono di da ostacolo al raggiungimento degli scopi prefissati.

Alcune regole di base

      Comprendere le ragioni del conflitto è importante perché consente innanzitutto di spostare lo sguardo da se stessi all’altro. Il passo successivo è infatti quello di accogliere. Accogliere significa[10] “ricevere, sentire, ammettere nel proprio gruppo” ed è dunque apertura all’altro, non necessariamente per condividerne le idee, le attitudini, gli scopi ma piuttosto per porsi in ascolto, per scoprirne l’alterità. Per fare ciò, è necessario:

  • Non sminuire il vissuto dell’altro

Non esistono emozioni sbagliate perché sono l’espressione della reazione alle esperienze che si vivono[11]. Possono essere più o meno piacevoli, ma non giuste o sbagliate e non è possibile pretendere di non provarle. Si può cercare di controllarne l’intensità, “regolando il volume” delle emozioni più intense ma, più di tutto, è necessario validarle, accettandole sia per quanto riguarda se stessi che gli altri. Ciò che è opportuno fare è invece riflettere sul pensiero associato alle emozioni, cercando di individuare la ragione profonda di tali reazioni. È su questa ragione che si può intervenire. Non possiamo chiedere di non provare rabbia, ma regolarne l’intensità, controllarne le manifestazioni e comprenderne le ragioni è possibile e auspicabile in ogni relazione.

  • Pensare in modalità win-win

Una trattativa si può concludere con un vincitore che ottiene un vantaggio e un perdente che si adegua alle condizioni imposte dall’altro, questo però rischia di rovinare relazioni già esistenti e possibili collaborazioni future. Meglio allora cercare un accordo cosiddetto win win[12], una soluzione che non faccia sentire sconfitto nessuno, attraverso negoziazioni che permettano di ottenere vantaggi reciproci, anche se le condizioni finali non corrispondono necessariamente a quelle inizialmente pensate. Per fare ciò è indispensabile evitare di condurre la trattativa come se fosse una prova di forza, uno scontro personale con l’interlocutore. Ogni parte ha le sue richieste, che devono essere considerate legittime da entrambe le parti. Partendo da questa consapevolezza, mantenendo la mente aperta e una certa flessibilità è possibile trovare soluzioni che non scontentino nessuno. Ricordiamo sempre che questo parziale cedere sulle proprie rivendicazioni consentirà collaborazioni future.  

  • Esprimere i bisogni in modo assertivo

L’assertività è la capacità di esprimere i propri bisogni, le proprie emozioni e i propri diritti in modo sereno anche se in disaccordo con gli altri e portare avanti le proprie idee rispettando quelle altrui.[13] Si contrappone alla passività, nella quale si antepongono i bisogni degli altri ai propri e all’aggressività, quando si antepongono i propri bisogni a quelli altrui. Comportarsi in modo assertivo significa bilanciare i bisogni degli altri con i propri, quando entrambi gli interlocutori tengono in considerazione le reciproche esigenze pur esprimendo con chiarezza le proprie necessità. Saper dire no e accettare il no sono abilità che possono essere acquisite e che permettono di vivere le relazioni e le collaborazioni con un certo equilibrio, senza sopraffare e senza lasciarsi sopraffare. Controllare le modalità di comunicazione, i toni e i gesti si rivela una tecnica molto importante per esprimersi con assertività.

  • Individuare un obiettivo chiaro, esplicito e comune verso cui tendere (e perseguirlo)

Per risolvere il conflitto è indispensabile individuare l’obiettivo a cui tendere e questo deve essere chiaro a tutti i membri del gruppo. Il fine va esplicitato ed è necessario tornarvi ogni qualvolta che il disaccordo sembra impedire il proseguimento del percorso. L’obiettivo deve guidare le azioni e le trattative come un faro ed è importante che non venga mai perso di vista.

  • Far circolare la comunicazione

Non interrompere la comunicazione è indispensabile. Lasciare questo canale di continuo confronto, chiarimento, ritrattazione è fondamentale per trovare una soluzione condivisa. Il silenzio impedisce all’altro di comprendere le nostre emozioni, i nostri ragionamenti, gli obiettivi ai quali tendiamo. Chiudersi in se stessi non consente all’altro di tentare una trattativa, di scendere a compromessi. Inoltre, esprimere ad alta voce o per iscritto ciò che si prova dà la giusta distanza che permette di valutare le proprie azioni e reazioni che, dunque, non vengono espresse sull’onda dell’emozione.

  • Attenzione ai comportamenti difensivi

Vengono messi in atto quando ci si sente minacciati[14]. Tra i comportamenti difensivi possiamo trovare, come accennato poco fa, il silenzio, ma anche il prendere ogni cosa sul personale, lo spostare la colpa sempre sugli altri, il sarcasmo e il cinismo, il procrastinare o l’essere evasivo. Tutti questi comportamenti sono espressione del rifiuto del confronto e possono essere agiti quando ci si sente in situazione di inferiorità rispetto all’interlocutore. Rafforzare l’autostima e praticare l’assertività possono essere strategie idonee a controllare questi atteggiamenti quando siamo noi a praticarli.

  • Allenarsi all’ascolto

Senza ascolto non può esserci comunicazione, intesa come scambio e partecipazione[15]. L’ascolto permette all’interlocutore di sentirsi preso in considerazione e ciò lo predispone favorevolmente alla negoziazione; inoltre ascoltare ci permette di raccogliere informazioni su chi abbiamo di fronte e quindi ci aiuta a predisporre una strategia di negoziazione. Ascoltare, è noto, è molto più che sentire. Ascoltare richiede un ruolo attivo, fatto di silenzi ma anche di domande tese a comprendere il punto di vista dell’altro. Si cerca di comprendere non solo le parole ma anche le ragioni che soggiacciono alla comunicazione. L’ascolto attivo non ha fretta e si astiene dal giudizio.

  • Follow up: importanza di tornare a distanza di tempo sulla gestione del conflitto

Il profilo della montagna si vede bene solo da lontano e questo vale anche per il conflitto. Una distanza troppo ravvicinata (fisica nel caso della montagna, di tempo nel caso del conflitto) impedisce una visione completa e chiara della situazione. Prendersi del tempo quando sembra impossibile risolvere un conflitto non solo è auspicabile, ma anche opportuno. Una certa distanza temporale permette di vedere con maggiore ragionevolezza le cause del disaccordo. Le emozioni e la ragione si ricompongono permettendo valutazioni più equilibrate e non intrise dell’emotività del momento che, talvolta, impedisce di prendere in considerazione l’altro e le sue istanze.

Le strategie

Il terzo e ultimo step riguarda il feed-back.

Anche nel conflitto “sbagliare è già imparare” e il riscontro dell’errore resta uno dei pilastri dell’apprendimento. Quando un conflitto degenera è indispensabile fermarsi per capire le ragioni che hanno portato a quella situazione. Ciò significa ripercorrere le tappe del disaccordo, rivedere gli obiettivi perseguiti, le modalità di comunicazione e individuare i punti di attrito rispetto ai quali non è stato possibile trovare un punto di incontro. Più accurato è il feedback, più puntuale sarà l’analisi volta all’individuazione degli snodi cruciali del processo. Tali consapevolezze permetteranno di correggere i comportamenti ostativi alla risoluzione positiva del conflitto qualora si ripresentasse.

Senza pretesa di esaustività, suggeriamo alcune strategie che gli insegnanti possono adottare per gestire i conflitti che ogni giorno si creano nelle nostre aule e per aiutare gli studenti  ad acquisire modalità d’azione che possono essere proficuamente applicate nei rapporti quotidiani:

  1. Creare apertura verso le differenze, verso il punto di vista dell’altro, che non deve essere percepito come una minaccia quando diverso dal proprio.
  2. Prestare attenzione al clima di classe, che deve promuovere il confronto, anche attraverso attività quali il circle time e il debate.
  3. Rispettare l’opinione dell’altro, che può essere diversa dalla propria ma non per questo vale meno.
  4. Creare un clima di apprendimento reciproco, anche attraverso l’osservazione e la valutazione tra pari.
  5. Prestare attenzione al momento in cui sorge il conflitto e non rimandarne la gestione. I disaccordi vanno affrontati sul nascere, altrimenti rischiano di esacerbarsi.
  6. Insegnare la negoziazione win win come strategia di risoluzione dei conflitti.

In conclusione, ribadiamo che il conflitto è insito in ogni relazione e, in quanto tale, va accolto e accettato per ciò che è: fisiologico. Naturalmente il conflitto è opportuno si mantenga sul piano del confronto civile, dello scambio di idee e della corretta difesa delle proprie opinioni poiché tanto l’atteggiamento aggressivo quanto quello passivo sono censurabili e fonte di problemi relazionali. Insegnare a controllare l’emotività eccessiva e le reazioni incontrollate è l’obiettivo che ogni insegnante dovrebbe porsi, ricordando che, prima ancora che studenti, la scuola cresce ed educa i cittadini di domani.


[1] S. Bonino, Dizionario di psicologia dello sviluppo, Einaudi, Torino, 1994, p. 164,

[2] P. Bertolini, Dizionario di pedagogia  e scienze dell’educazione, Zanichelli, Bologna, 1996, p. 99.

[3] S. Bonino, op. cit., p. 165

[4] R. Harrè, R. Lamb, L. Mecacci, Psicologia. Dizionario enciclopedico, Editori Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 194

[5] L. Festinger, Teoria della dissonanza cognitiva, Franco Angeli, Milano, 1973

[6] S. Bonino, op. cit., pp. 166-167

[7] S. Bonino, op. cit., p. 167

[8] https://formazionecontinuainpsicologia.it/ruolo-delladulto-nei-conflitti-bambini/

[9]https://docs.univr.it/documenti/OccorrenzaIns/matdid/matdid949175.pptx#:~:text=I%20ruoli%20sono%20definiti%20dalla,una%20certa%20posizione%20nel%20gruppo

[10] https://www.treccani.it/vocabolario/accogliere/

[11] https://drcollevecchio.it/7-cose-che-non-sai-sulle-emozioni/

[12] https://www.softskills.site/win-win-negoziazione-a-vantaggio-reciproco/

[13]  https://www.stateofmind.it/2014/11/assertivita-stili-comportamento/

[14] https://carlobisio.com/comportamenti-difensivi-conoscerli-gestirli

[15] https://www.aleksandrabobic.com/blog/perche-ascolto-e-importante

Deroga al dimensionamento

L’assurda deroga al dimensionamento scolastico 2024-2025

Francesco G. Nuzzaci

 

Fa specie l’aver letto nella gazzetta ufficiale del 30 dicembre u.s. l’articolo 5 del decreto legge n. 215/2023, recante Disposizioni in materia di termini normativi (c.d. mille proroghe), nel punto in cui ripristina, sia pure per il solo anno scolastico 2024-2025 e per un limitato numero di istituzioni scolastiche (185 sull’intero territorio nazionale), l’istituto della reggenza, che invece la legge 197/2022 e il decreto ministeriale attuativo 127/2023 avevano inteso cancellare in radice, con assegnazione ad ognuna delle circa ottomila istituzioni scolastiche di un proprio dirigente e un proprio DSGA, facendo così venir meno le scuole sottodimensionate. E trovando pieno conforto nella sentenza della Corte costituzionale n. 223/2023, depositata il 22 dicembre u.s., che ha respinto il ricorso delle regioni Puglia, Toscana ed Emilia-Romagna ictu oculi del tutto pretestuoso in quanto palesemente privo di fondamento giuridico e già segnato nell’esito da una sua consolidata, notoria,giurisprudenza.

Ciò nonostante e pur dopo che il Giudice delle leggi si è pronunciato, le ricorrenti regioni, unitamente ad altre e a varie sigle sindacali affiancatesi, continuano a recitarecopioni precostituiti, che prescindono dai dati di realtà ovvero artatamente li manipolano, veicolando autentiche falsità quali la perdita di centinaia di sedi scolastiche con tutto quello che ne riviene in termini occupazionali, l’affollamento delle classi e la completa sparizione di scuole nelle zone interne. Sedi scolastiche, o di erogazione del servizio, che invece non vengono toccate, come non vengono toccati gli alunni, i docenti e il personale ATA che ivi opera, non essendo previsti tagli in organico; ma che per contro e qualora il ricorso fosse stato accolto – dovendosi perciò continuare ad applicarsi l’ancora vigente normativa, pure questa a suo tempo inutilmente impugnata – non avrebbero potuto avere né un proprio dirigente né un proprio DSGA, perché al di sotto dei 600 alunni (400 nelle zone in deroga) e dunque destinate a doppia reggenza. Mentre dal prossimo primo settembre faranno capo a un’istituzione-ufficio non più acefalo dei suoi vertici: tutte, tranne le 185 che invece la doppia reggenza la dovranno mantenere, benché fino al 31 agosto 2025 e per essere poi riaccorpate; con l’esito di (ri)caricare su un dirigente scolastico e su un DSGA, per quanto di rispettiva competenza, la gestione di un doppio bilancio, di una doppia e proliferante contrattualistica, di una doppia conduzione delle relazioni sindacali d’Istituto, di doppie sedute e deliberazioni degli organi collegiali, di doppia interlocuzione con famiglie e con la pletora di soggetti, istituzionali e non, agenti nei territori e con il solo labile supporto del docente c.d. collaboratore vicario esonerato dalla sua funzione professionale per inventarsi esperto di tutto (e giuridicamente responsabile di nulla).

Con tutta franchezza, ci sfugge la razionalità di questa improvvida decisione del legislatore dell’ultima ora.

È scritto nel testo che essa ha – avrebbe – il fine di garantire l’attuazione della riforma prevista dal PNRR, di riorganizzazione del sistema scolastico per renderlo più efficiente. Ma se così è riesce arduo capire il senso di una misura provvisoria, peraltro finanziata attingendosi al Fondo per il miglioramento dell’offerta formativa (MOF), atteso che la complessa progettualità inerente alla Missione 4 – Componente 1 e alla sua gestione si proiettano su un arco di tempo pluriennale.

Essa si sarebbe potuta pure giustificare qualora queste sedi si fossero rese disponibili per riassorbire eventuali esuberi di dirigenti scolastici in alcune regioni – che però in concreto non sussistono, più che compensati dal superiore numero di pensionamenti per raggiunti limiti d’età – o per allargare la mobilità interregionale per i colleghi emigrati oltre il Rubicone. Ma tutto ciò è escluso, poiché resta fermo il contingente organico dei dirigenti scolastici e dei direttori dei servizi generali e amministrativi, non vi è un incremento delle facoltà assunzionali e – sempre su queste 185 istituzioni scolastiche benignamente concesse ad tempus – non sono possibili operazioni di mobilità e nomine in ruolo.

Sembra allora un – ben misero – contentino alle regioni e a sindacati. Ma potrebbe anche essere un piccolo passo avanti: se è il prodromo di una auspicata sinergia tra i diversi soggetti istituzionali e loro concorde azione nel costruttivo coinvolgimento dell’opinione pubblica, onde premere all’unisono su Governo e Parlamento affinché dal primo settembre 2025, mercé l’annuale legge di bilancio, risulti realizzata una decisa riduzione degli attuali coefficienti 900/1000 alunni a non oltre i 600/700 e alla cui stregua ridisegnare un ragionevole dimensionamento scolastico.

Se non è verosimile far corrispondere le nuove istituzioni scolastiche, tutte per definizione normo-dimensionate, agli attuali quarantamila e più plessi o luoghi di erogazione del servizio, non potranno neanche tollerarsi mega-istituti che, per consentire – in una sorta di solidarietà forzosa – la costituzione di scuole autonome nei piccoli luoghi che popolano il nostro Paese, possono arrivare ai duemila studenti e ai trecento e oltre tra docenti e personale ATA, ingovernabili sui canonici e compresenti versanti gestionale, dei rapporti con il territorio, educativo-didattico: sicché il nanismo delle une e il gigantismo delle altre darebbero corpo al medesimo singolare effetto di un’offerta formativa non rispondente ai reali bisogni delle studentesse e degli studenti.

Giustamente si è detto che queste, di fatto, non sarebbero più vere autonomie vocate alla didattica ovvero alla progettazione e realizzazione di un’offerta formativa di qualità ed inclusiva, quanto piuttosto enti a prevalente funzione amministrativa. 

L’investimento necessario è davvero piccolo, con costialquanto contenuti, a fronte del grande beneficio di un servizio pubblico migliore. Ma non giova il persistente arroccamento su posizioni di assoluta intransigenza, quando non si voglia porre in essere una vera e propria – ma impropria – opposizione tutta politica.

L’armonia di Umanesimo e Scienza

L’armonia di Umanesimo e Scienza *

di Emanuela Andreoni Fontecedro (1)


ABSTRACT

L’armonia di Umanesimo e Scienza: verso una nuova visione educativa nel Liceo Unico Classico-Scientifico*

L’ articolo offre un’ analisi approfondita dell’ importanza dell’integrazione tra educazione umanistica e scientifica. L’ autrice sostiene che la formazione umanistica, con il suo focus su arti, letteratura e filosofia, offre una comprensione essenziale della condizione umana, arricchendo la prospettiva individuale sulla vita e il suo significato. Parallelamente, l’articolo evidenzia il ruolo cruciale della scienza e della matematica nella comprensione della natura e nel progresso della conoscenza. Si dimostra come la scienza e l’ umanesimo possano coesiste re in modo complementare, proponendo un approccio olistico all’ istruzione , enfatizzando la necessità di un curriculum educativo che integri il liceo classico e il liceo scientifico, al fine di fornire agli studenti una formazione completa e versatile, preparandoli efficacemente per le sfide del mondo moderno.

The harmony of Humanism and Science: towards a new educational vision in the Liceo Unico Classico-Scientifico

The article offers an in-depth analysis of the importance of integrating humanistic and scientific education. The author argues that humanistic education, with its focus on the arts, literature and philosophy, offers an essential understanding of the human condition, enriching the individual’s properspective on life and its meaning. In parallel, the article highlights the crucial role of science and mathematics in the understanding of nature and the advancement of knowledge. It demonstrates how science an d humanism can coexist in a complementary way, proposing a holistic approach to education, emphasising the need for an educational curriculum that integrates the classical high school and the scientific high school, in order to provide students with a complete and versatile education, effectively preparing them for the challenges of the modern world.


  1. La formazione umanistica

Che cosa offre una preparazione umanistica? Rispondo d’acchito: il mondo. Intendo: i pensieri, i sentimenti di infiniti esseri umani , di popoli vissuti e scomparsi, la cui mano, ora neanche più polvere , ha lasciato memoria scritta nel tempo. Noi siamo effimeri, come disse Aristotele per certi insetti che appunto, come spiega il termine greco, vivono solo per un giorno. E noi rispetto all’età dell’Universo, ma anche raccorciando velocemente la misura , contiamo cioè pure dalla comparsa dell’ homo sapiens siamo racchiusi nell’istante.

Non valiamo ‘nulla’? Dire ‘nulla’ vuol dire ni -hil . Nella parola antica c’è il sapore del lontano passato che registrava il non valore nella constatazione agreste dei campi cui apparteneva la sua cultura: hilum è
il filamento che si estende dal seme nella spiga di grano. Cosa valiamo , almeno in termini di tempo, rispetto pure a questo fragile filamento, ebbene – leggo dentro nihil – ancor meno del niente .

La cultura umanistica – che fa dell’uomo il suo centro focale e lo riscatta dal giudizio precedente riduttivo – è la grande narrazione dell’uomo e del suo nido su questa Terra sotto i lontani cieli, senza confini, senza soluzione di continuità: una lunga scrittura cui collaborano tutte le arti. Sul mare dell’essere le arti sono come la schiuma del mare, espressione infinita di bellezza, si che i nostri antichi vi videro prodursi (da afròs: schiuma) Afrodite, la più bella delle dee , ridetta in altri confini Venere, radicale del ‘desiderio’.

Tutti i racconti ( un vociare ininterrotto) dei secoli e dei millenni, con i segreti nelle stesse parole ci confortano di non solitudine in questo nostro apparire e subito sparire. Ripetiamo gesti all’infinito in questa lampadoforia o corsa a staffetta delle lampade (così Platone, Leggi 776 b, ispirato da una gara che si teneva ad Atene) in cui consegniamo la teda della vita ininterrottamente alla generazione che ci succede.

Pensare la vita, la sua fine ineluttabile o la fede che la sua coscienza sopravviva : siamo già in filosofia (o traducendo, nell’amore del sapere), alziamo il registro del linguaggio e siamo in poesia, facciamo letteratura.

Che cosa c’è di più universale di comunicare sentimenti, sensazioni, di ritrovare tutto nel già provato ad ogni latitudine, che ci aiutano a comprendere e a comprenderci e ci rendono tanto più consapevoli quando innoviamo, scopriamo e proiettiamo un presente sempre in fuga Pensare attraverso le letterature del mondo, del passato e del presente è a sua volta la sensazione estrema, perché, come diceva Seneca, la lettura degli altri ci regala a piene mani tante altre vite oltre la nostra.

Noi “andiamo su un ponte fluttuante sulla distesa dei sogni” (l’immagine la colgo da Murasaki Shikibù e dal suo Principe splendente , Giappone sec. XI) mentre camminiamo nella letteratura, nella memoria, nel tempo, partecipiamo al regno fantasioso delle illusioni, vediamo dentro i colori del bene e il buio del male, tifiamo affinché il delitto abbia il castigo.

Le nebbie si alzano e fruiamo dell’anima del poeta e della sua ricchezza vitale quando leggiamo: to see a world in a grain of sand/ hold infinity in the palm of your hand,/ and eternity in an hour (William Blake, testo iniziato nel 1803, pubblicazione 1863) – La poesia non misura i confini se ritrovo insieme Mahmoud Shabestari (Tabriz 1288 -1340), sufi dell’Azerbaigian che osserva nel Roseto del Mistero con il medesimo senso dell’Assoluto che tutto pervade: in un seme di miglio si cela l’ Universo.

Lo sguardo dei poeti si posa d’intorno, via i secoli e i millenni, e avverte il tempo cadenzato dalle onde d’inverno, che si frangono sugli scogli del mare Tirreno (Orazio , carm.1,11), o nel ritmo dell’ andare dei cammelli in carovana nel deserto (sec. XI-XII Omar Khayyàm, Rubáiyát frr.172; 458 E. Fitzgerald)

2. Elogio del Numero

Il poeta, il letterato, il filosofo guarda la natura delle cose e la trasfigura in simboli: essa è un temple où des vivants piliers/ laissent parfois sortir de confuses paroles:/ l’ homme y passe à travers des for êts de symboles (Baudelaire), comunque essa ama nascondersi (Eraclito), proprio come adombra il più ancestrale mito di Diana cacciatrice, vista nuda da Atteone che lei quindi punisce: mito della natura che vuole restare segreta , mito dello scienziato e delle sue scoperte scientifiche che possono volgersi anche a suo danno.

Ecco nel mito è detto l’altro modo di guardare la natura, non si tratta questa volta solo di contemplarla nella sua apparenza , senza chiedere o di lasciarsi da essa avvolgere in solitudine ,come condenserà il Romanticismo tedesco con un solo struggente vocabolo, dicendo Waldeinsamkeit , lo scienziato investiga, ricerca ,vuole una risposta precisa, la scopre nuda nella sua struttura non vede solo il riflesso della natura su di sé come fa il poeta, ma la interroga fronteggiandola.

Cicerone, sulla traccia di Pitagora scriveva un inno al numero , in quanto lo riconosceva come strumento e metodo che aveva prodotto per primo la risposta, cioè aveva reso possibile la conoscenza scientifica: il numero, cosa tanto necessaria alla vita quotidiana, quanto cosa immutabile e eterna, che per prima ci spinse a guardare il cielo e a non osservare invano il moto delle costellazioni … (rep .3,3 , cfr. nat. deor .)

Galilei gli faceva eco quando affermava: il libro della natura è scritto nella lingua matematica, i cui caratteri sono triangoli, cerchi, forme geometriche (Il Saggiatore )-

Senza dimenticare Platone, che, stando alla tradizione, avrebbe messo l’avviso all’ingresso della sua Accademia in cui ne proibiva l’entrata a chi non conoscesse la geometria (cfr. Tzetzes hist.var.chil .
8,973).

Non c’è dubbio comunque che sono le scienze ad averci tratto in salita , via dall’età della pietra, in cui altrimenti giaceremmo.

3. Deduzione: liceo unico, classico -scientifico

La conoscenza dell’uomo non si oppone alla conoscenza della Natura (antica divisione delle Scienze umane e naturali) ma hanno necessità di fondersi per formare la vera cultura. Tanto più che l’oggi sembra richiedere un controllo massimo delle tecnologie, (promosse dalla scienza stricto sensu) , da parte del loro creatore , perché non gli sfuggano di mano. Non si tratta solo di responsabilizzare l’uomo nella scelta dell’uso delle tecnologie ai fini di non usarne in modo perverso (es. bombe nucleari) ma , come dice Anders (Günther Stern) bisogna fare in modo che la creatura (IA) non lo sopravanzi . L’uomo – dice Anders- ingaggia una impari gara con la macchina da lui costruita. Ma è proprio la lucidità della ragione, il valore del fine, la capacità del dubbio che danno all’uomo la consapevolezza che a lui appartiene la direzione degli eventi. Anders quindi aggiungeva che lo strumento prodotto dall’uomo è investito dall’ anima del creatore stesso che proprio per questo rapporto deve forgiarsi al fuoco della poesia: la poesia deve ispirare la tecnica.

Di qui va compresa la necessità di dare al liceo una formazione complessa e tanto più aperta ai talenti che sono in grado di approfondire la varietà dei saperi.

Si sente, in altre parole, l’esigenza di fondere il liceo classico con lo scientifico. Fatti salvi i due indirizzi con diploma distinto va usata l’opportunità (organizzazione nello stesso edificio) del Liceo unico sull’esempio dell’ International Baccalaureat dove coesistono materie obbligatorie e opzionali (la scelta può avvenire all’interno di gruppi di discipline) ma soprattutto lo studente può scegliere il livello di apprendimento o A o B per singole discipline fondamentali. Per esempio, posso scegliere livello A di italiano, latino etc e insieme livello A di matematica e fisica… Il diploma testimonierà il percorso seguito.
I livelli disciplinari possono essere richiesti al momento dell’ iscrizione presso Università straniere, in funzione della scelta della Facoltà.
nat.deor . 2,153

Livelli, opzionalità, liceo unico classico-scientifico: vuol dire rispondere alle esigenze del presente, vuol dire non lasciare che la cultura classica, umanistica muoia , irreparabile perdita in termini di humanitas e di comprensione di ogni vita del mondo (iscrizioni – leggo – ridotte al 5,8 %), vuol dire dare la possibilità di integrare al meglio le scienze naturali, con la formazione ‘poetica’ che Anders indicava come irrinunciabile, ma allo stesso tempo vuol dire permettere di arricchire l’essenziale conoscenza dell’uomo con l’urgenza scientifica del presente cui appartiene.

* pubblicato anche in Nuova Secondaria – n. 4, dicembre 2023 – anno XLI

(1) Università di Roma Tre

Gli apprendisti stregoni dell’autonomia differenziata

Gli apprendisti stregoni dell’autonomia differenziata applicata alla scuola

di Stefano Stefanel

​Nel generalizzato disinteresse generale si sta sviluppando sotterraneamente e mediaticamente l’applicazione dell’autonomia differenziata, inserita in Costituzione nel 2001 con la legge costituzionale n° 3 del 12 marzo 2001 emanata il 18 ottobre 2001 a seguito del referendum popolareconfermativo del 7 ottobre 2001 (10.433.574 voti favorevoli, 5.816.527 voti contrari, 229.376 schede bianche e 363.943 schede nulle). L’autonomia differenziata riguarda molti settori e quello scolastico non si sottrae a questo esperimento di ingegneria costituzionale che non pare riuscito finora benissimo, almeno a livello teorico. L’autonomia differenziata è una novità per quindici regioni italiane, mentre di fatto già c’era negli statuti speciali per le cinque Regioni individuate dalla Costituzione del 1948 (Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta), anche se tre delle cinque regioni hanno applicato le norme anche sulla scuola soprattutto per l’applicazione di trattati internazionali (il Trentino Alto Adige per la sola provincia di Bolzano, il Friuli Venezia Giulia per la minoranza di lingua slovena, la valle d’Aosta per le norme di collegamento con la Francia) e una sola (il Trentino Alto Adige per la sola provincia di Trento) ha realmente regionalizzato la scuola per decisione non derivata da norme internazionali con la legge n° 5 del 7 agosto del 2006. 

In questo momento l’autonomia differenziata applicata alla scuola viene rivendicata da poche Regioni e – tra tutte – solo il Veneto pare avere le idee chiare su cosa fare e pretende una totale regionalizzazione del sistema scolastico, uscendo di fatto dal sistema scolastico nazionale. Ci sono delle parti politiche interessate all’autonomia differenziata e parti che sono ostili anche alla sola idea inserita in Costituzione (queste ultime sono soprattutto forze di centro sinistra e sindacali, che paiono essere diventate nemiche dell’autonomia differenziata pur avendola inventata). Ma nel complesso l’opinione pubblica non è interessata alla cosa, la sente distante e non guarda con interesse oltre la scuola frequentata dai propri figli. E allora, verrebbe da chiedersi, dove sta il problema? Anche perché tutto va a rilento e i Livelli Essenziali delle Prestazioni, che dovrebbero definire il quadro economico di partenza e la solidarietà nazionale alle parti del territorio nazionale che quei livelli non li raggiungono nemmeno lontanamente, sono più uno schema di lavoro che una solida base di partenza.

DOVE STA IL PROBLEMA

​Il problema sta in alcuni punti del (mancato) dibattito che si possono così riassumere:

a) l’applicazione dell’autonomia differenziata richiederebbe una unanimità di intenti di tipo federalistico in tutta Italia, in modo che si vada verso uno stato con elementi di federalismo dentro l’unitarietà nazionale confermata, mentre invece stanno venendo avanti proposte autonomistiche legate a forze politiche partitiche con progetti di parte, indifferenti a qualunque richiamo ad un disegno unitario (ad esempio quella del Friuli-Venezia Giulia che propone di regionalizzare il solo Ufficio scolastico regionale); 

b) l’autonomia differenziata nella scuola non deve riguardare l’intero sistema di istruzione, ma può riguardare anche singole e marginali parti di quel sistema, il che vuol dire che non è necessario per regionalizzare avere un progetto generale e organico, ma è possibile anche intervenire su piccoli punti, molto adatti alla propaganda politica e poco alla gestione quotidiana delle scuole;

c) non tutto ciò che riguarda l’autonomia differenziata abbisogna di LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni) e dunque è possibile anche regionalizzare parti del sistema scolastico partendo dal proprio punto di vista e non da quello generale: l’esempio più eclatante è quello del segmento 0 – 6 (da zero a sei anni, scuola non dell’obbligo, asili nido, sezioni primavere, scuole dell’infanzia in parte consistente non di proprietà statale)attualmente per lo più in mano a soggetti non statali e quindi non “tabellabile” dentro livelli di prestazione nazionali;

d) una volta approvati i LEP è possibile che le regioni più ricche (Veneto e Lombardia in testa) li accettino a scatola chiusa, perequazione a favore del meridione italiano inclusa, e dunque a quel punto il sistema scolastico nazionale si sfaldi, anche perché i LEP possono prevedere livelli alti di prestazioni (che solo le Regioni più ricche possono fornire), ma anche LEP più realistici che – paradossalmente – possono produrre un vantaggio economico per le regioni più ricche e che quindi diventerebbero elemento politico vincente (il presidente della regione Veneto Zaia e l’assessore all’istruzione Donazzan qualche tempo fa hanno dichiarato che vogliono regionalizzare la scuola veneta per stabilizzare i docenti attraverso aumenti stipendiali che possono tranquillamente erogare).

LA CONFUSIONE DELLA POLITICA

​Una materia così tecnica e sistemica dovrebbe essere maneggiata solo dagli esperti del settore e dovrebbe avere dei passaggi esplicativi chiari nei confronti dell’opinione pubblica, destinata a portare bambini e ragazzi a scuola almeno finché non nasce una modalità alternativa all’istruzione, cioè, dico io, per almeno altri duecento anni. Invece tutto è lasciato in mano a politici e giuristi che col mondo della scuola non hanno alcuna familiarità. Lo si vede chiaramente da quanto viene portato all’attenzione pubblica sui documenti (per lo più segreti) di cui si sta discutendo in parlamento e nei consigli regionali. Perché avviene questo? Io ritengo per un motivo molto semplice: un qualunque professionista della scuola può smontare il tutto in un batter d’occhio, perché quello che viene proposto mediaticamente ha come primo obiettivo quello di smantellare il sistema scolastico nazionale, che sta alla base della nostra costituzione e della nostra convivenza civile e che in Italia pochissimi vogliono, invece, smantellare a favore di regionalismi collegati alla propaganda politica. 

​Ci son però dei fatti molto gravi, alcuni dei quali talmente di dettaglio da essere praticamente invisibili (ma si sa che il diavolo sta nel dettaglio). Recentemente il Governo ha razionalizzato (tagliato) la rete scolastica eliminando alcuni posti in organico di diritto di dirigenti scolastici e direttori dei servizi generali e amministrativi. Il provvedimento ministeriale è stato di tipo contabile e naturalmente poteva essere osteggiato da chi lo riteneva sbagliato. Ma alcune regioni, governate dal centrosinistra, hanno impugnato il provvedimento chiedendone il suo ritiro perché avrebbe violato la potenziale autonomia regionale e forze di opposizione al centrodestra hanno accusato i “governatori”regionali di non aver difeso l’autonomia regionale. Se lo si analizza dal punto di vista di un sistema scolastico regionale è molto grave chiedere l’applicazione dell’autonomia differenziata su un singolo provvedimento, perché chi governa attualmente le Regioni ha allora diritto ad applicare quell’autonomia come ritiene meglio di fare. O l’autonomia differenziata è una riforma in applicazione della costituzione che non deve toccare l’idea di sistema scolastico nazionale, ma solo definire in forma autonoma le specificità regionale, oppure se la si può richiamare ogni qual volta qualcuno a livello centrale decide in maniera diversa da come la si pensa allora tutto diventa lecito: sia quello che si decide a destra, sia quello che si decide a sinistra, senza tenere in alcun conto l’interesse generale, ma occupandosi solo dell’interesse di parte. Anche perché – io penso – se si regionalizzassero i dirigenti scolastici e i direttori dei servizi generali e amministrativi (cosa possibilissima) lo stato perderebbe su di loro immediatamente il potere di “razionalizzazione”, ma si assisterebbe a quella che – per me -sarebbe un’involuzione inqualificabile di un sistema scolastico nazionale, che vuole la sua dirigenza scelta attraverso concorsi pubblici e nazionali, anche se su base numerica regionale.

E DUNQUE COSA VUOL DIRE REGIONALIZZARE

​Per capire cosa vuol dire regionalizzare un sistema scolastico o una sua parte porto solo alcuni sintetici esempi. In sé ognuno di questi esempi porta dei vantaggi per chi regionalizza e immediatamente svantaggi per gli altri, ma sono tutte questioni molto tecniche che chi sta dentro la scuola vede bene e chi sta fuori dalla scuola difficilmente comprende:

a) Sistema 0-6: in questo momento è già “selvaggiamente regionalizzato”, nel senso che i servizi che ci sono al nord non ci sono al sud e che il livello delle prestazioninon è definibile a livello nazionale, anche per una carenza strutturale di edifici adatti all’infanzia. Il sistema attualmente è diviso in due segmenti (0-3: asili nido e 3-6: scuole dell’infanzia) con un segmento di unione (sezioni primavera) e solo il secondo segmento vede la presenza diretta dello stato con le scuole dell’infanzia statali. Su questo segmento insistono 7-8 contratti diversi per personale di diversa derivazione, con una babele normativa che non ha niente di nazionale o sistematico. Ora se una regione regionalizzasse questo segmento facendolo diventare tutto regionale si accollerebbe una spesa notevole, ma al tempo stesso interverrebbe massicciamente sul welfare delle famiglie a cominciare da quelle più giovani, che hanno figli piccoli. Ma in questo modo l’omogeneità del sistema nazionale “scapperebbe” per sempre.

b) Organico del personale della scuola: è regionalizzato solo in trentino e costa un mucchio di soldi, perché la regionalizzazione ha aumentato gli stipendi del personale. Diciamo che questa tipologia di regionalizzazione è la più costosa e per ora la rivendica solo il Veneto: è una gabbia salariale di nome diverso, che parte da un reclutamento e una formazione regionale e non nazionale.

c) Istruzione tecnica e professionale e formazione professionale: questa regionalizzazione toglierebbe quel tipo di segmento di istruzione dal sistema scolastico nazionale potendo prevedere anche qualifiche di tipo diverso decise dalle regioni per tutta la filiera e – soprattutto – toglierebbe il dualismo tra formazione e istruzione professionale, gestendo qualifiche e percorsi in forma diretta.

d) Ufficio socialistico regionale: regionalizzare solo l’ufficio scolastico (che si chiama regionale, ma è di fatto un ufficio statale che agisce nelle singole regioni, ma risponde al Ministero) significherebbe far dirigere il personale dello stato selezionato con concorsi statali (dirigenti, direttori, docenti, ata) da personale di nomina regionale, mettendo la politica regionale in posizione di vantaggio rispetto alla gestione del sistema.

Mi fermo qui perché questo è solo un articolo. Tutto quello che ho scritto meriterebbe approfondimenti passo per passo, mentre vedo in giro poco interesse e soltanto posizioni di parte, prive di qualunque logica di sistema. Cioè, vedo molti apprendisti stregoni su una questione come la scuola dove si ha a che fare con le menti e le intelligenze di tutta la gioventù italiana. 

Scrivere: lo spazio, il ritmo, il pensiero, la relazione

Scrivere: lo spazio, il ritmo, il pensiero, la relazione

di  Maria Grazia Carnazzola

Introduzione

 Uno dei problemi che ogni sistema di Educazione, Istruzione, Formazione, si trova ad affrontare è quello relativo alla promozione della competenza linguistica, intesa come strumento cognitivo e non esclusivamente come fatto stilistico. Numerose sono le ricerche recenti, italiane (Vertecchi) e internazionali, che segnalano come l’apprendimento della scrittura manuale, e di quella corsiva in particolare, abbiano una forte rilevanza sull’apprendimento e sullo sviluppo di altre abilità/competenze quali la riflessione critica, la lettura, l’articolazione delle capacità linguistiche e logiche; ma, al di là dell’esaltazione mediatica e della retorica ufficiale- entrambe di breve durata- concretamente ben poco viene fatto per sfruttare compiutamente ciò che, generazione dopo generazione, ha dato forma ai cervelli con la struttura fornita dal mondo fisico e sociale, coniugando  i tempi lunghi della storia naturale con quelli brevi dello sviluppo individuale (Vallortigara) e l’emergere dei “periodi sensibili”. Le neuroscienze cognitive hanno, ora, avvalorato le intuizioni e le posizioni di Vygotskij e di Piaget. Dehaene ha ripetutamente messo in evidenza l’effetto che l’istruzione produce sul cervello umano, sulla riorganizzazione dei circuiti (riciclaggio neuronale), sul coinvolgimento dei circuiti attenzionali, sulla necessità che i processi di scrittura e di lettura diventino automatici per liberare spazi di pensiero e di azione. Questo scritto riprende lavori prodotti per convegni e corsi di formazione, tenuti per docenti e addetti ai lavori.

1. Scrivere e leggere: l’impatto dell’alfabetizzazione

Une lettre n’est rien qu’un son
Son tracè est la trace de l’homme” (Ladislas Mandel).”

 Cosa significa leggere e cosa significa scrivere? Da una parte c’è l’automatizzazione dei processi di codifica e di decodifica, dall’altra lo sviluppo delle capacità di organizzare, attraverso le relazioni logiche, i contenuti da comunicare e le modalità per esprimerli con il codice più adeguato. Il mondo della ricerca ha chiarito alcune questioni in merito alle variabili che influiscono sull’apprendimento della lingua e delle lingue. Ma il mondo della scuola, dell’infanzia e primaria in particolare, raramente viene coinvolto nella validazione delle ipotesi di ricerca e, in questo modo, gran parte delle conoscenze non vengono utilizzate. L’apprendimento infantile, che deve necessariamente partire da una costruzione di pensiero pratico, utilizza le prime acquisizioni della lingua orale per integrare pensiero e linguaggio e dare origine al pensiero logico. È necessario partire da attività concrete e agite direttamente, arricchendo ogni esperienza con la codifica verbale durante l’interazione sociale, offrendo molteplici occasioni per poter parlare, perché a parlare si impara, così come si impara a scrivere. Il linguaggio scritto, infatti, va considerato come parte integrante dell’ambito linguistico generale, come integratore e amplificatore del linguaggio orale e strettamente dipendente da questo: entrambe le forme sono costruite sullo stesso sistema linguistico. Codice orale e scritto rappresentano gli stessi significati: ciò che può essere scritto può essere detto e viceversa. Maggiore sarà la padronanza del linguaggio orale, più facile sarà l’acquisizione del codice scritto. Il linguaggio orale è un sistema arbitrario, culturalmente determinato, composto da lessico e sintassi. Il lessico codifica i contenuti del pensiero, la sintassi indica i significati lessicali attraverso modifiche morfologiche – desinenze, suffissi, prefissi – e dell’ordine delle parole nelle frasi. Il codice uditivo temporale poggia sull’emissione sequenziale di unità minime, le sillabe, che vengono collegate senza discontinuità in unità significative, i sintagmi, interrotti da brevi pause. Il codice visivo-spaziale, la lingua scritta, ordina i segni da sinistra a destra (per alcuni sistemi) in modo da riprodurre le sequenze di sillabe, inserendo spazi tra le parole e segni per marcare le intonazioni. Mancano l’accentuazione degli elementi della frase e i riferimenti immediati al contesto. La lingua scritta rappresenta la ricodifica in forma visiva di quella orale riflettendone l’arbitrarietà lessicale e sintattica: chi scrive traspone in forma visivo-spaziale il codice uditivo-temporale con segni grafici arbitrari per la codifica dei fonemi. Parlato e scritto sono processi governati da regole psicologiche, sociali e linguistiche solo in parte simili. Cercare il modo, o i modi, per associare le due forme di linguaggio in modo stabile, ben automatizzato e transitivo può essere un importante terreno di ricerca e di pratica. Il primo passaggio dalla forma orale a quella scritta è costituito dall’associazione stabile e transitiva tra la modalità uditivo-vocale e quella visivo-motoria. Ma quali sono i percorsi per passare dal parlato allo scritto, e viceversa, per una corretta automatizzazione di codifica/decodifica, partendo dalla fluidità motoria della mano e dell’occhio?  La scrittura manuale è un gesto di motricità fine tra i più complessi e precisi che l’uomo è in grado di compiere ed è, per questo, uno strumento tra i più avanzati e precisi di interazione con l’ambiente. Inoltre, nei dinamismi di base della scrittura corsiva (organizzazione, pressione, ritmo, armonia, direzione, flusso, ordine) si possono rintracciare, a livello pratico, tutti gli aspetti che dovrebbero caratterizzare una personalità adulta autonoma, consapevole, orientata e responsabile. Lo sforzo di vedere i percorsi educativi nella loro complessità, potrebbe contrastare la tendenza a vedere i fatti e gli accadimenti (e le loro narrazioni) come fenomeni isolati su cui intervenire nell’immediato, sottovalutando l’inevitabile manipolazione che ogni “isolamento” porta con sé.  Lettura e scrittura sono mezzi di comunicazione culturalmente appresi. Sono oggetti convenzionali e permanenti: convenzionali in quanto oggetti socio-culturali; permanenti perché richiedono l’attivazione di processi cognitivi complessi e, quindi, un ruolo attivo e consapevole del soggetto che apprende. Permanenti non significa, qui, immutabili. La rapidità con cui mutano gli scenari economici, sociali e culturali impongono costanti adattamenti degli strumenti utilizzati, la rimodulazione e la riformulazione dei concetti e delle pratiche. E per la prima volta, nella storia della nostra civiltà, gli adulti sono in difficoltà nell’insegnare alle giovani generazioni l’uso degli strumenti di accesso alla conoscenza. Per molti secoli, pur con i cambiamenti derivanti dall’evoluzione della tecnica, gli strumenti e le pratiche d’uso erano sostanzialmente le stesse e tramandate da una generazione all’altra. Ora, la generazione digitale si appropria delle conoscenze con nuovi strumenti e per questi giovani le forme e i mezzi di comunicazione vecchi e nuovi coesistono, si sovrappongono, possono integrarsi. Il problema, semmai, ed è un problema serio, è che l’eccesso di informazione disorganica che ne deriva, interferisca negativamente con la capacità di dare una forma ai saperi e alla conoscenza, cioè di riportare ogni dato di informazione a un contesto di senso- da intendere come direzione e come significato- per poter essere utilizzato e comunicato. E una delle principali forme di comunicazione continua ad essere la scrittura.  Ma cosa significa scrivere? Credo che a questa domanda abbia risposto, in modo esauriente e originale il filosofo Carlo Sini: “La scrittura come già aveva capito molto bene Husserl, e su cui è tornato Derrida, è un’operazione economica: cioè io metto in frigorifero e la scongelo molto più in là. Questo significa che gli enunciati della lingua parlata sono in situazione. Queste parole, nel momento in cui le scrivo, queste parole possono andare in Canada così come possono andare nel 2800.Questo è il destino imperscrutabile delle cose. L’operazione è economica nel senso che è produttiva, universalizza il messaggio, lo rende disponibile a molti trasferimenti di senso, ma nello stesso tempo pone il problema ermeneutico fondamentale: ogni volta noi ci scontriamo con un oggetto che possiamo chiamare scrittura, ma in fondo tutti gli oggetti fatti dall’uomo sono scrittura della sua azione, delle tracce del suo lavoro, della sua operatività. Non dobbiamo cadere nella superstizione oggettivistica, naturalistica, storicistica “adesso ti dico cosa lui voleva fare. Certo questa è una buona intenzione…ma la scrittura è il luogo del dialogo, il luogo della trasformazione conforme e non il luogo della oggettività imposta”.   

Quindi, scrivere significa, da una parte, organizzare personalmente attraverso le operazioni logiche, i contenuti da comunicare e le modalità per esprimerli con il codice più adeguato; dall’altra automatizzare i processi di codifica-decodifica come detto più sopra. Sullo sfondo rimane il problema, serissimo, delle modalità di scrittura: a mano, con quale carattere grafico, con la tastiera…È ormai opinione condivisa, dai più accreditati studiosi di neuroscienze cognitive, che la scrittura manuale non deve essere abbandonata perché è un insostituibile catalizzatore dello sviluppo motorio e cognitivo. Steve Jobs, che in età adulta frequentò un corso di scrittura corsiva, ebbe a dire che, se fosse riuscito a replicare la mano, avrebbe realizzato “un prodotto da urlo

2.  Scrivere è un fatto culturale, è un fatto personale, è un fatto sociale.

Scrivere è un fatto culturale, intendendo con questo che c’è una “storia” della lettura e della scrittura che viene riassunta come segue: 

  1. il parlare è programmato geneticamente, lo scrivere e il leggere no, sono prodotti culturali: questa osservazione dovrebbe farci riflettere maggiormente sui disturbi specifici di apprendimento e sui mancati apprendimenti.
  2. Leggere e scrivere modificano geneticamente il cervello.
  3. La lettura e la scrittura testimoniano la capacità del cervello di superare l’organizzazione originaria delle sue strutture.

Il cervello che legge, e che scrive, cambia il modo di ragionare sui fatti e sul mondo: il mondo e l’azione stanno insieme nelle parole.

Ma scrivere/leggere è anche un fatto personale che riguarda l’evoluzione e lo sviluppo individuale. Le domande di fondo sono le seguenti: come ciascuno impara a leggere e a scrivere? Quali sono i parallelismi, le diversificazioni e le curvature del necessario insegnamento? Cosa succede quando si impara a leggere e a scrivere? E cosa succede quando non si impara?

Infine, scrivere è un fatto sociale.  Ma perché nel titolo “, scrivere” (e quindi leggere che è l’altra faccia della medaglia) è stato posto all’inizio della sequenza? È risaputo che i bambini “pensano” a livello pratico prima di fare e prima di dire, ma è altrettanto evidente che è compito della scuola quello di accompagnare tutti alla miglior padronanza possibile del pensiero logico, inteso come capacità di riflettere, prevedere, valutare. Queste riflessioni le ho spesso condivise e discusse con i Collegi dei docenti degli Istituti, Comprensivi o Istituti di secondo grado, nell’ambito dei percorsi di formazione finalizzati alla costruzione di un curricolo linguistico verticale, continuo e progressivo. La centralità dell’uso cognitivo della lingua e la sua trasversalità, sono state ampiamente condivise, così come condivisa è stata la riflessione intorno al peso della diffusa scarsa competenza alfabetica. E’ ricorsa spesso l’ipotesi che le difficoltà manifestate dalla maggioranza degli allievi nello scrivere, e la conseguente   perdita di autonomia, derivi da un insieme di pratiche che vengono meno, come la scrittura a mano- in corsivo in particolare- a vantaggio dell’utilizzo di dotazioni strumentali che, al di là della loro caratteristica di funzionalità, assumono un connotato di modernizzazione delle pratiche didattiche da contrapporre alle pratiche tradizionali.  Rivedere le modalità metodologicodidattiche con cui impostare l’apprendimento/ insegnamento della scrittura, e quindi della lettura, portando in primo piano tutti quegli aspetti che riguardano sia la padronanza dei segni e la capacità di riconoscerli e di riprodurli per collegarli, sia le operazioni mentali che si manifestano attraverso il linguaggio e si concretizzano nella produzione e nella comprensione dei testi, è stata individuata come uno dei punti di attenzione. Riprendendo la ricerca empirica riportata nel testo “I bambini e la scrittura” di Benedetto Vertecchi, in particolare l’ipotesi n.4, si potrebbero articolare  progetti sperimentali classici, con gruppi di apprendimento che sperimenteranno l’uso del corsivo e gruppi di controllo, riconducendo le fasi dei percorsi ai passaggi fondamentali del progettare, agire, osservare, valutare, per migliore da un lato la prassi didattica e dall’altro le competenze di scrittura degli allievi, coordinando le attività manuali con quelle mentali. Perché non provare? 

3. Tecnologie, mente, cervello.

Le macchine, la tecnologia fanno parte del nostro mondo e della nostra vita, non lo dimentichiamo, non possiamo ignorarlo. Il loro uso, in positivo e in negativo, influenza la nostra mente e, di conseguenza, il nostro funzionamento cerebrale.  Come si potrà imparare a leggere e a scrivere, quali i percorsi di insegnamento/apprendimento della strumentalità di base: leggere, scrivere, far di conto, per utilizzare un vocabolario desueto. Chi ha insegnato e insegna ad utilizzare gli strumenti di accesso alla cultura, sa quanto di relazione, di accompagnamento anche fisico richieda questa fase dell’apprendimento/insegnamento dove il percorso è sempre un fare-dire-pensare (inteso come rappresentazione concettuale). Ma ancora prima, occorre chiedersi se scrivere a mano o sulla tastiera sia la stessa cosa, se impegni gli stessi processi cognitivi, la stessa attenzione, le stesse operazioni mentali, se richiede lo stesso tipo di manualità.

Sappiamo- dalla letteratura di riferimento- che la scrittura a mano, e in corsivo, è il gesto di motricità fine tra i più precisi e complessi che l’uomo sia in grado di compiere ed è uno strumento estremamente avanzato e raffinato di interazione con l’ambiente che richiede aggiustamenti, esercizio e tempi distesi e un accompagnamento costante che può essere continuato in famiglia, ma non può essere delegato. Gli allievi hanno ritmi, modi e tempi diversi di apprendimento, ma tutti hanno lo stesso diritto di apprendere, vale anche per chi ha una disabilità o fa riferimento a un’altra cultura…  Tornando all’apprendimento della scrittura a mano: l’abbandono di questo strumento può essere una perdita oggettiva di potenzialità? Che rapporto c’è tra il pensare in modo logico e lo scrivere? Da una parte l’automatizzazione dei processi di codifica e di decodifica, dall’altra lo sviluppo delle capacità di organizzare, attraverso le relazioni logiche i contenuti da comunicare e le modalità per esprimerli con il codice più adeguato. Il passaggio dalla forma orale a quella scritta si fonda sull’associazione stabile e transitiva tra la modalità uditivo-vocale e quella visivo-motoria. Il secondo passaggio riguarda la scelta del carattere grafico: corsivo, stampatello, script; in contemporanea, in sequenza, quale per primo, con quali tempi di apprendimento su cui calibrare quelli di insegnamento. Tutte domande a cui bisognerà trovare una risposta. Così come bisognerà riflettere sui percorsi che si dovranno proporre finalizzati alla prensione della penna a pinza superiore o per far acquisire le direzioni destra/sinistra, alto/basso, aspetti spesso poco considerati…

 Scrittura a mano Video-scrittura
– – – – –Utilizzo di una sola mano; le lettere vengono collocate nello spazio (limitato intorno alla punta della penna); attenzione concentrata su questo unico punto (tempo e spazio); chi scrive deve dare forma alla lettera in relazione al modello; c’è un rapporto diretto tra l’atto motorio e il prodotto grafico e l’esperienza coinvolge tutto il corpo e tutti i sensi; la      grafica        si       velocizza          e        si personalizza.– – – –Uso pressocchè paritario di entrambe le mani; il gesto (pressione sul tasto) si estrinseca su due spazi distinti: lo spazio motorio (tastiera) e lo spazio visivo (schermo) dove chi scrive controlla il prodotto; l’attenzione oscilla tra i due spazi separati; il rapporto diretto tra il processo di realizzazione e il risultato grafico, manca nella videoscrittura; manca la consapevolezza del movimento necessario per l’esecuzione delle diverse lettere; la digitazione sulla tastiera risponde alla costruzione di uno schema di memorizzazione della collocazione spaziale e delle forme delle lettere;
  la scrittura si velocizza ma non si personalizza.

Molte ricerche sulla “scrittura”, condotte in ambito neuropsicologico e di pedagogia sperimentale hanno messo in evidenza che la rappresentazione mentale delle lettere e la loro memorizzazione cambia a seconda dello strumento di scrittura utilizzato; scrivere a mano e digitare sulla tastiera si associano a schemi cerebrali diversi che danno luogo a prodotti diversi. La scrittura a mano potenzia l’attivazione delle aree cerebrali, favorisce lo sviluppo cognitivo, influisce positivamente sulla capacità di pianificazione e di controllo delle proprie azioni, come dimostrato da K. James1, Indiana University, Dipartimento di neuroscienze. E ancora la fluidità e l’automazione del gesto grafico influenzano positivamente tutte le writing skills, con maggiori fluidità comunicativa e produzione scritta. La prospettiva possibile? Integrare la scrittura a mano e la videoscrittura in modo da sfruttare le potenzialità offerte dalle tecnologie, senza perdere le funzioni esclusive prodotte dalla scrittura manuale corsiva. Solo così le nuove generazioni avranno chiavi di accesso veramente multimediali alla conoscenza e alla comunicazione. Ma per integrare bisogna aver appreso separatamente ciò che deve essere integrato. Il nostro cervello è plastico, non è elastico e ciò che va perduto non potrà essere recuperato in tempi brevi. Già Nietzsche, dopo aver imparato a usare la Writing Ball per dattiloscrivere i testi, condivideva con l’amico Koselitz la convinzione che gli strumenti di scrittura hanno un ruolo nella formazione dei nostri pensieri.

4. Conclusioni.

 M. Wolf della Tufts   University, nel libro “Proust e il calamaro”, sostiene che il nostro cervello non è fatto per scrivere e per leggere spontaneamente: leggere e scrivere non sono fatti naturali ma culturali. Per farlo, esso deve realizzare nuovi circuiti collegando regioni che geneticamente avrebbero altre funzioni. Ma è grazie alla scrittura che l’umanità ha fatto enormi progressi e questo giustifica gli sforzi che ciascuno deve fare, e che la scuola deve permettere di fare e insegnare a fare-quello che io chiamo il diritto alla fatica- per imparare a leggere e a scrivere; competenze, queste, fondamentali per divenire, come forma mentis e modus operandi, cittadini attivi e godere appieno del diritto di cittadinanza con competenza di pensiero e competenza di azione. Per questo l’educazione linguistica non può essere responsabilità del solo docente di italiano, né ridursi esclusivamente a una questione formale e stilistica. Didatticamente, questo rimanda alla interdipendenza tra padronanza linguistica e strutturazione del pensiero, alla lingua come elemento trasversale: precondizione, strumento e prodotto di tutti gli apprendimenti disciplinari. Pensando alle situazioni diversissime che vivono i ragazzi, alle differenze individuali e sociali che abitano le nostre scuole,  i docenti della scuola superiore non possono, perciò, non sapere come si impara/insegna a scrivere, quali siano i processi cognitivi che regolano la scrittura- a partire dagli aspetti strumentali-, il rapporto tra padronanza linguistica e strutturazione del pensiero: la lingua, orale e scritta, è lo strumento e il prodotto di tutti gli apprendimenti disciplinari, come sostiene anche S. Dehaene nel testo “I neuroni della lettura”. Credo sia necessaria e urgente da

parte della società civile tutta (ma in particolare da parte dei ricercatori e delle persone di scuola, perché a guardare le cose più da vicino c’è sempre qualcosa in più da capire), un serio e approfondito lavoro di riflessione sulla cultura e sul sapere, partendo dal patrimonio di conoscenze tecniche e culturali effettivamente possedute in questa fase storica e in questo particolare non proprio felice momento. Non si può pensare a un serio progetto di cambiamento del mondo scolastico considerando solo gli aspetti organizzativi, istituzionali e gestionali che sono importanti se ricondotti alla finalità del progetto culturale e non viceversa.  

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

  • Chomsky N., Moro A., (2022), I segreti delle parole, Milano, La nave di Teseo
  • De Ajuriaguerra J., (1971), L’ècriture de l’enfant, Delachaux
  • Dehaene S, (2022), Vedere la mente, Milano, Raffaello Cortina
  • Dehaene S., (2007), I neuroni della lettura, Milano, Raffaello Cortina
  • Piaget J., (2016), Epistemologia genetica, Roma, Ed. Studium
  • Sini C., (2002), La scrittura e il debito, Milano Jaca Book
  •  Vallortigara G., (2023), Il pulcino di Kant, Milano, Adelphi
  • Vertecchi B., (2016), I bambini e la scrittura. L’esperimento Nullo die sine linea. Milano, Franco Angeli
  • Vygotskij L., (2013), Pensiero e linguaggio, Roma, Editori Laterza
  • Vigotskij L., Lo sviluppo delle funzioni psichiche superiori
  • Wolf M., (2009), Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge, Milano, Vita e Pensiero
  • Wolf M, (2018), Lettore, vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale, Milano, Vita e pensiero

Valutazione dirigenti

Nuovo serial, prossimamente su reti MPA e MIM: valutazione dirigenti

di Gabriele Boselli

Sono sempre dispiaciute al Potere l’autonomia intellettuale, morale, tecnica e le garanzie di difesa giuridica dei “dipendenti” dello Stato, siano essi uomini di scuola, medici o magistrati. Costante -specie negli ultimi vent’anni- la volontà di farne attraverso sistemi di valutazione appositamente strutturati non dei titolari di funzione ma dei meri dipendenti; e non dallo Stato ma dal Governo.

Anno 41 p.C.n. e successivi

Lo Stato attraversa millenni e secoli, il governo gli anni se non i mesi. I funzionari dello Stato servono lo Stato e dipenderebbero, secondo un’ampia quanto ormai trascurata corrente della filosofia del diritto, dalla Legge e dalla Scienza, più che dai temporanei occupanti i vertici politico-amministrativi di un ministero. I quali vertici, tali divenuti non per comprovate competenze ma per i giochi della pseudo-politica (la politica disgiunta dalla Conoscenza), tendono ad affermare ed estendere il proprio potere assoggettando le competenze tecniche. Cercano periodicamente di farlo attraverso la valutazione dell’operato dei bistrattati “burocrati”, i titolari dei poteri inerenti alle funzioni proprie dell’Ufficio, sia questo una presidenza d’istituto, una direzione generale, un tribunale o un reparto ospedaliero.

La valutazione dei “dipendenti” è il principale strumento di controllo delle “elites” politico- amministrative sui titolari delle varie funzioni dello Stato: funzioni oggi non solo di politica estera, difesa e attuazione del diritto ma riguardanti anche la sanità, la ricerca scientifica, l’istruzione, la tutela dei beni artistici e naturali etc….. La pretesa dei politici senza alcuna competenza in materia e dei loro scherani di sorvegliare, premiare, punire, declassare o promuovere i titolari delle funzioni attinenti a questi campi fu esercitata in sommo grado da Caligola ma con pur diversa sicumera è una costante di tutte le forme di governo, anche di quelle che si dicono “democratiche”. Una pratica da qualche decennio accompagnata da anatemi verso la “tecnocrazia”, giustamente, dal loro punto di vista, percepita come un intrampolo, un peso, un limite. In fondo, l’essenza del potere vero non è la razionalità ma la capacità di coazione attraverso pratiche deterministiche ( C. Schmitt, Sul Leviatano, ed. it. Il Mulino, prefazione di Carlo Galli)

Anno 2016

Uno degli ultimi, periodici tentativi del Potere di assoggettamento dei dirigenti statali e scolastici in particolare -ancora non completamente selezionati in base a test mnemonici e di pensiero convergente- iniziò nel 2016 (operatività: da fine agosto 2017 a novembre 2019), incentrata su elementi di documentazione e su un colloquio, condotto a distanza per circa 45 minuti. Nellle operazioni valutative di sistema non si cercò di capire come stessero davvero le cose ma solo di produrre una rappresentazione utile ai gruppi di potere. Si tentò con la direttiva n.36 del 18/08/2016, scritta dai soliti diligenti estensori di circolari ministeriali, di capire la qualità funzionale dei dirigenti nel cercar di conseguire obiettivi e di produrre risultati ritenuti di gradimento per i decisori. Significativamente, un 35% dei DS non compilò una parte importante della documentazione, il famoso “Portfolio”. Non pochi dirigenti –anche per felice indicazione delle loro associazioni- non compilarono il Portfolio e tale difetto di documentazione portò alla non-assegnazione della massima qualifica a dirigenti prestigiosi e generalmente ritenuti di livello culturale, pedagogico e organizzativo molto elevato. Pure alcuni dirigenti scolastici componenti dei Nuclei di valutazione non compilarono il Portfolio. Inoltre in quella occasione, la valutazione si basò sulla sola voce del dirigente scolastico (considerato più compiacente) e senza far effettuare la visita in loco nè incontrare altri soggetti; risultò così impossibile una effettiva valutazione del contributo dell’azione professionale del DS alla vita della scuola. Come peraltro sempre accade nell’analisi delle situazioni molto complesse, anche se lo si fosse voluto risultò difficile comprendere se, al limite, ci si trovasse di fronte ad una scuola che “gestisce” il preside o a un preside proattivo che “guida” una scuola o, come augurabile, a una comunità di studio e di insegnamento in cui tutte le componenti assolvono degnamente i loro compiti.

Che fare per promuovere il rispetto dell’autonomia delle funzioni tecniche?

Specie negli ultimi 20/30 anni, ma in fondo da sempre, la fabbrica del disprezzo verso la Pubblica amministrazione e la Scuola ha lavorato (e lavora con rinnovata lena) a pieno regime.

La più nobile linea di difesa dalla supremazia degli inconoscenti/incompetenti, sempre egemoni nel MPA, nel MIUR o nel MIM, è quella culturale: sottoporre a una critica rigorosa i vari tentativi di assoggettamento attraverso la valutazione, intendendo per critica non generiche dichiarazioni di avversità ma l’analisi fondatamente decostruttiva dei testi e delle strategie di dominio. Unita questa a conseguenti proposte di pratiche alternative di valutazione rispettose delle autonomie funzionali. La critica da sola non basta, occorrono anche linee di proposta, altrimenti è la resa incondizionata.

Dirigenti scolastici: quel che varrebbe la pena di capire

Ad avviso di chi scrive le valutazioni estrinseche non attengono al valore ma alla valuta, al valore di servizio riconosciuto dalle élites, ovvero le associazioni-a-comandare variamente formalizzate e di solito prive di un autentico patrimonio di valori. Quel che è scritto sopra potrebbe valere per tutti i tipi di dirigenza pubblica. Per i dirigenti scolastici in particolare avanzo una proposta non originale (in parte era una buona pratica seguita con gli insegnanti fino a una trentina di anni fa): per corrispondere in qualche modo alla domanda di valutazione indotta dai media e iniziare una valutazione che premi quei dirigenti che dimostrino una risposta positiva alle domande che seguono: una riedizione dell’antico “concorso per merito distinto”. Una proposta che mi sembrerebbe utile anche per avviare a soluzione il problema della formazione in servizio: oggi si aggiorna solo chi vuole e alcuni, anche se non molti, abbandonano per sempre i libri senza alcuna conseguenza.

Si tratterebbe di bandire triennalmente un concorso per consentire a chi occupa un 30% dei posti di avere un aumento di stipendio del 10%: il concorso sarebbe basato su analisi delle pubblicazioni, una prova scritta (non a quiz, per carità!), e un esame orale in cui vengano discusse con una commissione di dirigenti e studiosi estratti a sorte e temporaneamente esonerati dal servizio la produzione teoretica e l’azione pratica dei candidati. Non si può infatti lasciare al solo dirigente generale la valutazione dei dirigenti: verrebbero favoriti il clientelismo e altri fenomeni ancor più gravi. Per la vera e propria patologia possono poi essere riattivati meccanismi già previsti per legge ma caduti in disuso, come le verifiche ispettive non solo per incarico disposto ma “motu proprio”dell’ispettore di territorio anche questi periodicamente valutato sulla propria produzione scientifica.

Cercar di comprendere se i dirigenti…

…..studino, pubblichino presso siti, editrici e riviste qualificati, siano soggetti attivi della cultura, coltivino ed esprimano il senso dello Stato, sappiano dialogare, ma in autonomia, con la cultura locale, operino per la libertà della scienza e dell’insegnamento, agiscano sempre in vista di un fine, o inseguano solo l’ effetto o un singolo obiettivo, provino ed esprimano benevolenza verso i cittadini e i colleghi, si preoccupino di ben figurare o di essere utili secondo le ragioni di fondo dell’essere-in-educazione.
La valutazione del personale scolastico è infatti attività -mai tassonomizzabile- di rappresentazione di quanto fra i docenti, gli ispettori, i DS e il mondo della scuola e della ricerca si pensa, si opera, si crea.
La valutazione allora sarebbe attività che verte non tanto sul dato obiettivabile (utile solo per la configurazione degli aspetti marginali) ma sulle fondazioni, sugli esiti e sulle risonanze degli stessi.

Tipologie di insegnanti

Tipologie di insegnanti

di Laura Bertocchi e Mario Maviglia

Questo contributo intende analizzare le forme attraverso cui, nella concreta prassi scolastica, si manifestano le varie “maschere” del docente in relazione ai differenti modi di interpretare il proprio ruolo. In senso generale possiamo affermare che esistono tante tipologie di insegnanti quanti sono gli insegnanti stessi, in quanto ognuno ha un suo modo peculiare di agire sul palcoscenico scolastico. Sotto questo profilo, ogni tentativo di categorizzazione potrebbe apparire artificioso oaccademico; in realtà, pur nelle variabilità individuali, ricorrono alcuni aggregati comportamentali e di atteggiamento comuni, che ci consentono di individuare differenti profili di insegnanti. Le diverse tipologie sono state da noi identificate sulla base della nostra esperienza maturata a scuola, a vari livelli e con gradi diversi di funzioni e responsabilità; l’analisi non è supportata da dati empirici o statistici, ma vuole proporsi come un contributoper una discussione sul ruolo docente concretamente agito. Siamo consapevoli che ogni forma di categorizzazione tende, per sua natura, a tracciare confini netti allo scopo di meglio definire e individuare i modelli proposti, anche se la realtà può apparire più indefinita e “meticcia”. In altre parole, il singolo docente può condividere alcuni aspetti di una determinata tipologia e altri di un’altra; in ogni caso, è plausibile che, almeno tendenzialmente, il comportamento di ogni insegnante possa essere letto alla luce dell’una o dell’altra “maschera”. Anche il numero delle tipologie può essere più o meno ampio a seconda della varietà che si vuole cogliere, ma occorre ricordare che la mappa non sarà mai il territorio.

Presentiamo dunque le tipologie da noi individuate, avvertendo il lettore che l’analisi che tentiamo di fare è di carattere tecnico, non morale. Non è scopo di questo contributo indicare comportamenti virtuosi o da sanzionare, ma – per quanto possibile – descrivere la realtà, almeno per la percezione che ne abbiamo noi, lasciando al lettore ogni ulteriore valutazione.

a. Demotivati.

Probabilmente questa è oggi una delle categorie che accoglie un numero significativo di docenti, soprattutto tra quelli di più lunga esperienza. Si tratta di un gruppo composito in quanto la demotivazione può nascere da cause molto diverse e possono riguardare gli aspetti sociali della professione, il prestigio attribuito e la considerazione pubblica, unitamente agli aspetti retributivi, non certo esaltanti. Sotto questo profilo i docenti italiani hanno poche ragioni per sentirsi motivati, soprattutto nel confronto con i colleghi europei. Altre ragioni possono riguardare una certa delusione per come nel tempo è cambiata la professione, sempre più burocratizzata e fin troppo preoccupata degli aspetti formali più che di quelli legati alla qualità della didattica. “Ormai è chiaro: la burocrazia  pervade massicciamente la vita di una scuola che rischia di rimanerne soffocata e, soprattutto, di dedicare tempo ed energie non tanto al perseguimento degli obiettivi istituzionali ma a questi adempimenti burocratici”, afferma una sigla sindacale. C’è la sensazione che si perda troppo tempo in riunioni, compilazione di documenti, varie incombenze inutili. Le attività extra-aula sembrano avere il sopravvento rispetto a quelle d’aula. Non si ha tempo per curare adeguatamente i processi di apprendimento. Questo complesso di fattori determina la perdita di entusiasmo verso l’insegnamento, tanto che per i docenti meno giovani la meta della pensione viene vista come una sorta di liberazione, una fuga da un ambiente diventato viepiù faticoso (e non solo per il peso degli anni).

Ovviamente è possibile, almeno teoricamente, invertire questa tendenza e innestare elementi di motivazione, ma è un’operazione non semplice e implica la mobilitazione di vari fattori. Un ruolo di primo piano viene giocato dal clima complessivo che si vive all’interno del contesto scolastico e dall’attenzione che viene riservata al personale che vi opera, e dunque da quel “benessere organizzativo” ampiamente studiato in campo psicosociale, ossia la “capacità di un’organizzazione di promuovere e mantenere il più alto grado di benessere fisico, psicologico e sociale dei lavoratori in ogni tipo di occupazione.”Ma, più in generale, si tratta, come sottolineano Avallone e Bonaretti, di governare tre importanti sfide: a) rendere attrattiva la scuola per i migliori talenti in modo da attirare i candidati più competenti, rivedendo le forme di reclutamento e selezione, garantendo adeguate condizioni di lavoro e (aggiungiamo noi) assicurando livelli retributivi più gratificanti; b) sviluppare un maggior senso di appartenenza all’organizzazione da parte dei singoli, attraverso pratiche di ascolto e coinvolgimento, e valorizzando le professionalità; c) investire nella formazione e in percorsi di apprendimento capaci di sviluppare nuove competenze, ponendo una particolare attenzione alla gestione delle relazioni. 

Come si vede si tratta di aspetti che chiamano in causa scelte di carattere generale alcune delle quali sfuggono alle possibilità delle singole istituzioni scolastiche, mentre altre afferiscono proprio agli interventi che ogni singola scuola può intraprendere al proprio interno per rendere più soddisfacente il lavoro dei docenti.

b. Attivi-entusiasti. 

Per quanto possa apparire paradossale, questa categoria di docenti è sicuramente quella più numerosa all’interno del panorama scolastico. In effetti, se l’intero sistema educativo regge lo si deve alle migliaia di docenti che ogni giorno, malgrado i tanti problemi che la scuola si trova ad affrontare, portano avanti l’impresa educativa in modo dignitoso e con risultati apprezzabili, anche se lontani dai riflettori. Per un fatto di cronaca negativo che riguarda il mondo della scuola, ve ne sono almeno migliaia di positivi che, ovviamente, non fanno notizia, in ossequio alle ferree leggi di una comunicazione diventata sempre più sensazionalistica. I docenti che definiamo “attivi-entusiasti” sono quelli che prendono parte attiva alla vita della scuola, portando il loro contributo di idee non tirandosi indietro davanti a sfide sostenibili. Possono costituire, ça va sans dire, la tipologia di docenti più apprezzata da parte dei dirigenti scolastici, se questi riescono a creare le condizioni affinché la partecipazione e il coinvolgimento vengano liberati da tutte le incrostazioni burocratiche che oggi opprimono la scuola in modo sempre più aggressivo, come abbiamo detto sopra. Gli insegnanti che intendono “spendersi” all’interno della loro scuola, infatti, di solito non temono l’impegno che questo può comportare; ciò che li frena è piuttosto il carico burocratico che di solito fa da corollario alle varie scelte o decisioni. Come sottolinea l’economista Cottarelli, “risulta che tra gli adempimenti burocratici a carico degli insegnanti ci siano verbali delle riunioni, direzione e stesura dei progetti didattici, dati e monitoraggio degli stessi progetti, tutoraggio e monitoraggio dei PCTO, cioè l’ex alternanza scuola-lavoro, programmazione del lavoro per classe e spesso per alunno nei casi di disabilità, predisposizione di verifiche diversificate, predisposizione per gli allievi DSA di una scheda con strumenti compensativi e dispensativi diversificati, compilazione del registro elettronico, compilazione di schede, griglie e tabelle, di valutazione degli alunni, compilazione di tutta la modulistica relativa alle prove INVALSI, compilazione del RAV, rapporto di autovalutazione, riunioni di dipartimento, riunioni di gruppi di lavoro per l’inclusione. La domanda è: servono effettivamente tutte queste attività? Scrivere relazioni, rapporti, serve poi se qualcuno li legge e poi, di conseguenza, assume decisioni; ma l’impressione è che tutto ciò, invece, finisca in un cassetto. Ci troviamo, quindi, di fronte alla forma peggiore di burocrazia.”

È possibile per la scuola sfuggire a questa morsa burocratica e liberare le energie dei docenti verso attività più squisitamente professionali? Probabilmente sì, se ogni singola scuola adotta un comportamento di contenimento e semplificazione rispetto alla produzione burocratica, selezionando ciò che è strettamente necessario da ciò che appare superfluo, ma anche semplificando gli stessi documenti necessari. Probabilmente in questo modo potrebbero aumentare ancor più i docenti “attivi-entusiasti”.

c. Ipercritici-Antagonisti

È fisiologico che all’interno di un gruppo composito (e spesso alquanto numeroso) come quello di un collegio dei docenti vi sia un certo numero di insegnanti che in modo più o meno sistematico si opponga alle decisioni della maggioranza (o del dirigente scolastico). Anzi, “un certo livello di conflittualità all’interno del Collegio docenti [è] addirittura positivo perché costringe i proponenti a motivare meglio le proposte avanzate.”Per quanto possa essere difficile e talvolta defatigante sostenere un confronto dialettico, “siamo convinti che esso possa far bene alla scuola (…), perché costringe a considerare il medesimo problema sotto un punto di vista diverso e magari a trovare soluzioni nuove. Addirittura se non ci fosse un docente ‘rompiscatole’ nella scuola occorrerebbe crearlo, perché ci costringe a non dare nulla per scontato e a considerare in modo diverso e variegato la realtà e soprattutto a non innamorarci troppo delle nostre proposte.”Dunque, anche se è oggettivamente sfiancante sostenere situazioni di questo tipo, esse appaiono funzionali a garantire la vitalità del sistema e a tener presente che vi sono sempre almeno due possibili letture (e soluzioni) riguardo al medesimo problema. L’onere più gravoso in questa dinamica ricade ovviamente sul dirigente scolastico che è chiamato a decodificare le prese di posizioni critiche e, soprattutto, a non lasciarsi risucchiare in un vissuto di ferite narcisistiche davanti a opinioni o concezioni diverse dalle sue, ma ricondurre il tutto all’interno di una fisiologica dinamica partecipativa che comporta anche la contrapposizione di punti di vista diversi.

Le cose possono essere un po’ più complicate quando queste contrapposizioni non hanno una motivazione ideale o operativa reale, ma vengono assunte “per partito preso”, in una sorta di conflitto permanente “a prescindere”. Ma anche in questi casi si può tentare – per quanto possibile – di riportare all’interno di una dimensione fisiologica questi comportamenti. Nella citata opera, abbiamo offerto alcuni “consigli” al dirigente scolastico in merito alla gestione di queste situazioni: “Riguardo ai docenti ‘rompiscatole’ c’è un modo per disinnescare la loro carica negativa (ma questo vale anche per i genitori ‘rompiscatole’) e consiste nel cercare di coinvolgerli nelle fasi propedeutiche all’attività decisionale (…). Ad esempio, se vuoi sapere [riferito al DS] che impatto può avere una certa tua proposta nel corpo docente, parlane preventivamente con chi sai che sarà assolutamente contrario alla proposta stessa e cerca di capire più in profondità le ragioni del dissenso per apportare (perché no?) eventuali modifiche che possono migliorarla. Spesso ci attorcigliamo intorno ai problemi di natura interpersonale perdendo di vista l’obiettivo che vogliamo raggiungere, per cui evitiamo persone che ci stanno “antipatiche” anche se potrebbero darci un contributo critico notevole nel nostro lavoro. In fondo anche Nietzsche consigliava: ‘Ama i tuoi nemici perché essi tirano fuori il meglio di te.’ Non ti si chiede di far diventare amici i tuoi nemici, ma di inserire anche questi rapporti all’interno di una cornice istituzionale al fine di perseguire gli obiettivi previsti.”

Certo è che i continui disaccordi con i colleghi (con possibili ripercussioni sullo svolgimento ordinato dei compiti previsti) o le contrapposizioni nei confronti dei vari interlocutori creano spesso intorno a questa tipologia di docenti un clima di insofferenza e di intolleranza.  

d. Frenetici

Difficile oggi sottrarsi al “fascino” ingombrante della frenesia che caratterizza la vita di tutti noi. Ovviamente anche la scuola ne subisce le conseguenze con caratterizzazioni peculiari. In particolare, la tendenza a promuovere tanti progetti ha trasformato molte scuole in “progettifici”, ossia “una sorta di bulimia dei docenti che li spinge ad aderire a progetti che talvolta didatticamente «non si parlano fra loro» e, soprattutto, spesso sono poco coerenti rispetto alle scelte educativo-didattiche del consiglio di classe.” Vi sono varie ragioni che hanno determinato questa situazione: da una parte l’implicita (ma spesso anche esplicita) sollecitazione sociale a far sì che le scuole entrino in concorrenza tra loro nella convinzione che ciò possa favorire l’incremento della qualità del servizio reso; la ricchezza dell’offerta formativa spesso viene vista come un segnale di vitalità ed efficienza della scuola, oltre che di opportunità formative per gli studenti; dall’altra l’adesione ad alcuni bandi (con relativa progettazione educativo-didattica specifica) consente alle scuole di intercettare possibili finanziamenti straordinari.

È all’interno di questo contesto generale che va considerata la categoria dei docenti frenetici, anche se probabilmente questi insegnanti ci mettono del loro in questa corsa al fare e al proporre, assecondati e sostenuti in questo da dirigenti scolastici molto sensibili alle sirene della “produzione”. 

Almeno due aspetti vanno considerati criticamente per cogliere fino in fondo gli effetti di questo modus operandi: a) il costante impegno che questo comportamento richiede tende inevitabilmente a creare una frattura tra i (relativamente) pochi docenti frenetici e il resto dei colleghi (meno inclini a lasciarsi coinvolgere in modo così continuo e ossessivo), con la prevedibile creazione di una sorta di élite professionale, vicina alla dirigenza,ma lontana dalla base dei colleghi; b) il significativo numero di iniziative o progetti portati avanti lascia supporre che si tende a privilegiare il fare a scapito del pensare, con il rischio di mettere in atto interventi di superficie, che non intaccano i tradizionali modelli di trasmissione della conoscenza. Va inoltre sottolineato che in questo modo sembra che la preoccupazione maggiore dei docenti sia rivolta verso la categoria della quantità piuttosto che verso quella della qualità o dell’approfondimento. Ma questo appare una cifra complessiva dei curricula scolastici italiani, forse ancora troppo “pieni” di contenuti.

e. Accomodanti.

Questa categoria conta molti adepti tra i docenti. Di solito si tratta di persone che, per vari motivi, si adeguano allo status quo e, generalmente, seguono le decisioni della maggioranza, non necessariamente per intima adesione o convinzione, ma per il quieto vivere o per concludere gli impegni in tempi sostenibili e compatibili con i tempi personali e familiari. Spesso l’adesione degli accomodanti alle varie proposte è strettamente legata al livello di coinvolgimento effettivo che viene loro richiesto nella realizzazione delle varie iniziative. Infatti questi docenti non hanno alcuna difficoltà ad approvare progetti che vengono realizzati dai colleghi; se però il progetto richiede un loro coinvolgimento attivo, allora l’espressione che meglio sintetizza il loro atteggiamento è not in my back yard (non nel mio cortile), ossia “va bene realizzare l’opera, ma senza che io ne sia coinvolto”.

Gli accomodanti di solito rifuggono dalle dispute ideologiche o dottrinarie, non è nel loro carattere sostenere fino in fondo determinate idee, preferendo il compromesso, o comunque una linea di condotta che superi le contrapposizioni. A seconda dell’accentuazione che assume questo comportamento si possono avere modalità di relazione tra loro molto diverse, se non addirittura contrapposte. Così, ad esempio, se essere accomodanti si traduce in essere compiacenti, ossia mettere in atto posture ritenute accettabili dagli altri, è evidente che il comportamento ne risulta artefatto o inautentico e in ogni caso la compiacenza è il prezzo che si paga per essere accettati dagli altri. E d’altro canto, un eccesso di accomodamento può portare al conformismo e ad un annebbiamento del proprio spirito critico. Nel loro studio sul comportamento di un individuo nelle situazioni di conflitto, Kenneth W. Thomas e Ralph H. Kilmann (autori del metodo TKI, ossia Thomas-Kilmann Conflict Mode Instrument), definiscono l’accomodante come “poco assertivo e collaborativo, l’esatto contrario della competizione. Quando adotta un comportamento accomodante, l’individuo trascura i propri interessi per soddisfare quelli dell’altro; in questa modalità c’è un aspetto di abnegazione. L’accomodamento può assumere la forma di generosità o altruismo, di obbedienza alle richieste di un’altra persona anche quando si preferirebbe non farlo, oppure l’arrendersi al punto di vista dell’altro.” Non è raro, peraltro, che il docente accomodante nutra sentimenti di rabbia o frustrazione proprio per l’opera di coartazione che si autoimpone per aderire alle aspettative degli altri.

f. Minimalisti

Non è difficile individuare i docenti minimalisti: si tratta di coloro che fanno il minimo indispensabile e che non si lasciano coinvolgere in attività che richiedono un carico elaborativo o realizzativo oltre l’ordinario. A ben vedere, questo atteggiamento non dovrebbe essere visto in senso necessariamente negativo: in fondo un’organizzazione fisiologicamente in salute e matura non ha bisogno di richiedere ai propri addetti prestazioni straordinarie, se non in particolari momenti dell’anno scolastico e per motivi specifici e circoscritti (e in ogni caso potendo sempre disporre di strumenti contrattuali in grado di “premiare” o comunque riconoscere in modo adeguato gli impegni straordinari). La scuola, sotto questo profilo, è una realtà alquanto anomala poiché, troppo spesso, fa riferimento alle disponibilità volontaristiche dei suoi operatori per realizzare i propri progetti. Non mancano i riconoscimenti, a dire il vero, ma questi appaiono più simbolici che reali, se si considera il carico di lavoro richiesto. Prendiamo l’esempio dell’adesione ai vari progetti nazionali o internazionali che consentono alla scuola di accedere a significativifinanziamenti o a esperienze di interscambio professionale con altre scuole anche straniere; o, più banalmente, si pensi all’impegno e alla responsabilità richiesti ai docenti nell’organizzazione e gestione delle visite di istruzione. Se si considerano i tempi necessari che vengono dedicati alla progettazione e realizzazione di queste iniziative ci si può facilmente rendere conto che i “ritorni” (economici o sociali) per i docenti coinvolti sono alquanto insignificanti. Se nella scuola dovesse venire meno l’adesione volontaristica dei docenti gran parte dell’attività non ordinaria sicuramente non si svolgerebbe.Forse non si è mai riflettuto abbastanza su quanto lavoro volontario viene svolto da chi lavora a scuola; i docenti minimalisti, loro malgrado, testimoniano questa situazione, facendo vedere la realtà più prosaica della scuola, che fa i conti con le condizioni materiali della professione.

Conclusioni.

Come già detto prima, l’elenco delle tipologie di docente può essere ampliato ulteriormente o modificato profondamente. Ciò che ci appare interessante è il tentativo di tracciare un quadro delle varie modalità in cui si esprime il ruolo docente, al di là di quanto previsto dalle indicazioni normative ufficiali. Questo sforzo può contribuire ad innalzare il livello di consapevolezza su come viene svolta la funzione docente, migliorandone la professionalità e contribuendo ad assumere decisioni più coerenti e adeguate in relazione agli obiettivi che si intendono perseguire.

Il diritto dei bambini alla lettura

Il diritto dei bambini alla lettura

di Margherita Marzario

Quanto sia importante ed efficace la lettura precoce, sia per stimolare lo sviluppo cognitivo e lessicale dei bambini sia per costruire e cementare le relazioni familiari (la memoria familiare), ormai è un dato acquisito (anche grazie al fondamentale lavoro culturale realizzato in questi anni dal programma Nati per leggere).

Secondo l’esperto Federico Batini: “La lettura ad alta voce gioca un ruolo fondamentale anche per quanto riguarda lo sviluppo dell’empatia fin dall’età prescolare, ricoprendo un ruolo determinante nel promuovere un positivo sviluppo psicosociale, fondamentale per la messa in atto di comportamenti empatici. Comprendere le intenzioni, le emozioni ed entrare in empatia con il personaggio di un racconto può essere di aiuto al bambino per il corretto sviluppo e la decodifica del mondo reale e dunque facilitargli le relazioni. Entrare in relazione ed empatizzare con un personaggio non implica solo la comprensione del suo stato emotivo, ma anche la capacità di provare le sue emozioni”. Generalmente non piace leggere perché la lettura viene posta come un dovere e non come un piacere e ancora meno come la possibilità di leggere in se stessi e in mondi inesplorati.

Batini aggiunge: “Un’altra indicazione molto importante riguarda la gratuità: la lettura ad alta voce non deve essere collegata a attività altre, si tratta di una didattica in sé conclusa e di un importante gesto di attenzione e stimolo che non chiede qualcosa in cambio. La didattica della lettura ad alta voce si completa con la fase della socializzazione: un momento in cui i bambini e le bambine possono esprimere il proprio punto di vista. E questo si può facilitare attraverso domande stimolo, domande aperte: “Secondo voi come andrà a finire? Quale personaggio vi è piaciuto di più perché? E voi al posto di quel personaggio che cosa avreste fatto?” Ogni intervento deve essere valorizzato: da questo scambio i bambini e le bambine imparano moltissimo dai contributi degli altri”. La lettura, ancor di più quella ad alta voce, è multifunzionale: è un atto di libertà, educazione alla libertà, donazione di tempo, proposta di una chiave di lettura del mondo interiore e quello esteriore. 

Ancora Batini suggerisce: “Bisogna fare la lettura ad alta voce, in modo quotidiano, e servirsi pure delle varie metodologie, tra cui il Kamishibai, ma non teatralizzare la lettura che, altrimenti, non è più lettura” (in un webinar del 18-10-2023). Quel che conta è che l’insegnante sia lettore, un buon lettore, appassionato e appassionante, convinto e coerente con il suo stile educativo. Non è necessario che si specializzi come “promotore della lettura”. 

Anche l’esperta Barbara Dragoni afferma: “Nelle prime settimane di scuola, è estremamente importante instaurare un’educazione alla lettura corretta e funzionale, che rappresenta una priorità didattica fondamentale per le discipline umanistiche (e non solo). Leggere insieme libri o parti di essi, di diversi generi e formati, e condividere opinioni e interpretazioni, consente di riflettere, discutere, conoscersi reciprocamente, iniziare ad empatizzare e, in definitiva, gettare le basi per creare uno spirito di autentica comunità. La lettura di libri permette anche di suscitare curiosità e interesse verso la lettura stessa e può fin da subito far scoprire che leggere può diventare un vero e proprio piacere”. Leggere ai bambini è stimolare la loro autonomia di pensiero, favorire il benessere e prendersi cura di loro nell’interezza della persona, in conformità della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e delle Linee pedagogiche per il sistema integrato zerosei (2021).

Bisogna educare alla lettura delle immagini senza però “bombardare” i bambini, soprattutto in tenera età, con ogni sorta di immagine (sovraccarico di cartelloni, dipinti sui vetri, LIM) dato già l’“inquinamento visivo” dilagante in ogni ambiente. La scuola deve fornire gli strumenti per far imparare ad “osservare” le immagini, saperle distinguere, vedere oltre, e sviluppare così l’immaginazione che, invece, risulta spesso frenata. Basti leggere i suggerimenti contenuti nella Carta dei diritti dei bambini all’arte ed alla cultura (Bologna, 2011). Andrea Sola, promotore della pedagogia libertaria, spiega: “L’utilizzo delle immagini come forma autonoma di linguaggio è spesso trascurato nei percorsi scolastici, ma in realtà, ogni esperienza di vita, ogni ricordo autobiografico e ogni nuovo apprendimento possono essere descritti anche attraverso le immagini, non solo con il linguaggio discorsivo. È quindi utile sviluppare un’alternativa pedagogica che sappia utilizzare gli strumenti espressivi di natura estetica, compresi quelli digitali, per un loro uso formativo”. 

Mediante l’arte e la cultura si forniscono ai bambini strumenti imperituri e proficui con cui leggere e interpretare la realtà superando la limitatezza e la caducità delle cose materiali. “I bambini hanno diritto […] a essere parte di processi artistici che nutrano la loro intelligenza emotiva e li aiutino a sviluppare in modo armonico sensibilità e competenze” (art. 3 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura). Lo scrittore Alessandro D’Avenia puntualizza: “Alla liquidità del mondo di oggi si risponde con la profondità della propria identità; solo chi ha un’anima antisismica può resistere ai terremoti contemporanei, perché solo quando l’anima è pronta allora sono pronte anche le cose e non viceversa”. Attraverso la lettura si fanno vivere storie ed esperienze di ogni sorta per cui si contribuisce alla costruzione di “un’anima antisismica”.

Anche la scrittrice Michela Murgia conviene: “[…] noi non abitiamo solo gli indirizzi dove ci arriva la posta: abitiamo anche nelle storie che ci sono state raccontate sin da quando eravamo bambini. Meno ne abbiamo a disposizione, più angusta e cupa è la casa mentale in cui ci svegliamo ogni mattina”. È importante narrare, raccontare, raccontarsi, leggere e inventare storie con i bambini perché si forniscono vari linguaggi e si stimolano le intelligenze, si contribuisce alla formazione della loro identità che è fatta di elementi che sono propri di quel singolo e di elementi che sono “identici” agli altri. 

A scuola si dovrebbero non fare le domande agli alunni ma suscitarle e ascoltarle. Leggere non è solo leggere libri ma leggere in sé e leggere la realtà, intus legere e inter legere (quello che è il significato etimologico di “intelligenza”). “Spesso le domande dei bambini ci lasciano spiazzati e di solito non rispondiamo cercando di sviare o ingarbugliare il discorso o rimandare a quando saranno più grandi e potranno capire. Forse perché gli adulti non sono all’altezza delle domande serie e vere dei bambini (…). Si incontra poi la scuola dove spesso si attribuisce più importanza al saper recitare risposte che al fare domande. E poco a poco si smette anche di sperimentare il mondo, di cercare soluzioni autonome alle proprie domande; le scienze si studiano sul libro, magari leggendo inizialmente il capitolo sul metodo sperimentale” (Enrica Giordano, esperta di didattica della fisica). La lettura a scuola dovrebbe essere preceduta e continuata in famiglia. “La famiglia va sostenuta, aiutata, ma va anche raccontata. In un mondo di crescenti solitudini, ma con un bisogno intatto di affettività e di calore familiare […] c’è bisogno di un cambiamento culturale. Essere genitori deve tornare ad essere socialmente premiante, non un ostacolo alla realizzazione personale in particolare delle donne. Solo con un clima accogliente, nella concretezza dell’organizzazione sociale e nella percezione di un sistema favorevole, la famiglia tornerà ad essere centrale e la discesa demografica potrà essere fermata. E […] partendo da un rapporto – quello tra la famiglia e il libro – che è inscindibile da secoli: ogni romanzo racconta in qualche modo di una famiglia, ogni storia è una storia di famiglia” (Eugenia Roccella, ministro per la famiglia). In famiglia si deve leggere, raccontare, narrare, perché si contribuisce alla costruzione dell’identità (anche la cosiddetta identità narrativa), al benessere di ciascun membro e dell’intera famiglia e tutto ciò si riflette all’esterno. A questo si aggiunge quanto la lettura in casa sia rilevante anche per il coinvolgimento dei padri. 

Leggere (ad alta voce) è fornire ai bambini strumenti per l’esercizio dei propri diritti, contribuisce a impartire al fanciullo, in modo consono alle sue capacità evolutive, l’orientamento e i consigli necessari all’esercizio dei diritti che gli riconosce la Convenzione (parafrasando l’art. 5 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Il ministro, gli influencer e l’autonomia scolastica

Il ministro, gli influencer e l’autonomia scolastica

di Nicola Puttilli

Alcuni giorni fa un’insegnante della scuola che dirigevo a Nichelino, realtà allora particolarmente problematica dell’hinterland torinese, mi ricordava con un messaggio che più di una ventina di anni fa istituimmo nella scuola elementare un laboratorio di educazione all’affettività e alla sessualità, osservando, con una punta di ironia, come già allora fossimo all’avanguardia, anche senza il supporto degli influencer.  Influencer o meno l’avvio del laboratorio fu reso possibile grazie a quel poco di organico funzionale e di risorse aggiuntive (L 440/97) che accompagnò la prima attuazione dell’autonomia scolastica, voluta dall’allora ministro dell’istruzione, recentemente scomparso, Luigi Berlinguer. Il laboratorio, così come lo stesso tentativo di dare vita a una vera, per quanto iniziale, autonomia, ebbe breve vita. Il ministro che, come non bastasse l’autonomia, si era messo in testa di riformare anche gli ordinamenti scolastici,sostanzialmente risalenti alla riforma Gentile, fu presto trafitto dal fuoco amico e costretto alle dimissioni.

Dal 2001, ministro Letizia Moratti, cominciarono gli anni delle vacche magre: tagli indiscriminati, di finanziaria in finanziaria, fino a praticamente dimezzare in poco più di un ventennio la quota di PIL destinata all’istruzione. Operazione, quest’ultima, in cui si distinse per accanimento e perseveranza la ministra Gelmini.

L’autonomia scolastica si tradusse presto nello scarico verso le scuole di tutte le procedure burocratiche e amministrative che prima facevano capo ai provveditorati agli studi. Gli organici funzionali furono rapidamente dimenticati e nella scuola primaria tagliate drasticamente le compresenze sul tempo pieno, rendendo sempre più difficili quelle preziose esperienze laboratoriali che ne avevano caratterizzato la nascita negli anni’70. Negli altri ordini di scuola è costantemente lievitato il numero di alunni per classe e per converso drasticamente diminuito il numero di autonomie scolastiche(istituzioni oggi per lo più sovradimensionate, cariche di compiti amministrativi, con il dirigente scolastico sempre più lontano dai temi educativi e didattici che dovrebbero invece maggiormente caratterizzarne la dimensione professionale).

Gli esiti di questa fallimentare politica scolastica purtroppo li conosciamo bene: risultatidi apprendimento insoddisfacenti, deficit relazionali e comportamentali, dilagante analfabetismo di ritorno, tassi di abbandono e dispersione tra i più alti d’Europa e con fortissimi squilibri regionali e territoriali.

Con l’eccezione della L 107/15, anch’essa peraltro declinata burocraticamente, dopo Berlinguer i governi e i ministri che si sono succeduti hanno praticamente rinunciato a occuparsi di scuola, considerandola una riserva di caccia per le leggi finanziarie e limitandosi a interventi di piccolo cabotaggio (chi ricorda il “cacciavite” di Fioroni?) o, peggio, tesi a lasciare una qualche traccia purchessia della propria presenza (per onor del vero c’è stato anche il caso del ministro Fioramonti che si è dimesso perché gli investimenti promessi non erano stati confermati, o almeno così ha dichiarato, caso unico per quel che riguarda le dimissioni, regola confermata per i mancati investimenti).

Si sono così ripetute, a seconda degli echi di cronaca del momento, le misure, più o meno andate a segno, tese ad imporre dall’alto ore aggiuntive praticamente su tutto. Dall’educazione stradale in caso di incidenti gravi, all’educazione motoria cara al ministro già insegnante di educazione fisica, nella primaria. Dall’orientamento quandola pubblica opinione discute del disallineamento tra offerta formativa delle scuole ed esigenze del mondo imprenditoriale, all’educazione civica se il tema del giorno è quello del bullismo, fino all’ educazione alle relazioni e ai sentimenti (per la sessualità si può sempre aspettare) in caso di femminicidio, senza dimenticare le ore di religione cattolica già presenti dal 1984. 

Nella mente dei nostri ministri continua a prevalere l’idea dei vasi da riempire, come se i comportamenti derivassero più dalla quantità dei contenuti appresi che dalla qualità degli stessi e, soprattutto, dalla qualità degli approcci metodologici e delle relazioni che gli insegnanti sono in grado di impostare fin dalla scuola dell’infanzia e a prescinderedalla specifica disciplina di insegnamento, in ogni istante del loro rapporto con gli studenti.

I problemi della scuola italiana sono enormi e strutturali, a poco servono interventi-immagine e ore aggiuntive distribuite qua e là. Anche se le riforme di sistema, nella scuola in particolare, non hanno mai pagato politicamente, sarebbe forse ora di assumersi la responsabilità di ritornare a una visione generale, a un progetto di grande respiro in grado di dare speranza alla nostra scuola. Le vie individuate da Luigi Berlinguer più di venti anni fa possono ancora  essere un importante punto di riferimento: sia la riforma dei cicli utile a contrastare la selezione precoce e la successiva dispersione scolastica sia, e soprattutto, una vera autonomia scolastica.

Più di vent’anni fa a Nichelino IV circolo eravamo stati in grado di intercettare le esigenze del territorio e di fornire risposte significative, senza imbeccate ministeriali e tanto meno interventi di influencer o simili dell’epoca. La scuola italiana ha bisogno di investimenti importanti, dalla sicurezza delle scuole alla qualità degli ambienti di apprendimento, fino alla formazione del personale- Non sarebbe male cominciare con il rispedire agli uffici ministeriali territoriali scartoffie e pratiche burocratiche varie e dare fiducia e mezzi, in termini di organici funzionali e di risorse, ai nostri insegnanti e ai nostri dirigenti scolastici, riprendendo, là dove l’avevamo lasciata, la strada di una vera autonomia scolastica.

Educazione alle relazioni, percorsi progettuali per le scuole

Educazione alle relazioni, percorsi progettuali per le scuole. Stato dell’arte.

Dario Angelo TUMMINELLI, Carmelo Salvatore BENFANTE PICOGNA, Zaira MATERA

Educare alle relazioni è un progetto sperimentale ed innovativo introdotto dal Ministero dell’Istruzione e del Merito che mira a promuovere la formazione affettiva e relazionale delle nuove generazioni attraverso una formazione specifica rivolta agli studenti delle scuole secondarie di secondo grado, al fine di contrastare la violenza di genere e favorire il rispetto dell’altro.

Con la Direttiva 24 novembre 2023, AOODPPR 83 “Educazione alle relazioni” – Percorsi progetuali per le scuole, il dicastero dell’istruzione rafforza, dunque, il suo impegno verso un’azione educativa mirata alla cultura del rispetto, all’educazione alle relazioni e al contrasto della violenza di genere.

Approfondimento Il tema del femmicidio è attualmente oggetto di ampio dibattito pubblico, sociale e politico ed è sotto l’attenzione dell’attuale governo. Non da ultimo la recente emanazione della Legge del 24 novembre 2023, n. 168 pubblicata in Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 275 del 24 novembre 2023 intitolata “Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica” che entrerà in vigore il prossimo 09 dicembre.

La direttiva in parola, in corso di registrazione alla Corte dei Conti, è stata fortemente voluta dall’attuale Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara a seguito dei recenti fatti di cronaca di violenza fisica e sessuale che hanno interessato e coinvolto minori (studenti) a Caivano e a Palermo e anche dopo una attenta valutazione dei dati ufficiali registrati e comunicati dal Ministero dell’Interno, nei quali si evidenzia la preoccupante tendenza all’aumento negli ultimi anni (trend sempre più in crescita) del fenomeno noto come “femminicidio”.

La violenza contro le donne è una delle violazioni dei diritti umani più diffuse e devastanti, una negazione quotidiana della dignità della persona, che è il valore cardine della nostra società” è quanto dichiarato dal Ministro nel videomessaggio pubblicato sul sito e sui canali social del Ministero, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, celebrata ogni 25 novembre consultabile dal link: https://www.miur.gov.it/web/guest/-/25-novembre-il-videomessaggio-del-ministro-valditara-la-violenza-contro-le-donne-e-negazione-dei-diritti-umani-la-scuola-costituzionale-in-prima-linea

In questa iniziativa progettuale rientrano in sinergia e in un più ampio contesto di sensibilizzazione al tema, i Ministeri per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità e il Ministero della Cultura, attraverso la condivisione di un protocollo d’intensa siglato con il Ministero dell’Istruzione sulla “Prevenzione e contrasto della violenza maschile nei confronti delle donne e della violenza domestica – iniziative rivolte al mondo della scuola”.

Il protocollo ha una durata biennale, a decorrere dalla data della sottoscrizione, e potrà essere rinnovato e prorogato, previo accordo fra i dicasteri interessati e dalla sua attuazione non potranno comunque derivare nuovi o maggiori oneri a carico delle istituzioni scolastiche aderenti.

L’intento del Ministero, con l’emanazione della direttiva e la firma del protocollo, è di porre rimedio a questo triste fenomeno, con la prioritaria necessità di promuovere, attraverso percorsi mirati, progettati autonomamente dalle Istituzioni scolastiche, l’educazione alle relazioni.

Invero, il progetto ricalca il solco tracciato da precedenti interventi normativi riprendendo gli orientamenti e le Linee guida del 27 ottobre 2017 intitolate “Educare al rispetto: per la parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme di discriminazione”, predisposte dallo stesso ministero in attuazione dell’articolo 1 comma 16 della Legge 13 luglio 2015, n. 107 “Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti” e della nota MIUR prot. n. AOODGSIP.5515 del 27 ottobre 2017 “Piano nazionale MIUR di educazione al rispetto”, derivante dalla sopra citata legge.

Come previsto dall’art. 1 della citata direttiva, i percorsi educativi saranno iniziative progettuali “extra-curriculari”, con attività pluridisciplinari e metodologie laboratoriali e con un impegno annuo di 30 ore.

I progetti sono destinati, in particolare, agli studenti frequentanti le istituzioni scolastiche secondarie di II grado del sistema nazionale di istruzione.

I discenti saranno coinvolti attivamente nei progetti attraverso gruppi di discussione e autoconsapevolezza, preferibilmente composti da 6 a 12 studenti di età omogenea, che si incontreranno una volta ogni due settimane per un’ora o due, coordinati dai docenti referenti, per realizzare un processo di continua maturazione cognitiva, educativa e culturale, diffondere i valori del rispetto reciproco e della parità di genere, ridurre atteggiamenti discriminatori e violenti e far acquisire e cogliere gli strumenti necessari per riconoscere, anche precocemente, i primi segnali di discriminazione e di violenza contro le donne.

Le attività didattiche e laboratoriali, basate sul metodo “Balint” (lavoro di gruppo),saranno espletate nelle ore pomeridiane per non sovrapporsi (ma integrarsi) con le ore di Educazione civica, disciplina trasversale introdotta recentemente (settembre 2020). Il focus centrale dei temi sarà una base comune tra costruzione di relazioni affettive, la percezione di genere, gli stereotipi e il rispetto dell’altro.

Nell’art. 2 sono previste le modalità attuative dei progetti che dovranno seguire un percorso prestabilito approvato dagli organi collegiali (collegio dei docenti e consiglio di istituto) cosi come articolato:

  1. indicazione di un docente referente per ogni istituzione scolastica coinvolta;
  2. costituzione di gruppi di discussione – focus group – aventi come unità funzionale di riferimento la classe.
  3. individuazione, per ogni gruppo-classe, di un docente che possa fungere da animatore-moderatore;
  4. svolgimento di un’adeguata formazione di ciascun docente-moderatore, secondo un programma che il Ministero dell’istruzione e del merito predispone anche con il supporto di organismi scientifici e professionali.

Un aspetto molto qualificante dell’iniziativa è rappresentato dal coinvolgimento delle associazioni delle famiglie – FONAGS (Forum nazionale delle associazioni dei genitori della scuola) incardinato presso la Direzione generale per lo studente, l’inclusione e l’orientamento scolastico, per l’attuazione dei progetti. Le linee guida del progetto saranno dunque condivise con il FONAGS che potrà formulare eventuali osservazioni e suggerimenti.

L’articolo 3 della direttiva prevede il finanziamento delle attività e il reperimento delle risorse necessarie per la realizzazione delle iniziative progettuali coerenti. Sono stati stanziati 15 milioni di Euro, somme a valere sui fondi europei PON (Programma Operativo Nazionale) “Per la Scuola – competenze e ambienti per l’apprendimento” e del PN “Scuole e competenze” 2021-2027.

Le istituzioni scolastiche secondarie di secondo grado del sistema nazionale di istruzione potranno liberamente aderire o meno, nell’ambito delle risorse disponibili, attraverso la propria candidatura mediante un apposito avviso pubblico che sarà successivamente emanato e pubblicato. La partecipazione delle istituzioni scolastiche sarà dunque facoltativa così come è facoltativa l’adesione degli studenti previo il consenso da parte dei genitori o gli esercenti la responsabilità genitoriale.

L’art. 4 della direttiva prevede le azioni di accompagnamento e di formazione del corpo docente coinvolto nelle iniziative e nelle attività progettuali. Il MIM, avvalendosi dell’INDIRE (Istituto nazionale di documentazione innovazione e ricerca educativa), garantirà l’erogazione di specifici percorsi di formazione a favore degli insegnanti coinvolti e l’accompagnamento puntuale delle istituzioni scolastiche con un attivo supporto nella realizzazione delle attività progettuali previste anche mediante la collaborazione dell’Ordine degli psicologi e/o di altri organismi scientifici e professionali qualificati (a titolo di esempio la consulenza di giuristi e pedagogisti ed esperti del settore).

Le figure coinvolte nei progetti, sia interni (docenti) che esterni (esperti), saranno opportunamente incentivate tramite compensi extra per le ore aggiuntive espletate, rispettando i termini dei contratti collettivi nazionali.

In conclusione il progetto “Educare alle relazioni” ha suscitato diverse reazioni e accesi dibattiti, sia favorevoli che contrarie, da parte di politici, esperti del mondo della scuola, tra i media e l’opinione pubblica. A parere di chi scrive si ritiene apprezzabile l’iniziativa sperimentale, utile e necessaria oggi più che mai, per prevenire e contrastare la violenza di genere e per educare le giovani generazioni ad una cultura del rispetto e della responsabilità.

Bibliografia

  • COSTITUZIONE ITALIANA, artt. 2, 3 e 13
  • CARTA dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (2000/C 364/01), art. 21
  • CONVENZIONE Europea dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali Roma, 4 novembre 1950
  • DICHIARAZIONE sull’eliminazione della violenza contro le donne approvata dall’ONU nel 1993
  • RISOLUZIONE n. 54/134 del 17 dicembre 1999 “Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne e il femminicidio
  • LEGGE 27 giugno 2013, n. 77 “Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica
  • LEGGE 13 luglio 2015, n. 107 “Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti” art. 1 comma 16
  • LEGGE 24 novembre 2023, n. 168 “Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica
  • LINEE Guida Nazionali del 27 ottobre 2017 “Educare al rispetto: per la parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme di discriminazione
  • NOTA MIUR prot. n. AOODGSIP.5515 del 27 ottobre 2017 “Piano nazionale per l’educazione al rispetto, Linee Guida Nazionali (art. 1 comma 16 L. 107/2015) e Linee di orientamento per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo nelle scuole (art. 4 L. 71/2017)
  • DECRETO 12 aprile 2022 “Costituzione dell’Osservatorio sul fenomeno della violenza nei confronti delle donne e sulla violenza domestica
  • DIRETTIVA prot. n. 83 del 24 novembre 2023 percorsi progettuali per le scuole in tema di “Educazione alle relazioni
  • PROTOCOLLO DI INTENSA “Prevenzione e contrasto della violenza maschile nei confronti delle donne e della violenza domestica – iniziative rivolte al mondo della scuola

Sitografia

  • MINISTERO DELL’ISTRUZIONE

https://www.miur.gov.it/web/guest/-/direttiva-n-83-del-24-novembre-2023

  • MINISTERO DELL’ISTRUZIONE

https://www.miur.gov.it/web/guest/-/25-novembre-il-videomessaggio-del-ministro-valditara-la-violenza-contro-le-donne-e-negazione-dei-diritti-umani-la-scuola-costituzionale-in-prima-linea