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Lalibela, la città santa

Lalibela, la città santa

di Maurizio Tiriticco

Copio un interessante servizio da “la Repubblica” di oggi lunedì 14 dicembre 2021, pag. 17 —- Titolo – “”” La battaglia di Lalibela – il gioiello dell’Unisco conquistato dai ribelli – I Tigrini nell’antico villaggio, luogo santo per i cristiani di tutto il mondo”””, di Gianfranco Bianchi. Lalibela!!! E’ un luogo stupendo, ricco di fascino e di spiritualità. Ci sono stato! Ovviamente con un gruppo di amici, curiosi dell’ignoto e spericolati come me. Era il mese di agosto del 2001. Al mattino presto del 13 agosto siamo partiti da Macallè. Ma un viaggio faticoso: strada dissestata dalle piogge, autotreni bloccati… del resto tutte le strade etìopi lasciano a desiderare. Infine arrivo alla meta da me e da noi tutti tanto agognata, Lalibela!!! Pernottamento all’Hotel Roma! Il giorno dopo ha inizio la visita. Bet Medhane Alem, ovvero Salvatore del Mondo. Di qui venne derubata nel 1997 la Croce di Lalibela, recuperata nel ’99, ma a suon di dollari: ben 25.000!

La costruzione del complesso sacro delle chiese rupestri fu iniziata a Lalibela alla fine del XII secolo dal re Gadla che, dopo la presa di Gerusalemme da parte dei musulmani con Saladino, decise di fondare una «seconda Gerusalemme» nella sua capitale, Roha, per dare ai cristiani una meta di pellegrinaggio alternativa rispetto alla vecchia Gerusalemme. Una storia davvero bella! Una Gerusalemme bis! E poi Bet Maryam. E’ una chiesa monolitica scavata nella roccia: fa parte della Chiesa ortodossa etiope di Tewahedo a Lalibela. Ed è patrimonio mondiale dell’Unesco. Vi figurano molte finestre. Noto che in una è scolpita la svastica: la croce uncinata, ovvero la croce rotante. Che ruota da sinistra destra, in senso orario, la rotazione positiva. Non è la croce rotante nazista, che ruota all’incontrario: la rotazione negativa, segno della magia nera.

Copio dal web: —- “”””” Durante il regno di Gebre Mesqel Lalibela (un membro della Dinastia Zaguè, che governò l’Etiopia tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII secolo), l’attuale città di Lalibela era conosciuta come Roha. Il re santo fu chiamato così perché uno sciame di api lo cinse alla nascita, cosa che sua madre interpretò come segno del suo futuro regno come I’imperatore d’Etiopia. Lalibela, venerato come santo, visitò Gerusalemme e volle così costruire una nuova Gerusalemme come sua capitale in risposta alla conquista dell’antica Gerusalemme da parte dei musulmani nel 1187. Ogni chiesa è stata scolpita in un unico blocco di roccia a simboleggiare spiritualità e umiltà. Alla fede cristiana si ispirano molti aspetti del luogo, a cui sono stati attribuiti nomi biblici Anche il fiume di Lalibela è conosciuto come il fiume Giordano. La città rimase capitale dell’Etiopia dal tardo XII al XIII secolo. Il primo europeo che visitò queste chiese fu l’esploratore portoghese Pêro da Covilhã (1460-1526). Al sacerdote Francisco Álvares (1465-1540), che accompagnava l’ambasciatore portoghese durante la missione di questi presso il Re Lebna Dengel nel 1520, si deve questa descrizione della meraviglia suscitata dalle straordinarie chiese di Lalibela”””.

I soffitti e le pareti di Bet Maryam sono ricchi di affreschi, soprattutto geometrici: abbondano cerchi e stelle; nonché un San Giorgio che uccide il drago. Monaci a iosa: neri neri e altissimi con turbante e tuniche bianche e un bastone di circa due metri: ieraticissimi, anche nella postura e nell’incedere. Ma la cosa grandiosa di Lalibela nonché unica al mondo è la Chiesa Bet Giyorgis E’ un edificio monolitico ipogeo di stile axumita a forma di croce, scavato totalmente in verticale nella roccia. Insomma… posso dire… un edificio rovesciato! Ed è una “cosa” unica al mondo. Secondo la leggenda, al Re Lalibela apparvero degli angeli che gli comandarono di far scavare ben undici chiese nella friabile roccia di quelle montagne. Il nostro gruppo vi scende! Una guida etiope – un sacerdote? – totalmente in tunica e copricapo bianco, ci accompagna, ci spiega ed alla fine… porge il palmo della mano destra con un sorriso largo così, di cui si vedono solo i bianchissimi denti. Non tanto per un saluto, bensì in attesa di un lauto birr, la mancia etiopica. Che, ovviamente, è stata data! Ma ne è valsa la pena!

L’eredità di Giancarlo

L’eredità di Giancarlo

di Maurizio Tiriticco

L’ispettore Giancarlo Cerini, il collega, l’amico Giancarlo Cerini, ci ha lasciati. L’“Atlante delle riforme (im)possibili”, edito recentemente dall’Editrice Tecnodid, è l’ultimo lavoro di Giancarlo, “faentino di nascita – come leggiamo in quarta di copertina del volume – e forlivese di adozione. Maestro di scuola, Direttore Didattico, poi Dirigente Tecnico del Ministero dell’Istruzione, Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana. Autore e redattore di numerosissimi libri, centinaia di saggi e migliaia di articoli a partire, giovanissimo, dagli anni ottanta. Componente di molte commissioni ministeriali che hanno ridisegnato nel tempo l’assetto delle nostre istituzioni scolastiche tra cui il ‘Comitato scientifico nazionale per l’attuazione delle Indicazioni nazionali per il curricolo e il miglioramento continuo dell’insegnamento’. Da ultimo, Presidente della ‘Commissione Nazionale Infanzia per il Sistema integrato 0-6, costituita ai sensi del Dlgs 65/2017’. Ha diffuso nel Paese la cultura pedagogica, l’amore per la scuola, la passione per il lavoro”. Questo è il ricordo dell’Editrice Tecnodid. Ma il mio?

Eccolo: è il ricordo sentito del collega ispettore – o, se si vuole, dirigente tecnico – Tiriticco e dell’amico Maurizio. Conosco Giancarlo da tanti anni! Non ricordo da quando. So soltanto che mi chiamò molti molti anni fa (anni settanta?) a Forlì: lui era un maestro di scuola elementare ed io ero un professore di scuola secondaria, “distaccato” – era il linguaggio ministeriale – presso la cattedra di “pedagogia” del Prof. Raffaele Laporta alla Terza Università di Roma. Dove dovevo condurre attività di aggiornamentol’espressione “formazione continua in servizio” non era ancora stata coniata – nei confronti di insegnanti di scuola secondaria, in ordine a tematiche che allora cominciavano a vedere la luce! Relative alla Pedagogia! Alla Didattica! Parole e discipline da sempre estranee alla formazione professionale di insegnanti di scuola secondaria di primo e di secondo grado. Roba da maestre! E di qualche raro maestro maschio! Ma ormai in quegli anni, sessanta e settanta, l’accesso all’istruzione secondaria di secondo grado cominciava a generalizzarsi. Pertanto, non più solo la “professoressa” – per usare il linguaggio di Don Milani – della scuola media, ma anche la “professoressa” del biennio postobbligatorio incontrava grosse difficoltà a misurarsi con un pubblico giovanile che, dopo avere frequentato – e non sempre volentieri – la scuola media obbligatoria, cominciava ad “invadere” anche l’istruzione secondaria di secondo grado!

Erano giovani attratti dal miraggio di un diploma più premiante in un’Italia che ormai era diventata la quinta potenza al mondo! Altro che l’Italietta della “maestrina della penna rossa”! Un Italia grande, dove un lavoro tecnico non più soltanto manuale era sempre più richiesto. Altro che l’Italia di un tempo, quel Paese trascinato in una guerra sciagurata da una dittatura! Diventato ormai un Paese che, grazie alla Resistenza a ai suoi tanti martiri, aveva trovato un suo autorevole posto nel mondo. Lo studio post-scuola media era pressoché obbligatorio. Ed in generale negli istituti tecnici e professionali. E forse anche nel liceo scientifico. Il classico era in genere “immune” da questa invasione: lo spauracchio era il greco! Nonché la prospettiva di un “lavoro intellettuale” non molto appagante per un giovane che vuole lavorare al più presto. E poi era già più che sufficiente misurarsi con il latino.

Il Ministero della Pubblica Istruzione avvertì l’esigenza di una formazione supplementare – diciamo così – dei suoi insegnanti di istruzione secondaria, e proprio quelli del primo biennio! Occorreva forse una seconda “lettera a una professoressa”, stavolta attiva nell’istruzione superiore. I seminari annuali che avviammo presso la cattedra del Prof. Laporta erano essenzialmente dedicati ad una formazione “supplementare” dei nostri insegnanti dell’istruzione secondaria su materie pedagogico/didattiche a loro di fatto sconosciute.

Ed io compresi che, con questa sorta di “scolarizzazione forzata”, anch’io avrei dovuto fare i conti con la ricerca pedagogica. E i miei interessi pedagogici e didattici trovarono una sede originale presso la Casa Editrice Tecnodid, di Napoli, che da anni pubblicava quindicinalmente una rivista preziosa per gli operatori scolastici, direttori, presidi, segretari, “Notizie della Scuola”. E in seguito – non ricordo esattamente dove, come e quando – io, Umberto e Antonio Crusco, responsabili Tecnodid, e Giancarlo Cerini avvertimmo l’esigenza di pubblicare un qualcosa di operativo per gli insegnanti, e soprattutto in materia di valutazione. Ormai la ricerca educativa ci aveva insegnato che la valutazione non è solo assegnare voti, promuovere o bocciare. Implica operazioni altre e più complesse! La valutazione iniziale, quella intermedia, quella conclusiva. E ci aveva anche insegnato che la prestazione offerta da un alunno, prima di essere valutata, deve essere misurata. E sono operazioni che rinviano ad una specifica disciplina di ricerca, la docimologia! Se ne sono occupati, in Italia, studiosi importanti: Mario Gattullo, con “Didattica e docimologia, misurazione e valutazione nella scuola”, Armando, Roma, 1957; Clotilde Pontecorvo, Aldo Visalberghi, Luigi Calonghi (fondanti i suoi “Reattivi nella scuola” e “I test di acquisizione e di profitto”). E poi Benedetto Vertecchi, Roberto Maragliano, Michele Pellerey.

Insomma, in questa situazione così in movimento, una scuola che deve istruire tutti, ma che deve anche orientare e valutare tutti, e con i criteri più attendibili possibili, occorreva intervenire nei confronti degli insegnanti! Ma non con il linguaggio accademico, bensì quello della scuola, comprensibile, chiaro, operativo, quello, appunto, di uomini di scuola. Ed io e Giancarlo eravamo uomini di scuola; e con la scuola, con gli insegnanti avevamo dimestichezza, lavoravamo! E allora? Perché non scrivere un qualcosa sulla valutazione, che fosse di estrema chiarezza e, soprattutto, operativo?

Fu così che, agli inizi degli anni novanta, in occasione del varo delle “nuove schede di valutazione” per la scuola elementare e per la scuola media (si vedano le CM 167/1993 e 237/93), la Tecnodid affidò a me e a Giancarlo il compito di scrivere qualcosa in merito ma che fosse soprattutto operativo per gli insegnanti. Fu così che nacque “Le nuove schede di valutazione nella scuola dell’obbligo, indicazioni per la compilazione nella prospettiva della continuità educativa”. E Gaetano Domenici fu così cortese da scrivere un’introduzione per nulla di circostanza! Ben otto pagine! Significa che era convito della validità del nostro scritto.

Ma non finisce qui! Nello stesso anno io e Giancarlo scrivemmo a quattro mani sempre per la Tecnodid “Valutare perché e come”. La parte prima riguardava la scuola elementare (allora si chiamava ancora così); la parte seconda, scritta da me, riguardava la scuola media. E la nostra collaborazione, che in effetti veniva da lontano, continuò. E in forme diverse: ad esempio nei tanti convegni organizzati dalla Tecnodid ad Ischia, nel periodo estivo. Convegni, per altro affollatissimi, di insegnanti e dirigenti scolastici! Chi legge penserà: sì ad Ischia! Con tutto quel mare… è vero! Nonostante “tutto quel mare”, al mattino interventi preziosi e stimolanti, e al pomeriggio lavori di gruppo. E il mare era lontano! Perché la Tecnodid non dava tregua né agli insegnanti né ai suoi esperti. Ma non finiva lì! In autunno, altri convegni, a Scanno.

E Giancarlo era sempre presente, con i suoi interventi ricchi, articolati: tante carte sul tavolo e le sue mani a farle scorrere, a ritrovare i mille spunti che arricchivano il suo parlare, lento, chiaro, ricco, convincente. Questo era Giancarlo: nei convegni! E nel quotidiano? Sempre pronto a rispondere a qualsiasi quesito, ad aiutare l’operatore scolastico a superare difficoltà d’ogni sorta. E per finire? Che pensare? Che scrivere? Per tutte queste cose, e per mille altre, Giancarlo rimarrà sempre nei nostri ricordi, nella nostra mente e nel nostro cuore. Come concludere? Salutare per sempre qualcuno è sempre difficile! Ancora di più se dobbiamo salutare una persona a cui vogliamo bene, perché a Giancarlo tutti vogliamo bene. Un maestro ci ha lasciati! Ma ci ha lasciato una grande eredità. Non abbiamo perduto i suoi insegnamenti. La sua eredità è nella mente e nel cuore di tutti noi. E saremo testimoni attendibili? Ai posteri l’ardua sentenza!

L. Moccafighe, Ombra mai fu

Luca Moccafighe, Ombra mai fu

di Maurizio Tiriticco

E’ il titolo di un bel lungo racconto di Luca Moccafighe, che anni fa ci aveva regalato un lungo saggio “Nella curva dell’essere, dalla vita e dal pensiero di Benjamin Fondane”, ebreo moldavo, esule in Francia, poeta, filosofo e cineasta, autore di opere capitali su Rimbaud e Baudelaire, per i tipi di Stampa Alternativa, Viterbo.

Dall‘“Ombra mai fu” riporto due brani, a mio parere significative chiavi di lettura del nuovo scritto.

“Durante un giorno della vendemmia, qualche anno più tardi, quando i due fratelli erano ormai sulla soglia dell’adolescenza, la madre fece una scoperta spaventosa: né Bernardo né Celeste possedevano l’ombra, era ben evidente quando questi stavano sotto la luce del sole, né per terra né su qualsiasi altra superficie a loro prossima. La donna lo scoprì in maniera casuale durante una pausa in cui tutti si stavano dissetando con acqua fresca e, sebbene fosse molto turbata, non fece parola ad anima viva di quella terribile constatazione. Ma da quel momento non fece altro che portare in sé, nei momenti di veglia, il presagio di un’altra imminente sciagura”.

Ed ancora: “In una domenica estiva accadde l’insolito fatto, quello che fece iniziare la contesa. I due fratelli si trovavano seduti nel cortile di casa, all’ombra, dato il caldo soffocante. Entrambi cercavano di smaltire il cibo eccessivo, ed il vino ancora più eccessivo, consumato durante il pranzo domenicale… I due, seduti uno accanto all’altro sullo scalino basso della porta d’entrata, erano entrambi assopiti, vuoi per la calura, vuoi per il vino, vuoi per il cibo, quando, come trovatosi in un temporale improvviso, Bernardo ebbe un sussulto, un tremito tipico di chi sta dormendo e si risveglia involontariamente, uno spasmo che lo fece guardare per terra, sulla ghiaia rovente. Vide una sola ombra, esattamente a metà fra lui e suo fratello, e gridò: “Celeste! Celeste! Svegliati! Ma è la mia o la tua quell’ombra?”

Insomma, “i due si ritrovarono a discutere di un qualcosa che pareva sciocco e di poco conto, ma che comunque aveva un suo fondamento: l’ombra c’era, ma era una sola, quasi una menomazione inspiegabile; e bisognava stabilire non tanto le cause del di quel fatto peculiare, ma piuttosto a chi fosse da assegnare”.

Quali le cause di questo insolito fenomeno? A chi rivolgersi? Forse al parroco del paese! Ma all’insolita ed apparentemente assurda richiesta che cosa risponde il parroco? “Mi state prendendo in giro? Se siete venuti a perder tempo, ve ne potete anche tornare nella vostra valle; io ho parecchie faccende da sbrigare”. Ma Celeste insiste: “Dato che vi occupate di cose strane, di cose che non si vedono, ma che esistono, potreste dirci se, secondo il vostro parere di ministro di Dio, se quest’ombra appartiene a me o a mio fratello?”. Chiara e convincente la risposta del parroco: “Io mi occupo di cose che non si vedono; invece questa si deve ed io non so come aiutarvi”.

I due fratelli decidono allora di rivolgersi alla scienza e vanno da un medico. Parla Bernardo: ”Noi due non abbiamo un’ombra per uno come tutte le persone; ne abbiamo una in due: questa sta esattamente a metà fra di noi e non siamo in grado di capire di chi sia, se mia o sua”. Il dottore riflette e poi, dopo una lunga e scientificamente fondata disquisizione, così conclude: “Dato il caso che mi avete presentato, non vedo altra soluzione che effettuare un taglio col bisturi sul petto prima e, qualora non risultasse nulla, bisogna passare alla circonferenza del capo per vedere se riusciamo ad individuare l’origine del vostro disturbo”. Ma poi, “se il taglio non dovesse avere successo, un giorno di dirà che Bernardo o Celeste Spauratordi saranno stati martiri della medicina e fautori del progresso”.

Il taglio non convince i due fratelli! Il racconto procede e i due fratelli non cessano di andare incontro a nuove avventure e di constatare che l’ombra è una e sempre una. Ma infine, come nella Storia, quella con la S maiuscola, il fratricidio! Per una partita a carte giocata, ovviamente, in una squallida osteria. “Vennero fuori le accuse di barare. Volarono parole grosse, uscirono i coltelli. Fu Celeste ad avere la peggio, e il fratricida Bernardo, sebbene ferito anch’egli ma vivo, si diede alla fuga correndo verso il bosco per poi far perdere le proprie tracce. Nessuno nel Paese lo vide più né ebbe notizie di quel disgraziato”.

Emergenza linguistica

Emergenza linguistica

di Maurizio Tiriticco

Non so se chiudere il titolo di questo “pezzo” con un punto esclamativo, di stupore, od interrogativo… per chiedermi che cosa sta succedendo, qui nel nostro Paese, nei nostri concittadini in materia di produzione linguistica. Copio passim dal web: “””In Italia c’è un problema che riguarda gli aspiranti magistrati che si preparano a superare il concorso: la stragrande maggioranza di loro non è riuscita a superare la prova scritta per gli eccessivi errori di grammatica. Secondo l’ultimo aggiornamento, sul concorso da 310 posti che si è svolto l’estate scorsa dal 12 al 16 luglio, i candidati sono stato 5.827, tra cui soltanto in 3.797 hanno consegnato la busta con la prova. Ma il vero problema, però, viene adesso: sui 1.532 compiti esaminati finora dalla Commissione, è passato soltanto il 5,8% dei candidati, ovvero 88 persone. Un numero talmente basso da non sembrare vero. Qual è la motivazione? Gli aspiranti magistrati non sanno scrivere: gli errori grammaticali sono “troppi”, come affermarono i membri della Commissione del 2008. Dopo 13 anni, però, la storia si è ripetuta. Il fenomeno preoccupa la Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che auspica una migliore formazione per evitare che si arrivi così impreparati a livello grammaticale al concorso pubblico per diventare magistrati. Nel corso dell’apertura del nuovo anno della Scuola della magistratura alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, la Ministra ha dichiarato testualmente: “Affido alla vostra riflessione la formazione degli aspiranti magistrati. È un aspetto che preoccupa, su più fronti, anche molti di voi, come più volte mi è stato confidato. Troppe volte i concorsi per l’accesso alla magistratura non riescono a selezionare neppure un numero di candidati sufficienti a ricoprire tutte le posizioni messe a bando. È questo un dato su cui riflettere, che segnala un problema che deve essere affrontato”””.

Il primo spunto di riflessione è il seguente: chi affronta un concorso in magistratura è un/a giovane laureato/a. Che ha superato lunghi anni di studio, dalla Scuola primaria all’Università. Ed occasioni di scrivere – ed ovviamente anche di parlare – e di essere stato/o corretto/a ne avrà avute a centinaia! Possibile che… di queste correzioni non abbia fruito positivamente? Ed un altro quesito, tremendo, me lo pongo: ma le correzioni corrette – e mi si scusi la metonimia – saranno state sempre… correttamente apportate? Tale insegnante, tale alunno? Non vorrei crederci e non vorrei chiamare in causa i nostri insegnanti! Tuttavia, anche l’Ocse penalizza il nostro Paese – o meglio, i nostri concittadini – per quanto concerne la padronanza in materia di literacy. Infatti, in materia di analfabetismo funzionale, il nostro Paese occupa il 28° posto tra i Paesi dell’OCSE. Il maggior numero si concentra al Sud e nelle aree del Nord-ovest, mentre si difendono il Nord-est, il Centro e le Isole.

Giova sempre ricordare che – stando al compianto Tullio De Mauro – l’analfabetismo funzionale riguarda l’incapacità di passare dalla decifrazione e faticosa lettura di un testo, anche semplice, alla sua comprensione; mentre l’analfabetismo strumentaleriguarda la totale incapacità di decifrare un testoscritto.

Sono considerazioni che ci conducono anche ad altre, e veramente drammatiche. Basta leggere l’ultimo rapporto del Censis circa la cultura – o l’incultura? – degli Italiani. Copio dal web una sintesi: “Roma, 3 dicembre 2021 – Emergono dati impressionanti dal 55esimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del paese. L’irrazionale ha infiltrato il tessuto sociale. Per il 5,9% degli italiani (circa 3 milioni) il Covid non esiste; per il 10,9% il vaccino è inutile; per il 31,4% è un farmaco sperimentale e le persone che si vaccinano fanno da cavie. E poi: il 5,8% è convinto che la Terra sia piatta; per il 10% l’uomo non è mai sbarcato sulla Luna; per il 19,9% il5G (ovvero l’insieme di tecnologie di telefonia mobile e cellulare) è uno strumento sofisticato per controllare le persone. E nel rapporto si osserva anche che “accanto alla maggioranza ragionevole e saggia si leva un’onda di irrazionalità”. Sono le inflessibili credenze che animano quelle onde dei no vax che puntualmente tutti i sabati inondano le nostre piazze con i loro cartelli assurdi e le loro grida inconsulte. Che dire? E’ forse il prezzo che dobbiamo pagare alla nostra italica inciviltà? E ciò…quousque tandem? Fino a quando?

Una follia montante?

Una follia montante?

di Maurizio Tiriticco

Mi chiedo: che cosa sta succedendo nel nostro Paese? Che una volta era anche “bel”, ma oggi? Su certe drammatiche vicende, soprattutto quelle che riguardano i giovani, sempre più incattiviti, autori spesso di gesti sconsiderati, forse è meglio tacere! Mi ricordo ciò che scrive Dante nel Convivio a proposito del suicidio di Catone Uticense: “O sacratissimo petto di Catone, chi presummerà di te parlare? Certo maggiormente di te parlare non si può che tacere, e seguire Ieronimo quando nel proemio de la Bibbia, là dove di Paolo tocca, dice che meglio è tacere che poco dire” (IV V 16). In effetti su cose drammatiche è difficile parlare! Forse è proprio vero che, se la parola è d’ARGENTO, più spesso il silenzio è d’ORO. Soprattutto per quanto riguarda i giovani d’oggi, i quali, proprio nel momento della loro maturazione, della necessità di assumere scelte e responsabilità, si trovano invece immersi in questo terribile periodo: caratterizzato dall’aggressione di un male ignoto, contro cui la stessa scienza sembra in difficoltà! Quando invece i giovani in genere sono ardimentosi, a volte anche sprezzanti del pericolo, ma….

Che cosa possono scegliere oggi! Negli anni quaranta i giovani sceglievano tra i Battaglioni Emme o la Resistenza! E poi ancora tra la Monarchia o la Repubblica. Ed ancora: tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista. E poi ancora: il Sessantotto! Gli anni della contestazione studentesca, attiva da Berkeley a Pechino, da Parigi a Roma! E tutti insieme sceglievano! E gridavano… e gridavo anch’io, anche se quarantenne: “Ce n’est qu’un debut! Continuerons le combat”. Ideologie, è vero, ma anche un sostentamento dello spirito, se si vuole usare un’espressione forte.

Ma torniamo ai nostri giorni. Difficili, complicati! E che fanno letteralmente impazzire migliaia di nostri concittadini, i cosiddetti no vax, che imprecano contro la ricerca scientifica e i medici, rincorrendo gli stracci delle loro idiote convinzioni. Ancora una volta ricorro a Dante, a proposito degli ignavi, Inferno, canto terzo: “Questo misero modo tengon l’anime triste di coloro che visser senza infamia e senza lodo”. E poi: “Ed io che riguardai vidi un’insegna che girando correva tanto ratta che d’ogni posa mi parea indegna e dietro le venìa sì lunga tratta di gente, ch’io non avrei creduto che morte tanta n’avesse disfatta”. Versi attualissimi! Assistiamo a migliaia di cittadini no vax che rincorrono gli stracci delle loro idiozie! Preoccupante!

E mi preoccupa non solo l’ignoranza montante, ma anche la cattiveria montante! Aggressioni ormai quotidiane ed ovviamente, soprattutto, contro le donne! Che cosa sta succedendo? Sembra che Il covid non attacchi solo il FISICO! E’ subdolo! Attacca forse anche la MENTE? Ovvero la capacità di elaborare pensieri, di discernere il grano dal loglio, per usare parole grosse, il BENE dal MALE? Che diavolo sta succedendo? Non ricordo giovani così violenti!!! Che non ci sia davvero lo zampino del diavolo? E molti infatti lo credono! Basta leggere l’ultimo rapporto del Censis circa la cultura – o l’incultura? – degli Italiani. Copio dal web una sintesi: “Emergono dati impressionanti dal 55° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese. L’irrazionale ha infiltrato il tessuto sociale. Per il 5,9% degli italiani (circa 3 milioni) il Covid non esiste. Per il 10,9% il vaccino è inutile (per il 31,4% è un farmaco sperimentale e le persone che si vaccinano fanno da cavie). E poi: il 5,8% è convinto che la Terra sia piatta. Per il 10% l’uomo non è mai sbarcato sulla Luna. Per il 19,9% il 5G è uno strumento sofisticato per controllare le persone…. Accanto alla maggioranza ragionevole e saggia si leva un’onda di irrazionalità”.

Che dire? Certe onde sono preoccupanti! Stiamo tornando indietro nel tempo? Oppure, ogni volta che l’umanità è aggredita da un’epidemia, non è solo il FISICO a soffrirne, ma purtroppo anche la MENTE? Don Ferrante, nei “Promessi Sposi”, a proposto di una pretesa inesistenza della peste, produsse ragionamenti per certi versi ben argomentati. E mi piace riproporli:

“””In rerum natura non ci son che due generi di cose: SOSTANZE e ACCIDENTI; e se io provo che il contagio non può esser né l’uno né l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui. Le SOSTANZE sono, o spirituali, o materiali. Che il contagio sia sostanza spirituale, è uno sproposito che nessuno vorrebbe sostenere; sicché è inutile parlarne. Le sostanze materiali sono, o semplici, o composte. Ora, sostanza semplice il contagio non è; e si dimostra in quattro parole. Non è sostanza aerea; perché, se fosse tale, in vece di passar da un corpo all’altro, volerebbe subito alla sua sfera. Non è acquea; perché bagnerebbe, e verrebbe asciugata dai venti. Non è ignea; perché brucerebbe. Non è terrea; perché sarebbe visibile. Sostanza composta, neppure; perché a ogni modo dovrebbe esser sensibile all’occhio o al tatto; e questo contagio, chi l’ha, veduto? chi l’ha toccato? Riman da vedere se possa essere ACCIDENTE. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori dotti che si comunica da un corpo all’altro; ché questo è il loro Achille, questo il pretesto per far tante prescrizioni senza costrutto. Ora, supponendolo accidente, verrebbe a essere un accidente trasportato: due parole che fanno ai calci, non essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara, più liquida di questa: che un accidente non può passar da un soggetto all’altro. Che se, per evitar questa Scilla, si riducono a dire che sia accidente prodotto, danno in Cariddi: perché, se è prodotto, dunque non si comunica, non si propaga, come vanno blaterando. Posti questi princìpi, cosa serve venirci tanto a parlare di vibici, d’esantemi, d’antraci?” “Tutte corbellerie”, sparò fuori una volta un tale”. “No, no”, riprese Don Ferrante: “Non dico questo: la scienza è scienza; solo bisogna saperla adoprare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi, bubboni violacei, furoncoli nigricanti, son tutte parole rispettabili, che hanno il loro significato bell’e buono; ma dico che non che fare con la questione. Chi nega che ci possa essere di queste cose, anzi che ce ne sia? Tutto sta a veder di dove vengano”. His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle”””.

Italia-Francia: 2021 e 1940

Italia-Francia: 2021 e 1940

di Maurizio Tiriticco

GRANDE GIORNATA OGGI! ITALIA E FRANCIA unite per un avvenire sempre più solidale! MA IERI? Nel lontano 10 giugno del 1940 Benito Mussolini dallo “storico balcone” di Palazzo Venezia annunciò al popolo festante che l’Italia aveva dichiarato guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. Perché, secondo il Duce, grazie a qualche migliaia di morti, l’Italia fascista, congiuntamente alla Germania nazionalsocialista, avrebbe potuto sedersi al tavolo della pace. E fu così che il 20 giugno 1940 Mussolini optò per aggredire la Francia con uno sfondamento lungo il confine delle Alpi Occidentali.

I francesi avevano iniziato a fortificare il loro versante a partire dal 1929. Mentre Mussolini aveva dato il via alla fortificazione, soltanto alla fine degli anni Trenta. In seguito, la manìa di grandezza e la scellerata alleanza con la Germania di Hitler convinsero Mussolini che era giunto il momento di adottare le armi. Mi piace proporre i passi essenziali del discorso che il Duce pronunciò il 10 giugno del 1940 dallo “storico balcone” di Palazzo Venezia, un discorso per altro applauditissimo:

“Combattenti di terra, di mare e dell’aria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni! Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del regno d’Albania! Ascoltate! Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. E’ l’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente, che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano…

“Noi impugniamo le armi per risolvere, dopo il problema risolto delle nostre frontiere continentali, il problema delle nostre frontiere marittime; noi vogliamo spezzare le catene di ordine territoriale e militare che ci soffocano nel nostro mare, poiché un popolo di quarantacinque milioni di anime non è veramente libero se non ha libero l’accesso all’Oceano. Questa lotta gigantesca non è che una fase dello sviluppo logico della nostra rivoluzione; è la lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della terra; è la lotta dei popoli fecondi e giovani contro i popoli isteriliti e volgenti al tramonto, è la lotta tra due secoli e due idee. Ora che i dadi sono gettati e la nostra volontà ha bruciato alle nostre spalle i vascelli, io dichiaro solennemente che l’Italia non intende trascinare altri popoli nel conflitto con essa confinanti per mare o per terra.

“Svizzera, Jugoslavia, Grecia, Turchia, Egitto prendano atto di queste mie parole! E dipende da loro, soltanto da loro, se esse saranno o no rigorosamente confermate. Italiani! In una memorabile adunata, quella di Berlino, io dissi che, secondo le leggi della morale fascista, quando si ha un amico, si marcia con lui sino in fondo. Questo abbiamo fatto e faremo con la Germania, col suo popolo, con le sue meravigliose forze armate. In questa vigilia di un evento di una portata secolare, rivolgiamo il nostro pensiero alla Maestà del Re Imperatore che, come sempre, ha interpretato l’anima della patria. E salutiamo alla voce il Führer, il capo della grande Germania alleata.

“L’Italia, proletaria e fascista, è per la terza volta in piedi, forte, fiera e compatta come non mai. La parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola e accende i cuori dalle Alpi all’Oceano Indiano: Vincere! E vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all’Italia, all’Europa, al mondo. Popolo italiano! Corri alle armi, e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore!”

E la folla applaudì festante! Poi le cose andarono come andarono. Ma questa è un’altra storia!

Tema sì, tema no

Tema sì, tema no

di Maurizio Tiriticco

Sono semplicemente stupefatto! Ma come si permettono quarantamila studenti, replico… 40.000…. di firmare una petizione in cui si chiede l’abolizione della PROVA SCRITTA DI ITALIANO al termine del percorso di ISTRUZIONE? Nonché, aggiungerei, di FORMAZIONE ed EDUCAZIONE? Perché queste sono le finalità che la scuola oggi perseguein Italia. Replico: come si permettono? Un ALUNNO dovrebbe forse decidere che cosa deve fare l’INSEGNANTE? E non dovrebbe essere solo il linguista LUCA SERIANNI ad opporsi a questa stravagante richiesta! Si legga “la Repubblica” di oggi, 23 novembre 2021. Dovrebbero opporsi anche le altre migliaia di studenti seri, convinti che leggere, scrivere e far di conto sono COMPETENZE fondamentali per vivere, affermarsi, collaborare, partecipare alla convivenza sociale, lavorare. Competenze che bisogna acquisire, comunque! E non si tirino in ballo il covid, le assenze forzate dalla scuola ed altre giustificazioni! Io affrontai e superai gli esami di maturità classica nel lontano 1946, anche se a settembre (allora si poteva rinviare), con quattro prove scritte edinterrogazioni mirate (niente colloqui) su tutte le materie e relative a tutti e tre gli anni! E nessuno studente si mise in testa allora di dover “cambiare le cose”, quando la guerra, la fame, l’occupazione tedesca potevano costituire motivi validi per un esame “leggero”. Quindi, voglio solo sperare che questa assurda richiesta venga decisamente respinta!

Ma facciamo un po’ di storia! Da più parti si continua a parlare ancora oggi di “esame di maturità”, quando invece l’esame di maturità non esiste più, e da ben 24 anni! E’ segno, purtroppo, che a volte certe inveterate abitudini sono dure a morire! Ma, veniamo ai fatti, ovvero alle norme. Carta canta! E’ opportuno riandare al lontano 1969. Il Paese, lo Stato e la scuola dovevano rispondere a un movimento studentesco che chiedeva una scuola aperta a tutti, contro “l’autoritarismo dei professori e dei baroni” e contro “una cultura fatta solo per i ricchi”, al fine di comprendere come e perché la “riforma” dovesse nascere più per dare un contentino alla piazza che per avviare “nuovi” percorsi secondari e “nuovi” esami di Stato. Insomma la scelta fu quella di “facilitare il vecchio” più che di “adottare il nuovo”!

Così, con la legge di riforma n.119 del 1969, si sancì che “l’esame di maturità ha come fine la valutazione globale della personalità del candidato” (art. 5) e che “a conclusione dell’esame di maturità viene formulato, per ciascun candidato, un motivato giudizio sulla base delle risultanze tratte dall’esito dell’esame, del curriculum degli studi e da ogni altro elemento posto a disposizione della commissione” (art. 8). La curvatura “psicologica” – se si può dir così – era evidente: la PERSONALITA’ del candidato doveva avere un ruolo preponderante a fronte della sua PREPARAZIONE CULTURALE considerata, invece, preminente fin dai lontani tempi dalla riforma Gentile. In effetti, con il nuovo disposto, si poteva essere maturi anche in presenza di una preparazione non ottimale.

Seguirono anni in cui aumentò il numero dei diplomati, forse a dismisura, e più tardi quello dei laureati – l’Italia era pur sempre il paese dei dottori! – ma non è detto che aumentasse anche il fattore qualità. Tutto andò per il meglio finché dovevamo giocare in casa – chi controllava la qualità dei nuovi maturi? – ma le cose cominciarono a scricchiolare con gli anni Novanta, dopo Maastricht, quando la CEEcedette il posto all’Unione europea e quando la politica dell’istruzione superò gli ambiti nazionali e divenne una questione transnazionale. E l’Europa cominciò a chiederci: che cosa significa “maturo”, con 60 o con 36? Ricordo che i voti considerati erano appunto 60; e il 36 indicava la sufficienza. Ed ancora; che cosa conosce e cosa sa concretamente fare il vostro studente maturo? Come dobbiamo “leggere” i vostri titoli di studio? Come compararli con quelli degli altri Paesi dell’Unione? Insomma, il concettodi maturità – stando alla definizione della legge 119/69 – per la sua genericità, implicava da parte degli esaminatori la ricerca di atteggiamenti e aspetti della persona che non è sempre facile rilevare e che rinviano più a un’indagine psicologica che a un esame di Stato. Ne fanno fede quelle migliaia di giudizi vaghi e generici che le commissioni formulavano a giustificazione della votazione ottenuta dal candidato. Ed io stesso… quanti ne scrissi…

Cambiare contenuti e fini dell’esame di Stato conclusivo dei percorsi di istruzione secondaria era quindi oltremodo necessario! Ci si accorse che ciò che conta è il SAPER FARE più che il SAPER ESSERE. E l’esame fu cambiato! Tutta colpa di Berlinguer! Il Ministro comunista! Così si disse da molte parti. E la Legge 425/97 rinnovò profondamente gli “esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore”. Il clou del rinnovamento lo ritroviamo in larga misura nell’articolo 6, relativo alle certificazioni finali,che testualmente recita “Il rilascio e il contenuto delle certificazioni di promozione, di idoneità e di superamento dell’esame di Stato sono ridisciplinati in armonia con le nuove disposizioni al fine di dare trasparenza alle COMPETENZE, CONOSCENZE e CAPACITA’ acquisite, secondo il piano di studi seguito, tenendo conto delle esigenze di circolazione dei titoli di studio nell’ambito dell’Unione europea”. Le maiuscole sono mie. In effetti, si doveva trattare di una rivoluzione copernicana! Scusatemi l’enfasi! Si intendeva dire finalmente basta al concetto stesso di MATURITA’! Che, per la sua genericità, implicavapoi da parte degli esaminatori la ricerca di atteggiamenti e aspetti della persona che però non sempre è facile individuare e valutare, a fronte, invece, della rilevazione di – repetita iuvant – CONOSCENZE, ABILITA’ e COMPETENZE che, per la loro stessa natura, sono circoscritte e definite. Qualche esempio: l’esaminando CONOSCE il teorema di Pitagora; è ABILE nell’utilizzarlo in una situazione problematica data; è COMPETENTE nel rilevare la necessità di utilizzarlo in una situazione problematica complessa.

In conclusione, va detto che il concetto di maturità, per la sua genericità, implica da parte degli esaminatori la ricerca di atteggiamenti e di comportamenti dello studente, che in realtà non è sempre facile individuare e valutare! Invece, la rilevazione di conoscenze, abilità e competenze, che sono di fatto circoscritte e definite, sono facilmente misurabili. Maoccorre anche pensare che tale rilevazione non esclude il concetto di maturità, che però si esplicita e si oggettivizza in concreti savoir faire. E non è un caso che in quasi tutte le scuole dei Paesi avanzai gli studi secondari si concludono con un esame che intende verificare le effettive conoscenze, abilità e competenze acquisite dallo studente. Ed il concetto di maturità compare raramente dei diplomi finali di molti altri Paesi.

L’albero in festa

L’albero in festa

di Maurizio Tiriticco

21 NOVEMBRE —- GIORNATA MONDIALE DEGLI ALBERI —- “Piantare un albero fa bene al morale! Piantare alberi è l’unica arma contro il disastro climatico”. È il monito lanciato da Stefano Mancuso, neurobiologo vegetale di fama internazionale e direttore del Linv, International Laboratory of Plant Neurobiology all’Università di Firenze. Piantare alberi è fondamentale: le piante legnose sequestrano anidride carbonica (CO2), emettono ossigeno, producono una traspirazione acquea che abbassa la temperatura ambiente, regalano ombra, trattengono con le radici il terreno. Andrebbero piantati da tutti, istituzioni pubbliche e privati cittadini, ognuno nel proprio spazio di competenza.

Per incentivare questa operazione, in Italia circa una decina di anni fa è stata istituita per il 21 NOVEMBRE di ogni anno la GIORNATA NAZIONALE DEGLI ALBERI Ed ancora: UN ALBERO PER OGNI NEONATO! E’ opportuno ricordare che la Legge n. 113 del 29 gennaio 1992, meglio nota come Legge Rutelli, dal nome del proponente, all’epoca coordinatore nazionale della Federazione dei Verdi, propose la legge n. 113/1992, che imponeva a ogni Comune di piantare un albero per ogni neonato o neoadottato entro 12 mesi dalla registrazione anagrafica. La legge venne approvata, ma in realtà non tutti i Comuni l’hanno effettivamente rispettata.

Com’è noto, gli alberi sono gli organismi più efficienti nel sottrarre anidride carbonica dall’atmosfera, il gas imputato di condurre all’effetto serra e a queidevastanti cambiamenti climatici che ormai sono sotto gli occhi di tutti. Aumentare la loro presenza contribuisce ad abbassare la quota di CO2 dell’aria e a mitigare così l’effetto serra e ad incrementare il rilascio di ossigeno, fonte di vita per gli organismi animali, uomo incluso. Ovviamente, anche i privati cittadini possono contribuire alla riforestazione dell’Italia, piantando alberi e arbusti nei propri giardini. Questo mese di NOVEMBRE è un ottimo mese (tranne che in zona Alpi e Alto Appennino) per le piantagioni di specie legnose. Il clima fresco e spesso piovoso riduce il rischio di mancato attecchimento da calore e siccità. La pianta ha modo di stabilizzare le radici durante i 4-5 mesi di riposo invernale che seguono la messa a dimora; ed è pronta a ripartire con la primavera successiva.

Le specie preferite sono quelle tipiche della zona di abitazione, perché danno ampie garanzie di successo, nonché di aiuto alla fauna selvatica (come rifugio, nido, cibo ecc.). Se invece si opta per specie esotiche, prima di metterle in piena terra, occorre accertarsi che siano compatibili con il clima della zona. E occorre ricordare che un albero o un arbusto va seguito con molta cura: irrigazione, concimazione, eventuali potature, protezioni invernali, per tutti i dodici mesi successivi all’impianto. Solo successivamente la pianta, soprattutto se è una specie autoctona, procederà quasi sempre da sola, senza più bisogno di assidue attenzioni.

Ma, a proposito di alberi, come non ricordare la bella canzone di Gino Paoli, “Il cielo in una stanza”? “Quando sei qui con me, questa stanza non ha più pareti, ma alberi, alberi infiniti. Quando tu sei vicino a me, questo soffitto viola no, non esiste più. Io vedo il cielo sopra noi, che restiamo qui, abbandonati come se non ci fosse più niente, più niente al mondo! Suona un’armonica! Mi sembra un organo che canta per te e per me, su nell’immensità del cielo! Per te e per me! Nel cielo”.

Insomma, l’albero non è solo una pianta! E’ vita, entusiasmo, amore! Del resto, come ogni pianta! Come quei tenui e leggeri fili d’erba che i bambini calpestano con i loro giochi.

L’Operazione Urano

L’Operazione Urano

di Maurizio Tiriticco

L’Operazione Urano è la ricorrenza di oggi, 19 novembre. Siamo nel 1942, nel pieno della SECONDA GUERRA MONDIALE. Fronte russo —- E proprio in quel giorno ebbe inizio la cosiddetta Operazione Urano (in russo ОперацияУран–Operacija Uran). Era il nome in codiceassegnato dai generali sovietici alla grande offensiva di accerchiamento sferrata dall’Armata Rossa per intrappolare le forze della Wehrmacht impegnate nella regione di Stalingrado, una città a sud dell’Unione Sovietica. Il nome della città, situata nella Russia europea lungo le rive del fiume Volga, in effetti era Caricyn fin dal lontano 1598. Ma, in seguito alla rivoluzione russa del 1917 ed alla instaurazione del regime sovietico, il 10 aprile del 1925 la città venne ridenominata Stalingrado. Ciò al fine di onorare Josif Vissarionovič Džugašvili, meglio noto con lo pseudonimo di Stalin, che significa «uomo d’acciaio». Stalin non poteva non concorrere con Lenin! Infatti, il 26 gennaio 1924 la città più a nord dell’Unione, San Pietroburgo, era stata ridenominata Leningrado. Stalin, suo successore, non poteva e non doveva essere da meno. Anzi, doveva essere il numero uno! E, come tutti sappiamo, per esserlo in modo assoluto, con i famosi processi farsa, che durarono ben due anni, dal 1936 al 1938, liquidò tutta la vecchia guardia della rivoluzione del 1917! Restò così lui solo al comando, senza concorrenti e senza rivali! In seguito la “città di Lenin”, dopo la seconda guerra mondiale, dopo la morte di Stalin – era il 5 marzo del 1953 – e nel corso della lenta agonia della stessa Unione Sovietica e la progressiva rinascita della Russia come Stato, conclusasi il il 25 dicembre 1991 – il 6 settembre del 1991 riprese il suo nome originario, Pietroburgo.

Ma è forse opportuno ritornare alla terribile battaglia di Stalingrado. La città non doveva cedere! Stalin non avrebbe mai tollerato che la città a lui intitolata cadesse in mani nemiche. L’Armata Rossa, con notevoli sforzi e con una gigantesca manovra a tenaglia, sferrò l’attacco, appunto, il 19 NOVEMBRE del 1942. E le due formazioni combattenti si congiunsero a sud di Kalač quattro giorni dopo. Questa riuscita e rapida offensiva ebbe una funzione decisiva nel complesso delle operazioni militari che assunsero proprio il nome di “Battaglia di Stalingrado”. Operazioni che nella guerra contro la Germania nazista sul fronte orientale segnarono anche una svolta strategica irreversibile a favore dell’Unione Sovietica.

La battaglia, iniziata con l’avanzata delle truppe dell’Asse italo-tedesca fino al Don e al Volga, fu più che cruenta! Si combatté per mesi. Il fronte di fatto non esisteva più, perché si combatteva nella città stessa, casa per casa! Stalin ed Hitler sapevano che le sorti di quella immane battaglia avrebbero segnato le sorti della stessa guerra! Pertanto Hitler impose al Feldmaresciallo Von Paulus, comandante della Sesta Armata, di resistere fino alla vittoria o alla morte. I tedeschi rimasero accerchiati e, dopo una lunga e tenace resistenza, combattendo casa per casa, senza adeguati rifornimenti e in pieno inverno, vennero definitivamente annientati. Von Paulus fu costretto ad arrendersi con tutto il suo stato maggiore il 31 gennaio 1943 e venne fatto prigioniero dai sovietici. La caduta di Stalingrado segnò l’inizio della fine della Germania nazista. Ma dovettero trascorrere ancora due lunghi anni! Di guerra, di distruzioni, di morti! E tutto finì con la conquista da parte dei soldati sovietici, che ormai avevano invaso la Germania e raggiunto la stessa capitale, Berlino, con l’occupazione del Palazzo del Reichstag – c’è un filmato bellissimo reperibile sul web – ed il suicidio di Hitler nel bunker della Cancelleria. Era l’8 maggio del 1945!

La guerra d’Etiopia

La guerra d’Etiopia

di Maurizio Tiriticco

18 NOVEMBRE DEL 1935! Ricorrenza funesta per il nostro Paese! Per l’Italia fascista di quegli anni! In quel giorno il Regno d’Italia fu colpito dalle sanzioni economiche, approvate da ben cinquanta Stati appartenenti alla Società delle Nazioni (grosso modo, l’ONU di quegli anni), con il solo voto contrario, ovviamente, dell’Italia e l’astensione di Austria, Ungheria e Albania. Le sanzioni risultarono comunque inefficaci perché numerosi Paesi, pur avendone votato l’imposizione, continuarono a mantenere buoni rapporti con l’Italia, rifornendola di materie prime che, com’è noto, nel nostro Paese hanno sempre scarseggiato. Fu in questa fase che cominciò un progressivo avvicinamento tra la Germania di Adolf Hitler e l’Italia di Mussolini. Ciò nonostante, la Germania proseguì la fornitura di armamenti al Negus ancora fino al 1936. La Spagna e la Jugoslavia, pur avendo votato le sanzioni, comunicarono al governo italiano che non avrebbero inteso rispettarne diverse clausole.

Ma perché le sanzioni? Perché avevamo aggredito ed occupato l’Etiopia, uno Stato libero e indipendente – come la Liberia – in quel continente africano ridotto dai conquistatori europei ad un variegato insieme di colonie. Tutto aveva avuto inizio con l’“incidente di Ual Ual”, una località al confine tra l’Etiopia e la Somalia italiana. Era il 5 dicembre del 1934. Scoppiò un violento scontro armato che vide contrapposte truppe etiopiche ed il presidio italiano, che occupava l’omonima località di confine. In gioco c’era ilpossesso di una località ricca di pozzi d’acqua, che si trovava in una fascia di territorio contesa, e occupata illegittimamente secondo gli Etiopi dagli Italiani fin dal 1926. Questo incidente, seppur all’interno di un quadro più vasto di incidenti di lieve portata, avrebbe potuto essere liquidato come gli altri, con una trattativa; ma fu invece ingigantito dalla propaganda fascista, che ormai da anni stava preparando la pubblica opinione ad una prossima invasione dell’Etiopia. Così l’incidente divenne ufficialmente il casus belli che serviva al governo fascista per giustificare quella che divenne l’aggressione all’Etiopia.

Ma le sanzioni si facevano sentire! Ed il governo fascista volle correre ai ripari, sollecitando lo spirito patriottico degli Italiani Il 18 DICEMBRE 1935 le donne italiane furono chiamate a consegnare alla Patria le fedi nuziali, ricevendo in cambio anelli senza valore: si consumava così la Giornata della Fede, solennemente proclamata dal Regime Fascista. La stessa Regina Elena sullo scalone del Vittoriano in Roma donò la sua fede! Anche mia madre donò la sua fede. Alla Patria? Tutt’altro! Infatti, dopo il 25 luglio del ’43, in seguito alla caduta del fascismo, molte fedi d’oro furono ritrovate nelle abitazioni dei gerarchi del Duce. Ma quelle donazioni auree non furono sufficienti. E ciascun “fedele suddito” fu tenuto a “donare alla Patria” anche ferro e rame! Molti cancelli, molte inferriate di ville e giardini, nonché vecchie reti di letti tirati fuori dalle cantine furono “donati alla Patria”. Perché occorreva produrre anche armi. Ricordo che sull’arenile di Ostia, anzi del Lido di Roma – come voleva chiamarla il Duce – doveabitavo, appositi macchinari ricavavano dalla sabbia ferrosa dell’arenile, granelli di ferro! Che però, secondo mio padre, ingegnere, non sarebbero serviti a nulla! Ma la faccia, a cui il fascismo teneva moltissimo, era salva!

La “guerra d’Africa”, che vide contrapposti il Regno d’Italia e l’Impero d’Etiopia, si svolse di fatto tra il 3 ottobre 1935 e il 5 maggio 1936. Le operazioni da parte italiana furono condotte inizialmente dal generale Emilio De Bono, che in seguito fu sostituito dal maresciallo Pietro Badoglio, perché più deciso! E non solo nei combattimenti e nell’uso dei gas asfissianti, pur se proibiti dalla Società delle Nazioni, ma anche per il sistematico sterminio di civili! Come lugubre ammonimento! Le truppe italiane invasero l’Etiopia a partire dalla colonia eritrea a nord, mentre un fronte secondario fu aperto a sud-est dalle forze del generale Rodolfo Graziani, dislocate nella Somalia italiana. “Io ti saluto e vado in Abissinia! Cara Virginia, ti scriverò. Appena giunto nell’accampamento, dal reggimento ti scriverò. Ti manderò dall’Africa un bel fior, che nasce sotto il ciel dell’Equator”. Così cantavano i nostri legionari in partenza per la guerra in Abissinia! Ultima guerra coloniale di un Paese europeo! Guerre che erano terminate da decenni, perché in Africa poco o nulla restava da conquistare, ma… era rimasto uno Stato unitario, anzi un impero! Che aveva origini lontane nel tempo: l’Impero d’Etiopia, noto anche come Abissinia, che era stato fondato nel lontano 1137, quando Mara Takla Haymanot, proclamando la continuità con l’antico regno di Axum, spodestò l’ultimo discendente della regina Gudit e fondò la dinastia Zaguè. E l’Etiopia era rimasto l’ultimo Stato libero – oltre alla ricordata Liberia – dopo la terribile e sanguinosa colonizzazione operata dai maggiori Paesi europei, Inghilterra, Germania e Francia, tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento.

Le forze militari etiopiche furono soverchiate dalla superiorità numerica e tecnologica degli italiani. E il conflitto si concluse il 5 maggio con l’ingresso dei soldati di Badoglio nella capitale Addis Abeba. Ma l’invasione fascista fu resa più facile – se si può usare questa espressione – grazie anche all’uso indiscriminato di gas asfissianti. Ricordo la polemica intercorsa alcuni anni fa tra lo storico Angelo Del Boca e Indro Montanelli. Che, dopo averlo a lungo negato, finì poi per riconoscere l’uso di agenti chimici da parte dell’esercito italiano, di cui era stato sott’ufficiale.

Dopo la cruenta conquista di un Paese libero, dal balcone di Palazzo Venezia il Duce annunciò solennemente la vittoria alla folla che gremiva la piazza sottostante. Ecco l’incipit di quel discorso:“Camicie nere della rivoluzione! Uomini e donne di tutta Italia! Italiani e amici dell’Italia al di là dei monti e al di là dei mari! Ascoltate! Il maresciallo Badoglio mi telegrafa: Oggi 5 maggio alle ore 16 alla testa delle truppe vittoriose sono entrato in Addis Abeba”! E la folla festante applaudì fragorosamente! Io avevo solo otto anni! Ed ero ultrafelice! Finalmente avevamo ricostituito l’impero! E sapevo benissimo che con gli imperatori Traiano e Adriano avevamo occupato quasi tutto il mondo allora conosciuto… solo perché Colombo, un Italiano con la I maiuscola, non aveva ancora scoperto l’America! Altrimenti…

Il successivo 9 maggio ci fu la solenne celebrazione! Da non credere! E nel nostro calendario, oltre a quello dell’Era cristiana e a quello dell’Era fascista, aggiungemmo un nuovo numero romano: anno I° dell’Impero. Così Somalia, Eritrea ed Etiopia costituirono l’AOI, l’Africa Orientale Italiana! Io impazzivo letteralmente, ed anche i miei compagni, ma… a casa… su fronte famigliare… nulla di nuovo! Non capivo le ragioni di quel silenzio! Eppure la mamma aveva anche lei donato la sua fede! Ricordo che mio padre un giorno tornò a casa con un librone grosso così, un dono dell’ufficio: Giacomo Vaccaro, Africa Orientale Italiana, tante pagine, tante fotografie e tante negrette… e a seni nudi… per me fu una scoperta! Comunque l’Impero in casa mia non suscitava molto entusiasmo…

Ma non era tutto finito. Perché si ripresentò nuovamente il problema delle sanzioni. Alcuni Paesipremevano affinché queste fossero revocate: in particolare quelli che avevano rapporti commerciali con l’Italia, come il Cile, l’Argentina, l’Uruguay, ilGuatemala, non intenzionati a seguire la Gran Bretagna sulla strada della fermezza. Il 30 giugno, su pressione dell’Argentina, si riunì un’assemblea speciale della Società delle Nazioni, nel corso della quale Hailé Selassié propose di non riconoscere le conquiste italiane in Etiopia, ma la sua proposta fu rifiutata con 23 voti contrari, uno favorevole e 25 astenuti. E il 4 luglio 1936, nel corso della medesima assemblea, dopo poco più di sette mesi dalla loro promulgazione, la Società delle Nazioni revocò le sanzioni.

L’Italia fascista aveva vinto! La sua impresa coloniale venne di fatto accettata dal mondo libero. Ma l’avventura fascista era solo all’inizio! Negli anni successivi il fascismo italiano saldò la sua amicizia con il nazismo tedesco! E il 22 maggio del 1939 tra l’Italia fascista e la Germania nazista venne firmato dai rispettivi ministri degli Esteri Galeazzo Ciano e Joachim von Ribbentrop il cosiddetto Patto d’Acciaio, in tedesco Stahlpakt. Il primo settembre di quell’anno le truppe naziste invasero la Polonia! Ed ebbe così inizio la terribile e sanguinosissima seconda guerra mondiale!

La Bolognina

La Bolognina

di Maurizio Tiriticco

Una ricorrenza —- 12 NOVEMBRE 1989 —- La “svolta della Bolognina” —- Si tratta di quel processo politico che in quel giorno a Bologna, al rione Bolognina del quartiere Navile, condusse allo scioglimento del Partito Comunista Italiano e alla nascita del Partito Democratico della Sinistra. L’autunno di quell’anno fu testimone di avvenimenti che sconvolsero l’intero assetto politico di quella parte dell’Europa che si trovava al di là della cosiddetta “cortina di ferro”. Il 9 NOVEMBRE 1989 il governo della DDR (Repubblica Democratica Tedesca) si vide costretto a decretare la riapertura delle frontiere con la Repubblica Federale Tedesca. Il fatto che la DDR sia stata costretta ad aprire le frontiere che la dividevano dalla Germania Occidentale indicò chiaramente che il cosiddetto “’ordine di Jalta” era ormai definitivamente liquidato.

Per tutto questo insieme di ragioni internazionali, il segretario generale pro tempore del Partito Comunista Italiano, Achille Occhetto ritenne mutata la stessa prospettiva storico/politica del PCI. Il 12 NOVEMBRE Occhetto è a Bologna per partecipare alla manifestazione celebrativa del 45º anniversario della battaglia partigiana della Bolognina, il quartiere interno al quartiere Navile. Davanti agli ex partigiani raccolti nella sala comunale di via Pellegrino Tibaldi 17, Occhetto annuncia che ora occorre «andare avanti con lo stesso coraggio che fu dimostrato durante la Resistenza. Gorbaciov, prima di dare il via ai cambiamenti nell’Unione Sovietica, incontrò i veterani e gli disse: voi avete vinto la seconda guerra mondiale. Ora, se non volete che venga persa, non bisogna conservare, ma impegnarsi in grandi trasformazioni». Per Occhetto, in definitiva, è necessario «non continuare su vecchie strade, ma inventarne di nuove per unificare le forze progressiste».

E a chi gli chiede se quanto dice lascia presagire che il PCI possa anche cambiare nome, Occhetto risponde: «Lasciano presagire tutto». La svolta è dunque annunciata da Occhetto e, senza che il partito fosse preparato o comunque consultato, cosa che gli verrà rimproverata da moltissimi compagni nei mesi successivi, il giorno successivo (13 novembre) se ne discute ufficialmente in segreteria, allineata con il segretario, e poi per altri due giorni in Direzione. Qui Occhetto chiede che il PCI promuova una «fase costituente sulla cui base far vivere una forza politica che, in quanto nuova, deve cambiare anche il nome».

E sulla svolta richiesta Occhetto pone la fiducia al suo mandato. Già dal giorno dell’annuncio, però, si capì che la svolta non trovava i comunisti entusiasti. Se è ovvio che la sinistra del partito sia contraria, può invece stupire che a destra il presidente della Commissione centrale di garanzia del partito, Giancarlo Pajetta, già dal giorno successivo all’annuncio si dichiari ostile alla svolta: «Io non mi vergogno di questo nome né della nostra storia, e non lo cambio per quello che hanno fatto quelli là (ovvero, i comunisti dell’Est, ndr). Se cambiamo nome, cosa facciamo, il terzo partito socialista? Io dico soltanto che quando Luigi Longo mi mandò da Ferruccio Parri per costituire il comando del Comitato di Liberazione Nazionale, né Parri né altri mi chiesero di cambiare nome al partito, ma soltanto di combattere insieme».

I lavori della Direzione durarono due giorni e si conclusero con un rinvio della discussione in Comitato Centrale. Occhetto successivamente dichiarò: «Benché la direzione fosse ampiamente d’accordo con me, non ho ritenuto di dover mettere ai voti la mia proposta, perché chi deve decidere è il partito. Da domani, non cambieremo nome, continueremo a chiamarci come ci chiamiamo. Voglio dire a tutti che non ci stiamo sciogliendo, che il PCI è in campo ed è talmente vivo che propone una cosa più grande. Su questo apriamo una discussione seria, e credo che tutti i compagni debbono essere molto tranquilli: la sorte del partito, il futuro del PCI è nelle mani di ciascun militante». Ma le cose andarono di fatto come Occhetto voleva! Ed il PCI ammainò la gloriosa bandiera rossa e ripiegò su un simbolo agreste, una quercia!

Io fui allora decisamente contrario alla scelta di Occhetto! Come se noi, comunisti italiani, dovessimo rimproverarci di qualcosa e fare ammenda! E non era affatto così! La direzione del Partito condotta per anni da Palmiro Togliatti, e approvata dai relativi congressi – di sezione, di federazione, regionali e nazionali – fu sempre una direzione – possiamo dire – schiettamente nazionale! La “via italiana al socialismo”, adottata da anni dal PCI, non era uno slogan, ma una concreta quotidiana azione politica. Ed il che fu anche dimostrato dai “funerali di Togliatti”. Ho adottato le virgolette, perché si trattò di un evento a Roma accompagnato dal compianto e dal silenzio di migliaia di compagni e cittadini. Era il 25 agosto 1964. Togliatti era morto a Yalta il 21 agosto. durante una vacanza in Crimea sul Mar Nero, nell’allora Unione Sovietica.

4 novembre per due

4 novembre per due

di Maurizio Tiriticco

4 NOVEMBRE 1918 —- Fine della prima guerra mondiale. Ecco il testo integrale del “Bollettino della Vittoria” —- “Comando Supremo, 4 NOVEMBRE 1918, ore 12. La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 Maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso Ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una cecoslovacca ed un reggimento americano, contro settantatré divisioni austroungariche, è finita. La fulminea e arditissima avanzata del XXIX corpo d’armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della VII armata e ad oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l’irresistibile slancio della XII, dell’VIII, della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente. Nella pianura, Sua Altezza Reale il Duca d’Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute. L’Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni e nell’inseguimento ha perdute quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecento mila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinque mila cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”. ARMANDO DIAZ, Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito.

4 NOVEMBRE 1956 —- Siamo in piena “guerra fredda”. L’Europa, uscita da un faticoso dopoguerra, è stata divisa di fatto in due parti, di cui quella occidentale è sotto l’influenza degli USA e quella orientale è sotto l’influenza dell’URSS, l’Unione elle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Va ricordato che la lunga linea di confine costituì per anni, fino alla “caduta del Muro di Berlino” del 9 novembre 1989, la cosiddetta “cortina di ferro”. L’URSS, fin dalla fine della seconda guerra mondiale (9 maggio1945) aveva imposto di fatto e di diritto a tutti i Paesi che si trovavano sotto la sua diretta influenza, governi autoritari, se non addirittura dittatoriali nonché profondamente limitativi delle libertà personali. Il malcontento popolare nelle repubbliche dell’Europa orientale era forte e cresceva di giorno in giorno, finché in Ungheria si manifestò pienamente nell’ottobre del 1956. La reazione sovietica fu immediata. Il 4 NOVEMBRE i soldati dell’Armata Rossa giunsero alle porte di Budapest con circa 200.000 uomini e 4.000 carri armati. Si scontrarono però con un’accanita resistenza, soprattutto nei centri operai. Ma la sproporzione abissale delle forze in campo era tale che la resistenza ebbe una vita brevissima. In serata Jànos Kádár, operaio metallurgico, militante comunista di rilievo, fece annunciare dalla città di Szolnok, con un messaggio radio, la formazione di un “governo rivoluzionario operaio e contadino”. Dal canto suo il Primo Ministro Imre Nagy fece trasmettere tramite Radio Kossuth Libera (radio di Stato) alle ore 5,20 il seguente messaggio: “Qui parla il Primo Ministro Imre Nagy. Oggi all’alba le truppe sovietiche hanno aggredito la nostra capitale con l’evidente intento di rovesciare il governo legale e democratico di Ungheria. Le nostre truppe sono impegnate nel combattimento. Il governo è al suo posto. Comunico questo fatto al popolo del nostro Paese ed al mondo intero”.

Nonostante il coraggio dei rivoluzionari ungheresi, la “ribellione” contro l’Unione Sovietica ebbe vita breve! E la repressione fu lunga e feroce. Ma la ripercussione delle vicende ungheresi nei partiti e nei militanti comunisti del mondo intero fu vivace e decisa. Centouno militanti del Partito Comunista Italiano – tra cui il sottoscritto nonché firme autorevoli, quali Carlo Muscetta, Natalino Sapegno, Renzo De Felice, Lucio Colletti, Alberto Asor Rosa, Enzo Siciliano, Vezio Crisafulli, Antonio Maccanico – elaborarono un documento di protesta contro l’iniziativa dei “compagni sovietici”.

Ritengo opportuno riprodurre l’incipit e l’excipit del documento: “I tragici avvenimenti d’Ungheria scuotono dolorosamente in questi giorni l’intera opinione pubblica del Paese. La coscienza democratica e il sentimento d’umanità dei lavoratori e di tutti gli uomini onesti reagiscono con la forza delle grandi passioni civili alle notizie divenute di giorno in giorno più drammatiche. La fedeltà all’impegno assunto con l’atto di adesione al partito impone di prendere una posizione aperta. Si formulano pertanto queste considerazioni politiche… – …Nel presentare questo documento al Comitato centrale è dovere dire che si ritiene indispensabile che queste posizioni vengano conosciute e dibattute da tutto il Partito, e se ne domanda pertanto la integrale e immediata pubblicazione su l’Unità giacché di fronte ad avvenimenti così drammatici la nostra coscienza di militanti non ci consente di rinunciare acché in tutto il Partito sia dato conoscere queste posizioni. Ciò diciamo con il proposito che il nostro Partito proceda sulla via italiana al socialismo, ridia fiducia e unità a tutti i militanti, recuperi la sua tradizionale funzione decisiva, onde riesca consolidata in Italia la democrazia, oggi più che mai minacciata dalla reazione capitalistica e clericale”.

In effetti, in Ungheria l’“ordine sovietico” era statoristabilito, ma… la dirigenza politica dell’URSS aveva perduto per sempre quell’attenzione solidale che i “compagni comunisti” del mondo intero le avevano da decenni dimostrata! Eravamo nel 1956! Giuseppe Stalin – o meglio Iosif Vissarionovič Džugašvili, detto Stalin, Acciaio – era morto tre anni prima. Nessuno di noi conosceva ancora il testo di quel “Rapporto segreto”, o meglio di quel celeberrimo discorso che l’allora segretario generale del PCUS, Nikita Chruščëv, aveva tenuto in occasione del XX°Congresso del PCUS, celebrato presso il Gran Palazzo del Cremlino di Mosca dal 14 al 26 febbraio 1956.

Il rapporto verrà diffuso dallo stesso Chruščëv prima negli Stati Uniti e successivamente in tutto l’Occidente. Ma la diffusione in Unione Sovieticavenne vietata. Le principali ipotesi che possono spiegare l’occultamento in patria del “Rapporto segreto” da parte dello stesso Chruščëv sono la paura delle reazioni che si sarebbero potute avere nello stesso PCUS; nonché nello stesso popolo sovietico, messo brutalmente di fronte a fatti terribili che gran parte dei membri del partito aveva vissuto in prima persona negli anni dello stalinismo, ma che nel 1956 avrebbe facilmente potuto smentire. Un’altra ipotesi sarebbe il fatto che segretare i rapporti era pratica d’uso comune in URSS. Comunque il “Rapporto segreto” di Chruščëv fu il primo documento ufficiale che accusò Stalin di gravissimi crimini, abusi di potere, malgoverno, megalomania Per non dire poi dei pesanti attacchi contro la sua persona, relativi al carattere e al comportamento.

Comunque, in seguito a quelle vicende, sembrò che nell’URSS si affacciassero le prime avvisaglie di un cambiamento democratico. Ma, come le successive vicende ci hanno dimostrato – nonostante la “buona voltà di due grandi protagonisti, Michail Sergeevič Gorbačëv e Borís Nikoláevič Él’cin – il cambiamento non si verificò! Ed oggi nella Federazione Russa tutto il potere è saldamente nelle mani di Vladimir Vladimirovič Putin.

Ciao Sergio!

Ciao Sergio!

di Maurizio Tiriticco

SERGIO BAILETTI ci ha lasciati! Non solo lascia un vuoto nei suoi cari, ma anche nei suoi numerosi amici, che gli hanno voluto sempre un gran bene! Per la sua intelligenza, per il suo spirito sempre collaborativo e solidale! E non a caso Sergio era sempre sorridente!

Caro Sergio! Il ricordo che ho di te è vivissimo! Quante cose abbiamo fatto insieme, quando eri un alto funzionario alla Direzione Generale dell’Istruzione Professionale! Venivo nel tuo ufficio – ero ispettore –e tu “mi davi gli ordini”. Tu eri un funzionario “speciale” ed io un ispettore “speciale”… almeno credo! Ci occupavamo di aggiornamento – o meglio di “formazione continua in servizio” – dei presidi – alloranon erano ancora DS – e degli insegnanti dei “nostri” istituti professionali. Dico “nostri” perché con loro avevamo un legame “speciale” appunto! Di grande collaborazione e – posso dire – di affettuosità! Con il Direttore Generale dell’IP Giuseppe Martinez avviammo il cosiddetto “Progetto 92”. L’intento era quello di rimuovere l’IP da quella specie di ghetto in cui la tradizione l’aveva confinata. Infatti, dopo la scuola media, i ragazzi “migliori” – o presunti tali – siiscrivevano ai licei classici; i “buoni” ai licei scientifici (dove non c’era il greco); i “così così” agli istituti tecnici; e gli “sfigati” – o presunti tali – agli istituti professionali! Con la direzione di Martinez le cose cambiarono profondamente e rapidamente! Anche perché l’intero settore produttivo del Paese era cambiato! Grazie al processo di profonda industrializzazione avviato nell’immediato dopoguerra.

Così’, grazie all’intelligente iniziativa del DG Martinez, all’IP elaborammo e lanciammo il cosiddetto “Progetto 92”, con il chiaro intento di dare all’IP la dignità che meritava, e soprattutto in un Paese che ormai si era profondamente industrializzato. E che, pertanto, necessitava di quadri tecnici intermedi di spiccato valore e competenza! E che spettava all’IP istruire, formare ed educare: le tre gambe con cui una “scuola attiva e produttiva” è tenuta a marciare! La sfida che lanciammo con il “Progetto 92” richiese lavoro, intelligenza, competenza! Nonché una buona dose di coraggio! I “nostri” presidi e i “nostri” insegnanti – anche loro da sempre “relegati” ad un settore scolastico ritenuto pressoché residuale –furono raggiunti – e coinvolti – da intense attività di formazione continua in servizio! E l’Istruzione Professionale in breve tempo poté concorrere con l’Istruzione Tecnica: ambedue governate da due distinte Direzioni Generali del Ministero dell’Istruzione.

Ebbene! Sergio Bailetti è stato un protagonista attivo di questo profondo rinnovamento della nostra IP. E ne sono testimoni dirigenti scolastici ed insegnanti. Con Sergio se ne va un pezzo di storia! Così in genere si dice! Ma è stata una storia che ha prodotto altra storia! E i nostri Istituti Professionali sono oggi istituzioni fondanti per la crescita del Paese. A Sergio va tutto il mio affettuoso ricordo! Ciao Sergio!

28 ottobre!

28 ottobre!

di Maurizio Tiriticco

Il 28 ottobre non è, anzi, non era una data come un’altra! Vado indietro con la storia! Quando andavo a scuola, a partire dalla mia prima classe elementare – era l’anno scolastico 1933-34 – ogni anno, il 28 ottobre, era vacanza! Che gioia! Si celebrava e si festeggiava ufficialmente la ricorrenza della “Marcia su Roma”, che aveva avuto luogo proprio il 28 OTTOBRE del 1922. E, dopo il giorno festivo, a scuola, il giorno successivo, dovevamo modificare la data sui nostri quaderni. Così come avviene da sempre dopo le feste natalizie, quando il primo gennaio segna l’inizio di un nuovo anno dell’Era Cristiana. Ebbene; il 28 ottobre segnava l’inizio dell’anno di una nuova era! L’Era Fascista! Ovviamente ho usato le maiuscole, come allora! Insomma per tutto l’anno scolastico 1933-34, sui miei compiti scritti, alla data del calendario dell’Era Cristiana dovevo aggiungere la data della nuova era, l’Era Fascista! Esattamente: “Anno XII E.F. 28 ottobre 1933-27 ottobre 1934”. Un’era nuova per l’Italia… e per il mondo! Così voleva il fascismo! Perché al mondo intero avremmo dovuto portare la luce della nostra Civiltà Romana!

Ma io somarello non capivo chi fosse questo tale che Era Fascista! Un Era maiuscolo, quindi una persona importante! Mah! Suor Maddalena a scuola ci spiegò che dal 28 ottobre 1922 per il nostro Paese era nata una nuova era, dopo quella cristiana! Una nuova epoca storica! Allora capii che io ero nato non solo il 14 luglio del 1928 dell’Era cristiana, la presa della Bastiglia, ma anche dell’anno VI dell’Era fascista! E ogni 28 ottobre avrei compiuto un altro anno! Che bello! E ne ero fiero! Gli altri bambini del mondo non avevano un simile privilegio!

Un’Era che, dunque, aveva avuto inizio in quel fatidico storico, luminoso, immortale giorno! Il 28 ottobre del 1922! E ciò non riguardava solo i compiti di scuola, ma tutti i documenti ufficiali! Nonché i libri di testo scolastici e financo i nostri quaderni. Conservo un quaderno della mia terza classe elementare. In copertina c’è il Duce in orbace che saluta romanamente una folla plaudente tra bandiere che garriscono al vento. E’ una folla che saluta dei nostri concittadini, uomini, donne e bambini, che si imbarcano su una nave! Andranno in Africa, esattamente in Libia, già colonia italiana fin dal lontano 1911! Come non ricordare una canzone di allora che tra l’altro recita “Tripoli bel suol d’amore, sarai italiana al rombo del cannone”.

Lo stesso refrain si ripeté quando andammo a conquistare l’Abissinia! O meglio – secondo la propaganda del regime – a liberare un popolo dalla schiavitù di quel cattivone del Negus Haillé Selassié, che, spodestato dal fascismo ed in seguito tornato al suo trono, fu l’ultimo imperatore d’Etiopia. Che poi non era affatto un signor nessuno! Vantava origini più che nobili! Era l’erede della dinastia salomonide, che, secondo la tradizione, avrebbe avuto origine dal Re Salomone e dalla regina di Saba.

Ed in quarta di copertina del quaderno… ma è meglio che copi! “Glorie di Roma! Le terre e i popoli non si conquistano solo con le armi, ma anche con il lavoro. Là ove le armi hanno ripristinato l’ordine e la disciplina, deve occorrere poi il lavoro ad organizzare e rendere feconde le terre affinché ciò porti il benessere e la tranquillità alle genti. Questo ha insegnato Roma, che, sotto la guida del suo grande Duce Benito Mussolini, manda gruppi di colonizzatori sulla quarta sponda d’Italia, l’Africa, per ivi fondare villaggi e fecondare le terre incolte”.

E non è un caso che i nostri soldati, convinti di andare a liberare tanti poveri negri, cantavano: “Io ti saluto! Vado in Abissinia, Cara Virginia, ma tornerò. Appena giunto nell’accampamento, dal reggimento ti scriverò. Ti manderò dall’Africa un bel fior che nasce sotto il ciel dell’Equator. Io ti saluto! Vado in Abissinia! Cara Virginia, ma tornerò”. Io non so se il soldato sia tornato! So solo come sono andate le cose! E chi mi legge le sa meglio di me.

Una storia italiana

Una storia italiana

di Maurizio Tiriticco

FIRENZE: era il 22 OTTOBRE del 1441, ben 580 anni fa! —- Leon Battista Alberti, con la collaborazione dei Provveditori dell’Università di Firenze e con il contributo di Piero di Cosimo de’ Medici, sull’esempio degli antichi ludi poetici nonché dei puys francesi e fiamminghi e dei concorsi tolosani e barcellonesi, organizza il cosiddetto Certame coronario. Si trattava di una pubblica gara, il cui intento era quello di dimostrare la piena dignità letteraria della lingua volgare, che poteva tranquillamente trattare anche argomenti di elevato interesse, che invece in genere venivano affrontati in latino, perché potessero essere letti dai dotti di altri Paesi europei. La gara aveva come premio una corona d’alloro in argento. Vi parteciparono noti letterati dell’epoca nonché rimatori popolari, che dovettero comporre testi sul tema intitolato LA VERA AMICIZIA. Il Certame si svolse nella cattedrale di Santa Maria del Fiore di Firenze e vi assistette un pubblico numeroso, nonché un gruppo di autorità civili e religiose della città. Tra i concorrenti vi fu Leonardo Dati, che presentò una scena divisa in tre parti:due in versi costruiti sugli esametri latini, la terza in strofe saffiche. Era il primo tentativo di riprodurre in volgare i metri classici. Alcuni esametri italiani furono composti dallo stesso Alberti. Però nessuno dei poeti fu premiato perché, in verità,nessuno aveva prodotto qualche cosa di buono e di nuovo. Il fatto che nessun premio fosse stato assegnato dimostra la diffidenza che ancora si aveva nei confronti della lingua volgare.

Un secondo certame fu indetto l’anno successivo, il 1442, avente come tema L’INVIDIA. Ma in realtà non se ne fece nulla. Infatti – come si può desumere dal codice Palatino 215 della Biblioteca Nazionale di Firenze – il premio fu consegnato dai dieci segretari apostolici di Eugenio IV alla chiesa dove si era svolta svolse la gara. Comunque,occorre sottolineare che la ripresa letteraria del volgare avvenne in primo luogo a Firenze, capitale, appunto, della letteratura volgare. Infatti poteva vantare una tradizione illustre e prestigiosa, che annoverava autori come Dante, Petrarca e Boccaccio. E proprio a questa tradizione i poeti della cerchia medicea – Lorenzo il Magnifico in testa – sirifecero, alla ricerca di modelli ispiratori. Un documento prezioso di questa attenzione alla tradizione volgare è la cosiddetta Raccolta Aragonese, antologia inviata nel 1476 da Lorenzo de’ Medici in dono a Federico d’Aragona. La lettera, che funge da prefazione, è firmata da Lorenzo, ma è quasi certo che si possa attribuire ad Agnolo Poliziano. Il volgare, man mano, cominciò ad acquisire la sua dignità letteraria anche a Ferrara, con Matteo Maria Boiardo e Pietro Bembo, e a Napoli, con Jacopo Sannazaro, Masuccio Salernitano e i poeti petrarchisti.

In seguito, nel corso dei secoli, questo volgare marciava, e come! Si arricchiva di nuovi vocaboli e di nuove strutture grammaticali. Ovviamente, grazie ai dotti e alle corti che li ospitavano. E forse le corti potevano anche comunicare e riconoscersi – se si può usare questa espressione – grazie ad una lingua condivisa e formale. In pieno Rinascimento nascevano grandi poemi, la Gerusalemme Liberata e l’Orlando Furioso, ambedue in versi endecasillabi in ottave: e la lingua? Il volgare! Questa la lingua delle corti e dei dotti. Ma i sudditi persistevano, ovviamente, nelle loro lingue di sempre, forse anche povere di strutture e di vocaboli che di fatto riflettevano anche la povertà culturale dei parlanti. E’noto come, ancora nel corso della prima mondiale, il soldato veneto e quello siciliano non si capivano! Tanta era ancora la forza dei dialetti.

Comunque questa nostra lingua oggi comune faceva lentamente il suo corso lungo i secoli e lungo la penisola finché, nei primi decenni del 1800, un certo Alessandro Manzoni riuscì a darle – e non senza difficoltà – la dignità che meritava. Ciò avvenne quando Don Lisander, volendo riscrivere i suoi Promessi Sposi al fine di adattare il più possibile la lingua da lui adottata al fiorentino, da lui considerato non un dialetto, bensì il più autentico modello della lingua italiana, andò a Firenze, dove scorre l’Arno “nelle cui acque – com’ebbe a dire – risciacquai i miei cenci”. O meglio volle rivisitare la lingua con cui aveva scritto il suo romanzo. La prima edizione milanese, la cosiddetta ventisettana era stata stampata a Milano a partire dal 1827 dall’editore Ferrario in tre volumi in tre anni; in tutto furono pubblicati circa mille volumi. Ma, dopo il “risciacquo nell’Arno” o meglio dopo l’edizione definitiva – siamo nel 1840 e il 1842 – la storia dei promessi sposi di una Lombardia occupata dagli Spagnoli divenne –potremmo dire – una storia italiana. E non fu un caso che i Promessi Sposi furono ben presto adottati nelle nostre scuole, come un modello di lingua. Comunque, accanto ai modelli classici di sempre, l’Odissea, l’Iliade, l’Eneide.

Tra i tanti romanzi storici, allora tanto in voga, è doveroso ricordare “La battaglia di Benevento”, di Francesco Domenico Guerrazzi, pubblicato nel 1827, “Ettore Fieramosca” o “La Disfida di Barletta”, di Massimo d’Azeglio, pubblicato nel 1833. E ciò non deve stupire! Sono gli anni del Risorgimento! Ed un popolo che è alla ricerca della sua unità, culturale e linguistica, non può non ricercare anche le sue radici unitarie, storiche e politiche Anche se, in effetti, la ricerca era guidata dalle cosiddette classi colte! Com’è noto, solo dopo la conquista dell’Unità Nazionale – e siamo nel 1870 – si cominciò a pensare anche ad una unificazione culturale e linguistica; anche adottando, a volte,le “buone maniere”! Basti pensare alla vera e propria “conquista militare” del Regno delle Due Sicilie, condotta dal generale sabaudo Enrico Cialdini. Nonché da Giuseppe Garibaldi.

Il resto è noto! L’Italia non era più solo un’espressione geografica, come aveva detto (almeno così sembra) il Barone di Metternich – che poi era anche conte e principe – il noto statista austriaco, uno dei protagonisti del Congresso di Vienna. L’Italia finalmente era diventata un Paese unito! Che doveva diventare anche Nazione! Dopo aver fatto l’Italia, occorreva fare anche gli Italiani, come ebbe a dire Massimo d’Azeglio. Ecco nascere l’istruzione elementare obbligatoria. Alludo alla legge Casati (1859) e alla legge Coppino (1877). E gli intellettuali, gli scrittori soprattutto, facevano la loro parte. Nel 1867 sono pubblicate le Memorie di un Italiano o le Confessioni di in ottuagenario di Niccolò Tommaseo. Insomma il Bel Paese dove tanti secoli prima il sì suonava non può smentire se stesso! E la lingua del sì cominciò a percorrere la sua lunga strada! Ed il percorso è oggi compiuto? Non saprei! Ma questa è un’altra storia!