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Terra di odio e di vendetta

Terra di odio e di vendetta

di Vincenzo Andraous

 

Ci risiamo, come ieri, avanti Cristo, dopo Cristo, quella Croce offesa, umiliata, annientata. Ognuno a rivendicare ragione, diritto, giustizia, ciascuno a fare nel sangue la propria assoluzione da vincitore.

Terre inzuppate di sofferenza imbavagliata, atrocità nascoste, massacri silenziati, dentro stati della mente ottusi e conclusi, dimensioni del cuore che non posseggono più alcuna compassione, pietà, l’ultima volontà di un perdono.

Terre di potenti che non concedono più metri, ne tolgono, terre di ricchi e di poveri ridotte a camposanti, in preda all’ira della vendetta, a urlare colpe, condanne, accuse incrociate, la sentenza sta nei tanti e troppi volti reclinati.

Eserciti bene intruppati e colonne di affaccendati con la polvere da sparo, tecniche di guerra e pratiche del terrore, popoli fintamente mascherati di giustizia, angolazioni di disumanità abbandonata a se stessa, nell’esclusione sociale, caratterizzata dai più alti livelli di controllo sulle persone, subordinate ai colpi di pietra, di machete, di pistola, di obice.

L’idea che osservare e costringere qualcuno in condizioni sub-umane sia sinonimo di osservare ciò che accade in termini più generali, è davvero una bestemmia pronunciata ad alta voce, una derisione all’onestà intellettuale, con lo scopo di rendere la tortura e l’omicidio una condizione alternativa più accettabile.

Si muore scomposti dal rumore degli spari, degli scarponi chiodati, dai cingoli dei carri armati, fanno breccia nel cuore indurito di chi non ha più figli, sorelle, fratelli, una famiglia, la propria casa.

Nel morso antico dell’odio, della vendetta, della supplica e della concessione tradita, si muore dentro la propria storia millenaria, si muore per una bandiera, per un pezzo di terra con tanti padroni e pochi giusti. Si muore per opulenza da difendere, per povertà da rivendicare, si muore per un principio, per una fede contrapposta, si muore per delirio di onnipotenza, anche là dove il potere ha solo voce di commiserazione.

Si muore senza onore delle armi, si muore tra gli scaracchi, mai con sentimento di riconciliazione.

Al dolore per una scomparsa, c’è preghiera di circostanza, azione di propaganda, che sfocia nella ferocia del più forte, persino il più debole non fa passi indietro.

Spara il cannone, spara il lanciarazzi, sparano come forma di tutela della propria incolumità, della propria leggittimità a esistere in un territorio che non ha più speranza, perché oppressa dalla più ostile disperazione.

Ci risiamo, proprio come ieri, donne, uomini, bambini, trucidati in una sinagoga, in autobus, altri suicidati su una trave, altri ancora in galera, dentro le proprie case polverizzate.

Tu ne ammazzi uno, io ne ammazzo cento, tu lanci razzi, io bombardo, donne, vecchi, bambini, carne da macello con la divisa della vittima svenduta e fin’anche oltraggiata.

Un passato che non passa, che non insegna un bel niente, che non allena gambe solide per ritornare al mondo di un possibile futuro.

E’ un’umanità in asfissia, stretta tra eredità indicibili e rivalse fraudolente, plotoni in fila per tre in attesa del colpo alla nuca, persone prese in mezzo, non più riconosciuti i ruoli, il valore della vita umana, da ogni barricata il nemico a vista è da atterrare, non più storie di uomini, ma numeri, cose, oggettistica d’accatto, rimasugli da estinguere in fretta.

Non c’è spazio per il rispetto, sono minacce che s’avverano, a differenza di qualche parolaio da gran cassa mediatica, in questo film che s’annuncia poderoso, non c’è Davide contro Golia, bensì innocenti senza più documenti di identità, ma forse Dio, il tuo, il mio, non starà più appoggiato a fare di conto con arguzia da mercato, forse Dio s’è davvero stancato.

Ancora sul registro elettronico

Ancora sul registro elettronico

di Cosimo De Nitto

Che strana stagione viviamo, è la stagione dell'”incontrario”, si potrebbe dire.

Standardizzano ciò che non va standardizzato (INVALSI), non standardizzano, invece, ciò che va standardizzato (la documentazione scolastica). I tanto declamati costi standard si fermano alle soglie della scuola? Il registro potrà cambiare colore e grafica, ma alla fine le “cose” che deve registrare sono le stesse per tutti, o no? In quanto strumento burocratico (spesso, invece, viene pensato e agito come fine con sopraggiunta di un carico da 90 di senso che lo fa coincidere con la modernità, efficienza, novità, futuro ecc.) deve essere per definizione standard relativamente alle circostanze d’uso (se uno insegna in più scuole non può avere un diverso registro elettronico in ciascuna di esse), pratico nella compilazione (data in), facile, comodo, infallibile nella consultazione (data out). Un registro elettronico affinché si faccia preferire a quello cartaceo deve dimostrare dunque:

1) che fa risparmiare tempo;

2) che fa risparmiare denaro;

3) che è più friendly nell’uso e nella gestione;

4) che garantisce di più la sicurezza dei dati.

I registri elettronici rispondono tutti a questi requisiti? Non si può dire.

Dunque?

Che senso ha una registrazione di atti amministrativi diversa per ogni scuola? Che senso ha che ogni scuola compra per fatti suoi a costi diversi programmi diversi? Se un genitore (ma proprio tutti i genitori e tutte le famiglie usano il registro elettronico per avere contezza delle informazioni scolastiche relative ai propri figli? Siamo sicuri che non stiamo riproducendo un ulteriore digital divide che rinforza il social divide?) ha più figli disseminati in scuole diverse, oppure se la famiglia si trasferisce da una città all’altra, cosa farà? Sarà in permanente apprendimento dei diversi registri elettronici usati? Ma facciamo un discorso paradossale: cosa accadrebbe se ogni comune-provincia-regione adottasse modulari e modalità di compilazioni diverse per i più banali rapporti con i cittadini (carte di identità, patenti, domande di pensione, disoccupazione ecc.)?

Siamo seri, per favore.

Anziché pagare costose campagne pubblicitarie e propagandistiche, anziché spendere invano il denaro pubblico in consultazioni che non servono a niente, anziché diffondere “pillole di conoscenza” ridicole in formato cartaceo o digitale, anziché…ecc, ecc. piuttosto il ministero doti ogni ordine di scuola di un programma standard, magari open suorce. Garantisca prima a tutti la possibilità di accesso, sia in termini di know how, sia in relazione ai terminali sui quali farli girare per compilarli e consultarli (in quale Costituzione sta scritto che gli insegnanti e/o i genitori debbano essere costretti a comprare a spese proprie tablet, portatili, pc ecc.per fruire di un proprio diritto/dovere?).

” Last, but not least ” risolva prima il problema della sicurezza dei dati sensibili e della privacy

e poi ne parleremo.

Famiglia: siamo tutti uguali, ma tutti diversi

Famiglia: siamo tutti uguali, ma tutti diversi

di Adriana Rumbolo

Di solito quando accetto di   dialogare con un soggetto   , aspetto  sempre  che sia lui  a iniziare per seguire  ricordi del suo pensiero,  con tempi suoi,  in   modo  che niente  sembri intenzionale ,ma in fondo lo sarà Una ragazza mentre accennava al rapporto non soddisfacente   con la madre cominciò a rallentare il suo racconto  per rendere pù preciso e chiaro un episodio della sua infanzia come  avesse ancora bisogno di riviverlo per superarlo .Avevo 7/8 anni e la mamma mi chiese di farle una commissione .Uscii di casa , di corsa , per non perdere tempo ,ma incontrai degli amici che mi invitarono a unirmi a loro per giocare. Non potei resistere , proponendomi di fermarmi solo pochi minuti Il gioco era bello e il tempo passò veloce .Me ne accorsi all’improvviso e di corsa provvidi alla commissione  rientrando a casa ansimante .In questi casi la mamma attendeva il disubbidiente all’ingresso e senza richiesta di spiegazioni iniziavano  gli schiaffoni .La mamma si faceva trovare nell’ingresso  per trovarci impreparati .Allo schiaffo più forte  mi rivolsi a lei  per chiederle aiuto,  perchè quella aggressività si fermasse Fu un attimo e improvvisamente capii con sgomento che mi rivolgevo alla persona che era causa di quella violenza e che era  inutile parlare   perchè   la comunicazione era stata interrotta,  il dialogo sospeso. Non c’era niente da fare e da quel giorno non tentai più di chiedere aiuto a nessuno Ancora oggi non so  chiedere aiuto con gravi conseguenze. nel lavoro e nella vita  affettiva emotiva , sessuale

Un’altra storia.

Si parlava molto in classe,il dialogo era veramente privilegiato ma avevo avvertito i rgazzi che non dovevano riferire  episodi molto privati  o che riguardavano altre persone Ma un giorno , mentre si diceva che in famiglia spesso alziamo la voce anche per futili motivi  e qualche volta anche le mani quando uno studente di quattordici anni  cominciò a parlare come un fiume in piena .Nella nostra camera da letto c’è una porta che dà nella soffitta. Quando io e mio fratello rientriamo  in ritardo ,all’improvviso mio padre esce dalla soffitta con la cinghia in mano e ci mena  tutti e due .Alle sue parole , in classe è seguito un gran silenzio .Anche io mi sentivo a disagio e per rompere quel silenzio ho chiesto :”e la mamma cosa dice?”La mamma dice che papà sbaglia. E papà? “Anche mia madre faceva così”Sono andato dalla nonna e gliel’ho chiesto.Si ,è vero ma poi me ne sono pentita L’ho riferito a papà.ma lui , ha insistito;”io non me ne pento”Potrei raccontare altri episodi altrettanto tristi e simili ma vorrei capire meglio perchè spesso in famiglia accadono.Kondrad  Lorenz   ha scritto che se vogliamo conoscere un popolo dobbiamo creare ua relazioneLa stessa cosa vale per la famiglia: siamo tutti uguali perchè essere umani , ma tutti diversi ha scritto il grande Boncinelli.Il dialogo non dovrebbe mai essere  interrotto, le alternative sempre a portata di manoSembra impossibile:  il papà diverso dalla mamma ,i genitori diversi fra loro e diversi dai figli come ci insegnano i mammiferi  sono la normalità naturale,  un arcobaleno affettivo , emotivo,   che potrebbe  diventare armonioso solo se riusciremo a creare una relazione fra i componenti di una famiglia condividendo esperienze,emozioni , paure, dolori , gioie, carezze comprensioni ,  autorevolezza in un clima di profonda fiducia e rispetto delle varie personalità  annullando i pregiudizi  e le etichette.La leggenda della voce del sangue e la rigidità di tanti luoghi comuni , hanno già fatto  troppi danni e ci consegnano le macerie della “famiglia”La natura ci crea diversi non prendiamoci  meriti o colpe spesso non giusti.

I. Bossi Fedrigotti, Organza arancione

Come superare la realtà

di Antonio Stanca

bossi_fedrigottiOrganza arancione è un breve volume pubblicato ad Ottobre del 2014 dalla Barney Edizioni di Roma (pp.89, €13,50). Contiene quattro racconti ed è stato scritto da Isabella Bossi Fedrigotti, giornalista e scrittrice trentina che vive a Milano dove da molti anni lavora presso il “Corriere della Sera”. Scrive articoli di cultura e di costume e per le pagine milanesi del giornale tiene rubriche quotidiane di corrispondenza.

La Fedrigotti ha sessantasei anni, è nata a Rovereto nel 1948, ha avuto due figli da Ettore Botti, del quale è vedova. Il suo esordio come scrittrice è avvenuto nel 1980, a trentadue anni, col romanzo Amore mio, uccidi Garibaldi . Ha continuato nella prosa narrativa e nel 1991 il suo romanzo Di buona famiglia ha vinto il Premio Campiello. Sono seguiti altri romanzi e racconti. Insieme ad altri autori ha collaborato per compilare la vasta opera relativa all’handicap infantile dal titolo Mi riguarda. Dal 1993 al 1997 è vissuta a Madrid ma di lei va detto soprattutto che molto, tanto ha scritto di narrativa mentre svolgeva il suo lavoro presso il “Corriere”. Ancora adesso è giornalista e scrittrice e quella del giornalismo è stata un’attività venuta prima che l’ha orientata verso la scrittura narrativa e ha determinato il genere di questa se si tiene conto che come negli articoli così nelle narrazioni il costume è il tema preferito. Delle condizioni, dei sistemi che attualmente si sono venuti a creare, dei problemi che ne sono derivati nell’ambito della famiglia, della scuola, della società, nel mondo dei bambini, dei giovani, degli adulti, di tutti, scrive la Fedrigotti nei suoi romanzi e racconti. Dalle tante situazioni, dalle tante persone che oggi le vivono, dalla sua vita, dalle sue esperienze trae continua ispirazione. “Una scrittrice che non ha dimenticato di essere anche una cronista” è stata definita ed in verità quel che accade quotidianamente, quel che si vede, si sente, si vive trova posto nella sua narrativa senza, naturalmente, che rimanga notizia ma elaborato, costruito in modo da ricavare quegli aspetti, da ottenere quei significati che lo trascendano. Dalla realtà muove la Fedrigotti scrittrice ma va oltre perché da essa fa derivare figure, immagini, esempi che la superano ed acquistano un valore ideale. Molto abile si mostra in questo lavoro di elaborazione, d’invenzione, molto capace di non rimanere nell’evidenza, di cogliere quel che si cela dietro le apparenze, quel che avviene nel segreto dell’anima, quei pensieri, quei sentimenti che servono a spiegare azioni pur assurde.

Dal giornalismo, dall’impegno nel sociale, dalla sua volontà di comunicare, spiegare, deriva anche lo stile della scrittrice, il suo linguaggio semplice, chiaro, sicuro anche quando c’è da dire di situazioni particolari, di problemi difficili.

L’esempio più recente del modo di essere scrittrice da parte della Fedrigotti è Organza arancione, sono i protagonisti dei quattro racconti che l’opera contiene: la moglie che, delusa del marito e dei figli, è alla ricerca di nuove emozioni e si abbandona a fantasie erotiche curandosi nel vestire; l’uomo che vive solo e che sogna di avere un rapporto d’amore con la vicina di casa che spia in continuazione; la donna che da una nevicata natalizia, dal contatto con i fiocchi della neve si vede compensata di tutto quello che le è sempre mancato; la ragazza di buona famiglia che ha studiato in un collegio, che ricorda la vita trascorsa da bambina nel suo piccolo paese di provincia e che in quei ricordi trova la sua serenità, il suo rifugio da quanto di confuso, chiassoso, disordinato, incivile avviene oggi.

Quattro persone vere sono mostrate dalla scrittrice e sono indagate nella loro interiorità con tanta penetrazione da essere trasformate nei simboli di quattro condizioni umane superiori alla contingenza perché di carattere ideale. Di nuovo la Fedrigotti ha trasceso la realtà in nome dei bisogni dell’anima.

La Sentenza della Cassazione sul Sostegno

LA SENTENZA A SEZIONI UNITE DELLA CASSAZIONE SUL SOSTEGNO NON VA ESALTATA

DI SALVATORE NOCERA

La Cassazione a sezioni unite ha pronunciato  il 25 Novembre la sentenza n. 25011 con la quale ha affermato che assegnare un numero di ore di sostegno inferiore a quelle indicate nel PEI di un alunno con disabilità costituisce discriminazione ai suoi danni ai sensi della l.n. 67/06.
La Corte ha respinto un ricorso del Ministero dell’Istruzione contro le decisioni conformi del Tribunale del lavoro e della Corte di Appello di Trieste che hanno accolto il ricorso per discriminazione ai sensi della l.n. 67/06 proposto  per una riduzione di ore di sostegno. La Cassazione ha meritoriamente dimostrato la legittimità della competenza del Tribunale civile, invece che del TAR , in questo specifico caso in cui si chiedeva l’applicazione della l.n. 67/06, poiché competente  per legge a giudicare di tali cause è il tribunale civile, mentre per gli ordinari ricorsi per la violazione della normativa sull’assegnazione di ore di sostegno è ormai competente il giudice amministrativo, come riafferma la stessa Sentenza. L’avvocatura dello Stato col ricorso in Cassazione tentava di far dichiarare inammissibile il ricorso per difetto di competenza del Giudice civile. Bene quindi ha fatto la Cassazione a riaffermare la competenza del Tribunale civile in materia di discriminazione. Pare che si stia generando uno smarrimento tra gli operatori del diritto ai quali sembra che con questa Sentenza sia stato determinato dalle Sezioni Unite della cassazione un mutamento radicale di orientamento rispetto a quello consolidato della giurisdizione dei TAR quando si controverta in tema di competenza esclusiva, che ormai si è consolidata in capo al Giudice amministrativo. Il disorientamento non ha ragion dessere, dal momento che questa controversia riguardava lapplicazione della legge antidiscriminatoria n. 67/06 e quindi la Cassazione ha chiarito che in questi casi la competenza è del Tribunale civile; ha invece ribadito che quando non si agisca in base alla l.n. 67/06 la competenza esclusiva rimane quella dei TAR.
Tale decisione è  pure meritevole  di interesse, poiché riafferma il diritto, ormai costantemente affermato dalla Corte costituzionale, da ultimo con la sentenza n. 80/2010, alle ore di sostegno sulla base delle  effettive esigenze  dell’alunno  secondo quanto previsto dall’art 1 comma 605 lettera B della l.n. 697/2006.
Inoltre la Sentenza sottolinea l’importanza del piano educativo individualizzato nel quale il numero delle ore deve essere richiesto come elemento indispensabile per l’esigibilità indiscussa del diritto dell’alunno a tale numero di ore. Così si esprime la Sentenza:

“Dal formante legislativo si traggono, infatti, l’assoluta centralità del piano educativo individualizzato, inteso come strumento rivolto a consentire l’elaborazione di una scelta condivisa, frutto anche del confronto tra genitori dell’alunno disabile e amministrazione; e, inoltre, l’immediato e doveroso collegamento, in presenza di specifiche tipologie di handicap, tra le necessità prosettate dal piano e il momento dell’assegnazione o della provvista dell’insegnante di sostegno”.

Fondamentale laffermazione secondo cui il pei è frutto del confronto tra scuola e famiglia e l’ altra secondo cui c’è un collegamento diretto ed inscindibile tra le richieste contenute nel pei  e le risorse che debbono essere fornite sia dallUfficio scolastico regionale per le ore di sostegno che per altre risorse a carico degli enti locali, tenuto conto della Specificità della disabilità.
Infine, alla luce dei principii fissati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 80/2010, la Cassazione ribadisce il divieto per l’Amministrazione di discrezionalità nell’assegnare le ore di sostegno,  specie se motivato dai tagli alla spesa pubblica, come segue:

“In conclusione, dal quadro legislativo di riferimento si evince che una volta che il piano educativo individualizzato, elaborato con il concorso determinante di insegnanti della scuola di accoglienza e di operatori della sanità pubblica, abbia prospettato il numero di ore necessarie per il sostegno scolastico dell’alunno che versa in situazione di handicap particolarmente grave, l’amministrazione scolastica è priva di un potere discrezionale, espressione di autonomia organizzativa e didattica, capace di rimodulare o di sacrificare in via autoritativa, in ragione della scarsità delle risorse disponibili per il servizio, la misura di quel supporto integrativo così come individuato dal piano, ma ha il dovere di assicurare l’assegnazione in favore dell’alunno, del personale docente specializzato anche ricorrendo – se del caso, là dove la specifica situazione di disabilità del bambino richieda interventi di sostegno continuativi e più intensi – all’attivazione di un posto di sostegno in deroga al rapporto insegnanti/alunni, per rendere possibile la fruizione effettiva del diritto, costituzionalmente protetto, dell’alunno disabile all’istruzione, all’integrazione sociale e alla crescita in un ambiente favorevole allo sviluppo della sua personalità e delle sue attitudini”.

Si apprezza quindi la logica conclusione della Cassazione circa la sussitenza della discriminazione,  come segue:

“L’omissione o le insufficienze nell’apprestamento, da parte dell’amministrazione scolastica, di quella attività doverosa si risolvono in una sostanziale contrazione del diritto fondamentale del disabile all’attivazione, in suo favore, di un intervento corrispodente alle specifiche esigenze rilevate, condizione imprescindibile per realizzare il diritto ad avere pari opportunità nella fruizione del servizio scolastico”

Ciò che invece non si può condividere è la motivazione che segue:

“l’una (l’omissione ) e le altre (le insufficienze nell’apprezzamento, da parte dell’amministrazione, di tale attività doverosa) sono pertanto suscettibili di concretizzare, ove non accompagnate da una corrispondente contrazione dell’offerta formativa riservata agli altri alunni normodotati, una discriminazione indiretta, vietata dall’art. 2 della legge N° 67 del 2006”.

La motivazione ove non accompagnate da una corrispondente contrazione dell’offerta formativa riservata agli altri alunni normodotati  ribadisce e conferma le motivazioni già espresse dal Tribunale del lavoro di Milano su numerosi ricorsi della F I S H che per la prima volta in Italia ha prospettato la richiesta di deroghe sulla base della legge antidiscriminatoria n. 67/06. Così come allora io espressi le mie perplessità circa tale motivazione, adesso le ribadisco ancor più preoccupato. Infatti in tale brevissima ma rovinosa motivazione si legittima un principio totalmente contrario alla logica dell’inclusione come l’ abbiamo realizzata in Italia fin dalla fine degli Anni Sessanta e cioè che le ore di sostegno sono esclusivamente rivolte agli alunni con disabilità, mentre quelle curricolari sono esclusivamente rivolte ai compagni senza disabilità. Questo principio invalida radicalmente tutta la cultura inclusiva italiana che è stata sancita in Italia dall’art 13 comma 6   l.n. 104/92 sulla contitolarità della classe da parte del docente per il sostegno che deve sostenere i colleghi curricolari nel delicato compito, di loro competenza primaria, di includere l’ alunno con disabilità nel gruppo dei compagni  e sminuisce sino a renderla insignificante l’ espressione contenuta nellart 19 comma 11 della l.n. 111/2011:  la scuola provvede ad assicurare la necessaria azione didattica e di integrazione per i singoli alunni disabili, usufruendo tanto dei docenti di sostegno che dei docenti di classe. A tale fine, nell’ambito delle risorse assegnate per la formazione del personale docente, viene data priorità agli interventi di formazione di tutto il personale docente sulle modalità di integrazione degli alunni disabili.
Perché la motivazione della sentenza possa considerarsi coerente con la logica inclusiva, la discriminazione dovrebbe essere motivata dal fatto che la riduzione delle ore di sostegno tratta in modo diseguale gli alunni con disabilità che, in aggiunta ai docenti curricolari, hanno bisogno anche di un certo numero di ore di sostegno indicate nel PEI. Questa motivazione è coerente con la L.n. 67/06, sulle pari opportunità intese ai sensi dell’art 3 comma 2 (e non semplicemente comma 1) della Costituzione, e con la l.n. 104/92.
Concordo con il plauso alla Sentenza innalzato dall’amica  Nina Daita  della CGIL e dall’amico Avv Francesco Marcellino  (http://www.studiolegalemarcellino.it ) sull’importanza del dispositivo della sentenza;  ma non posso associarmi a loro, senza evidenziare la pericolosità della motivazione; per questo questa sentenza non va esaltata, a meno che non si evidenzino contemporaneamente i rischi mortali contenuti nel breve rigo di motivazione.

Processi formativi

Il capitolo «Processi formativi» del 48° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2014

48rapportoInvestire nell’infanzia. Solo il 54,6% dei Comuni italiani ha attivato servizi per l’infanzia, arrivando a coprire appena il 13,5% dei potenziali utenti: una percentuale lontana dalla copertura del 33% dei bambini sotto i 3 anni posta come obiettivo comunitario. In nessuna regione l’obiettivo è stato raggiunto: si va dal 27,3% dell’Emilia Romagna al 2,1% della Calabria. Secondo un’indagine del Censis sull’offerta prescolare, più di una scuola su tre ha creato liste d’attesa, comunque via via assorbite dalla scuola stessa (25,5%) o da altre scuole (7,4%). Il 10% dei dirigenti scolastici dichiara di non essere riuscito in ogni caso a rispondere alla domanda espressa dal territorio di riferimento, valore che sale al 16,2% nelle regioni del Nord-Ovest.

Quando la scuola incontra il lavoro. Negli ultimi anni l’alternanza scuola-lavoro si è diffusa in maniera sostenuta: si è passati dai 45.879 studenti coinvolti nel 2006-2007 ai 227.886 del 2012-2013. Sono oggi coinvolte quasi 78.000 strutture ospitanti, tra imprese (il 58,2% del totale), professionisti, strutture pubbliche (enti locali, scuole, Asl, università, camere di commercio, ecc.). Nonostante la vivacità dimostrata, i percorsi di alternanza coinvolgono però appena il 9% degli studenti di scuola secondaria superiore. Per quanto riguarda i percorsi di istruzione tecnica superiore (Its), dal primo periodo di sperimentazione 2010-2012, con 59 Fondazioni e più di 70 percorsi avviati, si è giunti oggi a 64 Fondazioni (più 10 in corso di attivazione), 240 percorsi tra già realizzati, in attuazione e in corso di attivazione, e circa 5.000 studenti. I referenti delle 41 Fondazioni intervistate nell’ambito di una indagine del Censis si dichiarano in maggioranza molto (31,7%) o abbastanza (56,1%) soddisfatti degli esiti occupazionali dei primi diplomati.

L’attuazione della scuola digitale secondo i dirigenti scolastici. 100 studenti italiani iscritti all’ultimo anno della scuola secondaria di I grado o al terzo della scuola secondaria di II grado dispongono rispettivamente di 8,3 e 8,2 personal computer. Tuttavia, 100 loro coetanei europei dispongono mediamente di 21,1 e 23,2 pc. Il 25,3% degli studenti di terza media e il 17,9% dei loro colleghi del terzo anno della scuola superiore frequentano scuole prive di connessione alla banda larga, a fronte di corrispondenti valori medi europei di gran lunga inferiori (rispettivamente, 5% e 3,7%). La frequenza di scuole dotate di ambienti di apprendimento virtuale è un’esperienza che coinvolge il 19% degli studenti in uscita dalla scuola media di I grado e il 33% degli iscritti al terzo anno della secondaria di II grado, quote ancora una volta sensibilmente inferiori alle medie europee (nell’ordine, 58% e 61% di studenti in età corrispondente). I dirigenti si scuola secondaria di II grado intervistati dal Censis ritengono che le soluzioni migliorative praticabili siano la creazione di piattaforme per il reperimento e la fruizione di materiale e servizi didattici (86,6%), il passaggio da una logica di proprietà (di infrastrutture, dispositivi, ecc.) a una logica di servizio (a canone) (68,2%), puntando sull’autonomia delle scuole per l’adeguamento strutturale (70,5%).

La pratica sportiva a scuola tra retorica educativa e carenze strutturali. Da un’indagine del Censis su 2.425 istituti di istruzione secondaria emerge una dotazione di strutture sportive parzialmente deficitaria, che riflette non solo un divario tra le scuole del Nord e quelle del Sud, ma anche secondo i diversi indirizzi di studio. Gli istituti che si compongono di più plessi si caratterizzano prevalentemente per una qualità/adeguatezza dei loro spazi, impianti e attrezzature non omogenea (66,7%). Ciò è particolarmente vero al Sud (72%) e negli istituti professionali (69,8%). Il 39,7% è privo di strutture sportive, percentuale che al Sud sale al 43,2%. Attualmente il contributo finanziario aggiuntivo per attività e manifestazioni sportive a scuola è molto limitato: solo il 13% dei dirigenti dichiara di avere ricevuto contributi negli ultimi cinque anni.

L’università italiana: un sistema sempre più territorialmente connotato. Tra il 2008 e il 2013 gli iscritti alle università statali sono diminuiti del 7,2% e gli immatricolati del 13,6%. L’andamento decrescente ha interessato tutti gli atenei tranne quelli del Nord-Ovest, dove gli iscritti sono aumentati del 4,1% e gli immatricolati dell’1,3%. Nelle università del Nord-Est la contrazione dell’utenza è stata più contenuta: -2,3% di iscritti e -5,9% di immatricolati. Al Centro il numero degli studenti iscritti si è contratto del 12,1% e quello degli immatricolati del 18,3%. Negli atenei meridionali rispettivamente dell’11,6% e del 22,5%. L’ulteriore contrazione dell’indice di attrattività degli atenei meridionali conferma la presenza di criticità strutturali note, inserite nell’ambito di contesti territoriali segnati da derive di sottosviluppo economico di lungo periodo. Aumenta l’incidenza delle tasse di iscrizione sul totale delle entrate delle università italiane: da un valore intorno all’11% dei primi anni 2000, le entrate contributive si attestano al 13% nel 2010, per poi raggiungere nel 2012 quota 13,7%. I dati disaggregati per ripartizione territoriale indicano una separazione netta nel tempo degli andamenti delle entrate contributive tra le università settentrionali, da un lato, e quelle centrali e meridionali, dall’altro. Le prime si pongono al di sopra delle medie nazionali e oltre la soglia del 15% sia nel 2011, sia nel 2012; le seconde, invece, al di sotto.

48° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2014

Un sessantottino in ritardo

Un sessantottino in ritardo

di Maurizio Tiriticco

Le recenti dichiarazioni dell’On. Faraone hanno suscitato un vespaio di critiche! Un Sottosegretario della Repubblica plaude ai sommovimenti studenteschi, elogia ribellioni e occupazioni, e cose di questo genere! Veramente mi sembra che il nostro Sottosegretario non solo pecchi di ingenuità fino a sfiorare l’apologia di reato, ma che non conosca la nostra storia, quella del Sessantotto e quella della nostra scuola. Possiamo però perdonarlo: è nato nel ’75.

Si giunse al Sessantotto, e non solo in Italia, per ragioni profonde che attraversavano anche da tempo il corpo sociale di Paesi diversi per struttura politica, ma forse non diversi quanto a organizzazione degli studi, delle università, delle scuole… e della stessa cultura! Ricordiamolo! Era il mondo dei due blocchi e della guerra fredda! Del XX° Congresso del Pcus. Della crisi di Cuba. Dell’assassinio dei due Kennedy e di Martin Luther King. E di quella guerra nel Vietnam che sembrava non avere mai fine.

Il movimento nacque nelle università, in origine contro “l’autoritarismo dei professori”, poi contro una “cultura imposta” e poi contro la stessa organizzazione della cultura e della politica. E in seguito coinvolse anche gli studenti dell’istruzione secondaria. Tutto ciò nella convinzione che è l’esistenza stessa di uno Stato che contraddice la democrazia! Parola d’ordine, tra le tante: “Lo Stato borghese si abbatte e non si cambia”. Il movimento interessò Parigi, Berkley, Londra, Pechino, Roma, Milano, le Università e le scuole secondarie del mondo intero. Si contestava una certa organizzazione degli studi, finalizzata più alla formazione di “mano e cervello d’opera consenzienti” che alla formazione di coscienze libere. Erano gli anni dell’Uomo a una dimensione, di Marcuse, degli Apparati ideologici di Stato, di Althusser, della Riproduzione, di Bourdieu e Passeron, della Descolarizzazione, di Ivan Illich, del “medium è il messaggio” di Mc Luhan. E Noam Chomsky, muovendo da una rigorosa analisi del fenomeno linguistico, stava già lavorando alla “Fabbrica del consenso”.

Per quanto riguarda il nostro Paese, le lotte operaie e contadine erano durissime: La Celere di Scelba sparava e ammazzava. E la strage di Avola, proprio nel ’68, ebbe la stessa matrice scelbiana. Era la stagione delle grandi lotte operaie al Nord, dei contadini al Sud… Eppure c’era anche chi predicava la lotta non violenta. Ricordo la Marcia della protesta e della pace organizzata da Danilo Dolci e da Peppino Impastato nel ‘67. E ci fu anche la stagione dei preti operai. Insomma, si imbastì in quegli anni un intreccio transnazionale di sommovimenti e di ricerche sulla funzione della cultura e della scuola, e della lingua anche, in una società capitalistica. E la conseguente convinzione che la scuola serve solo a produrre consenso, non davvero a liberare coscienze. Dalla Pedagogia della Liberazione, di Paulo Freire, alla Lettera a una professoressa, di Don Milani, il passo era breve, nonostante la distanza geografica.

Nel nostro Paese il Sessantotto fu caratterizzato da un ampio movimento degli studenti teso ad ottenere un profondo rinnovamento degli studi e il diritto allo studio in una scuola aperta a tutti. Dal canto suo Gino Giugni stava lavorando allo Statuto dei lavoratori e i metalmeccanici rivendicavano le 150 ore; la parola d’ordine era: “riappropriamoci di quella cultura che la società ci ha negato”. Un periodo indubbiamente convulso: per certi versi la cultura la si combatte in quanto borghese; per altri la si rivendica perché tutti ne hanno diritto. Gli studenti occupavano scuole e università: pretendevano di capire le ragioni di quella guerra infinita del Vietnam ed esigevano discipline che permettessero di comprendere il mondo contemporaneo per poterlo cambiare. Furono anni durissimi! Comunque, non pochi insegnanti dettero vita a quel Movimento insegnanti che poi portò, nel ’67 alla nascita della Cgil-Scuola. E con il rischio di vedersi abbassate le “note di qualifica”, allora in vigore e a sola discrezione di presidi e direttori didattici. Per la prima volta una categoria che da sempre aveva tenuto debite distanze nei confronti del sindacato confederale, comprese che la battaglia per il contratto e per la riforma della scuola non poteva non condursi se non a fianco di tutti i lavoratori. E la “Riforma della Scuola” fu anche una prestigiosa rivista di appoggio e sostegno al movimento, diretta da uomini come Lucio Lombardo Radice, Dina Bertoni Jovine, Mario Alighiero Manacorda, Tullio De Mauro. Oggi esiste una edizione on line.

Il Sessantotto passò, e in Italia, con il decreto legge Sullo (n. 9/69), le porte dell’università furono aperte a tutti gli studenti dell’istruzione secondaria. Gli studenti ottennero il diritto all’assemblea e più tardi, nel ’98, con Berlinguer, fu varato lo Statuto delle studentesse e degli studenti, tuttora in vigore Il Sessantotto ha aperto ai nostri giovani stagioni completamente diverse rispetto a quelle degli anni Sessanta. Allora i problemi reali dei giovani non avevano posto nella “scuola dei padroni”: la si chiamava così. Allora indire assemblee e occupare era una necessità! Oggi le assemblee sono più che riconosciute e occupare non ha alcun senso. Le scuole sono già “occupate” dagli studenti! Le riforme degli ultimi anni hanno rinnovato profondamente discipline e contenuti di studio. Comunque, tanto ancora occorre fare! E lo dico e lo scrivo da sempre.

Dispiace che l’On. Faraone sia rimasto indietro con i tempi e si auguri un Sessantotto che si è già compiuto e, forse, consumato! All’ordine del giorno oggi non ci sono affatto né la rivendicazione della “cultura” per tutti né l’occupazione delle scuole, ma un riordino complessivo e profondo del nostro “Sistema educativo di Istruzione e Formazione” che va ben oltre le pie intenzioni di quella Buona scuola che lo stesso Faraone ha sottoscritto.

Per sua maggiore informazione, consiglio all’Onorevole il volume “Tutta colpa del ’68, la nascita del Sindacato Scuola della Cgil”, a cura di Dario Missaglia e Alessandro Pazzaglia, con prefazione di Domenico Pantaleo. E’ stato pubblicato da Ediesse nel 2010. Raccoglie testimonianze, frutto di esperienze e punti di vista diversi – perché il ’68 è stato tante “cose” – ma tutte di estremo interesse. Che consentono una lettura “onesta” di quegli anni di fuoco che sono assolutamente irripetibili.

Il mio Sessantotto… ed anche prima per capirne di più!

Il mio Sessantotto… ed anche prima per capirne di più!

di Maurizio Tiriticco

68Saggio pubblicato in “Tutta colpa del ‘68”, a cura di Dario Missaglia e Alessandro Pazzaglia, Edizioni Diesse, 2010

 

Quel 25 luglio ’43… un balzo in un altro mondo!

I miei genitori erano stati sempre molto prudenti nei miei confronti per tutto il periodo in cui il fascismo fu al potere. Non si erano mai fatti scappare nulla contro il regime! Se io, “balilla escursionista”, poi “balilla moschettiere” e poi ancora “avanguardista moschettiere” – era la leva fascista, e l’anno successivo sarei diventato “avanguardista mitragliere” – ne avessi parlato con i compagni e se la cosa si fosse risaputa… le “spie “ del regime, che erano ovunque, chissà che cosa avrebbero detto e che sarebbe successo! Ma in quella sera del 25 luglio dopo l’annuncio radiofonico, fu festa grande in casa mia e il silenzio serioso e i mugugni di sempre divennero grida di gioia!

Il mio antifascismo militante, ma non troppo, ebbe inizio quando negli anni scolastici 43/44 e 44/45, studente del Liceo Classico “Giulio Cesare” di Roma, cominciai a portare a scuola qualche copia clandestina dell’“Avanti” che lo zio socialista mi passava – ovviamente raccomandandomi di non farne parola con nessuno – e a nasconderla sotto il banco di qualche aula o prima dell’ingresso degli studenti o durante la ricreazione. La cosa, fortunatamente per me e… per tutti noi, non ebbe seguito! Quella stampa clandestina o veniva interpretata come chissà che cosa o veniva molto prudentemente cestinata. Ricordo che un mio compagno di classe, Romano, pieno della sua fede fascista, a scuola sempre in divisa, pistola e stivaloni, all’appello dei professori, scattava provocatoriamente sull’attenti sbattendo i tacchi, gridando “presenteee!” e facendo, ovviamente, il saluto romano!

Tra un allarme aereo e l’altro, una retata e l’altra, la fame sempre più nera, gli anni del liceo trascorsero e la guerra ebbe fine! Gran festa quel 5 giugno del ’44, quando gli americani giunsero finalmente anche a Monte Sacro dove abitavo. La sera del 4 erano già a San Giovanni – ce lo dicevano le telefonate di amici e parenti – e li aspettammo per tutta la notte! Pane bianco, chewing gum a tavoletta, ufficiali vestiti come i soldati e boogiewoogie furono il primo impatto con una ritrovata libertà! Dopo una breve stagione di milizia con il Partito socialista, mi iscrissi alla Fgci, quindi alla cellula universitaria romana del Pci. La nostra segretaria era Luciana Castellina, una vera signora, come avrebbe detto mia madre, distinta, elegante e raffinata e noi… quasi tutti “poverelli” – era l’immediato dopoguerra – eravamo sempre in ammirazione: bellezza, intelligenza, determinazione erano “virtù” non molto diffuse in quel periodo, in una ragazza in particolare! Più tardi, da laureato, passai alle sezione di strada di Monte Sacro, quindi a quella del Trionfale.

 

Anni Cinquanta: scrivo e faccio politica

Sono stato redattore di “Pattuglia”, settimanale dei giovani socialisti e comunisti, diretto da Franco Funghi. Durante la campagna elettorale della primavera del ’53 (si votava il 7 giugno pro o contro la “legge truffa”) pubblicammo in prima pagina un “vota Pci”: il che mandò su tutte le furie i compagni socialisti. Così “Pattuglia” chiuse e nacque “Avanguardia”, settimanale della Fgci; fu chiamato a dirigerla Gianni Rodari. Dopo qualche mese passai a “l’Unità”, agli esteri con Alberto Jacoviello. Ne era direttore Pietro Ingrao e in redazione c’erano anche Maurizio Ferrara e Alfredo Reichlin. I compensi erano, ovviamente, meno che pochi, così, forte di una laurea in lettere, decisi che mi sarei dato all’insegnamento. Non avevo una particolare vocazione, ma le ore di lavoro sarebbero state “poche” – anche oggi si dice così – ed il che mi avrebbe permesso di dare più tempo alla sezione di strada del Partito, i “Dieci martiri” di Monte Sacro. Ebbi la responsabilità dell’“agitazione e propaganda”, leggevamo, studiavamo, “litigavamo” ma alla fine la ferrea regola del centralismo democratico aveva sempre ragione! Ed era quel collante che non solo teneva noi e il partito, ma che lo differenziava da tutti gli altri. Ed un collante che teneva saldo anche me! Così i miei dubbi erano solo “affar mio” o di discussioni molto molto animate e riservate tra i compagni più accorti e più critici. Ricordo Ravaglia, un operaio emiliano che si dichiarava bordighiano… con tutte le cautele del caso, per non essere bollato come troschista.

Facevano testo la Storia del Partito comunista (bolscevico) dell’Urss, breve corso, Mosca, edizioni in lingue estere, i fascicoli dei corsi Lenin e Stalin ed i periodici “Vie Nuove” con qualche patinatura da rotocalco, e “Per una pace stabile, per una democrazia popolare”, una sorta di bollettino di informazioni antititine. E poi c’era poco da dubitare a fronte dell’impresa storica che ci attendeva e per cui ci eravamo tutti impegnati: la lotta contro la borghesia ed una Democrazia cristiana destinata solo a difendere interessi consolidati, in vista dell’affermazione di una società più giusta, di una vera Repubblica democratica fondata sul lavoro, di cui alla nostra Costituzione. Il tutto nella prospettiva più lontana di una società socialista, tutta da costruire! Ricordo l’amico e compagno Aldo Bollino, sposo felice, che si augurava che i figli nascessero in una Repubblica popolare!!!

 

Dagli entusiami ai dubbi

Tanti entusiasmi espliciti ed alcuni dubbi, impliciti! Ed i primi emersero in seguito alla vicenda dei compagni onorevoli Valdo Cucchi e Aldo Magnani, espulsi nel ’51 dal partito, e che Togliatti bollò con quella espressione, “anche nella criniera di un nobile cavallo da corsa si possono sempre trovare due o tre pidocchi” (l’Unità del 28 febbraio ’51). In quegli anni le comunicazioni erano quelle che erano, i viaggi all’estero erano ancora un sogno, non c’era internet. Rivelare ciò che effettivamente era l’Unione sovietica, al di là della propaganda di partito, sempre prodiga, non era cosa facile, ma era più facile mettere alla gogna due testimoni scomodi! Nel ’53 morì Stalin e fummo in molti a piangere: i discorsi di convenienza e di esaltazione della sua persona e della edificazione del socialismo e, soprattutto della costruzione di un uomo nuovo, non più infettato da vizi della società borghese, costituirono una sorta di sedativo a qualsiasi dubbio. “Difficile è a me parlare oggi di Stalin; l’animo è oppresso dall’angoscia per la scomparsa dell’uomo più che tutti gli altri venerato ed amato, del maestro, del compagno, dell’amico. Giuseppe Stalin è un gigante del pensiero e dell’azione, con il suo nome verrà chiamato un secolo intero”. Con tali parole si espresse alla Camera Togliatti nella commemorazione che fece il 7 marzo del ’53: espressioni analoghe le possiamo ritrovare di un altro discorso, del ’49 a Mosca, in occasione del 70° compleanno del… grande compagno Stalin.

 

Il Manifesto del 101

Le vicende del ’56 ruppero ogni ragionevole incertezza! L’invasione di Ungheria fu una evento ben più eclatante delle denuncie di Cucchi e Magnani. Ed in 101 firmammo quel documento, in effetti una lettera riservata, destinata al Comitato centrale del Partito, con la quale prendevamo una ferma posizione contro l’invasione e chiedevamo al partito di pronunciarsi nettamente in merito. Non potevamo accettare che l’intera classe operaia di un Paese di Nuova Democrazia fosse diventata all’improvviso reazionaria e fascista o un burattino abbindolato dalle oscure trame della reazione. La lettera finì sulla rivista “Il Punto” ed il partito reagì pesantemente: gli organi di direzione e di controllo non contestarono tanto il contenuto, ma la forma: quale raffinatezza! Avremmo potuto pur dire quelle cose, ma nelle sedi di partito in cui eravamo iscritti. Rendere pubblica una posizione di dissenso non era compatibile con la linea del centralismo democratico! E ci si rimproverava anche il fatto che avessimo anteposto la nostra qualifica di “intellettuali” a quella di “normali” compagni iscritti! Come se il corpo sano del partito fosse stato infettato dal tarlo dell’intellettuale! Dai pidocchi alle tarme!

In effetti, con il senno del poi, a fronte di fatti che avrebbero comunque modificato il corso della storia e dello stesso movimento comunista, in molti pensammo che allo stesso Togliatti non convenisse affatto emarginare una serie di compagni il cui contributo politico ed “intellettuale” non sarebbe mancato quando svolte epocali, che sarebbero state inevitabili, si fossero verificate! Insomma, occorreva non rompere con i compagni sovietici – la ragion di Stato innanzi tutto! – ma neanche con una serie di fermenti, che più tardi, in situazioni diverse avrebbero maturato! Ma come? Ed al nostro navigato “migliore” l’intelligenza politica non mancava affatto! Se vent’anni dopo, nel ’76, con Berlinguer, alle elezioni politiche superammo il 34% – anche se non battemmo la DC – lo si dovette anche al fatto che i 101 non erano stati penalizzati più di tanto! Il tutto, ovviamente, sarebbe da approfondire!

Anche se tra i firmatari della lettera non c’era Antonio Giolitti, che ne fu senz’altro l’ispiratore, c’erano però Muscetta, Sapegno, Asor Rosa, Tronti, De Felice, Puccini, Colletti, Vespignani e tanti altri! Mancava Concetto Marchesi, anche se era stato sollecitato da Giolitti e Sapegno! Così si diceva! Il sindacato Cgil, com’è noto, assunse una posizione critica che non si discostava dalla denuncia del 101! E’ noto quanto in quella occasione affermò Di Vittorio: “Il progresso sociale e la costruzione di una società nella quale il lavoro sia liberato dallo sfruttamento capitalistico, sono possibili soltanto con il consenso e la partecipazione attiva della classe operaia e delle masse popolari, garanzia della più ampia affermazione dei diritti di libertà, di democrazia e di indipendenza nazionale”. Molti dei 101 uscirono dal partito. E molti dei fuorusciti si persero per strada! Io invece feci la mia “autocritica” di fronte al comitato di disciplina della mia sezione riconoscendo che la prassi avrebbe dovuto suggerirmi di dichiarare nelle sedi istituzionali le mie critiche, ma non rigettai la bontà del loro contenuto. In effetti, gli stessi compagni del comitato manifestarono anch’essi tutte le loro perplessità a proposito dei fatti di Ungheria. Insomma, nelle sezioni da allora si cominciò a discutere animatamente e i dubbi di ciascuno diventarono a poco a poco i dubbi di molti, ma nessuno dei compagni “allineati” si sarebbe più sognato di accusarci di revisionismo, socialfascismo od altre amenità di questo tipo. Un passo avanti interessante!

 

Dopo il ’56: un nuovo corso nel dibattito interno al Pci

Tutte queste considerazioni tendono a dimostrare come le vicende del Sessantotto avessero origini lontane: in effetti la strada verso il socialismo non poteva essere contrassegnata solo dai “successi” raggiunti dalla Rivoluzione d’Ottobre! Una rivoluzione che peraltro non sembrava garantire quella palingenesi che certa propaganda aveva predicato e che i fatti dimostravano assai precaria nei suoi stessi fondamenti. C’era stata la vicenda del “tradimento” di Tito; ed ancora le Democrazie popolari non sembravano garantire affatto benessere e liberà né alla classe operaia né alle popolazioni! Il primo ottobre del ’49 era nata la Repubblica popolare cinese e non sembrava affatto che il nuovo Stato “andasse d’amore e d’accordo” con l’Unione sovietica! La politica delle grandi potenze aveva forse infettato anche quei Paesi che, invece, avrebbero dovuto segnare una nuova storia per l’intera umanità?

Nel febbraio del ’56 si era anche celebrato quel ventesimo congresso del Pcus in cui in una segretissima relazione… si fa per dire, Krusciov aveva denunciato i delitti di Stalin! Una relazione scomoda per il gruppo dirigente del Pci, che scelse l’operazione silenzio! E proprio quando ormai veniva pubblicata da tutta la stampa “borghese” L’era dei media di massa cominciava ad affermarsi ed il Partito non poteva non fare i conti con il fatto che le informazioni ormai non sarebbero più state bloccate o filtrate. Insomma, non era affatto facile dare una interpretazione di comodo degli avvenimenti di quei primi anni Cinquanta.

Il lento ma inarrestabile tramonto del culto di Stalin segnò gli anni successivi. Ma l’erezione del Berliner Mauer – siamo nel 1961 – per certi versi sembrava contraddire l’avvio di un clima politico più disteso. La politica dell’Urss procedeva sulla medesima linea dei due blocchi sanciti dalla Conferenza di Yalta del febbraio del ’45, ma voluta anche e soprattutto da Stalin… quando con un tratto di matita tracciò sulla carta geografica quella linea discriminante tra due mondi, che Churchill poi definì cortina di ferro! Ma nel corso degli anni, con l’erezione del Muro, quella cortina sembrava diventare di acciaio! I due blocchi, la proliferazione dell’armamento atomico! La paura di una seconda guerra mondiale, che sarebbe stata definitiva per l’umanità!

Nel partito si discuteva animatamente e cominciarono a delinearsi – almeno per quanto riguarda le discussioni tra gli iscritti – due posizioni, non necessariamente in alternativa.

 

Dalle contestazioni alla ricerca di una linea

Da un lato urgeva e si praticava la ricerca delle ragioni strutturali dello stalinismo che per altro, al di là delle purghe e dei gulag, di fatto aveva trasformato un Paese da agricolo ad industriale, ed aveva vinto una guerra mondiale con un altissimo contributo di vite umane. Forse aveva pesato la scelta di costruire il socialismo in un Paese solo, impresa che i “sacri testi” non potevano né auspicare né prevedere, in quanto la nuova società avrebbe visto uniti tutti – non uno di meno? – i proletari del mondo, impegnati insieme ad abbattere un intero sistema di organizzazione della società, quello capitalistico nonché imperialistico. Il che rinviava la ricerca alle origini, e qui, assieme ai Bucarin, ai Kameniev, ai Kerenskij e agli Zinoviev si ritrovava quel Trotskij il cui pensiero aveva costituito la critica più rigorosa ed impietosa delle scelte operate da Stalin.

Era forse vero, come sosteneva da sempre Trotskij, che la rivoluzione avrebbe dovuto essere permanente (l’opera relativa è del ’30 e Stalin ha già saldamente in mano il partito e lo Stato) o non sarebbe mai stata? Pertanto l’ascesa di Stalin non aveva nulla di rivoluzionario se si sceglieva di chiudere i confini dell’Urss e di flirtare anche con i capitalisti! Insomma, la costruzione del socialismo in un solo Paese non era stata una scelta assurda? In effetti quella rivoluzione tanto attesa era stata tradita da Stalin (l’opera di Trotskij è del ’38 e il suo assassinio avverrà due anni dopo). Se si seguiva questa linea – siamo a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta – occorreva fare un’opera di “bonifica” nel partito, riaprire un dibattito politico che la svolta di Salerno e la scelta della Terza Internazionale avevano di fatto in parte bloccato ed in parte avviato in una direzione unica. Occorreva quindi ritornare alle sue origini classiste ed agire anche all’interno dei “partiti fratelli”.

Da un altro lato si proponeva un superamento epocale – potremmo dire – della vocazione prettamente classista, di liquidare definitivamente lo stalinismo, di accettare con piena consapevolezza il “gioco” democratico che la Costituzione democratica e repubblicana, nata dall’antifascismo di tante forze politiche, aveva sancito, ed imboccare una via tutta italiana al socialismo. Nella famosa intervista a “Nuovi Argomenti” (giugno ’56) Togliatti non è molto tenero nei confronti della denuncia di Krusciov dei delitti di Stalin ed invita ad affidare agli storici la critica allo stalinismo. “Sulla base di ciò che conosciamo, noi possiamo fare solo alcune affermazioni generali, disposti a rivederle se necessario. Ci sembra debba essere riconosciuto che la linea seguita nella costruzione socialista continuò a essere giusta, anche se gli errori che vengono denunciati sono tali che non possono non avere seriamente limitato i successi nella sua applicazione. Questo è però uno dei punti su cui saranno necessarie le maggiori spiegazioni, perché la restrizione e in qualche caso persino la scomparsa della vita democratica è cosa essenziale per la validità di una politica. Ci sembra, ad ogni modo, incontrovertibile che la burocratizzazione del partito, degli organi dello Stato, dei sindacati, e soprattutto degli organi periferici, che sono i più importanti, deve avere frenato, limitato e compresso il pensiero creativo…”. Insomma, la proposta è di lasciare agli storici i giudizi sullo stalinismo e sui suoi “errori”; e, se un’egemonia è in crisi, sta ad ogni Paese e ad ogni Partito ricercare la propria via per la costruzione del socialismo. Occorre peraltro aprire a tutti i movimenti autenticamente democratici per creare un fronte comune di lotta e di rinnovamento.

E’ la via che poi diventerà quel compromesso storico che in effetti non ha mai avuto una vita facile nel nostro Paese. Ma questa è un’altra storia! Infatti, bisogna giungere alla stagione di Enrico Berlinguer che diresse il Partito dal ’72 all’11 giugno dell’84, data della sua scomparsa. Ed è proprio alla fine del ’72 che Berlinguer scrive su “Rinascita” due articoli che indicano una linea nuova al Partito sostenendo che occorreva adoperarsi per realizzare una politica improntata ad una collaborazione e ad una intesa “delle forze popolari d’ispirazione comunista e socialista con le forze popolari d’ispirazione cattolica”.

I comunisti stanno smettendo la pelle del lupo per indossare quella dell’agnello! Così gli avversari dicevano di noi in quegli anni!

 

L’avvio degli anni Sessanta

Gli anni Sessanta si aprirono all’insegna di queste due linee, di fatto più intrecciate che contrapposte: l’analisi dello stalinismo e dell’intera nostra storia di comunisti, da un lato, e, dall’altro, la ricerca di nuove alleanze, che non fossero la riesumazione dei fronti popolari, ma la ricerca del “meglio” di una lunga tradizione, laica e cattolica, di impegno politico e sociale. Insomma, forse non si sarebbe più preso a calci un De Gasperi con un paio di scarponi chiodati (si era trattato di una rozza espressione di Togliatti in un comizio elettorale del ‘48), ormai scomparso nel ’54, ma si sarebbe ricercato il perché ed il per come della iniziativa politica e sociale di un Don Sturzo! Non tutti i cattolici votano Dc! Gli iscritti al Pci non sono poi tutti materialisti… storici o dialettici! Nello statuto del Partito non si chiede nulla a proposito del loro credo: la lotta politica richiede un impegno civile e sociale, che attiene alle condizioni materiali dell’iscritto e alla sua volontà di riscatto, non alle sue convinzioni religiose. E l’approvazione dell’articolo 5 della Costituzione – quello che nella redazione finale divenne l’articolo 7 – che negli anni della Costituente segnò discussioni anche veementi nello schieramento della sinistra, nell’intuizione di Togliatti prefigurava appunto una politica di partito che ricercasse il consenso di masse sempre più numerose. Guai a riesumare quell’anticlericalismo di buona – o cattiva? –memoria!

Negli anni Sessanta mi muovo in due direzioni, non so ancora se contrapposte o per certi versi interagenti: da un lato l’analisi dello stalinismo, quindi la lettura di Trotskij e della sua analisi dell’intera storia della Rivoluzione bolscevica e dell’Unione sovietica; dall’altro, la fattibilità o meno dell’incontro con le forze migliori del mondo cattolico, che andasse oltre quella nicchia dei Rodano e del gruppuscolo dei “cattocomunisti”: una sorta di fiore all’occhiello che ogni tanto ostentavamo per dimostrare che l’anticlericalismo non ci apparteneva. Quell’inizio degli anni Sessanta è anche contrassegnato da nuove vicende: nasce Cuba socialista, si afferma la rivoluzione cinese! Sul piano ideologico, la crisi dello stalinismo conduce direttamente a ricercare altre vie per il superamento dello Stato borghese, che per i più a sinistra di noi “si abbatte e non si cambia” per passare tout court ad una organizzazione socialista della società! Un’altra faccia delle tante forme dell’estremismo, malattia infantile del comunismo: Lenin ce lo aveva insegnato!

Forse altri soggetti, oltre la classe operaia, saranno i protagonisti della nuova strategia rivoluzionaria. Tutti gli esseri umani indifferentemente sono gli oppressi del regime capitalistico, non solo gli operai e i contadini. Nel ’64 esce negli Stati Uniti L’uomo ad una dimensione di Marcuse! Negli stessi anni lavorano ricercatori come Ciomskj e Marshall McLuhan, poeti e scrittori come Ginsberg e Kerouac (“la Beat Generation è un gruppo di bambini all’angolo della strada che parlano della fine del mondo”). Il felice superamento della “crisi dei missili” a Cuba non significa la restaurazione della pace tra i due blocchi! I regimi autoritari sono quelli che sono e la loro oppressione sulle popolazioni tutte, non solo su certe classi sociali, è a tutto campo… ed il movimento rivoluzionario anch’esso deve coinvolgere tutti gli oppressi, anche e soprattutto coloro che soffrono della imposizione di una cultura e di una ideologia borghese, quindi i giovani, gli studenti, vittime di quegli “apparati ideologici di Stato” di cui ci parlava Althusser. Esistono forme diverse del pensiero marxista dopo Marx, elaborazioni interessanti che vanno al di là dell’ossequio formale dei “sacri testi”. I francofortesi, Horkheimer, Adorno forniscono elaborazioni interessanti, anche critiche nei confronti di quel marxismo di cui i partiti ufficiali pretendono di essere gli unici esegeti. Insomma tanti steccati cadono, anche se lo steccato concreto del muro di Berlino sta lì fermo e non si sa fino a quando!

 

Gli interrogativi sulla scuola e sulle sue funzioni

E’ in questa temperie di ricerca, di studi, di discussioni che l’educazione e la scuola diventano oggetto di grande attenzione. Il compito di queste istituzioni è quello di formare i nuovi nati ai valori delle classi dominanti, di “includerli” con la promozione, o di “escluderli” con la selezione! Le bocciature nelle scuole sono uno strumento di emarginazione sociale, e le promozioni di legittimazione ai valori della società dominante, quindi di pura e semplice riproduzione. Vedi, appunto, La riproduzione, per una teoria dei sistemi di insegnamento, di Bourdieu e Passeron. E gli insegnanti non sono altro che notai, Le vestali della classe media, di Marzio Barbagli e Marcello Dei, addetti, appunto, a questa opera di riproduzione dei modelli sociali dominanti. E allora non sarebbe meglio liberarci dalla scuola, di questo primo strumento di selezione sociale? Restituiamo al sociale la funzione educativa e chiudiamo le scuole. Sono le teorie dei cosiddetti descolarizzatori, Illich, Reimer, Goodman.

Però un’altra scuola, una scuola “altra” può essere, invece, uno strumento di liberazione: è questa la pedagogia militante e rivoluzionaria di Paulo Freire (La pedagogia degli oppressi). Insomma, i primi anni Sessanta sono importantissimi, almeno nel nostro Paese, per quanto concerne la materia Educazione. L’obbligo viene elevato ad otto anni ed ebbe inizio nel 63/64. Ma la struttura della scuola media postelementare non era stata modificata per nulla, ci si era semplicemente adoperati ad unificare la scuola media di Bottai con quegli avviamenti al lavoro che nell’immediato dopoguerra erano proliferati. E le “vestali” – ed io ero una di loro: insegnavo allora nella scuola media – bocciavano, come sempre! Ci volle Don Milani a bacchettarci sonoramente nel ’67! Il fatto è che quando eravamo giunti a varare la scuola media unica, nulla si fece per trasformarla veramente! Il dibattito che aveva preceduto la sua istituzione aveva riguardato una questione soltanto, se il latino si dovesse insegnare o no, come se quell’unica disciplina, di fatto lo strumento principe e visibile della prima selezione sociale, fosse però l’unica discriminante e non fossero, invece, discriminanti una serie di altre cose, finalità, ordinamenti, metodologie, i concreti comportamenti degli insegnanti! Ma di queste cose ci accorgemmo solo successivamente, dopo le frustate di Don Milani, appunto!

 

Nel Pci lievita il dibattito interno

Insomma, i primi anni Sessanta furono anni di ricerca, di studio ed anche… di nuove scelte politiche! Dalla lettura di Trotskij alla scoperta della Quarta internazionale, sezione italiana, guidata da Livio Maitan il passo non fu né lungo né difficile! Eravamo un po’ carbonari, anche perché nei Paesi di chiara fede sovietica non era facile avviare una opposizione “da sinistra”: io, Maurizio, ero diventato Ferruccio (ricordavo Ferruccio Parri che nella Resistenza era Maurizio) e così fu per altri compagni del Pci organizzati nella Quarta. Occorreva non lasciare il partito, ma lavorare al suo interno, avviare critiche stringenti, ma prudenti, proporre interrogativi ineludibili, partecipare ai dibattiti nelle assemblee di cellula, di sezione anche in preparazione dei congressi e fare emergere le “contraddizioni” in cui la politica del partito – ovviamente a nostro giudizio di neotroskisti – rischiava di impantanarsi.

Il ’64 fu l’anno del Memoriale di Yalta e dei… Funerali di Togliatti, forse più importanti ed incisivi della sua stessa morte. Le linee Ingrao ed Amendola si facevano sempre più palesi ed il centralismo democratico diventava sempre più evanescente. I mass media – parola nuova allora – veicolavano sempre più informazioni da una parte all’altra del mondo e i dibattiti pubblici ne erano fortemente sollecitati! Se certi discorsi fossero stati fatti nei partito dieci anni prima, i loro autori sarebbero stati bollati di revisionismo, sciovinismo, infantilismo, troskismo od altre “nefandezze” di questo tipo. Negli anni Sessanta il clima era diverso e le critiche al gruppo dirigente del Pci figliavano giorno dopo giorno, soprattutto negli ambienti “intellettuali”, università, scuola… Sì! Scuola soprattutto!

Ma torniamo al ’67! Non fu solo l’anno della Lettera di Don Milani, la quale aveva costituito una sorta di acceleratore di un consenso contro un modello di scuola e, soprattutto, un modello di società che la scuola tenta, quasi per vocazione sociologica, di riprodurre! E gli insegnanti migliori non se la sentono affatto di essere complici di un simile disegno. Bando alle vestali, dunque! Il libro di Barbagli e Dei esce nel ’69 per Il Mulino, un editore caro agli insegnanti impegnati! E nacque anche una nuova casa editrice, Samonà e Savelli, di ispirazione troskista, che raccoglieva e pubblicava scritti fortemente critici della linea ufficiale del Pci.

Certi pensatori e certi testi, da Marcuse ad Althusser fanno anche la loro parte. Il disagio comincia ad avvertirsi anche negli studenti. Era sufficiente la scuola di allora a prepararli alle nuove competenze professionali che l’Italia modificata dal boom degli anni Cinquanta e Sessanta richiedeva? L’interrogativo era il seguente: a che cosa serve la scuola? Se non prepara “per la vita” – come si suol dire – prepara solo all’acquiescenza e all’integrazione in un dato sistema sociale? In tale situazione, la scuola può costituire il ventre molle dove “colpire” il partito! Fu così che molti di noi professori lasciammo e denunciammo i sindacati della suola autonomi – autonomi da che? – per dar vita al sindacato scuola Cgil! Gli insegnanti sono lavoratori come gli altri! E gli insegnanti più sensibili e responsabili, di sinistra ma non riconducibili tout court alla politica del partito, ci seguirono! E la Cgil ci ospitò: era tempo che anche gli insegnanti, piccoloborghesi da sempre quasi per natura, facessero una scelta che li affiancasse a tutti gli altri lavoratori, ma… Il nostro lavoro di critica alle linee generali del Partito e del Sindacato erra ormai alla luce del sole! Mozioni ed ordini del giorno “ufficiali” di un sindacato “di sinistra” urtavano contro la “linea” del sindacato confederale. Così, quando dalle assemblee della Cgil scuola cominciarono ad uscire documenti che andavano oltre la scuola in senso stretto, le cose cambiarono rapidamente! In effetti “l’apparato” compì un grande sforzo organizzativo: furono iscritti rapidamente insegnanti ed ausiliari “fedeli” e nel giro di qualche mese i comitati direttivi della prima ora furono dismessi ed il sindacato confederale assunse il controllo di un sindacatino di categoria vivace ma troppo capriccioso! Fu Aldo Bondioli ad assumere questo compito ingrato! Ricordo le sue “violente liti” con noi e con Adriana Buffardi, nostra leader! Ma ricordo anche il loro felice matrimonio, quando le bufere cessarono! Nonostante tutto, la sponda del movimento insegnanti rimaneva praticabile e per tutta la stagione del Sessantotto fu più che attiva, in concorso con il movimento studentesco.

 

Il Maggio parigino e i fatti di Praga

Ma facciamo un passo indietro! Già nel ’67 si erano sviluppati movimenti studenteschi negli Stati Uniti (Berkley) contro l’intervento americano nel Vietnam. Nel ’66 ha inizio in Cina la rivoluzione culturale di cui sono protagonisti le giovani generazioni. Insomma è un movimento giovanile e studentesco a contagiare a macchia d’olio tutti i “Paesi capitalisti”, fino in Francia dove avrà il suo clou con il Maggio parigino del ‘68 che accese quel movimento che per antonomasia divenne il Sessantotto! Nel partito lo scontro Ingrao-Amendola, già presente nell’undicesimo congresso del Pci (1966, il primo dopo la morte di Togliatti) attorno sia ai problemi della democrazia interna che al cosiddetto nuovo “modello di sviluppo” sostenuto da Ingrao, riprese nel dodicesimo (1969). Sono gli anni in cui matura una “opposizione” interna al Pci, opposizione che il gruppo dirigente posttogliattiano, diretto da Luigi Longo (fu segretario nell’interregno tra Togliatti e Berlinguer, da 64 a ’72) difficilmente può tollerare, ma neanche governare!

A rendere più vivo e deciso il movimento del Sessantotto furono i fatti di Praga; siamo nell’estate di quell’anno e il tentativo del “nuovo corso” avviato da Dubcek in Cecoslovacchia per avviare un “socialismo dal volto umano” – la cosiddetta primavera di Praga – viene violentemente ricacciato indietro dai carri armati sovietici. A dodici anni dai fatti di Ungheria sembra che in Unione sovietica, nonostante la morte e la condanna di Stalin, nulla sia cambiato! E qualcosa è cambiato nel nostro Pci? Assolutamente no! L’apparato non assume una posizione decisa in merito nonostante larga parte della base avvertisse l’estrema gravità della situazione. Non solo! L’opposizione interna – se vogliamo chiamarla così – viene espulsa dal partito. Nasce così il gruppo del Manifesto che vede tra i suoi fondatori Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Aldo Natoli! E poi ancora altri nomi illustri, Luciana Castellina, Lucio Magri, Valentino Parlato, Massimo Caprara. Insomma, le critiche interne, i risentimenti, i dissensi, di cui erano stati portavoce i “Quaderni Rossi”, la prestigiosa rivista avviata nel ‘61 da un gruppo di eretici della sinistra, tra cui Renato Panzieri e Mario Tronti, e chiusa nel ’66, avevano infine dato i loro frutti!

In questa situazione così nuova e diversa da quella del Pci pre-sessantotto, aveva ancora ragion d’essere la politica troskista dell’entrismo? Gruppi e gruppuscoli nascevano un po’ dovunque: da Servire il popolo, filomaoista ad Avanguardia operaia, Autop, ovvero Autonomia operaia, Potere operaio, Lotta continua e via dicendo! Va anche sottolineato che la “ribellione” non partiva solo da sinistra e che non proprio tutti i giovani potevano dichiararsi compagni. Nel ’69, infatti, prendeva consistenza anche quel movimento fondato anni prima da Don Giussani, che assunse il nome di Comunione e liberazione. Sosteneva che il cammino della liberazione dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo non poteva attuarsi con una via rivoluzionaria libertaria, che avrebbe finito con il riprodurre tutti gli errori e gli orrori dello stalinismo, ma solo nella comunione cristiana, con cui sarebbe stata possibile la vera liberazione dell’uomo, e non solo dallo sfruttamento. Per non dire delle tante formazioni neofasciste, che si segnalavano negli scontri con i compagni del movimento per la durezza dei loro picchiatori!

 

Valle Giulia e la poesia di Pasolini

L’assalto alla politica “conservatrice” del Pci ormai era tutta dall’esterno del partito e la ricetta troskista ebbe di fatto i giorni contati! La prudenza di un’analisi attenta e circostanziata della politica del partito e la proposta di progressivi – ed anche lenti – cambiamenti, che poi si risolveva nella pratica dell’entrismo, era ormai superata dalle proposte “eversive” tout court e dall’arroganza – anche – di tanti giovani che ostentavano di saperla molto più lunga dei quadri dirigenti del Pci. In effetti, chi veniva da analisi attente e di lungo periodo, come me e tanti altri compagni della vecchia guardia degli anni Cinquanta, si trovava anche a dover competere con posizioni a volte molto infantili e improvvisate! Spesso una sfrenata moda anti-pci era più forte e invadente degli esiti di tante analisi condotte nel corso degli anni! Mi trovai così – e ci trovammo in molti – in una strana situazione: quella di criticare il partito per le sue scelte, ma di sostenerlo per quello che era stata la sua “cultura” e la sua storia. A fronte della quale lo stesso rapporto di Krusciov al ventesimo congresso appariva grossolano e banale. Potremmo anche dire che Valle Giulia – siamo nel marzo del ’68 – cominciò a segnare molti ripensamenti.

E Pasolini scrisse quella poesia sull’Espresso che fece tremare le vene e i polsi a tutti noi! “… Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano. […] Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care. Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia. Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete! I ragazzi poliziotti che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale) di figli di papà, avete bastonato, appartengono all’altra classe sociale. A Valle Giulia, ieri, si è cosi avuto un frammento di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte della ragione) eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri…”.

In seguito, con l’affievolirsi del movimento e dei movimenti, molti di noi, sull’onda di ritorno del Sessantotto “rientrarono nei ranghi” – se si può dir così – perché occorreva comprendere le ragioni della “fine”. Di fatto si aprivano due vie: si sceglieva l’analisi, la ricerca, un ritorno alla politica ineluttabile del passo dopo passo, oppure la strada del tutto e subito, lotta, comunque e sempre, senza generali e con molti soldati, anche ad oltranza? Erano assemblee convulse quelle nostre di un Sessantotto “in crisi”: occorreva “risalire sulle montagne” e scegliere la clandestinità e la lotta armata, come nuovi partigiani oppure “rimanere nella valle”, riassumere un ruolo di lotta nello specifico del proprio posto di lavoro e della propria professionalità? Ed il dibattito non era soltanto nostro, ma aveva anche una dimensione transnazionale, perché lo stesso movimento aveva assunto negli ultimi anni una dimensione transnazionale.

 

Oltre il Sessantotto

La mia scelta fu quella di “rientrare” nello specifico professionale. Avevo sempre insegnato – forse anche non male – ma la mia testa era sempre alla milizia politica. La domanda che allora mi posi era questa: chi sono io in quanto professionista in un determinato settore lavorativo? Al di là delle “grandi lotte” per un avvenire incerto, che cosa posso e debbo fare perché il mio ruolo, il mio concreto comportamento, sia conforme ad una linea di concreto rinnovamento nella specificità che mi riguarda e mi coinvolge nella prospettiva, ovviamente, di un disegno progressivo più ampio e di lunga durata? Una sorta di glocal giocato di anticipo! Lavorare nel locale avendo però la testa nella prospettiva del globale!

Fu così che con i nuovi anni Settanta “rientrai nei ranghi” con l’intento di studiare, ricercare, discutere sul ruolo docente e quello della scuola e delle sue istituzioni: ed allora fu forte e determinante scegliere il sindacato per quello che era e per il ruolo che gli competeva… ma la scelta mirata investiva la Fiom e la Fim! C’erano pur sempre delle differenze, a mio vedere tra un sindacato confederale e due sindacati di categoria… e quali categorie! I metalmeccanici, la punta di diamante delle lotto operaie, fin dall’epoca della Ricostruzione, del boom, della Seicento per tutte le tasche! E furono i metalmeccanici a rivendicare per primi il diritto allo studio! Esigevano una scuola diversa che facesse loro recuperare ciò che la “scuola borghese” aveva loro negato. Nacquero quelle 150 ore a cui molti di noi lavorarono: costituivano una premessa per avviare una ricognizione dei “saperi” scolastici di sempre e di una messa a punto di “saperi” diversi, che fornissero non solo nozioni, pur sempre necessarie, ma chiavi di lettura della realtà!

Qualche anno prima mi era anche nato Pierluigi! Mi chiedevo: che cosa deve fare un padre con un “nuovo arrivato” delle cui dinamiche di crescita/sviluppo non capisce assolutamente nulla? Il mio specifico professionale e… famigliare mi conduceva forzatamente a quella pedagogia di cui conoscevo soltanto il nome. Così, in quell’avvio degli anni Settanta feci delle scelte importanti e determinanti per il mio futuro professionale e politico. Rientrai nel Partito. Quale differenza rispetto alla prima iscrizione del ’50: nessuna presentazione da parte di almeno due compagni, nessuna autobiografia scritta, nessun “interrogatorio” da parte degli organismi di controllo! I tempi erano veramente cambiati! E poi l’ingresso nella redazione di “Riforma della Scuola”. C’erano Lucio Lombardo Radice, Alberto Alberti, Lucio Del Cornò, Mario Alighiero Manacorda, Giorgio Bini, Marino Raicich! E la frequentazione dell’Istituto Gramsci! Ed ancora: l’ingresso nella cattedra di Raffaele Laporta, il barone rosso del Magistero, facoltà da sempre fascisteggiante. Era un cattedra molto numerosa: eravamo tutti i sopravvissuti del ’68, con matrici e culture molto diverse, ma tutti animati da due imperativi: capire che cosa e come fare, e soprattutto fare! Una cattedra vista dagli altri dello establishment come un covo di transfughi sì, ma sempre pericolosi rivoluzionari! Laporta stava lavorando a La difficile scommessa, aveva alle spalle la Scuola città Pestalozzi di Firenze, La Nuova Italia e “Scuola e Città” con tutti suoi autori, Lamberto Borghi, Tristano Pippo Codignola, Guido Calogero, Francesco De Bartolomeis, Aldo Visalnerghi.

E con Laporta c’era anche il Movimento di Cooperazione Educativa, con Bruno Ciari, Mario Lodi, ed anche il Movimento di Collaborazione Civica con Ebe Flamini, Cecrope Barilli, Augusto Frassineti. Mi si aprì un nuovo mondo, di impegno civile, culturale e politico… quest’ultimo forse in seconda battuta, ma indubbiamente più incisivo per certi versi dei dibattiti politici nelle sedi di partito.

Gli studenti del postsessantotto della nostra cattedra erano assolutamente diversi! Non ci chiedevano di parlare di HoCiMin, ma volevano capire che diavolo fosse questa ricerca pedagogica. E che cosa dovevano fare in concreto per insegnare in una scuola che stava cambiando. Nel ’74 furono varati i Decreti delegati: che cosa significava e che cosa comportava la democratizzazione della scuola? E fu un grosso impegno anche per me misurarmi non solo con la didattica “spicciola”, ma anche con la pedagogia marxista e con quella cattolica (erano miei “alunni” Luigi Calcerano e Antonio Giunta La Spada): quali scelte comportassero sul piano delle finalità, ma anche del concreto “saper fare” insegnante! E nel ’74 nacque il Cidi, per iniziativa di Luciana Pecchioli e Tullio De Mauro, anche con un ampio e convinto sostegno del Pci (siamo già nella stagione Berlinguer). Nasceva così, a fianco dell’Uciim, l’associazione che dal ‘44 organizzava gli insegnanti di ispirazione religiosa, un nuovo soggetto, che avrebbe fatto della battaglia per la laicità della scuola e di una rigorosa professionalità dei suoi insegnanti la sua bandiera.

A questo punto occorre mettere la parola fine perché comincerebbe un’altra storia!

 

Roma, 4 ottobre 2009

Una proposta di lettura della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia

Una proposta di lettura della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia mediante locuzioni in inglese, dall’holding al rebirthing

di Margherita Marzario

Abstract: L’Autrice scava nella profondità delle parole usate dagli estensori dello strumento normativo internazionale per farne scaturire, come da sorgente, tutti i significati (anche in lingua inglese) che ne dicono l’importanza a tutela dell’infanzia

 

Per “far conoscere diffusamente i principi e le norme della Convenzione” (art. 42) e “promuovere l’effettiva applicazione della Convenzione” (art. 45) Internazionale sui Diritti dell’Infanzia del 1989, per puntualizzarla ed anche vivificarla in nuovi contesti sarebbe interessante leggerla mutuando, in maniera atecnica, locuzioni inglesi usate nelle scienze umane o in altri ambiti per dare pure un nuovo significato a queste espressioni, spesso abusate o vanificate.

“[…] il fanciullo per il pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione” (dal Preambolo della Convenzione); mentre nell’art. 6 della Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo del 1959 si legge “[…] un’atmosfera d’affetto e di sicurezza materiale e morale”. La Convenzione ha allargato il concetto per far intendere che si deve circondare il bambino di situazioni positive, feconde di vita (qual è il vero significato di felicità). Il bambino ha bisogno di affettività, che non è l’ipoaffettività o disaffettività che spesso caratterizzava la famiglia del passato, prevalentemente normativa, ma non è nemmeno l’iperaffettività della famiglia attuale che rischia di portare all’anaffettività. Il bambino ha bisogno di “holding” (letteralmente “contenimento, sostegno”), teoria elaborata per la prima volta dal pediatra e psicoanalista inglese Donald W. Winnicott (1896-1971), per definire il ruolo della madre (o, più in generale, della figura significativa che si prende cura del bambino, “caregiver”) di fungere da contenitore delle angosce del bambino, di costituire una sorta di spazio fisico ma soprattutto psichico (“holding environment”) in cui il bambino si sente accolto, sostenuto, rassicurato, incoraggiato nelle prime espressioni di sé. All’“holding” si aggiungono l’“handling” e l’“object presenting”. Con il termine “handling” ci si riferisce all’insieme delle manipolazioni corporee materne così come i giochi corporei e gli atti affettivi (dalle carezze al “mangiucchiare” i piedini e il pancino). Il senso dell’“handling”, toccare, che evoca quello giuridico di “mantenere” (da “tenere per mano”) i figli, bandisce il manipolare psicologicamente o tiranneggiare i figli, soprattutto durante le crisi di coppia. Per “object presenting” si intende la capacità materna di rendere disponibile al bambino l’oggetto nell’esatto momento in cui ne ha bisogno, né troppo presto né troppo tardi. Tra il giusto contatto e il giusto distacco si contribuisce alla formazione del sentimento e della volontà del bambino: è questo uno dei significati di “crescere”. L’“holding” è diventata poi terapia, la cosiddetta “terapia dell’abbraccio”, elaborata e sviluppata negli anni’80 da Marta Welch negli USA e usata soprattutto per l’autismo e psicosi infantili. “Abbracciare” significa tendere le braccia, circondare con le braccia, ma non sostituirsi all’altro o soffocarlo; quindi genitori e adulti devono rispettare l’individualità e la personalità dei bambini. “Il figlio è come un puledro il cui addestratore fa girare all’interno della staccionata dandogli più o meno corda; quindi è il puledro che corre al comando dell’addestratore e non quest’ultimo che corre appresso al puledro” (don Antonio Mazzi[1]). “La famiglia di origine, mentre dà protezione e sicurezza, dovrebbe aiutare i figli a maturare. Dovrebbe buttarli nella vita. Compito difficile, per i genitori, il taglio definitivo del cordone ombelicale e altrettanto difficile l’impresa dei figli di lasciare il padre e la madre” (Valentino Salvoldi, teologo e scrittore).

Tutto nel rispetto del “timing” (vocabolo inglese con più significati da “calcolo del tempo” a “sincronizzazione”; in psicologia s’intende la successione temporale di un fenomeno psichico o comportamentale) del bambino, ossia “in modo consono alle sue capacità evolutive” (artt. 5 e 14 Convenzione), “in relazione alla sua età ed al suo grado di maturità” (art. 12 Convenzione), “in particolare in ragione della sua età o condizione” (art. 40 Convenzione). Il bambino ha diritto al suo tempo e ai suoi tempi (aspetto che sembra scontato ma è sempre più trascurato), non perché sia immaturo ma perché è un bambino, una persona che va maturando e che deve vivere le tappe ed ogni tappa della sua vita per maturare (la cui radice semantica “ma“ significa proprio “misurare”) altrimenti rischia di diventare un immaturo cresciuto solo anagraficamente: non si può pretendere che il germoglio porti già i frutti dell’albero. Nel Preambolo della Dichiarazione del 1959 si prescrive: “Considerato che il bambino, a causa della sua immaturità fisica e intellettuale, ha bisogno di una particolare protezione e di cure speciali compresa una adeguata protezione giuridica, sia prima che dopo la nascita” (capoverso riportato nel Preambolo della Convenzione del 1989 come linea di continuità dell’impegno internazionale a tutela dell’infanzia). Delineata in tal modo sembra che l’infanzia sia uno stadio da minorati, invece è la fase fondamentale e fondante della vita tanto che continuando a leggere il Preambolo della Convenzione si trova “[…] che occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società”. Per cui occorre non solo circondare di positività il bambino ma anche abituarlo al “coping” (letteralmente “fronteggiamento”), capacità reattiva di fronte alle situazioni stressanti, alle negatività così lo si prepara appieno ad avere una vita individuale (letteralmente “indivisibile, inseparabile”) nella società, in mezzo agli altri e con gli altri.

Una delle più rilevanti novità della Convenzione rispetto alla Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo del 1959 è stata quella di aver introdotto l’attenzione al “benessere” del fanciullo sin dal Preambolo. Mentre nell’art. 4 della Dichiarazione del 1959 si diceva “[…] devono essere assicurate a lui e alla madre le cure mediche e la protezione sociale adeguata”, nell’art. 3 della Convenzione si legge “[…] assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere”, quel benessere che, successivamente, nell’art. 17 è definito “sociale, spirituale e morale”. Adulti e bambini devono “com-prendere” che il “focus” (centro, a cosa prestare particolare attenzione) della vita non è il successo o l’avere cose esteriori ma il “ben-essere”, in altre parole devono imparare a fare “focusing” (“focalizzazione”; tecnica sorta negli anni ’70 ad opera dello psicoterapeuta Eugene T. Gendlin), fare attenzione alla percezione corporea, mettere a fuoco le sensazioni cariche di significato con le quali il corpo riassume continuamente ogni vissuto, accoglierle e tradurle in informazioni comprensibili e utili per la vita. I bambini sono dei focalizzatori naturali, poiché essere in rapporto col corpo e con i suoi messaggi è un’abilità innata nell’essere umano; hanno solo bisogno di un po’ di aiuto da parte di adulti, che sanno come fare, per fidarsi di quello che sentono. La dimensione corporea interiore (in gergo “felt sense”) diviene così fonte di vero benessere.

Nell’art. 5 della Convenzione si richiamano le responsabilità, i diritti ed i doveri di tutti gli adulti, dai genitori all’intera comunità. È questo il senso da dare alla cogenitorialità o al “co-parenting” e non, riferendosi a quest’ultimo, concepire e crescere un figlio senza essere una coppia legata sentimentalmente. Cogenitorialità che si esprime in “counseling” (relazione d’aiuto che consiste nell’accompagnare l’altro verso le proprie scelte autonome), nell’impartire al fanciullo l’orientamento e i consigli (etimologicamente “saltare insieme” o “fare silenzio insieme”) necessari all’esercizio dei suoi diritti.

L’art. 12 della Convenzione è noto per aver riconosciuto il diritto all’ascolto dei bambini trascurando, però, il dovere dell’ascolto e l’educazione all’ascolto. L’ascolto stesso è un procedimento, “audit” o “auditing” (termine inglese usato in vari settori e derivante dal verbo latino “audire” che aveva vari significati, da “sentire” a “interrogare”), in cui si rivede se stessi, ci si confronta, così si forma veramente un’opinione (da “giungere con la mente” e, pertanto, frutto di un processo interiore) e la si può esprimere liberamente e in qualsiasi materia.

Nel cuore dell’elenco dei diritti positivi dei bambini, nell’art. 14 par. 1 della Convenzione si prescrive che “Gli Stati parti devono rispettare il diritto del fanciullo alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”. È l’unico articolo che esordisce in tal modo: è un vero progetto di vita, è il progetto-persona. “Pensiero” (da “pesare con cura”), “coscienza” (da “sapere con, insieme, per mezzo”, quindi essere presenti a se stessi), “religione” (in latino “scrupolosità, considerazione, cura riguardosa”): ben lungi dai concetti di “facoltà” e “giudizio personale” espressi nell’art. 7 della Dichiarazione del 1959. È necessario avviare il bambino alla “mindfulness” (“consapevolezza, presenza mentale”), il cui ideogramma cinese con due caratteri diversi indica l’atto di vivere il momento presente con il cuore. Secondo la definizione, data nel 1994, dallo studioso statunitense Jon Kabat-Zinn, “mindfulness” significa “porre attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante”. Si tratta di pre-occuparsi dello sviluppo mentale del bambino, richiamato negli articoli 27 e 32 della Convenzione (l’aggettivo mentale compare anche negli artt. 17, 19, 24, 25), come già nell’impostazione dell’antico ginnasio greco (“ginnasio” etimologicamente “esercizio della persona”) e secondo il notissimo apoftegma di Giovenale “mens sana in corpore sano”; “mente” deriva dalla radice semantica “ma” da cui hanno avuto origine molte altre parole come memoria, misura, madre, materia, matematica, perché la mente indica tutte queste facoltà, da quella razionale a quella creativa, per questo l’estensore della Convenzione ha preferito l’aggettivo “mentale” ad “intellettuale”, usato nell’art. 2 della Dichiarazione del 1959. Fra tutte le facoltà, una delle più importanti è la memoria, da non trascurare in un’epoca in cui si tende a resettare e cestinare tutto. La memoria concorre alla consapevolezza di sé e dell’altro da sé. “La memoria è la più preziosa esperienza intrapsichica che ci sia dato sperimentare ma ha bisogno di essere costantemente confermata dalle nostre scelte e dai nostri gesti perché altrimenti passa come acqua su una lastra, senza lasciare traccia. Il problema è creare una carta assorbente, noi stessi, che si intrida di ricordi. Qui entra in gioco la pedagogia della memoria in famiglia, che richiede fatica e attenzione ma che, in prospettiva, dà i suoi frutti” (Duccio Demetrio, docente di filosofia dell’educazione e della narrazione). Data la rilevanza di tutto ciò, “Gli Stati parti devono rispettare il diritto e il dovere dei genitori o, all’occorrenza, dei tutori, di guidare il fanciullo nell’esercizio del diritto sopra menzionato” (art. 14 par. 2 Convenzione). I genitori e le altre figure significative devono essere capaci di “coaching” (da “allenare, dare ripetizioni”), cioè devono accompagnare e motivare verso un determinato risultato. Per fare ciò è necessario, però, che loro vi siano già arrivati, che siano veramente adulti, che siano “cresciuti negli anni e nella persona, quanto basta per avere intelletto e discernimento”, quell’adultità che spesso latita soprattutto in libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Colui che guida un autoveicolo deve avere la patente di guida, conosce il mezzo, chi o cosa trasporta, la strada e la destinazione: così dovrebbe essere per la “patente” della genitorialità.

Ai genitori si chiede anche il “parent engagement” o “parental involvment” (letteralmente “coinvolgimento dei genitori”). I genitori non solo siano genitori, ma facciano i genitori, si sentano genitori, si sporchino le mani con la genitorialità. “[…] entrambi i genitori hanno comuni responsabilità in ordine all’allevamento ed allo sviluppo del bambino. La responsabilità di allevare il fanciullo e di garantire il suo sviluppo incombe in primo luogo ai genitori o, all’occorrenza, ai tutori. Nell’assolvimento del loro compito essi debbono venire innanzitutto guidati dall’interesse superiore del fanciullo” (art. 18 par. 1 Convenzione). La genitorialità è una responsabilità e un compito che si possono e devono condividere, ma non dividere o delegare. L’interesse superiore del fanciullo è tale anche nei confronti del fanciullo stesso e non farsi prendere o condurre nelle scelte dai suoi capricci o interessi passeggeri.

Nell’art. 5 della Dichiarazione dei Diritti del fanciullo si legge: “Il bambino che si trova in situazioni di minorazione fisica, mentale o sociale ha diritto a ricevere il trattamento, l’educazione e le cure speciali di cui abbisogna per il suo stato o per la sua condizione”. L’art. 23 par. 1 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia invece recita: “Gli Stati parti riconoscono che un fanciullo fisicamente o mentalmente disabile deve godere di una vita soddisfacente che garantisca la sua dignità, che promuova la sua autonomia e faciliti la sua partecipazione attiva alla vita della comunità”. Col bambino disabile, ma anche con quello “normodotato” affinché non diventi disabile nel vivere o inabile nell’amare, occorre fare “reflecting”, aiutare qualcuno a riflettere su di sé, sul proprio essere e sul proprio esistere, utilizzando prevalentemente le proprie risorse personali; si tratta di una relazione di aiuto in cui si convertono gli atteggiamenti di rinuncia e di rassegnazione in atteggiamenti costruttivi. Il bambino disabile impara a vivere la sua disabilità e a conviverci. Per questo sono necessari il “curing”, “cure speciali”, e il “caring”, “prendersi cura” (art. 23 par. 2 Convenzione). Si pensi, tra i tanti casi, alle Paraolimpiadi o ai traguardi raggiunti nella vita quotidiana da ragazzi con la sindrome di Down.

In tutto questo i genitori hanno bisogno di “parent training”, da non intendersi solo attività di formazione rivolta ai genitori di bambini con difficoltà ma come “educazione dei genitori”, di cui si parla nell’art. 29 lettera f della Convenzione ed inserita come ago della bilancia tra la “medicina preventiva” e la “pianificazione familiare”, proprio perché l’educazione dei genitori è fondamentale per il benessere dei bambini e per il benessere sociale soprattutto considerando l’aumento di bambini problematici o caratteriali tra gli effetti della crescente incompetenza genitoriale. L’educazione dei genitori da esplicarsi non solo in appositi corsi o incontri ma anche e soprattutto come loro capacità di mettersi in discussione, di confrontarsi con gli altri, di accettare consigli, suggerimenti, correzioni, come avveniva in passato in cui contavano il rapporto di vicinato, la considerazione degli insegnanti, il parentado (e non consulenze professionali e trasmissioni televisive su tate) e valori comuni. La pianificazione familiare in passato (e ancora oggi in alcuni Paesi sovrappopolati) riguardava il controllo delle nascite e di eventuali gravidanze indesiderate; oggi la pianificazione va intesa nel far capire ai genitori che i figli non devono essere frutto dei loro egoismi, per “cementificare” una coppia vacillante o inesistente, o da concepire in età molto matura dopo aver raggiunto altri traguardi professionali o personali o altro ancora. Per far fronte a tutto questo, esperti di pedagogia della famiglia, quali Luigi Pati e Antonio Bellingreri, propongono l’istituzione di scuole per genitori impostate come percorsi di apprendimento, che possono aiutare in particolare una crescita della consapevolezza di fronte alle responsabilità e alle difficoltà poste dalla vita di famiglia nei momenti critici. Le scuole possono attivare processi virtuosi di cambiamento, soprattutto perché l’apprendimento avviene attraverso una riflessione sulle esperienze di vita condotte da ciascuno in prima persona. Mediante la solidarietà tra le famiglie e il processo di apprendimento riflessivo, la coppia diviene esperta della propria vita e può trovare in se stessa le energie per affrontare e superare i problemi che ogni giorno si vanno ponendo.

L’educazione dei genitori è inserita nell’art. 24 relativo alla salute del fanciullo ed anteposta all’educazione del fanciullo disciplinata nell’art. 28 della Convenzione. Il punto di svolta è e rimane l’educazione, dall’autoeducazione alla coeducazione. Tra gli obiettivi europei la “vocational education and training” (VET, istruzione e formazione professionale), già stabilita nell’art. 28 della Convenzione di cui resta disattesa in particolare la previsione della lettera d “rendere l’informazione educativa e l’orientamento professionale disponibile ed alla portata di tutti i fanciulli”, soprattutto perché non ci si pone alla portata dei fanciulli, dal livello legislativo a quello operativo, perché si trascura il “tutti” ripetuto quattro volte nell’art. 28 e perché non si fa della propria vocazione la propria professione. Ha trovato maggiore applicazione il terzo paragrafo dell’art. 28: “Gli Stati parti devono promuovere e favorire la cooperazione internazionale in materia di educazione, in particolare al fine di contribuire all’eliminazione dell’ignoranza e dell’analfabetismo e facilitando l’accesso alle conoscenze scientifiche e tecniche ed ai metodi di insegnamento”. Nell’art. 28 della Convenzione si parla distintamente di ignoranza e di analfabetismo, perché ci sono varie e sottili forme di analfabetismo, da quello di ritorno a quello emozionale. Contro ogni ignoranza ed analfabetismo si sono diffuse varie tecniche, tra le più note: “role playing” (gioco di ruoli), “circle time” (tempo del cerchio), “problem solving” (soluzione dei problemi), “coding” (programmazione, per passare poi al cosiddetto pensiero computazionale), “brainstorming” (tempesta di cervelli). Quello che più conta, però, sono i “metodi di insegnamento”, un richiamo affinché s’insegni con metodo (etimologicamente “l’andare indietro per ricercare, per investigare”), s’insegni il metodo (ricordando che “metodo” deriva dal greco “metà”, dopo, oltre, e “hòdos”, cammino, via, strada; parole che ben si addicono all’istruzione e all’educazione) e che si insegni veramente tendendo principalmente a “preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia fra tutti i popoli, gruppi etnici, nazionali e religiosi, e persone di origine autoctona” (art. 29 lettera d Convenzione). E questo lo si può ottenere meglio e prime attraverso la “peer education” e la “peer mediation”, educazione tra pari e mediazione tra pari, giacché bambini e adolescenti vivono in un mondo sempre più popolato di adulti e adulterato dagli adulti. In tal modo bambini e adolescenti diventano davvero soggetti educativi e l’infanzia e l’adolescenza divengono tavolo di “lifelong learning”, apprendimento permanente (basti pensare alle tante parole e storie inventate dai piccoli, capacità innata dei piccoli e che, spesso, viene frenata), e non solo fasi problematiche per gli adulti sempre più incapaci di affrontarle. Il tutto se impostato in modo ludico e ludiforme (“gamification”, ludicizzazione), intendendo la vita come il più bel gioco cui partecipare (anche per prevenire le forme di ludopatia, internet-patia e altre dipendenze): “Gli Stati parti devono rispettare e promuovere il diritto del fanciullo a partecipare pienamente alla vita culturale ed artistica ed incoraggiano l’organizzazione di adeguate attività di natura ricreativa artistica e culturale in condizioni di uguaglianza” (art. 31 par. 2 Convenzione). Formulazione molto più efficace di quella dell’art. 8 par. 2 della Dichiarazione dei Diritti del fanciullo del 1959: “Il bambino deve avere tutte le possibilità di dedicarsi a giochi e ad attività ricreative che devono essere orientate a fini educativi; la società e i poteri pubblici devono fare ogni sforzo per favorire la realizzazione di tale diritto”. Nell’art. 31 della Convenzione il gioco è auspicato come stato d’animo, come approccio di vita, infatti è l’unico articolo scritto in questo modo incisivo e positivo prima degli articoli successivi in cui si parla di situazioni negative da cui salvaguardare i bambini.

Anche in caso di esperienze negative, però, si deve trasmettere ai bambini lo spirito di “rebirthing” (letteralmente “rinascita”), inteso come rinnovamento e nuova scoperta del sé, a maggior ragione nei casi di un “fanciullo accusato e riconosciuto colpevole di aver violato la legge penale” cui si deve facilitare il suo reinserimento nella società e fargli assumere un ruolo costruttivo in seno a quest’ultima (art. 40 par. 1 Convenzione).

Concludendo sono attuali, oggi più che mai, le parole del Preambolo della Dichiarazione del 1959 “[…] l’umanità ha il dovere di dare al fanciullo il meglio di se stessa” ribadite da quelle del Preambolo della Charte du Bureau International Catholique de l’Enfance (Parigi, giugno 2007; atto non normativo e, pertanto, non vincolante) “Ogni bambino ci dice a modo suo la bellezza e le ferite della vita e ci richiama anche alla nostra responsabilità”. Responsabilità: dare una risposta. Dovere di tutti e di ciascuno.

[1] Durante la presentazione del libro “Stop ai bulli. La violenza giovanile e le responsabilità dei padri” (Mondadori, 2008) a Matera il 17 gennaio 2009.

M. Priore e S. Ciriello, Parole nomadi

Parole nomadi. ”Scrivere e comunicare nella scuola” di Mario Priore e Stefania Ciriello, Lavieri editore

di Mario Coviello

paroleNel corso dell’anno scolastico 2013/14 , mio ultimo anno di servizio ,due docenti di materie letterarie delle scuola media di Bella, al termine dell’anno scolastico, hanno voluto raccontare in questo libro come sono riusciti ad appassionare i loro alunni alla scrittura e alla narrazione.

“ Noi prof a volte siamo un po’ “ rompi”, se ci guardiamo con gli occhi dei ragazzi e usiamo il loro linguaggio…” così introduce il libro Mario Priore e subito dopo aggiunge..” Eppure dietro ogni comportamento ( dei ragazzi ) si nasconde sempre qualcosa. Far parlare i ragazzi dei loro problemi….può aiutare noi a capirli meglio e a sviluppare in loro un senso di autostima e di appartenenza ad un gruppo..” e più oltre aggiunge…” dare fiducia ai ragazzi, farli sentire persone e non solo alunni aiuta anche a farli comunicare..”

Il libro che avete tra le mani racconta come due docenti….” capaci di prendersi non troppo sul serio, di parlare di sé, dei loro problemi, di mostrare che sono persone che non sanno solo arrabbiarsi, mettere le note e i brutti voti..ma di camminare “spalla a spalla” con i loro alunni riescono a sviluppare in loro competenze comunicative..”

In questo libro si presentano modelli e forme narrative per promuovere la scrittura a scuola, mettendo al centro dell’insegnamento la biblioteca scolastica.

Con un lavoro di oltre 20 anni la scuola di Bella ha costruito la sua biblioteca che si presenta sul sito www.bibliobella.it, una biblioteca che è patrimonio della scuola e della cittadinanza.

Nella bibliomediateca di Bella con oltre dieci anni di Mostre del libro per l’infanzia e l’adolescenza, quattro edizioni del Premio di Letteratura per l’infanzia “ Città di Bella” ad autori ed illustratori, sette edizioni di un Torneo di lettura che ha coinvolto decine di scuole in rete delle provincie di Potenza e Matera, migliaia di alunni dai 3 ai 18 anni, i docenti si sono formati sull’animazione della lettura. Hanno conosciuto e utilizzato in classe le migliori proposte di scrittori come Antonio Ferrara, premio Andersen 2012, Angela Nanetti,Emanuela Nava,Federico Appel,Daniela Valente, Patrizia Rinaldi,Alessandro Gallo, Ugo Vicic, Giulio Levi, Alfredo Stoppa,Emanuela Da Ros, Massimo Montanari, Sandro Natalini,Claudio Cavalli.

Di tutti questi scrittori i docenti e gli alunni hanno letto i libri e poi hanno incontrato gli autori per laboratori di scrittura,di illustrazione. Con il professor Livio Sossi, docente di letteratura per l’infanzia, per molti anni hanno ragionato sulla maniera per far appassionare alla lettura gli alunni.

Su Youtube, avviando la ricerca con scuola di Bella e/o Istituto Comprensivo di Bella, troverete video che raccontano come il professor Mario Priore ha insegnato agli alunni come si racconta la metafora, il testo argomentativo, quello narrativo e il book trailer del libro di Anna Lavatelli “ Gaston e la ricetta perfetta”, Giunti editore.

Nella rubrica recensioni del sito www.edscuola.it potrete trovare il racconto dei miei incontri con tutti gli autori che sono stati ospiti della biblioteca di Bella.

Quest’anno ha particolarmente appassionato i ragazzi e i docenti l’incontro con David Conati (a questo link  troverete l’ intervista all’autore) che ha partecipato al Torneo di lettura con il libro “ Amici virtu@li”, Raffaello editore. Lo scrittore durante i laboratori con i docenti di scrittura ha presentato anche i suoi libri “ O.D.I. S.S.E. A.” e”Esercizi di Stile”. In questi due libri l’autore invita i docenti a presentare a scuola fiabe come Cappuccetto rosso e un classico come l’Odissea in modo originale, coinvolgente.

I docenti Priore e Ciriello hanno sperimentato questo modo di fare scuola nel corso di un intero anno scolastico, nel pomeriggio, durante le ore trascorse in biblioteca con i laboratori di scrittura e animazione teatrale e raccontano questa esperienza in questo libro.

Quando leggiamo di pedagogia e di didattica non vogliamo solo conoscere i risultati di una ricerca ma siamo interessati al processo che ha consentito il raggiungimento dei risultati per verificare se è possibile intraprendere la stessa strada, cogliere spunti, provare a stare in classe con gli alunni in maniera creativa, appassionante. Questo ci viene raccontato in questo libro.

Il professor Priore, anche in qualità di responsabile della bibliomediateca dell’Istituto, ci racconta come,partendo da un episodio accaduto in classe con un docente che perde le staffe, è possibile non solo riflettere su regole, comportamenti, emozioni e reazioni ma spingere gli adolescenti che preferiscono comunicare con le chat, Istagram, WhatsApp e Facebook, a raccontarsi con la scrittura.

Il laboratorio in biblioteca, con l’uso di i-pad e i-phone consente una lettura e scrittura condivisa e partecipata, rispettando una metodologia rigorosa, nella quale il docente accompagna la maturazione degli alunni, di tutti gli alunni.

Il professor Priore sottolinea che tutti possono giungere a forme di scrittura partendo da testi preesistenti che presentano strutture riproducibili che vanno spiegate ai ragazzi. L’aspetto ludico è una componente importante nel processo di scrittura perchè motiva i ragazzi ma , nello stesso tempo, comporta operazioni di analisi, applicazione e produzione.”

E nelle “Lezioni di coro. O di stile “ i ragazzi si dimostrano capaci di fare non solo un riassunto della storia ma anche un telegiornale, un articolo di cronaca, una radiocronaca sportiva, una fiaba, un monologo….e perfino le previsioni del tempo, un oroscopo, un necrologio, un menù turistico , una ricetta e tanto altro ancora….

La professoressa Ciriello con “ Scrivere e fare teatro nella prospettiva della personalizzazione “ racconta come , sulla base del modello di Conati e la lettura in classe di brani della sua Odissea, ha avviato gli alunni di prima media di una classe difficile alla reinvenzione e rappresentazione dell’Iliade, un classico di tutti i tempi.

Partendo dall’assunto che “l’adolescenza è un’età difficile e complicata..di crisi che si manifestano spesso con atteggiamenti di opposizione verso i compagni e soprattutto i docenti la professoressa Ciriello racconta che i suoi ragazzi manifestano il loro disagio in forme diverse… irruenza…arroganza… violenza…timidezza..chiusura. L’insegnante afferma convinta che “ il coinvolgimento dei ragazzi in un’esperienza di scrittura e rappresentazione teatrale nell’ottica della personalizzazione può coinvolgere tutti gli alunni di una classe , motivarli e farli crescere..”

La professoressa Ciriello in questo libro racconta come si lavora in un laboratorio teatrale spiegandone il contesto, gli obbiettivi e le fasi dell’approccio metodologico. La parola, racconta la Ciriello, diventa gesto,silenzio, movimento. Il gruppo impara a gestire lo spazio assegnato e a raccontare caratteri, manie,tic, dei personaggi che tutti hanno studiato e che vengono reinventati e attualizzati con ironia.

E anche questa volta, quando i docenti sono capaci di ascoltare, mediare, la classe diventa un gruppo che crea, inventa, rappresenta ,si scopre e matura. Perché la valenza educativa del teatro a scuola nasce da un decalogo che sottolinea come il teatro non ha ideologie,tende a piacere,attiva l’oralità, motiva l’interesse per la narrativa e la drammaturgia, aiuta lo sviluppo linguistico,conduce ad una relazione autentica con il corpo, favorisce lo sviluppo sociale ed emozionale, comporta utili esperienze psicologiche e culturali.

E il video che racconta la rappresentazione de “ L’Iliade rivista e scorretta” presentata nel libro dimostra quanto i ragazzi hanno saputo con ironia e divertimento rappresentare un classico sempre attuale.

Consiglio la lettura meditata di questo libro a tutti i docenti che non hanno perso la voglia di giocare con i loro alunni, a docenti che hanno il coraggio di attraversare confini per indicare rotte di vita avvincenti.

J.-C. Izzo, Solea

Un altro tipo di eroe

di Antonio Stanca

izzoPresso le Edizioni E/O di Roma, nella serie Tascabili, è recentemente comparsa, tradotta da Barbara Ferri, la dodicesima ristampa del romanzo Solea, ultimo della trilogia marsigliese dello scrittore francese Jean-Claude Izzo. L’aveva iniziata nel 1993 con Casino totale, l’aveva continuata nel 1994 con Chourmo e conclusa nel 1998 con Solea. Molto successo aveva ottenuto Izzo già con la prima di queste narrazioni perchè completamente nuova si era rivelata nel contemporaneo panorama letterario francese, completamente impegnata ad animare le vicende rappresentate, a farne i motivi di un interminabile movimento, di un insolubile contrasto tra il bene e il male della vita. Anche la lingua dell’Izzo era risultata particolare poiché rapida, svelta, essenziale, fatta di frasi brevi, concise capaci di rendere il continuo susseguirsi di pensieri, di azioni che avviene nell’opera, di adeguarsi ad esso e tradurlo in maniera immediata, vera. E’ una lingua che all’Izzo derivava dalla sua attività giornalistica svolta per molto tempo.

Era nato a Marsiglia nel 1945 e qui era morto nel 2000 a soli cinquantacinque anni. Oltre che scrittore di romanzi e racconti è stato giornalista presso molti giornali e riviste generalmente della Sinistra francese, autore di raccolte di poesie, di testi per il cinema, il teatro, la radio. Ha militato nel movimento cattolico “Pax Christi”, ha lavorato nelle biblioteche come commesso e come bibliotecario, ha preso parte alle elezioni legislative del 1968 nel collegio di Marsiglia, è stato attivista di sinistra, animatore culturale, redattore e caporedattore di giornali. Ha avuto un figlio nel 1972 dalla prima moglie che lasciò per un’altra donna che a sua volta lasciò per un’altra ancora. Ruppe nel 1978 col Partito Comunista Francese al quale aveva aderito dopo essere stato in quello socialista. Visse generalmente a Marsiglia ma non mancarono soggiorni anche prolungati a Parigi, a Saint-Malo e in altri posti.

Una vita irrequieta, che ha assunto direzioni diverse, si è svolta in luoghi diversi, ha seguito il bisogno dell’Izzo di un posto, di un ambiente, di un modo per placare il suo animo sempre agitato perché sempre avverso al malcostume che vedeva diffondersi a livello individuale e sociale, alla rovina che vedeva avanzare per i valori interiori dell’uomo, della sua morale. Sarà questo scontento a muovere la sua opera qualunque sia il suo genere e la sua attività sia essa religiosa, politica o d’altro tipo. La notorietà, però, rimarrà fino ad oggi legata ai tre romanzi della trilogia marsigliese. Questi lo distingueranno tra gli altri autori francesi del momento, ne faranno lo scrittore più letto della Francia di fine Novecento. In particolare Solea riuscirà ad avvincere i lettori fin dall’inizio poiché li metterà nella condizione di una continua, interminabile attesa. Li terrà sempre sospesi, li farà sempre pensare che stia per accadere qualcosa di nuovo, di drammatico. E’ lo stile seguito dall’Izzo per rappresentare il confronto, la lotta con quanto di grave, di estremo può succedere nella vita, nella società, è lo stile del “noir mediterraneo” del quale è considerato il creatore. Solea è un romanzo carico di colpi di scena, di rivelazioni improvvise, di pericoli incombenti, di atti sanguinari che non escludono, tuttavia, i tentativi di fermarli, di evitarli, il desiderio di una vita dove non ci siano. C’è tanta morte nell’opera ma c’è pure tanto bisogno di vita, c’è tanto male ma c’è pure tanta volontà di bene. E compreso tra questi opposti c’è Fabio Montale, il personaggio, l’eroe che Izzo ha creato col primo dei tre romanzi e continuato fino all’ultimo. In Solea Montale ha rinunciato a fare il poliziotto ma non a sapere delle faccende losche, degli intrighi oscuri che avvengono nella Francia meridionale, intorno a Marsiglia, e nei quali sono coinvolti industriali, politici, mafiosi non solo francesi ma anche stranieri. Forti interessi economici, elevati guadagni sono alla base di tanta malavita e in essa, tra i suoi segreti, i suoi meandri, è chiamato a muoversi Montale per capire e agire, pensare e fare pur se impari è la lotta di un uomo solo contro un sistema.

Come i due romanzi precedenti anche questo è ambientato a Marsiglia. A Marsiglia e dintorni si verificano le principali situazioni dell’opera, a Marsiglia si muove Montale, il protagonista delle tante vicende che si susseguono, si complicano, s’intrecciano. Egli vorrebbe fermare la spirale di violenza, la serie di omicidi che i banditi hanno innescato intorno a lui per muoverlo a rintracciare l’amica giornalista Babette ed a convincerla a rinunciare alla pubblicazione della sua inchiesta circa i veri responsabili di tanti traffici segreti, circa gli interessi dei pochi privati che ne usufruiscono pur a costo di impoverire intere popolazioni. Montale non riesce a rintracciare Babette e convincerla. Per questo, per sollecitarlo, per intimidirlo, gli vengono sistematicamente uccisi gli amici più cari. A tante morti deve assistere ed, infine, anche a quella di Babette ed alla propria perché nessun indugio è concesso dai criminali.

Molta violenza, molta crudeltà c’è nell’opera ma è pur sempre attraversata dal desiderio di situazioni diverse, dal sogno di una vita migliore, dal pensiero di una serenità, di una pace che siano di tutti, che valgano per tutti. Sono i desideri, i sogni, i pensieri di Montale, dell’uomo che vive il male, ne diventa vittima ma non smette di pensare al bene di una vita fatta di cose semplici, naturali, dell’amore per una donna, per un figlio, del bisogno di una famiglia, dei piaceri della tavola, del buon vino, della bella musica, delle belle immagini che la natura può offrire, che Marsiglia può assumere all’alba e al tramonto, della luce immensa che a volte producono il suo mare e il suo cielo. Non una dimensione superiore, ideale vagheggia Montale ma una reale, concreta, terrena e neanche questa è possibile poiché guastato è ormai l’ambiente nel quale ci potrebbe essere.

Un tipo di eroe nuovo rispetto a quello tradizionale che viveva di grandi idee, di grandi azioni ha creato Izzo con Fabio Montale. Lui ha fatto interprete delle sue inquietudini, delle sue paure, dei suoi bisogni.

Il cruscotto del Dirigente scolastico

Il cruscotto del Dirigente scolastico

di Vincenzo Campisi

 

Introduzione

In questo contributo presento un ipertesto che contiene una serie di strumenti, testati sul campo, che, mi auguro, possa contribuire a snellire parte del lavoro quotidiano del Dirigente scolastico (d’ora in poi DS), consentendogli di recuperare tempo prezioso per esercitare un ruolo attivo nel processo di insegnamento-apprendimento attuato nella scuola di cui è a capo.

La vigente normativa impone al DS l’espletamento di una serie tale di incombenze burocratiche che doveri inderogabili, quali supportare i docenti nella progettazione di percorsi didattici significativi e riflettere criticamente sul processo di insegnamento-apprendimento, potrebbero non essere svolti in modo efficace, per oggettiva mancanza di tempo.

Il DS deve infatti occuparsi di didattica, sicurezza, organizzazione della Scuola, gestione finanziaria, attività contrattuale e negoziale, gestione dei locali scolastici, gestione della privacy…[1]

Il DS passa buona parte delle sue giornate a leggere e-mail, circolari ministeriali e documenti di varia tipologia, la maggior parte dei quali, però, non riguarda la didattica. Possono così capitare situazioni in cui i docenti siano molto più aggiornati in didattica del DS e questo è un non senso se diamo per buono l’assunto che chi è a capo di una organizzazione deve essere molto esperto nel settore di cui si occupa quella organizzazione. Se la scuola è un’organizzazione che ha come mission produrre apprendimenti, il Capo d’Istituto non può non essere un esperto in processi di apprendimento e, in particolare, nell’organizzazione dei setting di apprendimento.

Il DS dovrebbe essere esperto di pedagogia, didattica, docimologia… non di gestione finanziaria, di attività negoziale, di edilizia scolastica, di normativa sulla sicurezza…

Forse sarebbe opportuno fare un passo indietro nel tempo e ripensare alla vecchia figura del Direttore didattico e demandare al Direttore amministrativo le principali incombenze burocratiche (aumentando a quest’ultimo lo stipendio, ovviamente, già oggi intollerabilmente basso per la mole di lavoro che svolge).

Mi limito a queste poche considerazioni sulla figura del Capo di Istituto, che andrebbe profondamente ridisegnata, poiché scopo di questo contributo è quello di fornire una sorta di cruscotto che possa velocizzare l’espletamento degli adempimenti di routine e consentire al DS di recuperare quanto più tempo possibile da dedicare all’organizzazione pedagogica della Scuola.

Guida all’uso del cruscotto

Al cruscotto si accede aprendo la cartella compressa “CRUSCOTTO DS” e cliccando sul file “indice cruscotto DS”.

Il cruscotto è strutturato in due sezioni: “Documenti” e “Scadenziario”.

La sezione “Documenti” contiene un elenco di possibili documenti che ogni scuola deve avere cura di aggiornare, comunicare e far valutare a tutti i portatori di interesse. Ha il solo scopo di aiutare il Capo d’istituto a verificare la presenza e la comunicazione di alcuni importanti documenti che vengono prodotti in ambito scolastico. Gli elenchi, distinti per tipologia di documento, sono strutturati sotto forma di lista di controllo, offrendo, così, la possibilità di riportare, per ogni documento, la data dell’ultima revisione, la tipologia e la data della comunicazione, il giudizio sul gradimento ricevuto, se, ovviamente, è stato monitorato. Molti dei documenti proposti, se inseriti nel sito web dell’istituto, possono contribuire a dare un’immagine piuttosto ampia di come una scuola funzioni e operi. Ogni scuola, ovviamente, potrà aggiungere alcuni documenti o eliminarne altri, se lo riterrà opportuno. L’elenco dei documenti proposti non ha infatti alcuna ambizione di esaustività.

La sezione “Scadenziario”, pensata per un Istituto comprensivo, è una sorta di lista di controllo dei documenti di routine da trasmettere periodicamente al personale scolastico.

In entrambe le sezioni, sono proposti alcuni esempi di documenti che hanno solo valore esemplificativo; ogni DS potrà eliminare o aggiungere tutti i documenti che ritiene necessari e modificarne la tempistica che, in base alle disposizioni ministeriali, può cambiare.

Gli esempi proposti sono documenti prodotti nella scuola in cui lavoro e, pertanto, non hanno alcuna pretesa di scientificità. Scopo del cruscotto è infatti fornire uno strumento di lavoro per il DS e pertanto può essere utilizzato e modificato nel modo in cui si ritiene opportuno.

Un consiglio: prima di inserire i dati nei vari file del cruscotto, copiare la cartella “CRUSCOTTO DS” e rinominarla “CRUSCOTTO DS A.S. 2014-2015”: a fine anno scolastico, l’intera cartella andrà copiata e incollata nell’archivio presente nella sezione “Documenti”.

CRUSCOTTO DS

 


 

[1] Per avere un’idea, peraltro parziale, dei doveri del DS, si rimanda alla lettura di Marco Graziuso, Avvio del nuovo anno scolastico: adempimenti, in “Scuola & Amministrazione”, n. 7-8, luglio-agosto 2014, pp. 24-44.

Troppo facile sparare sul pianista… di turno!

Troppo facile sparare sul pianista… di turno!

di Maurizio Tiriticco

Tempo fa ho scritto un “pezzo” intitolato “Perché sono per Matteo, nonostante tutto”. Apriti cielo! Sono stati troppi i “benpensanti” che mi hanno criticato, mostrando anche un grande stupore! Forse perché il “nonostante tutto” è stato assolutamente sottovalutato. Ormai siamo abituati alle urla e si fa una gran fatica a distinguere… i “distinguo”. Ho una buona memoria e soprattutto storica, e il paragone ce l’ho sempre davanti agli occhi. Anni fa dati eventi hanno espresso uomini come Togliatti e De Gasperi!

Oggi altri tempi e altri eventi hanno espresso i Renzi e i Salvini! Questo, a mio vedere, è il dato “drammatico”, con tanto di virgolette, se le virgolette hanno un senso in una società in cui si urla più che riflettere. Allora i “fondi” sull’Unità, sul Popolo sull’Avanti di Togliatti, di De Gasperi, di Nenni avevano un senso, perché c’erano un profondo retroterra culturale e una grande vision politica e sociale. Oggi gli spezzatini del talk show servono solo a farci “divertire” un po’! Passatempi serali da un canale all’altro! E facciamo lo zapping da Ballarò a Dimartedì!!! Nulla di più!

Non è un caso che certi tempi “producano” certi uomini ed altri tempi altri uomini. La lotta al fascismo, la Resistenza – non alludo a quella dei partigiani, più nota, ma a quella dei fratelli Rosselli, di Amendola padre, di Gramsci, di Don Minzoni, di Piero Gobetti e di tanti altri, fuorusciti o confinati o carcerati – è stato un fenomeno profondo che ha tessuto tutto il ventennio mussoliniano. In effetti, erano “nate” due Italie, quella dei Resistenti comunque e quella degli Acclamanti, sempre comunque. La tragedia della guerra ha azzittito gli Acclamanti e ha “dato voce” ai Resistenti. Ed è a questi ultimi che dobbiamo la vittoria sul nazifascismo, la nascita della Repubblica e la redazione di una Carta costituzionale che è tra le più belle del mondo… ma in pochi lo sanno! Pochi in effetti la conoscono e, purtroppo, pochi la insegnano! A volte mi viene da pensare che questa Carta non ce la meritiamo, che questa democrazia la stiamo facendo a pezzi!

Abbiamo costruito le Regioni per dare più autonomia ai territori, ma, purtroppo, troppi… cattivi… Consigliori regionali hanno costruito solo il proprio malaffare! E il debito pubblico avanza minuto dopo minuto… Invece di rendere sempre più viva ed efficace la nostra Repubblica Democratica fondata sul Lavoro, ci siamo adoperati per farla a pezzi, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Non mi stupisco che non siamo più in grado di esprimere dei Togliatti e dei De Gasperi e che ci dobbiamo accontentare dei Renzi e dei Salvini. Per queste ragioni profonde sono per Renzi! E non sono per Salvini. E i tempi migliori li dobbiamo costruire. In effetti questa seconda guerra mondiale sembra che non sia ancora finita… e che la nostra Repubblica dobbiamo ancora fondarla!