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In nome e per conto di Loujin

In nome e per conto di Loujin

di Vincenzo Andraous

Ancora morti ammazzati dall’incuria e dalla politica fasso tutto mi e invece fasso proprio niente. Ancora morti alla deriva ma stavolta neppure come solitamente accade affogati tra le onde del mare. Peggio, bambini e bambine morti per sete e per fame, donne e uomini stremati, ustionati, morti nell’agonia più lenta, più terribile, più inaccettabile. A chi pensa di fermare questa persistente ecatombe con l’indifferenza, il ritardo organizzato, con la responsabilità rispedita al mittente giocando di sponda, con le motovedette regalate, con le navi da guerra a mezzo del mare, con i flussi di denaro e di armi, sarebbe bene ricordare il valore della vita umana, soprattutto è necessario ricordare quanto sia imperdonabile non salvare un bambino, non esser pronti per tempo, senza se e senza ma. Bambini se ne vanno senza un saluto, una preghiera, in assenza  di una costante e giornaliera operazione di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale, ricerca e salvataggio che prenda in carico questa umanità derelitta per una porzione di terra che faccia accoglienza. Troppo facile trincerarsi dietro il rifiuto, l’impossibilità, la scelta politica di barricare ogni entrata, infischiandocene di quei fagottini privi di vita. Troppo facile e troppo vile, alla luce delle scelte armate, finanziarie, economiche politiche, a favore di altri paesi a noi assai vicini, per cui siamo costretti a innestare le baionette, a dimenticare tante cose, autorizzando così  la dimenticanza del barcone rimasto per giorni in mare tra fame e sete. Ben sapendo che il soccorso in mare è un imperativo umanitario contemplato a caratteri cubitali nel diritto internazionale. C’è un pensiero che scava a fondo la ragione, ma è mai possibile, accettabile, che nessuno abbia raccolto un allarme, nessuno si è accorto di niente, radar e strumentazioni sofisticate dormienti,  nessuno disposto ad aiutare se non a salvare? L’impressione che se ne ricava è che la politica, l’Europa, il mondo, finchè lo scempio rimane a debita distanza, si ostina a guardare con noncuranza, soprattutto a non vedere la mattanza continua di innocenti, la tragica disperazione di chi intraprende il viaggio spesso sempre più spesso ultimo, nella totale indifferenza che marca a fuoco una disumanità travestita a forza di una non meglio identificata legalità. 

In fondo al mare sta la vergogna

In fondo al mare sta la vergogna

di Vincenzo Andraous

Stavo cenando e ascoltavo il tg, la notizia è stata così maledettamente fisica da ricevere una mazzata alla bocca dello stomaco, sono rimasto lì senza fiato per tanta infamia La voce parlava di migranti e gommoni alla mercè dei venti, uomini e donne affogati, decine, centinaia, scomparsi tra le onde.

Tra loro tre bambini galleggiavano con gli occhi aperti riversati all’indietro.

C’è tutta la pietà del mondo adagiata in quei corpicini che ora sembrano stracci, stanno adagiati sulla mano di chi li ha raccolti privi di vita. La commozione di chi non sa guardare da una altra parte, la rabbia furiosa che scaturisce dall’inaccettabilità di queste assenze la fanno da padrona.

Bambini che non ci sono più entrano nelle case, sulle tavole imbandite, negli occhi chiusi di quanti non resistono a vedere tanto male fatto a chi non ha colpe, a chi innocente lo è per davvero.

Bimbi galleggiano senza più respiro, sono lì, in tutta la loro disperazione, in tutta la vergogna che dovrebbe assalire, eppure c’è qualcuno, i soliti oracoli indefessi, sibilano che forse si tratta di manipolazione comunicazionale, delle solite notizie false, orchestrate ad arte da questa o quell’altra sponda politica.

Così persino la tragedia più grande, quella che dovrebbe farci esplodere i polsi dal dolore, diviene un residuo perimetrale di parole contraffatte per non inorridire, per non farci diga insormontabile, per non metterci a mezzo, di traverso, nell’intento non più rinviabile di mettere con le spalle al muro tanta indegna indifferenza.

Il mare e i suoi abissi infernali, inghiotte l’umanità innocente, la nasconde senza usare aggettivi teatrali, la toglie dall’imbarazzo più miserabile.

C’è il mare con il suo sommerso che a volte, ci dicono soltanto qualche volta, ma invece sempre più spesso, accade che imprigiona al suo fondo ogni speranza.

In questa sequenza di immagini “inguardabili” che si riversano nelle nostre case, nei piatti e nei bicchieri colmi di ogni ben di Dio ( ma oggi Dio è morto un’altra volta ) continuiamo a trangugiare e a bere, perché noi vorremmo fare qualcosa, ma non abbiamo strumenti, idee, intuizioni, per fermare questo scempio, questa indegna sfida alla morte per ottenere pochi grammi di libertà, di dignità, di amore.

Eppure sappiamo alzare la voce quando un’ingiustizia ci coglie alla sprovvista, quando subiamo una offesa o una umiliazione, siamo artefici di manifestazioni, di cortei, di girotondi, per rivendicare i nostri diritti, però non siamo capaci di tutelare i diritti inalienabili dei più poveri, dei più piccoli, degli innocenti che spesso sempre più spesso rimangono nell’angolo più buio dove non esiste alcuna GIUSTIZIA.

Alto tradimento

di Vincenzo Andraous

Un altro e un altro ancora, adolescenti, ragazzini, giovanissimi, allo sbaraglio senza protezione, il salto nel vuoto, neppure un grido, il silenzio scomposto della morte.

Come è possibile non tenere in debita considerazione il reato di bullismo, cyberbulling, come è possibile liquidare questa diaspora esistenziale con percentuali e tabelle variopinte che vorrebbero rassicurarci che il fenomeno della violenza adolescenziale sta calando, anzi, è calato drasticamente.

Mentre queste risoluzioni strategichevengono sbandierate a destra e a manca, il rumore sordo che ne deriva; è il maledetto tonfo a terra, l’inaccettabilità delle assenze che si sommano a quelle dei coetanei feriti ma almeno salvi per un qualche miracolo.

Giovani abbandonano la lotta, si vestono dei colori della resa, come disperati alla deriva, e chi è disperato nella testa, nel cuore e nella pancia, è davvero senza più speranza.

Ora si identificheranno i presunti autori dei messaggi di insulti e minacceinviati sul suo telefonino, nei loro confronti si cercherà di provare il reato di istigazione al suicidio, e una volta appurata la vigliaccheria di questo e di quell’altro, a terra rimarrà ugualmente la sconfitta più grande, il sangue degli innocenti, la smorfia dolorosa di quella famosa prevenzione, di quegli interventi roboanti con appresso le tante parole spese male.

Offese, insulti, minacce, contro qualcuno inerme, indifeso, incolpevole, se non della propria educazione, gentilezza, tenerezza, fino al punto di augurare a chi non conosci, non sai nulla della sua storia, di togliersi di mezzo, di farla finita, di uccidersi.

Messaggistica istantanea che non fa prigionieri, cela le armi improprie della irresponsabilità disumana, di quanti si sentono onnipotenti per un bicipite infingardo di chi tira il sasso e poi nasconde il braccio.

Adolescenti accerchiati da una violenza miserabile, da un dolore così insopportabile da trovare naturale la morte più incomprensibile.

Forse oltre alle commozioni degli addii, è tempo davvero di difendere a ogni costo la preziosità dei più giovani, la loro fragilità, proteggerli a tutti i costi per non continuare a vergognarci.

Oltre agli interventi, ai progetti di contrasto del fenomeno, ci vuole un cambio di passo che muova da dentro.

Questa cultura che buca il vetro degli smartphone la indossi pensando che non hai spesa di impegno ulteriore, invece non la tocchi, non senti profumi nè sapori, introietti balzi in avanti di protagonisti che non posseggono coscienza. Le leggi, le norme, le regole, le ripetiamo come dischi incantati, lo facciamo così malamente che appaiono insufficienti, inefficaci, veri e propri pourparler.

Ma forse più semplicemente senza incorrere in ulteriori raggiri intellettuali, la drammaticità di questi accadimenti scaturisce anche da una deresponsabilizzazione non più accettabile, da incuria e disattenzione, che invece dovrebberorisultare segnali importanti per rafforzare e confermare una sana costituzione interiore.

Siamo proprio alla frutta

Siamo proprio alla frutta

di Vincenzo Andraous

Siamo il paese più capace di stupirsi, di provare sbigottimento, di restare perennemente scandalizzati, nel sentire quanti morti ammazzati sul lavoro. In un sol colpo quattro morti tutti in un giorno, d’acchito sembra una notizia eclatante, così urticante e insopportabile, proprio perché accadimenti del genere non succedono tutti i giorni. Invece di eccezionale non c’è proprio niente, tutt’altro, un giorno si e l’altro pure, rimangono a terra scomposti giovani e padri di famiglia, uomini e donne, senza un attimo di tregua, manco si trattasse di uncombattimento senza esclusione di colpi, sì, maestremamente bassi.  Statistiche, analisi, rilevazioniper seguire da vicino questo fenomeno sull’estinzione umana più disumana. Dati esponenziali ci dicono senza uno scossone di vergogna da parte di chi dovrebbe tutelare i vari territori del lavoro e le persone, che siamo intorno ai due morti al giorno, per non parlare dei feriti e degli azzoppati. Sì, siamo il paese degli attori professionisti delle parole, degli aggettivi e dei superlativi, delle promesse di sconquasso per rimettere tutto in ordine. Potere politico, legislativo, amministrativo, tutti insieme appassionatamente per cercare e ricercare una soluzione, un percorso nuovo per far si che queste disgrazie annunciate, non abbiano a ripetersi, figuriamoci aumentare smisuratamente. Allora nei tavoli programmatici, nelle equipe di specialisti del settore, tutti a parlare della necessità non più procrastinabile della prevenzione e formazione. Ribadendo l’importanza di educare-insegnare-rispettare le norme di sicurezza, e non solo mi permetto di dire io, ma rispettare soprattutto le capacità e le possibilità di ogni operatore lavoratore,  senza creare le condizioni perché un diritto sancito dalla nostra Costituzione diventi la strada più breve per finire se va bene all’ospedale, peggio, alcamposanto. Eppure nonostante questa degenerazione sociale che non ammette giustificazioni tanto meno le solite e reiterate assoluzioni per quella tanto sbandierata e mai del tutto correttamente applicata formazione, prevenzione, vigilanza attiva in ogni luogo di lavoro. Ciò imostra l’inconsistenza di una azione collegiale, perché non pervicacemente alimentata da una vera e propria volontà politica. Qualcuno ha fatto l’esempio di come gli ammazzati di mafia facciano più scandalo degli ammazzati dal lavoro, scatenando la giusta e pronta reazione statuale. Si, siamo un paese alla frutta, perché minimizzare la gravità di un fenomeno come questo significa badare assai di più agli interessi e assai di meno alla preziosità delle risorse umane. Come sempre di fronte alla tragedia di questi lutti sentiremo nuovamente le solite parole valigia: “inammissibile che un uomo si fosse trovato a dover salire su un’impalcatura a 72 anni. Il fatto sarà oggetto di particolari indagini”. 

Sì è davvero inammissibile.

Finalmente se ne parla

Finalmente se ne parla, a vanvera, ma se ne parla

di Vincenzo Andraous

C’era da aspettarselo, ora tutti o quasi ne parlano, ne discutono con sentimenti di umana pietà, di totale intolleranza per qualsiasi eventuale indifferenza. Ognuno e ciascuno ribadisce le proprie alchimie di prevenzione per rendere la galera meno palesemente violenta, illegale e zittita costantemente dall’ingiustizia.

Ora se ne parla, a fronte dell’ennesimo suicidio, stavolta di una ragazza ammazzata dalla disperazione e dalla solitudine, ora se ne parla, e nuovamente c’è un dispendio inusitato di giustificazioni, di dimenticanze, di attenuanti generiche prevalenti alle aggravanti. Insomma ora se ne parla, additando a destra e a manca le cause per tanta insopportabile privazione della vita e non soltanto della libertà. Ora se ne parla stando bene attenti però a non calpestare i piedi a nessuno, se ne parla sottovoce e in punta di piedi per non disturbare il macchinista, se ne parla e viene accertato che il colpevole per tanta inumanità è l’acqua calda che manca, non l’acqua fredda che non scende. Se ne parla del sovraffollamento e degli spazi che mancano, campi da calcio, palestre, laboratori, meglio adibirli a nuove celle, nuovi padiglioni, altro che pensare a percorsi di risocializzazione.

Se ne parla sommessamente di angolazioni sub-urbane, di incultura ideologica, di disvalori, di deliri di onnipotenza, se ne parla tra una briscola e una scopetta, se ne parla per non dire tutto e il contrario di tutto. Proprio per non dire niente. Ci sono le elezioni, i voti da acchiappare, la pancia deve essere consolata e ben farcita, quindi non si può parlare di galera che uccide, annienta, commercia le cose, i corpi quelli vivi e quelli morti ammazzati in celle inagibili, con servizi igienici rotti, acqua stagnante nel lavabo, finestre sigillate, materassi ricoperti da fogli di giornale, invasi dalle formiche e con il sangue alle pareti. Ci sono le elezioni quindi tutti muti e via andare. La prima a temere la Giustizia è proprio la politica, lo dimostra in questi silenzi assordanti, in questa omertà dell’alzata di spalle, peggio, affermando che non ci sono notizie di denunce per violenze e illegalità. La politica teme la verità, quella scomoda, quella urticante, quella che dimostra la disumanità di trattamenti di gamma varia, contrari al senso di umanità nell’esecuzione della pena, principio garantito dalla nostra Costituzione, non dalla carta straccia.         

“Solo quando nessun uomo subirà in carcere un trattamento disumano la ferita costituzionale potrà dirsi rimarginata”.

Con i piedi in avanti

Con i piedi in avanti

di Vincenzo Andraous

Il fenomeno ha assunto un rilievo che deve mettere tutti sul chi va là, anche coloro che sanno fare spallucce da veri professionisti dell’indifferenza sociale e purtroppo elettorale. Ben cinque morti ammazzati in nove mesi, cinque persone e non cinque cose, oggetti, numeri, lasciati a morire in perfetta solitudine senza provocare un sussulto di pietà. Forse è necessario che se ne parli, per essere vigili e attenti nei confronti di chi sta in carcere per scontare giustamente una pena ma non certamente per essere trattati come scarti da rendere sotto vuoto spinto da una volontaria e colpevole esclusione sociale. Non si tratta dei soliti più che sbandierati casi di tentativo di suicidio, tanto per assolvere e anche autoassolversi, ma di vere e proprie solitudini imposte fino alla morte. La società odierna, non ha commentato, non ci sono parole di buon senso, tanto meno di compassione, soltanto un muro di silenzio. Come a volere nascondere questa ulteriore derisione della vita umana dentro un perimetro in cui è stato insinuato ad arte il senso di solitudine, di abbandono, di vuoto, al punto da non riuscire più a consegnare al carcere alcuna percezione di sé, Ben cinque morti in poco tempo, colpevoli e innocenti accatastati l’uno sull’altro che decidono di farla finita, nello stesso luogo, nello stesso penitenziario, nella stessa indifferenza. Persone da poco entrate o poco prima di uscire con i piedi in avanti, mentre qualcuno si ostina a dare spiegazioni da sistemi complessi: “è il terrore dello stigma che manda in frantumi ogni certezza”, il che potrebbe anche avvicinarsi a una parvenza di verità. Ma il punto resta un altro, un carcere che non consente riscatto, risocializzazione, riparazione, rimane un carcere deprivato volutamente e colpevolmente della propria utilità e scopo. Un carcere che non tiene in considerazione il dettato costituzionale tanto meno della severità del castigo e dell’umanità della pena, permane un luogo ove la presunzione di onnipotenza aumenta l’ingiustizia di una sopravvivenza resa impossibile perché disperata. Cinque corpi scomposti stanno a significare la violenza e l’illegalità con cui le istituzioni predicano l’importanza del rispetto per gli altri, accantonando quell’umiltà che determinati ruoli dovrebbero mantenere per risultare davvero autorevoli. Cinque suicidi in pochissimi mesi, non inducono le coscienze alla necessaria vergogna, figuriamoci a una riflessione costruttiva partendo dalle inculture, disvalori e punti deboli, su cui continuano a poggiare le fondamenta del mondo penitenziario.  “È un uomo chi sa che non è il solo ad affrontare le difficoltà, e perciò non ne ha paura, è un uomo chi sa vedere se stesso negli altri, riconoscendo la propria forza, ma anche la propria fragilità”.

La fragilità

La fragilità

di Vincenzo Andraous

C’è un ritornello che impazza da un po’ di tempo a questa parte, incentrato sulla fragilità dei giovani in un’epoca di continui cambiamenti.

Quando accade qualcosa di spiacevole, di incomprensibile, di tragico, che vede protagonista un giovane, la consuetudine è stigmatizzare il tutto con una certa instabilità esistenziale in cui camminano in ginocchio tanti adolescenti.

Come a dire nuovamente oggi se già non lo si è fatto a sufficienza ieri, che i ragazzi sono e resteranno i veri ultimi di questa nostra bella società.

Nel frattempo imperversano le didascalie delle cause di questo franare irrefrenabile, escludendo la povertà, quella c’era ieri, eppure a pensarci bene viviamo in un paese dove gli indigenti stanno diventando numericamente ingestibili.

Oppure a scarnificare la carne c’è l’abuso dell’agio, dove non c’è limite alla pretesa e all’ottenimento della medaglietta appuntata sul petto.

Ragazzotti fragili come grissini, a cui releghiamo l’angolo dei mille esempi da seguire, forse davvero troppi, al punto che alla fine della fiera neppure uno ne rimane a destare la coscienza.

Ogni volta che la montagna ci viene addosso per il male perpetrato da questo o da quello, non ci rendiamo conto del bene che invece vorrebbero fare i più giovani.

Mi convinco sempre di più che la mancanza di consapevolezza e idee chiare nei ragazzi, permane la cattiva lezione del mondo adulto, genitoriale, della collettività social, che ogni cosa divora e vomita fuori al primo intoppo esistenziale.

Per cui quella tanto decantata e mal interpretata libertà responsabile diventa immediatamente una libertà prostituta, che si può comprare, picchiare, offendere, umiliare, vendere-svendere alla bisogna, infine pure annientare. I riflettori stanno perennemente puntati sulle scazzottate, le violenze di gruppo, i coltelli e fin’anche le pistole, per ogni incomprensibile interrogativo, migliaia le risposte, i toccasana, i salva vita che accorrono a frotte.

Ma sono santoni e mendicanti delle parole, del tik tok de borgata, dello smanettamento ossessivo compulsivo. I salva vita non sono le filippiche nazional popolari, bensì il rispetto delle regole, quelle regole che vanno rispettate anche quando appaiono noiose, ingiuste, urticanti, perché le regole salvano, tutelano, proteggono la vita e anche il futuro di ognuno e di ciascuno, soprattutto dei più fragili.

La fragilità e il non rispetto delle regole, un connubio che ha come primo attorecolui che mai vediamo alla sbarra del colpevole, che scorda il proprio ruolo e furbescamente consegna al proprio piccolo campione la possibilità di scegliere senza averne capacità e esperienza come somma degli errori.

Tu sei la mia mamma

Tu sei la mia mamma

di Vincenzo Andraous

Quell’immagine alla scuola dell’infanzia, dove tu arrivi e aspetti a braccia aperte la tua principessa, lei ti abbraccia, tu la abbracci e sono baci a non finire. Quell’immagine poco prima dell’annientamento indicibile, incomprensibile, ancorchè inaccettabile nella sua estensione piu’ drammatica, rende tutto più atroce e doloroso, perché in quell’abbraccio materno, in quel sorriso di bimba felice, c’è tutta l’incapacità a comprendere l’efferatezza di un rifiuto così profondamente defenestrato della ragione, a danno della parte più importante della tua vita di mamma e di essere umano. Proprio l’umanità mandata in frantumi, tolta di mezzo, cancellata dalle righe quotidiane, mi riporta a quell’immagine iniziale, dove a umanità sta amore, attenzione e cura in quegli abbracci tanto attesi, talmente attesi da somigliare alla follia più lucida, dove non può esserci soltanto l’implosione del momento. Mi è veramente difficile mettere a fuoco il gesto, il comportamento, l’estromissione da ogni giustificazione, spiegazione, dove alla memoria della tragedia si sostituisce la rimozione dello sbalordimento, dell’amore incondizionato di una bambina, improvvisamente tradita e messa da parte per sempre. Quale la spinta a rinunciare al bene più prezioso, a raccogliere tempesta tra le dita e scagliare lontano l’amore che non ha confine, la fiducia di una figlia per sua mamma, umiliando l’accompagnamento in una vita appena iniziata. Non ci sono spiegazioni comprensibili, accettabili, eppure in questo tempo scardinato e percosso più volte senza pietà, le madri azzerano la propria eredità più importante e inviolabile, negando ai propri figli una crescita consapevole d’amore. Questa madre senza più la sua bimba, la creatura innocente non c’è più perché una follia ossessiva- compulsiva ha deciso di porre fine alla sua giovane vita. Di fronte a accadimenti così incomprensibili e terribili, la ragione vacilla, i pensieri cadono all’indietro senza più il salvataggio della propria storia che corre in soccorso. Nulla è immaginabile di quanto accaduto, nulla, e meno ancora il motivo scatenante, la causa vera della follia, del rancore, del dolore indicibile ricevuto da questo e da quello, a tal punto da rispedire al mittente ogni speranza di umanità. In questa ennesima assenza rimane a fare testimonianza il più terribile dei crimini perpetrato da una madre.

Evasione

Evasione

di Vincenzo Andraous

E siamo a quattro evasioni nel breve spazio di alcuni mesi, ben quattro fughe in avanti, una dietro l’altra, avvenute nello stesso identico spazio di sopravvivenza. Una sorta di evasione di massa, come se niente fosse, come se a nessuno fregasse un belniente di questa reiterata e colpevole sottrazione di umanità. Si, perché non si tratta soltanto di scelta imposta dalla disperazione dell’abbandono, dalla mancanza di diritti, sembra impossibile anche di doveri, perché latitano le possibilità di lavoro, di relazione, di impegno sociale, di responsabilità della riparazione. Sono vere e proprie evasioni imposte dall’incuria e dal disamore per la giustizia che non è, né mai potrà essere vendetta. Dalla violenza della costrizione a non fare niente, dall’illegalità in barba alle riforme, alle costituzioni, agli articoli di codici e di sentenze internazionali. Ben quattro evasioni con i piedi in avanti, ben quattro uscite dal portone blindato senza autorizzazione. Ben quattro suicidi in un pugno di tempo, nello stesso angolo buio dove non è dato vedere ma neppure sentire e comprendere l’affanno della galera deprivata di scopo e utilità. La teatralità di un interesse collettivo che non sta a rendere le persone migliori di quando sono entrate, ma in quella contabilità, indicibile, irraccontabile, che mette in fila le assenze di queste evasioni impossibili eppure così reali, che non creano alcun scandalo, moti di vergogna, soltanto una percentuale numerica a favore della diminuizione del sovraffollamento penitenziario. Suicidi a catena, in pochi mesi, in pochi giorni, in poche ore, eppure il silenzio che ne deriva è terrificante per non dire innaturale e quindi disumano. Un silenzio che sta nell’indifferenza tutto intorno a quei morti ammazzati, tutto intorno a quella sorta di terra di nessuno, tutto intorno all’ingiustizia che vesti i panni delle dimenticanze, delle smemoratezze, delle parole dette e subito dopo ghigliottinate. Un silenzio contornato dalle buone azioni, dalle buone intenzioni, dagli entusiasmi di chi si spende, ma appunto per questo rimane un silenzio colpevole e consapevole di quanto accade ma soprattutto non accade dentro una cella. Di fronte soprattutto ai silenzi che tramortiscono e umiliano tanta resa disumana.

La dignità sconosciuta

La dignità sconosciuta

di Vincenzo Andraous

Ci sono accadimenti così incomprensibili, talmente devastanti nella loro drammaticità, che diventa davvero difficile non soffermarsi a riflettere su come la follia più lucida scomponga la dignità umana. Fatti che rendono la bellezza straordinaria della vita un percorso improvvisamente impervio, scosceso, traballante, a causa della tanta e troppa violenza che pervade l’esistenza degli individui, anche di quelli meno avvezzi all’illegalità e alla prevaricazione. Non passa giorno che una notizia sconvolgente ci venga addosso con la potenza dell’uragano. Bambini appena nati gettati tra  i rottami,  acido lanciato sui corpi di questo e di quello, sparatorie per una parola di troppo, donne ammazzate in strada e nella propria casa. Un crescendo di gesti e atteggiamenti che nulla hanno a che fare con la condivisione di un rispetto fondamentale per se stessi e per gli altri, soprattutto per gli innocenti, quelli che non c’entrano niente, quelli che spesso rimangono senza giustizia. In questi casi c’è l’urlo perentorio alla punizione, al castigo, alla messa al bando di ogni possibile attenuante. Ma forse c’è bisogno anche di qualcosa d’altro per porre un argine a tanta innaturale supponenza e follia. Ci vuole qualcosa d’altro per mettere a mezzo una riflessione sensata. C’è bisogno d’altro per mettersi di traverso per tentare di fermare questo mondo sottosopra per un solo istante. Per tanti anni ho sentito parlare di sfida educativa per i più giovani, per aiutarli a farsi aiutare quando l’attracco al pontile della vita si fa disperato. In questo caso e in questo universo adulto ammalato e lacerato, forse è il caso di costruire in ogni angolo e vicolo la necessità di educare alla legalità, ma non con le sequele di dichiarazioni di ieri che oggi cambiano colore e domani ritornano a sopirsi. Il rispetto delle regole, vere e proprie salvavita, altro non sono che le fondamenta stesse di una vita da vivere insieme, educare al richiamo doveroso del diritto di cittadinanza, di appartenenza  tra coloro che sanno faticare se occorre per fare manutenzione della propria dignità. Nella consapevolezza che la dignità come la libertà sono responsabilità di ognuno e di ciascuno per far si che la solidarietà dell’aiuto non venga meno nei riguardi di chi è allo sbando. Sono convinto che ci sia necessità di un intervento ripetuto e instancabile, perché ogni volta ricordiamo solo una piccola parte della storia che ci inorridisce, quella talmente sbagliata che non è possibile difendere né giustificare. Credo che occorra veramente osservare tra le anse della storia per comprendere cosa nella nostra umanità sia andato a perdere. Occorre farlo per evitare discese alla cieca peggiori delle precedenti. Come ha scritto qualcuno: Orwell ci aveva visto giusto ma sbagliava in una cosa: i cittadini del futuro immaginato da lui erano consapevoli dell’oppressione e della mancanza di libertà. Noi, al contrario sembriamo passarci sopra con indifferenza, e questo è il peggiore degli incubi.

Gli ultimi, ma proprio ultimi

Gli ultimi, ma proprio ultimi

di Vincenzo Andraous

Ogni volta che il mondo adulto ne parla, usa parole vetuste, logorate, consunte dalla realtà che non è però quella di volta in volta trattata.   Stasera nuovamente è così, si parla di giovani e movida, di giovani senza lavoro, di giovani mai pronti a cogliere l’occasione, quasi a voler intensificare presunte inefficienze socio-culturali.

Ho la sensazione che se ne parli per mettere da parte eventuali responsabilità, in una sorta di effimera autoassoluzione. Sul tema della famiglia, della scuola e del lavoro giovanile, l’assunto credo debba muovere i passi dalla consapevolezza che stiamo parlando di ultimi, si, proprio così, ULTIMI.

Come infatti sono percepiti da qualche tempo i giovani, dunque c’è necessità di parlare del valore degli ultimi, che non sono come banalmente è dato pensare angolazioni di qualche piramidale per quanto ben fatto. Si tratta innanzitutto di persone, forse ultimi che invece sono i primi, parrà strano, ma lo sono senza se e senza ma, quegli ultimi che sono pezzi di noi da rimettere insieme, pezzi di futuro sparsi all’intorno. Sono quelli che spesso releghiamo tra le nostre pretese più scontate, i nostri possedimenti che non sono da mettere in discussione. Un grande educatore ha detto: a volte fanno male, ma sognano di fare il bene. Aggiunge una docente: la tentazione più subdola per me che insegno, è quella di “dare per perso” un ragazzo che a 17 anni ha la faccia e gli occhi di un vecchio quando rinuncia a vivere, uno che sa già tutto, uno che ha visto già tutto, una che “non gliene frega niente”, uno che “vengo a scuola perchè sono obbligato”, uno che ti vuole convincere che la mariuana è una medicina, uno che……Se lo molli non va perso lui, forse sei tu che ti sei persa. È come arrancare dentro una solitudine imposta, soprattutto quando un adulto in ritirata dice: bè è vero, inutile negarlo, a volte noi grandi, noi maturi, noi genitori, facciamo gli stessi errori dei nostri figli, lo diciamo sottovoce e in punta di piedi, perché in questa affermazione si nasconde colpevolmente il più incredibile dei tradimenti culturali e affettivi, perché si tratta di una menzogna enorme e terribile.

Infatti è vero l’opposto e il suo contrario, sono i nostri figli a fare i nostri errori, a imitarci, a seguire le nostre orme, mentre noi sgomitiamo, sgambettiamo, loro ci prendono le misure, e vanno via, anzi, spesso sono già andati via.

Il fascino della sfida a perdere

Il fascino della sfida a perdere

di Vincenzo Andraous

Il ragazzo entra in classe, estrae la pistola, la punta alla testa del suo professore.

Sembra la scena tratta da qualche fattaccio di sangue accaduto nelle scuole americane, dove ogni tanto, spesso, qualcuno la mattina si alza e fa fuoco a destra e a manca, con le armi vere, con un finale a dir poco tragico.

Qui invece il maledetto per vocazione usa una pistola finta, come fosse un giocattolo da portare appresso e sfoggiare nelle migliori occasioni.

Dimenticando che con una pistola finta sono morti in tanti per fare uno scherzo, sono morti personaggi assai noti e protagonisti sconosciuti, ma sono morti tutti quanti.

Infatti all’adolescente imbizzarrito, come all’adulto infantilizzato, occorre ribadire che sedersi a tavola con la morte e sfidarla, significa disconoscere che la morte vince sempre.

In questo caso però c’è dell’altro a fare la differenza, a rendere l’accadimento un’eredità da non accettare né giustificare, tanto meno licenziare con una scrollata di spalle, con qualche ammenda che somiglia a una medaglietta appuntata sul petto.

In quella classe c’erano i compagni di questo bullo di cartone, c’era la platea plaudente, quelli del silenzio assordante, dell’omertà scambiata per solidarietà.

Si, c’erano, e come, ma impegnati a guardare il film del maledetto per forza, da co-protagonisti travestiti da veterani di una guerra che non è mai stata loro né mai lo sarà.

Si, stavano tutti in classe, i coetanei, impegnati a smanettare con il cellulare, a filmare da registi impenitenti le sequenze dell’oltraggio e dell’umiliazione, a fare comunicazione istantanea in rete del furto e della rapina del bene più grande di quel docente: la sua dignità.

Il Professore, il Dirigente, l’Istituzione, prendendo il coraggio a due mani hanno deciso di sporgere querela, comprendo benissimo la fatica e il peso della decisione di denunciare, ma ritengo abbiano fatto la cosa giusta, non è un discorso di severità e autorità da espletare in corso d’opera, piuttosto c’è la consapevolezza che limitarsi al giudizio scolastico per le regole infrante e comportamenti apparentemente trasgressivi  ma già forieri di devianza minorile, non possano essere circoscritti con una semplice sospensione seppure esemplare.

Lavoro socialmente utile, ecco la sintesi del dazio da pagare, la pena giusta, equa, riparatrice.

Lavoro di pubblica utilità.

Tante ore a raccogliere i pezzi mancanti, tanti giorni a rimettere insieme energie interiori per voltare pagina, per non esser colto dal panico nel riempire di parole con il loro corretto significato quelle pagine bianche adagiate sotto il naso.

Soprattutto mesi per tentare di conquistare o meglio riconquistare la propria dignità personale.

Coltelli spuntati

Coltelli spuntati

di Vincenzo Andraous

Gruppi contrapposti di adolescenti si danno appuntamento in qualche strada della città per darsele di santa ragione.

Gli esperti ci parlano dibaby gangs, di plotoni composti da veterani di una guerra che non è mai stata loro né mai lo sarà.

Sinceramente faccio fatica a pensarla in questa maniera, i ragazzi ripresi nei video non mi sembrano affatto componenti di qualche gangs latinos o nostrana, appaiono piuttosto come la rimanenza di due anni di pandemia e di depressione opacizzata da alcool e roba calata giù, soprattutto sono il risultato di una mancanza-assenza culturale che ha ammainato la propria bandiera sotto i colpi di una libertà troppo spesso resa monca e imbellettata di soporiferi sermoni.

Quando si vedono giovanissimi prendersi a bastonate, a coltellate, fin’anche a cannonate, viene da pensare che sotto sotto ci sono danari e grammate di interessi a fare la differenza.

Invece non è sempre così.

In questa rudimentale e frontale battaglia che di volta in volta s’accende nelle piazze e nelle strade, appare evidente che si tratta di ragazzi aggrediti dalla noia, dalla sottocultura del bicipite e dal fotogramma che induce a credere di esser il più forte, peggio, emulazione scoscesa dei dis-valori della strada.

Ragazzi che si sentono malavitosi ma non lo sono, ragazzi tra trasgressione e devianza da lì a un passo, dentro una problematicità che non riesce a disegnare una risposta accettabile, per comportamenti criminali che non posseggono tornaconti utilitaristici se non quelli del bullo per forza.

Stento a credere che si tratti di professionisti dello spaccio o dello scippo, non si tratta di delinquenza che nasce unicamente dal disagio famigliare, ho l’impressione che ci sia in atto una sorta di appropriazione indebita, un furto di percezione critica della coscienza.

Un vero e proprio decadimento di valori e di impegno a sostenere quell’umanità che appartiene a tutti.

Nonostante le indagini per chiarire le responsabilità, rimangono le zone d’ombra che non hanno spiegazioni plausibili, a cui non è semplice prendere le impronte per anticiparne le prossime mosse devianti.

Giovani e meno giovani fanno scuola di antitesi, usano le tabelline per fare conto della propria efferatezza, tracciano i perimetri dove collocare le parole che sono minaccia, i gesti che diventano ferite, i comportamenti che lasciano sul campo le emozioni messe a tacere, con la ovvia conseguenza di una generazione che nasce sull’onda della prevaricazione, della prepotenza, che “ illusoriamente aiuta” a raggiungere gli obiettivi prefissati, altrimenti inarrivabili.

Violenza che traduce la propria infantilità in una pratica di vita quotidiana, dove la capacità a gestire i conflitti, quelli personali e sociali, scivola sempre più nell’incapacità a onorare il valore di ogni persona.

Il carcere dei numeri e delle miserie

Il carcere dei numeri e delle miserie

di Vincenzo Andraous

Il carcere delle parole e delle tante intenzioni, ma opere ben poche, se non quelle del redigere rapporti di morti sopravvenute e utopie tutte a venire.

Nonostante le dimensioni di una disumanità ormai divenuta regola, di un moltiplicarsi tragico di suicidi, di autolesionismi, di miserie umane così profondamente deliranti, colonne sgangherate di esseri perduti, senza più inizio né fine, senza più una professione di fede, neppure quella della strada.

Oggi rimangono in quelle celle, file male intruppate di uomini privi di lingua, di simboli, di segni, soprattutto di memoria da tradurre e rielaborare.

Del carcere si parla per distanziare un fastidio pressante, non per rendere giustizia a chi è stato offeso né a chi l’offesa l’ha recata.

Se ne parla per rendere nebulosa e poco chiara ogni analisi, per nascondere l’ingiustizia di una giustizia che tocca tutti, ma in cui il messaggio trasmesso impedisce di intervenire.

La realtà che deborda da una prigione è riconducibile all’umiliazione che produce il delitto, ogni delitto nella sua inaccettabilità. È proprio questa irrazionalità che ingenera pericolose disattenzioni, a tal punto da ritenere il recluso qualcosa di lontano, estraneo, pericoloso, qualcosa di non ben definito.

Ecco allora che ingiustizia, violenza, illegalità, divengono eventi critici da sopportare senza tante crisi di coscienza.

Dimenticando che stiamo parlando di persone, di pezzi di noi stessi scivolati all’indietro.

Ma oggi che il carcere non rappresenta più uno zoo umano, ma un contenitore di numeri e di miserie, a che prò riproporre le armi della sola repressione.

A che prò rifiutare una realtà infarcita di membra piegate e piagate. A che prò, proprio ora, che il lamento non è più un grido di guerra.

Forse siamo preda di una visione che ci obbliga a rifiutare la realtà che c’è. O forse siamo addirittura dei bugiardi incalliti, e ciò ci obbliga a raccontare una realtà che non c’è.

È vero, il detenuto non è la vittima, infatti le vittime sono senz’altro altri, feriti, offesi, scomparsi, ma il detenuto è persona che sconta la propria pena, che vorrebbe riparare, se posto nella condizione di poterlo fare.

Coloro che hanno fatto del male, hanno soltanto una via da percorrere per ritornare a essere uomini nuovi, una via che non è soltanto quella dei venti o trent’anni di carcere da scontare, ma quella della ricerca di azioni nuove per tentare di rimediare e quindi accorciare le distanze.

A ben pensarci, se io riconosco il diritto alle regole da rispettare, quel diritto a sua volta disciplina i rapporti con l’altro, e implica il riconoscimento di tutte le persone, fin’anche del detenuto.

Forse è proprio questo che si vuole cancellare, affinchè il carcere debba essere inteso un involucro chiuso alle persone, alle idee, ai cambiamenti, così premeditatamente chiuso e imbullonato al pregiudizio, che persino la pietà è divenuta un sentimento buonista.

Vergogna a piedi nudi

Vergogna a piedi nudi

di Vincenzo Andraous

Sanremo s’è concluso tra mille applausi e ricchi premi e cotillons, dunque possiamo ritornare alle nostre incombenze più rilassati e tranquilli. Se non fosse per quei bimbi a piedi nudi nella neve, con quei pochi stracci fradici addosso, i capelli pieni di ghiaccio, gli occhi trafitti dalla sofferenza. Imperterriti corriamo avanti in una sorta di impalpabile tritatutto annichilente, che alimenta un effetto spostamento e soggioga incondizionatamente la coscienza. Tant’è che rammentiamo bene lo sfarzo sanremese e meno, assai meno, gli ultimi due bambini morti assiderati in uno dei tanti e troppi campi profughi sparsi per questa indecorosa Europa.

Guerre in corso, altre in preparazione a breve, un coacervo di tiratori scelti, dove ognuno mira ad abbattere l’altro, ciascuno indaffarato a celarne momentaneamente l’intrigo da impallinare a tempo debito, una sorta di guerra dove non è lecito fare prigionieri, chi non spara alla nuca è out rispetto agli obbiettivi da raggiungere a qualunque costo.

In questa perenne battaglia di grandi interessi e guadagni, a fare la differenza c’è la vergogna, che non è una emozione primaria, che esplode istintivamente, essa è una meditata condizione di consapevolezza della perdita di valori, una opprimente precarietà esistenziale.

Vergogna è ciò che dovrebbe assalire tutti gli uomini che permettono uno scempio tanto miserabile e infame, tutti coloro che acconsentono di fare morire bambini che nulla hanno commesso se non rimarcare il diritto di vivere. Vergogna che accompagna quanti non intercedono, non si mettono a mezzo, non fanno niente per difendere dall’oltraggio più infame degli esserini indifesi e innocenti. Vergogna che dovrebbe mordere quanti inondati di corpicini nudi, privi di vita, vengono messi da parte dal potere del più forte. Vergogna quando siamo investiti dalle miserie umane travestite di buone intenzioni, dalla disumanità delle parole incapaci di nascondere l’umiliazione che infertono.

Bambini al gelo, alla fame, con la paura che scarnifica la pelle, la vergogna è quanto spetta a chi non sente i colpi della propria dignità ridotta a scaracchi. Vergogna in quel carico insopportabile che sta a responsabilità lacerata, che non intende riconoscere il rumore del silenzio imposto, di chi commette le ingiustizie più incoffessabili, impossibili da giustificare perfino per il più “autorevole” degli eserciti dittatoriali, da quelli insorgenti, dagli altri pseudo rivoluzionari. Violenza allo stato puro che non risparmia nessuno, innocenti e colpevoli, le vittime sono quotidiano conto di mano per colorare di altre bugie la carne morta e i silenzi, le urla e i lamenti sono echi  che la televisione non ci rimanda, ci racconta un altro film per distoglierci dal fare i conti con quelle atrocità.