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C’era una volta un Ministero della Pubblica Istruzione…

C’era una volta un Ministero della Pubblica Istruzione…

di Maurizio Tiriticco

 

…e c’erano anche gli ispettori, alias dirigenti tecnici. Ora, con questa deriva verso la privatizzazione della scuola pubblica, anche gli ispettori cambiano casacca, pardon… per ora solo criteri di assunzione, ruolo e funzione! Cheddiocelamandibbuona! Mi viene da pensare: ma perché i nostri anonimi della Buona scuola, invece di impelagarsi in una legge di un solo articolo 1 e di 212 commi di difficile lettura – si è costretti a saltare da un comma all’altro… un vero e proprio ipertesto… però senza immagini e senza filmini… che peccato – perché non hanno varato una legge costituita di un solo articolo 1? “Dall’anno scolastico 2016/1017, le scuole statali e le scuole paritarie diventano scuole private”! Alla faccia della Costituzione! Però, tutto sarebbe stato più chiaro! Invece…

E così, in queste micidiali giornate in cui dirigenti scolastici e collaboratori di buona volontà stanno attendendo a compilare incredibili carte denominate piani di miglioramento (la mia scuola è più migliore della tua) a seguito di rapporti di autovalutazione, e poi piani triennali – fa tanto matriosche o scatole cinesi – con cui si offriranno le cose più migliori che ci sono, corsi di bel canto, di bellezza, studio del cinese e del sanscrito, con un organico potenziato e muscoloso… almeno si ipotizza perché un’amministrazione incapace di governare un’annualità scolastica, vedremo se sarà capace di governare una triennalità… vedi al proposito la nota miur 23 dicembre 2015.

Con insegnanti che ogni tre anni saranno costretti a piatire una cattedra cheppiubellanoncenè trascegliendola tra le miriadi di offerte più strampalate che mai che i ds si dovranno inventare per rendere più bella e più appetibile la scuola di cui finalmente saranno indiscussi manager… come in un’azienda! Ebbene, sì! Tutti in gara tra di loro per offrire il meglio che si potrà.

Mah! Con un 60% di adulti che anno dopo anno perdono le competenze alfabetiche e che aumentano paurosamente tra un’indagine Ocse e un’altra, con percentuali sempre più alte di giovani che non hanno alcun titolo di studio o qualifica professionale, però, ci permetteremo il lusso di offrire corsi di equitazione, di cucina vegana, di astrologia karmica e altre amenità: il tutto per fregare la scuola dell’altro quartiere!!!

Tranquilli, comunque! Perché avremo a breve 48 ispettori nuovi di zecca che faranno giustizia di ogni ingiustizia. Sarà veramente un 48! E chi saranno questi 48 missi dominici… o gianninici che dir si voglia? Ovviamente non vengono dal mondo della scuola – ci mancherebbe altro! – ma da mondi altri… quelli del lavoro, magari di quello più duro! Anzi, se sanno solo un pizzico di rosa rosae e del quadrato del binomio, guai a loro! Non servono a questa buona scuola! Ho dimenticato la B maiuscola!

Saranno selezionati al di fuori di questo mondo scolastico infetto che dovrà essere risanato alla luce delle nuove disposizioni di cui alla legge 107.

La selezione – testualeee – “verrà svolta tenendo conto della particolare e comprovata qualificazione professionale del candidato, che abbia svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbia conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza, o che provenga dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato”.

Ho sempre detto e scritto che la scuola non può e non deve essere compos sui, autoreferenziale, avvitata sul suo ombelico, ma… quand’è troppo è troppo! Gli ispettori del buon tempo antico, o meglio del cattivo tempo antico, erano esperti disciplinari o esperti in metodologia e didattica, in docimologia (che parolaccia!), in amministrazione pubblica!

Che accadrà mai domani nella nostra scuola? Governata da una legge che invece di aprire orizzonti nuovi sembra aprire le porte alla notte degli imbrogli e dei sotterfugi? Purtroppo, così va spesso il mondo… voglio dire, così va nel secolo primo del terzo millennio.

Ed è veramente cosa triste.

Caro Luigi, d’accordo, ma…

Caro Luigi, d’accordo, ma…

di Maurizio Tiriticco

 

Ho apprezzato molto l’articolo di Luigi Manfrecola che ha degnato di osservazioni attente e puntuali le mie considerazioni su ciò che sta accadendo nelle testa e nella dita delle giovani generazioni alle prese con la scrittura digitale. Non ho espresso certezze, ma molti dubbi, confessando testualmente di essere anche profondamente ignorante in una materia che richiede contributi plurimi e specialistici, antropologici, psicolinguistici e non so che cos’altro. So molto bene quanto faticano gli insegnanti oggi a correggere composizioni scritte: calligrafie, anzi cacografie, assolutamente illeggibili, punteggiature casuali o inesistenti; per non dire dei due punti o del punto e virgola o l’uso di parentesi, lineette e trattini, virgolette e caporali, o capoversi e paragrafi. Abbiamo una lingua scritta ricchissima quanto a vocabolario e a segni di interpunzione, che oggi è bistrattata in mille modi. Per non dire della grande fatica di un laureando a comporre una tesi che abbia un minimo di organizzazione concettuale e implichi un minimo di attenzione alla composizione dei periodi. Ed è ovvio che, a fronte di una simile situazione, il problema numero uno è quello di insistere sulla correttezza della lingua e dello sviluppo del pensiero, orale o scritto che sia. Va anche considerato che tale povertà costruttiva e argomentativa riguarda anche la comunicazione orale, sulla quale l’intervento correttivo è estremamente limitato esercitandosi soltanto all’interno delle aule scolastiche.

Sono quindi perfettamente d’accordo con la denuncia ferma di una simile situazione e sulla necessità di affrontarla di conseguenza con strumenti e modi forse diversi da quelli della nostra tradizione scolastica. Ma la questione che sollevavo andava oltre e la ponevo in modo problematico e interrogativo. Il fatto è che siamo sempre più esposti a mezzi di comunicazione che ci sollecitano ad andare oltre il pensiero lineare, e ci sollecitano al reticolare o, se vogliamo, all’ipertestuale. In effetti una quindicina di anni fa lo stesso Raffaele Simone nella Terza fase, forme di sapere che stiamo perdendo, poneva una questione per certi versi analoga: l’avvento delle tecnologie ipertestuali non concorrono a migliorare le nostre competenze logico linguistiche – discrete e digitali, potremmo aggiungere – ma ad impoverirle. Ma, ed ecco il mio “ma” molto interrogativo: all’impoverimento del discreto e del digitale non potrebbe corrispondere un arricchimento del continuo e dell’analogico? Non si apre forse la porta a forme di sapere che – potremmo dire – stiamo acquistando? Una porta che ancora è semplicemente semiaperta, che sollecita a nuove forme di pensiero assolutamente insospettate? E concludevo con una affermazione che intendo replicare: “Non so se a farmi esprimere questi pensieri sia il mio inguaribile ottimismo, oppure la mia profonda ignoranza in materia”.

Le mie considerazioni non sono assolutamente perentorie e qualunque contributo in materia è da me bene accetto. Anche e soprattutto perché è agli insegnanti che occorre dare indicazioni di lavoro diverse da quelle della tradizione. Ciò che non accetto è il pensare che queste forme altre dell’esprimersi e del comunicare vengano viste come una sorta di iattura dalla quale occorre soltanto guardarsi. Era una iattura il tentativo di volare di Leonardo, ma oggi voliamo! Per non dire dei roghi che sono stati inflitti ai sostenitori del sistema eliocentrico! Non credo che, a causa del digitale, saremo condannati a diventare tutti imbecilli!

Analfabetismo di partenza

Analfabetismo di partenza

di Maurizio Tiriticco

 

In un recente saggio di Benedetto Vertecchi intitolato “Alfabeto a rischio”, in cui, tra l’altro, vengono presentati i risultati della ricerca “Nulla dies sine linea” condotta dal Laboratorio di Pedagogia Sperimentale dell’Università di Roma Tre con alunni di alcune scuole romane sulla composizione scritta (https://www.academia.edu/19900866/Alfabeto_a_rischio), leggiamo tra l’altro: “Alla maggioranza dei bambini e dei ragazzi s’inviano messaggi contraddittori. Il loro impegno dovrebbe essere teso ad acquisire una conoscenza alla quale corrisponde un credito sociale decrescente. I mezzi di comunicazione enfatizzano il successo conseguito rapidamente e portatore di facile ricchezza. I comportamenti consumisti sono avvolti da suggestioni tecnologiche che nascondono le conseguenze che dal loro uso derivano allo sviluppo dei profili culturali. La caduta più insidiosa è quella che riguarda la capacità di scrivere. E’ una caduta che investe sia la capacità di tracciare i caratteri, sia quella di organizzarli correttamente in parole, da usare per organizzare il messaggio. L’uso di mezzi digitali comporta l’attenuazione, e talvolta la perdita, della capacità di coordinare il pensiero con l’attività necessaria per tracciare i segni! L’intervento nella scrittura digitale di correttori automatici (o di dispositivi automatizzati per la composizione delle parole, come nei telefonini), riduce la consapevolezza ortografica. Il ricorso ossessivo alla funzione copia e incolla riduce la necessità di sviluppare una linea argomentativa”.

La strumentazione digitale, dunque, provocherebbe forme nuove e diverse di analfabetismo? E la scuola, suo malgrado, sarebbe complice di questa pericolosa deriva? Stante la situazione – che poi non interessa solo il nostro Paese e le nostre giovani generazioni – non so se non sia il caso di riflettere su queste nuove forme di analfabetismo. In effetti, la storia ci insegna che è analfabeta colui che non è in grado di leggere e scrivere, pur sapendo, ovviamente, parlare e ascoltare, anche se all’interno di un gruppo sociale ristretto e che ha scarsi scambi con altrettanti piccoli e/o grandi gruppi. Essere analfabeta, comunque, non è sempre sinonimo di ignoranza tout court. Va detto che ricercatori come il Morgan o il Lévi Strauss hanno fatto giustizia di quell’inveterato concetto di analfabeta come di un minus habens. Del resto, è notorio come lo stesso Carlo Magno fosse analfabeta, nel senso che non sapeva né leggere né scrivere. Eppure animava quella Scuola Palatina che ad Aquisgrana riuniva i migliori cervelli dell’impero. E non solo lui: forse un altro Magno, Alessandro, che pur aveva avuto come maestro Aristotele, non aveva alcun interesse di apprendere strumentalmente a leggere e a scrivere. E ciò perché la lettura e la scrittura venivano considerate come un semplice supporto strumentale, da affidare a “segretari esperti” – potremmo dire – al fine di conservare o di trasmettere informazioni. E so di un mio antenato latinista, che era “scrittore apostolico di maggior grazia” presso la corte pontificia, intento a tradurre in perfetto latino curiale le bolle pontificie, originariamente nate in chissà quale imperfetto italiano! Indubbiamente, a parte queste considerazioni, l’analfabeta oggi è colui che non sa e non può né leggere né scrivere”.

Va però considerato che il “piccolo gruppo” pur analfabeta di un tempo ha espresso pur sempre un suo linguaggio e una sua cultura. La cosiddetta cultura popolare, che poi qualche “colto” ha voluto scrivere e conservare perché altri la potessero conoscere, ha un suo valore, un suo stigma. Ciò che ci ha descritto un Carlo Salinari con la sua Storia popolare della letteratura italiana – a valle di qiell’idealismo crociano e gentiliano che per certi versi aveva ovattato la crescita culturale della nostra popolazione tutta – e ciò che ci ha rappresentato un Dario Fo con il suo Mistero Buffo, possono essere una larga testimonianza della dignità che spesso ha la cultura popolare, anche a fronte di quella prodotta da scrittori, poeti, filosofi, scienziati, che – com’è noto – è tutt’altra cosa in quanto segna le tappe dello svolgersi di quella ricerca che da sempre sostanzia lo sviluppo civile e sociale dell’umanità. Per non dire poi di tutto il patrimonio delle fiabe, strumento prezioso di trasmissione di valori e disvalori, e in larga misura per via orale: l’eroe e l’orco, la fata e la strega, il bene e il male, il bello e il brutto in pillole, se vogliamo. La ricerca di Valdimir Propp ci ha dimostrato come anche in ambienti analfabeti – sotto il profilo della incompetenza nella lettura/scrittura – potessero comunque essere veicolati valori che possiamo definire universali, costituzionali, potremmo dire oggi. Per non dire infine della preoccupazione di Platone che vedeva nelle scrittura – e nella lettura quindi – una sorta di congelamento del pensiero e della sua natura dialettica. Insomma, il solo parlare/ascoltare non è di per sé segno di ignoranza.

Abbiamo a monte un’ampia tradizione orale, che per secoli ha costituito il background comportamentale e “civico” di gruppi sociali piccoli e grandi in cui il non saper scrivere non costituiva quel limite che poi invece verrà fortemente denunciato in epoche successive profondamente diverse. Basti pensare a un Lutero, a un Gutemberg o a un Comenio, in lotta perché la trasmissione orale fosse implementata – e per certi versi corretta – da quella scritta, in quanto il leggere e scrivere veniva inteso come segno di una rinnovata libertà: dall’invadenza di un Chiesa che non si poneva alcun limite dall’inquisire e mandare al rogo gli eretici, o meglio coloro che, stando all’etimo greco della parola, operavano “altre scelte” in campo religioso, quindi anche morale e civile. Leggere e scrivere diventavano così una bandiera nuova, una lotta per la libertà di pensiero!

Ed è ovvio che l’affermazione della scrittura ha relegato nell’ignoranza – se si può dir così – quei gruppi sociali che ne erano esclusi. Ovviamente, si tratta solo di rapidi accenni, incompleti e che meriterebbero un’attenzione maggiore. Comunque, sono tutte considerazioni che ci portano a concludere che non è detto in assoluto che la strumentazione leggere/scrivere – per come l’abbiamo costruita fino ad oggi e trasmessa nelle scuole fin dal grado cosiddetto elementare – possa essere la garanzia in assoluto di un progressivo sviluppo culturale civile e sociale. Concordo con tutti coloro che temono un’attenuazione e una perdita di certe competenze logico/sintattiche indotte dalla scrittura digitale, ma è anche vero che la strumentazione digitale implementa la competenza scrittoria manuale: la sola cancellazione automatica, il taglia e cuci operati costantemente nel progredire del testo elimina le brutte copie e le belle copie di un tempo. Chi scrive ha la possibilità di autocorreggersi all’infinito, e il suo pensiero al termine dell’operazione è sempre formattato in bella copia!

L’uso di mezzi digitali comporta l’attenuazione, e talvolta la perdita, della capacità di coordinare il pensiero con l’attività necessaria per tracciare i segni? Sinceramente, non so! Però, la domanda che dobbiamo porci è la seguente: ciò che si sta verificando nella testa delle nuove generazioni a fronte della incapacità di scrivere con penna/carta e che provoca ricadute sulla capacità stessa di formulare pensieri, interpretare sensazioni ed emozioni, trasmettere dati, informazioni, conoscenze, è segno di quale fenomeno? Indica una caduta verticale e inarrestabile della competenza linguistica in senso lato? E, quindi, della competenza comunicativa e creativa? Oppure siamo alla vigilia di nuovi modi di comunicare, che non passano più attraverso l’interazione circolare e progressiva dita-mano-occhio-carta-cervello? O meglio, siamo forse costruendo senza avvedercene mezzi e modi nuovi di produrre pensiero, di comunicare e di produrre cultura? Se è vero che “il mezzo è il messaggio”, sarà anche vero che i nuovi mezzi possono indurre a produrre nuove forme di messaggi, nuovi contenuti e nuovi modi di produrre cultura.

Volendo essere ottimisti, potremmo anche pensare che non siamo di fronte a un analfabetismo di ritorno, come si suol dire – che poi è quello più preoccupante e che interessa la popolazione adulta di tutti i Paesi ad alto sviluppo, e in particolare il nostro (si vedano i dati riportati dall’ultima edizione della ricerca Education at glance) – ma di un analfabetismo che potremmo definire di partenza. Non so se a farmi esprimere questi pensieri sia il mio inguaribile ottimismo, oppure la mia profonda ignoranza in materia.

Comunque, mi sembrerebbe più corretto parlare non tanto di analfabetismo di ritorno ma di un analfabetismo di partenza, a cui forse si dischiudono orizzonti nuovi, di cui non abbiamo ancora perfetta conoscenza.

Proposte per la FORMIS 2

Proposte per la FORMIS
FORMazione In Servizio degli insegnanti

parte seconda – l’azione didattica

di Maurizio Tiriticco

 

Dal con/testo normativo e istituzionale di cui al precedente articolo scendiamo ora al testo concreto dell’aula dove si confrontano quotidianamente insegnanti e alunni. In primo luogo dobbiamo liberarci da quell’inveterata espressione dell’insegnante inteso come trasmettitore di cultura. Una cultura in realtà si produce e si riproduce costantemente e collettivamente. E’ una informazione che si trasmette; e poi non è neanche detto che giunga al ricevente come il mittente l’ha elaborata e l’ha trasmessa: basti pensare a quanto ci insegna Jakobson a proposito delle sei funzioni del linguaggio. La cultura, quella almeno di cui ci parlano i grandi, quali il Tylor, il De Saussure, il Durkheim, si costruisce collettivamente giorno dopo giorno ed è in continua evoluzione. La cultura, quindi, a scuola e/o in qualsiasi processo di sviluppo/crescita, di socializzazione e di apprendimento, si sollecita, si provoca, al limite si costruisce insieme.

L’insegnante, quindi, non è un trasmettitore, non può e non deve esserlo. Purtroppo è ancora resistente nelle nostre scuole una visione idealistica, quale quella sostenuta dall’attualismo pedagogico gentiliano, secondo cui insegnante e alunno si unificano nella “vita dello spirito”, da cui discende la stessa autorità della lezione. In effetti, purtroppo, nella nostra scuola sono gentiliani anche insegnanti che di Gentile sanno poco o nulla. Il fatto è che certe consuetudini indotte da un ventennio di scuola fascista sono dure a morire, anche perché nella stessa età repubblicana nessuna riforma ha mai messo in seria discussione questa sorta di nocciolo duro della nostra scuola, che fa della lezione il fattore trainante della didattica. Del resto, anche nei recenti concorsi, la prova clou per dimostrare alla commissione di essere un “buon insegnante” è data dalla lezione offerta nella prova orale. Nulla di più falso: una lezione addirittura finta! E il fatto che nelle Indicazioni nazionali e nelle Linee guida si accenni più volte a una didattica laboratoriale, lascia il tempo che trova, se poi questa didattica innovativa resta solo, appunto, un accenno.

Purtroppo sono in molti a sostenere che, se un insegnante non “spiega” preventivamente, un alunno difficilmente è in grado di “comprendere” dove sono le difficoltà di “apprendere” e “com/prendere” contenuti per lui sempre nuovi. La “spiegazione”, quindi, costituirebbe il punto forte di una relazione di aiuto [1]. Il che non sarebbe totalmente errato: la relazione di aiuto è sempre una costante necessaria e indispensabile del rapporto docente/discente. Ma la questione è un’altra: che tale relazione non si realizza con la lezione cattedratica, dall’alto, ma con la sollecitazione al fare, dal basso. Non si impara ascoltando, si impara ancora di meno leggendo, ma si impara ricercando, discutendo, confrontandosi, e soprattutto facendo [2]. Di qui discende la metafora dell’insegnante muto, che “non spiega” ma sollecita problemi, curiosità, stimola e incoraggia al fare, che corregge, anche, ovviamente, ma in corso d’opera [3], che lavora in un’aula senza cattedra, in cui l’autorità non è data da un “segnale fisico” ma da un “comportamento” che stimola, corregge e premia altri comportamenti. E che addirittura sollecita “lezioni” dal basso, frutto di una ricerca singola o, meglio, cooperativa: di qui, ad esempio, la strategia della peer education [4].

La didattica laboratoriale si fonda quindi sul lavoro effettuato dall’alunno e/o da gruppi di alunni sulla base di stimoli e indicazioni di lavoro opportunamente lanciati dall’insegnante e/o da più insegnanti in forza di un apprendimento che travalichi i limiti delle singole discipline. Insomma, ad esempio, pur se banale, non viene prima l’area del rettangolo come norma e poi tante esercitazioni in merito, ma la necessità di dipingere la parete dell’aula o di sostituire il vetro della finestra che si è rotto. Quanta vernice occorre acquistare? Dove si acquista il vetro? E quanti euro occorrono? Matematica, fisica, chimica, lingua scritta e orale concorrono insieme per formulare l’ordinazione. La vita reale e/o una sua continua e opportuna simulazione entrano a fare della scuola un luogo altrettanto reale che non è più altra cosa rispetto alla vita quotidiana. Attualizzare ciò che si insegna non è facile, ovviamente, ma è necessario. Perché un bambino o un adolescente, che a scuola purtroppo diventa “alunno”, che cioè deve essere alimentato, come una mucca passiva in un’azienda agricola, deve interessarsi allo studio, se questo non è parte integrate dei suoi bisogni quotidiani? Se lo studio è un dovere, non è detto che non possa essere anche un piacere: nella misura in cui soddisfa un bisogno reale sapientemente indotto da un insegnate che stimoli curiosità e interessi reali. Quelle belle gare sulle tabelline mi facevano rincorrere il premio della medaglia d’oro… di cartone, e il piacere del gareggiare copriva abbondantemente la “noia” dell’imparare.

E la grande lezione del Tasso non va mai dimenticata: “Così a l’egro fanciul porgiamo aspersi di soavi licor gli orli del vaso: succhi amari ingannato intanto ei beve, e da l’inganno suo vita riceve”. Ovviamente, non è cosa facile! E’ molto più semplice fare una bella lezione sulla “Gerusalemme liberata” che riuscire a incuriosire a leggerne qualche passo. Ed è proprio qui il leitmotif di un comportamento insegnate efficace [5]. Ma finché chiederemo ai concorsi di fare una bella lezione, tremo proprio che sarà difficile cambiare pagina.

 


[1] Il che ci rinvia direttamente a quei cinque principi della retorica secondo Quintiliano: inventio, dispositivo, elocutio, memoria, actio, che sembrano ancora oggi costituire l’asse portante di una buona ed efficace lezione cattedratica. Si tratta di principi che potrebbero valere soltanto, a nostro giudizio, per quelle lectiones magistrales che danno lustro a tante manifestazioni accademiche.

[2] Sono in circolazione molte tabelle relative al come si apprende. Una delle più convincenti a mio parere è la seguente, che individua una scala di valori percentuali dell’apprendimento, dal meno al più: leggere, 10%; ascoltare, 20%; vedere, 30%; vedere/ascoltare, 40%; discutere/scrivere, 70%; fare da soli e meglio con altri, 80%; insegnare, 95%; produrre per essere competente, 100%.

[3] Si tratta di una correzione che non coincide con una punizione, che non si traduce in un voto negativo, ma in una sollecitazione ad autocorreggersi. A questo punto si aprirebbe la questione dei voti e della valutazione scolastica e di quanto questa, per come viene quotidianamente realizzata, sia poco produttiva ai fini di un apprendimento efficace. Com’è noto, da più parti si sta proponendo di abolire i voti decimali nella scuola primaria. Sarebbe un buon inizio per avviare l’intero sistema di istruzione ad una valutazione che sia parte integrante e promozionale del processo di apprendimento e non semplicemente sanzionatoria.

[4] Si veda al proposito Alberto Pellai, Valentina Rinaldin, Barbara Tamborini, Educazione tra pari, manuale teorico-pratico di empowered peer education, Erikson, Trento, 2002.

[5] Si veda al proposito il classico Thomas Gordon. Insegnanti efficaci. Il metodo Gordon; pratiche educative per insegnanti genitori e studenti, Giunti, Firenze, 1978. Thomas Gordon è stato uno stretto collaboratore di Carl Rogers, il noto psicologo statunitense autore della terapia centrata sul cliente e dell’empatia, un atteggiamento che dovrebbe costituire uno dei punti di forza del rapporto docente/alunno.

Conversando con un mio ex alunno

Conversando con un mio ex alunno

di Maurizio Tiriticco

 

A proposito della mia prima puntata relativa ai problemi della FORMIS, Massimo Palozza mi scrive: “Delle tre dimensioni, quella che più mi preoccupa è quella Sociopolitica. Sarà difficile far entrare in testa a certi colleghi, e anche DS, che le competenze di un docente non si limitano alla disciplina insegnata e che non basta saper fare la programmazione e usare una LIM per pensare di aver compreso anche la dimensione umana che li circonda e dalla quale loro stessi provengono. Grazie dell’articolo, Maurizio”!

E io rispondo. La dimensione sociopolitica è quella più difficile da acquisire! Ricordiamo tutti la scarsissima visibilità nelle nostre scuole di una disciplina come l’Educazione civica! Fu anche rinnovata nei suoi contenuti, nel 1995, con il Ministro Giancarlo Lombardi e il Sottosegretario Luciano Corradini come “Cultura costituzionale” ma… come se nulla fosse! E oggi c’è Cittadinanza e Costituzione, ex Legge 222/2012. Ne sai qualcosa? Il fatto che in quasi tutte le scuole questa disciplina, che poi disciplina non è, sia ignorata, è un segnale allarmante della povertà culturale di tutto il nostro “Sistema nazionale di istruzione e formazione”. Che bella parola: Sistema!

Il fatto poi – e sono cattivo e me ne assumo la responsabilità – che tanti insegnanti ignorino la Carta costituzionale e il loro stesso contratto di lavoro è significativo. Che cosa significa “ruolo”, che cosa significa “funzione” per un qualunque lavoratore e quali conseguenze ne derivino è una questione fondante, ma…. Ma un Paese che ancora non è del tutto guarito dal fascismo e… una scuola che a tutt’oggi non si è ancora liberata da Gentile non sono cose di poco conto.

Ed è anche morta la grande ricerca pedagogica, che di fatto prima di tutto è – anzi era – una ricerca civile… Che ne è della Misurazione e valutazione nel processo educativo di Aldo Visalberghi? De La Difficile scommessa di Raffaele Laporta o della ricerca di un Mario Mencarelli o di un Luigi Volpicelli? Per non dire della Lettera di Don Lorenzo: una grande lezione di cultura pedagogica? Bruner, Gardner, Morin, gli “stranieri”, hanno “fatto una capatina” nel nostro orizzonte scolastico, ma nulla più.

In tale contesto così povero, il didatticismo spicciolo e di maniera dell’Indire e le incursioni dell’Invalsi creano solo diffidenza e resistenza: e non potrebbe essere diversamente. E non solo. L’assenza di una cultura pedagogica civile e fondante provoca una seconda assenza nell’ambito della cultura della valutazione, che costituisce a tutt’oggi uno dei nodi irrisolti del nostro Sistema scolastico. Ma la responsabilità di tutto ciò è in alto. Sono anni che abbiamo ministri incolti sotto il profilo pedagogico, che varano leggi dettate dal Mef che affliggono la scuola, invece di rinnovarla: ministri che da vent’anni cianciano di competenze ma che continuano a licenziare i nostri diciannovenni con diplomi che non certificano nulla. E’ per tutta questa serie di ragioni che il solo parlare di didattica innovativa (non c’è documento del Miur che non sentenzi sulla didattica laboratoriale) resta… purtroppo un solo parlare!

Possiamo sperare che nell’intricato labirinto di una 107, stando all’esercizio delle deleghe, si trovino spazi e tempi per orientare la nostra istruzione superiore a un effettivo apprendimento per competenze? Sia chiaro che non basta l’enunciato di un diploma a cambiare un intero percorso quinquennale! Del resto già l’attuale legge 425 che risale al lontano 1997 prescrive un diploma che certifichi competenze, ma…non è dal tetto che si costruiscono le case.

Proposte per la FORMIS 1

Proposte per la FORMIS
FORMazione In Servizio degli insegnanti

parte prima – il contesto normativo

di Maurizio Tiriticco

 

Che la formazione in servizio degli insegnanti – come del resto per qualsiasi lavoratore oggi – sia un diritto/dovere è semplicemente un dato di fatto, indipendentemente da un qualsiasi adempimento normativo. Le espressioni “società della conoscenza” e “apprendimento per tutta la vita” hanno oggi un senso, stante la sempre più veloce evoluzione della ricerca scientifica e tecnologica e delle relative ricadute su ogni attività lavorativa. Per non dire poi della progressiva e inarrestabile caduta della secolare separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale.

Se poi consideriamo che con la legge 107/2015 di fatto e di diritto si delinea una figura dell’insegnante ben diversa da quella nota, quale emerge sia dal contratto di lavoro che dal Testo Unico della PI, la formazione continua in servizio, oltre ad essere un obbligo sarà una vera e propria necessità. La legge mira a dar vita a istituzioni scolastiche che, in ordine ad una più forte autonomia (si veda la riscrittura dell’intero articolo 3 del Regolamento, come si evince dal comma 14 dell’articolo unico della suddetta legge), potranno proporsi finalità e obiettivi più ricchi e articolati rispetto a quanto indicato dalle vigenti Indicazioni nazionali e Linee guida, che rientrano in quelle “norme generali dell’istruzione”, di cui lo Stato ha piena competenza (art. Cost. 117).

Ne consegue che, in uno scenario futuro che si prevede abbastanza mobile e articolato, la sequenza di sempre, laurea, concorso, abilitazione, immissione in ruolo a tempo indeterminato su una data sede, è stata profondamente modificata. Il ruolo non si configura più su di un posto dato “a vita”, potremmo dire, ma viene allocato virtualmente in un elenco territoriale, la cui ampiezza a tutt’oggi non è ancora certa. A ciò segue una vera e propria contrattazione avviata dal docente di ruolo con un dato dirigente scolastico sulla base di una serie di esigenze emergenti da un piano dell’offerta formativa che ha un respiro ampio e disteso nel tempo, relativo a tre annualità scolastiche. Ciò significa che una laurea conseguita a pieni voti o un concorso superato brillantemente avranno un valore relativo a fronte sia delle esigenze emergenti dal piano triennale di quella data istituzione scolastica che delle competenze professionali che il docente è in grado di rappresentare e offrire. Si crea, di fatto, un “mercato libero” in cui il gioco tra domanda e offerta travalica le competenze professionali attestate sia dalla laurea che da un concorso vinto.

E occorre anche considerare che al termine del triennio, in relazione a esigenze nuove che emergeranno dal nuovo piano triennale, quelle competenze professionali extra-laurea ed extra- concorso, valide per il triennio che si chiude, potrebbero anche non essere più valide rispetto a un progetto triennale rinnovato nei contenuti culturali e pedagogico-didattici. Con tali profonde innovazioni il docente perde la certezza del posto di lavoro e si trova quindi su di un vero e proprio “libero mercato” a “offrire” e a “vendere” le sue competenze professionali. Si tratta di considerazioni oggettive! Fatte salve, cioè, tutte le considerazioni pessimistiche circa la possibilità che si vadano a creare situazioni di mercati pilotati in modo da soddisfare interessi di bottega, assolutamente estranei a concrete esigenze culturali e pedagogico-didattiche.

Nello scenario incerto – se non addirittura conflittuale – che si apre, occorre che siano tenuti ben ferme le competenze culturali e professionali che caratterizzano e sostanziano il nostro insegnante, quello che noi abbiamo voluto per una scuola che sia fortemente inclusiva quale emerge dalla Carta costituzionale e dallo stesso Regolamento dell’autonomia che gli articoli di quella Carta – ed esattamente il 2, il 3, il 9, il 33, il 34, il 117 – riprende, sviluppa, concretizza.

La “natura e gli scopi dell’autonomia delle istituzioni scolastiche” sono così individuati, definiti e descritti nel comma 2 dell’articolo 1 del Dpr 275/1999: “L’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di EDUCAZIONE, FORMAZIONE e ISTRUZIONE, mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il SUCCESSO FORMATIVO, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento”.

Pertanto, le nostre istituzioni scolastiche tanto più sono autonome, quanto più riescono a EDUCARE il cittadino, FORMARE la persona e ISTRUIRLA al fine di un suo inserimento civile e professionale in una società e in un mondo del lavoro che si fanno sempre più complessi ed esigenti. Ciascuno di noi è diverso da un altro; pertanto l’alunno/cittadino ha diritto al suo personale SUCCESSO. Nella misura in cui, in ordine a una didattica individualizzata [1], riusciremo a certificare dettagliatamente le concrete competenze di uscita che l’alunno/cittadino ha raggiunto, quel dettato dell’articolo 2, relativo al personale successo formativo sarà pienamente soddisfatto. Si tratta di un obiettivo in primo luogo costituzionale al quale la legge 107 – qualunque sia il giudizio che si voglia esprimere su di essa – non può assolutamente venir meno.

Nella tabella che segue sono delineati i punti forti della professionalità docente. Occorre in primo luogo distinguere il contesto normativo della docenza dal concreto comportamento in aula e nella istituzione scolastica. Un insegnante – come qualsiasi lavoratore – deve avere la piena consapevolezza del ruolo che svolge all’interno di un dato contesto sociale e di un dato ambiente lavorativo nonché delle funzioni che esercita (la dimensione politica: l’ambito dell’EDUCARE). La padronanza della disciplina, con tutte le intersezioni pluridisciplinari, costituisce l’hardcore del suo esercizio professionale (l’ambito dell’ISTRUIRE). Ma è solo la competenza metodologica (l’ambito del FORMARE) che dà vita a quell’azione didattica che esplicita e corona la sua professionalità di maestro autentico.

Nella parte seconda entreremo nel merito del concreto comportamento insegnante in aula, per l’aula e per ogni singolo alunno.

File 27-12-15, 23 46 44


 

[1] Una didattica è individualizzata quando, pur tenendo fermi gi obiettivi proposti all’alunno, si curvano le attività di insegnamento alle sue concrete capacità/abilità di apprendimento. Una didattica, invece, è personalizzata quando anche i medesimi obiettivi sono curvati alle esigenze manifestate dall’alunno.

Competenze o Competizioni?

COMPETENZE o COMPETIZIONI?
Lettera aperta a Valentino ***

di Maurizio Tiriticco

 

Carissimo Antonio! Ho letto attentamente i tuoi ultimi scritti, sempre argomentati, sempre lucidamente e appassionatamente critici! E’ certo che questa cosiddetta buona scuola, nel tempo che verrà, creerà solo una valanga di problemi. La casistica dei 212 commi è così ricca, varia e stravagante, per cui là dentro c’è tutto e il contrario di tutto. Già vedo tonnellate di ricorsi per le situazioni più svariate! Altro che buona scuola! Sarà la scuola dei TAR! E non solo! E poi verranno anche i 9 decreti legislativi! Altre occasioni per altri mille ricorsi. E i traguardi veri si allontanano sempre più! Niente riordino dei cicli! E niente certificazione delle competenze!

Altro che competenze! L’ignoranza del Miur in materia continua e regnare sovrana e tutto è rinviato come sempre alle calende greche. Al termine di quest’anno scolastico, come sai, era giunta finalmente in porto la cosiddetta riforma Gelmini e, al compimento del quinto anno, queste benedette competenze potevano anche essere accertate e certificate. Infatti, non tanto le Indicazioni nazionali per i licei, molto vaghe in materia, ma le Linee guida degli istituti tecnici e professionali le indicano e le descrivono con sufficiente chiarezza, anche se hanno il limite di una scarsa pluridisciplinarità. Ma che ha fatto il Miur? Nulla di nulla! Un appuntamento mancato! E siamo in attesa di un decreto delegato in materia. Ma chi lo scriverà. E’ dalla tornata di esami 98/99 che avremmo dovuto certificare le competenze degli studenti ex maturi. Quanti anni sono passati? E l’Europa ci bacchetta! Delle due Raccomandazioni (le competenze civiche del 2006 e le competenze culturali/professionalizzanti, l’EQF, del 2008) non c’è stata nelle nostre scuole alcuna ricaduta. E sai meglio di me come si certificano – si fa per dire – le competenze di fine obbligo!!!

E ti dico anche che sono molto preoccupato dell’ignoranza del Miur in materia di competenze. E ne abbiamo la prova. Quei modelli di certificazione “imposti” di fatto alla scuola primaria e media con la scusa di avviare una sperimentazione (ma una sperimentazione si sollecita partendo dal basso, come abbiamo sempre fatto: ti ricordi i famosi articoli 2 e 3 dei decreti delegati? E mai proponendo/imponendo modelli di fatto chiusi) sono semplicemente cartuccelle con giudizi mezzo analitici e mezzo sintetici che, invece di orientare scuole, insegnanti e alunni verso una pratica seria di sperimentare certificazioni, li disorienta. Per non dire di quell’espressione assurda con cui si certifica il livello iniziale di competenza: “l’alunno, se opportunamente guidato, svolge compiti semplici in situazioni note”. Come dire: “il pilota, se opportunamente guidato, è in grado di guidare l’aereo”. Anche e soprattutto perché la COMPETENZA è una cosa seria e non si può pensare che un bambino di 11 anni e un adolescente di 14 abbiano GIA’ raggiunto date COMPETENZE. Il dramma è che la parola “competenza” ammalia, va di moda, ma nessuno sa che cosa sia, come si raggiunga, come si accerti e come si certifichi (e chi conosce compiutamente che misurare, valutare e certificare sono operazioni diverse?).

Chi ha scritto quelle cose dimostra di non sapere che cos’è una competenza, che è sempre un fare “maturo” e “consapevole” e “mirato” a produrre un qualcosa… che prima non c’era!!! E’ comunque cosa certa che, quando un bambino comincia a camminare e/o a maneggiare un oggetto o uno strumento in modo corretto, ne siamo felici! Per lui è una conquista che potremmo anche definire bonariamente competenza, ma solo per sorridere! In effetti, si tratta di abilità, raggiunte e maturate attraverso processi assai complessi. Quando poi quelle mani, quei piedi, quegli occhi apprenderanno a suonare compiutamente un pianoforte, questa sì che è una competenza che, come sai, implica il concorso di più conoscenze e più abilità pregresse. Comunque, mi risulta che un certo Wolfgang “a 3 anni batteva i tasti del clavicembalo, a 4 suonava brevi pezzi e a 5 componeva” (copio dal web). Ma sono eccezioni!

Temo, quindi, e fortemente, che la cosiddetta sperimentazione, invece di avviare docenti e alunni verso una pratica seria di insegnamento/apprendimento per competenze, li allontani! Dico e sostengo che questa sperimentazione non s’ha da fare! Non si gioca con l’età evolutiva! Quando poi penso che le competenze dei sedicenni potrebbero e dovrebbero essere certificate per legge (siamo, a parte eccezioni possibili, al limite finale dell’adolescenza) e ciò non avviene, se non come un adempimento cartaceo e formale che nessuno richiede e che a nessuno serve, mi viene veramente da piangere! Ma che scuola è la nostra? Mah!!!

Invece di sanare il sanabile, cioè piantarla con le assurde e inutili certificazioni “primarie” e “medie”, e certificare seriamente sedicenni e diciannovenni, si sono inventati una legge lunga una quaresima… un solo articolo, ma di 212 commi… non ti viene da ridere? O da piangere? Ma che diavolo di Paese siamo? Una legge che darà luogo a un’infinita serie di contenziosi.

Insomma, già prevedo che, invece di andare verso una scuola delle COMPETENZE, andremo certamente a una scuola delle COMPETIZIONI!

 

*** Vedi la risposta di Antonio Valentino in scuolaoggi.org

Animazione e apprendimento

Animazione e apprendimento

di Maurizio Tiriticco

 

Com’è noto, con la rivoluzione avviata da Gutemberg, i libri e, più tardi, i libri di testo per le scuole, divennero le più importante forma di divulgazione della cultura e dell’apprendimento scolastico. E nelle scuole la parola scritta era – e lo è tuttora – sostenuta dall’autorevole rinforzo della parola orale, della lectio ex cathedra. Oggi però, con la seconda rivoluzione avviata dalla Information and Communication Technology, rafforzata dalla ricerca e dall’insegnamento di autori quali Steve Jobs – chi non ricorda quell’accorato discorso augurale ai laureati di Stanford del 12 giugno 2005, e quel finale: Stay Hungry! Stay Foolish! – le informazioni non viaggiano più solo sulla carta, ma anche e soprattutto su questa impalpabile ragnatela mondiale del web. Il che significa che le conoscenze, una volta privilegio di pochi, oggi sono alla portata di tutti. E non fruirne è deleterio per ciascuno di noi. La società della conoscenza non perdona: l’obbligo di istruzione è diventato un diritto/dovere e l’apprendere ci accompagna e ci sostiene per tutta la vita. Se non conosci, sei tagliato fuori dalla vita sociale e dalla stessa attività lavorativa. E la scuola ha oggi una responsabilità ben più grande rispetto anche a un non lontano passato.

Una delle questioni più importanti che riguarda la nostra scuola, anzi il nostro “sistema nazionale di istruzione e formazione”, è che questa non riesce ad essere quell’ascensore sociale – come si suol dire – che dovrebbe garantire lo sviluppo civico e culturale dell’intera popolazione. Com’è noto, tutte le ricerche internazionali – anche il rapporto Education at a Glance, edizione 2015 – collocano sempre gli esiti del nostro sistema scolastico agli ultimi posti. Tale situazione non è data dal caso ma, a mio giudizio, da due concause: a) la prima riguarda l’ordinamento generale – i gradi e gli ordini – che sono quelli di sempre, una sorta di spezzatino verticale e orizzontale che non facilita quel rinnovamento strutturale finalizzato alla certificazione di quelle competenze di cui tanto si parla, ma che costituiscono ancora una sorta di araba fenice; b) la seconda riguarda il metodo di insegnamento, che in larga misura ancora su fonda sulla lezione cattedratica.

Per quanto riguarda la variabile a), la questione è politica [1]; ma, per quanto riguarda la variabile b), la questione riguarda quel concreto “comportamento insegnante”, su cui esistono numerosi studi [2], ma scarsissime applicazioni. In effetti, non solo in tutte le nostre scuole è ancora largamente dominante la lezione frontale – la cattedra, i banchi, i tempi rigidi e a tutti comuni la sostengono e la veicolano – ma è attivo anche un comportamento non verbale non controllato e non consapevole dell’insegnante, che spesso condiziona molto di più di quello verbale. Questa è la questione più capziosa. E si tratta di un condizionamento di cui, invece, occorre prendere atto e procedere per studiarlo ed eliminarne gli effetti negativi [3].

Per tutta questa serie di ragioni, ormai da più parti – e soprattutto anche dalle Indicazioni nazionali per il primo ciclo e per i licei e dalle Linee guida per gli istituti tecnici e professionali – emerge la cosiddetta didattica laboratoriale. E’ opportuno ricordare che, con questa espressione, non è chiamato in causa il laboratorio fisico attrezzato che, com’è noto, offre quegli oggetti e quei mezzi concreti che a volte contano molto più delle parole, ma il concreto agire dell’insegnante, responsabile dell’azione educativa. Di qui discende la felice metafora dell’insegnante “muto”, o meglio dell’insegnante che rinuncia alla spiegazione diretta – non dispiega il suo sapere su un dato oggetto/referente (la funzione referenziale di Jakobson) – ma sollecita gli alunni a ricercare, a fare e a dire; che pone problemi, invece di offrire soluzioni (la funzione conativa di Jakobson); quindi, dell’insegnante che “scende dalla cattedra” e “vi fa salire gli alunni”; dell’insegnante che “non sa”, ma che “stimola” a costruire saperi altrui attraverso la sollecitazione del fare.

Ne discende un insegnante che non spiega le guerre puniche, o il pessimismo leopardiano o l’area del rettangolo; ma un insegnante che stimola, incuriosisce, sfida, aiuta nella ricerca, suggerisce un metodo nella raccolta e nella selezione dei materiali e nella composizione di un nuovo manufatto. Le guerre puniche non sono quelle dei mille manuali di storia o delle mille informazioni trovate sul web, ma quelle scritte da quel gruppo di alunni con cui è stato concordato il compito. E, se dovessimo rifare il pavimento della nostra aula, quante mattonelle servirebbero alla bisogna? Prima viene il “bisogno”, poi si scopre come calcolare l’area del rettangolo: e non il contrario, come da sempre avviene. La didattica laboratoriale pone al centro l’alunno, le cose e il fare: per certi versi ci riconduce all’attivismo di un tempo [4].

Di qui nascono la figura e il ruolo dell’insegnante cosiddetto animatore, che si coniuga con quella dell’insegnante cosiddetto programmatore. Sulla programmazione sappiamo tutto e abbiamo scritto tonnellate di libri [5]; ma sull’animazione abbiamo scritto ben poco [6]. Mi tornano in mente quei Saggi per la mano sinistra di Jerome Bruner, pubblicati per la prima volta a Cambridge nel lontano 1964. Sintetizzo il volume. Il nostro cervello è diviso in due emisferi: con quello sinistro elaboriamo operazioni matematiche e il linguaggio logico (soggetto, predicato e complementi); l’emisfero destro, invece, è quello delle emozioni, dei sentimenti, delle intuizioni, della poesia, dell’arte. Si sottolinea che con il sinistro elaboriamo operazioni a tutti comuni e condivise (due più due fa quattro: Leopardi ha scritto L’Infinito; la prima guerra mondiale è scoppiata nel 1914, ecc: si tratta di dati oggettivi e da tutti condivisi); con il destro elaboriamo giudizi, emozioni, intuizioni, attese assolutamente personali (Dante fino a tutta l’età dei lumi è stato considerato un poeta oscuro; quel film che è piaciuto a te, a me non è piaciuto affatto, ecc.). Il cervello destro agisce sulla mano sinistra e viceversa. Quindi, con i saggi per la mano sinistra Bruner volle sostenere che l’apprendimento non è solo quello logico-matematico, ma anche quello intuitivo ed emotivo. Un tema pieno di errori (emisfero sinistro, mano destra), può essere, comunque, ricco di idee e di personalissime emozioni (emisfero destro, mano sinistra). Sollecitare gli insegnanti a tenere nel debito conto le operazioni della cosiddetta mano sinistra fu, quindi, una felice intuizione di Bruner.

Con la didattica laboratoriale, quindi, non si spiega e non si ascolta, ma si sollecita il fare, l’imparare, quell’imparare della etimologia latina, il raccogliere, il predisporre, l’apprestare, riferito a cose concrete più che a pensieri astratti. L’insegnante, quindi, lavora più con la mano sinistra che con la mano destra. L’alunno diviene protagonista del suo apprendimento attraverso il ricercare, il trovare materiali, raccogliere appunti anche, il predisporre testi e oggetti concreti, risolvere problemi anche con procedure originali e creative. In concreto, potremmo dire che i ruoli routinari di sempre, “spiegazione, compito, interrogazione, voto”, sono stravolti: non si insegna e non si impara, ma si lavora insieme (il metodo cooperativo, la peer education). L’insegnante, quindi, diviene la guida esperta del cammino che chi apprende deve percorrere.

Mi piace concludere con quanto ci suggerisce Dario Nicoli, dell’Università di Brescia, quando individua sette regole per condurre una didattica laboratoriale: 1. Non premettere le lezioni, ma fornire compiti ragionevolmente più alti dei livelli di partenza degli alunni; 2. Finalizzare il lavoro a prodotti reali riferiti a destinatari concreti che li possano apprezzare; 3. Definire un piano di lavoro incalzante che non lasci tempi vuoti; 4. Alternare il lavoro di gruppo al lavoro individuale; 5. Inserirsi per incoraggiare, indirizzare e rispondere a specifiche domande; 6. Rispondere alle richieste di sapere, fornire lezioni puntuali, ordinare e sedimentare il materiale mobilitato per mezzo delle discipline; 7. Valutare tramite prodotti, processi e linguaggi.

Sono indicazioni che stravolgono quanto avviene ogni giorno nelle nostra aule: ma sono indicazioni che occorre perseguire e realizzare, se si vuole che il frequentare la scuola non sia un pedaggio obbligatorio da pagare a uno Stato padrone, ma una felice e produttiva crescita, in cui l’apprendere venga prima dell’insegnare! Solo così la scuola non è un’imposizione, ma una felice occasione di ricerca quotidiana e di scoperta! Per la vita!


 

[1] In altri scritti ho sostenuto che la legge 107/2015 non mette in discussione proprio il nodo essenziale di un riordino dei cicli per perseguire, invece, finalità e obiettivi che rischiano di rompere quei principi di eguaglianza e di equità delle opportunità educative, istruttive e formative sanciti dalla Costituzione repubblicana. In effetti con tale legge si rischia di costruisce un sistema di istruzione “altro”, che condurrà alla concorrenza tra scuole e scuole e alla differenziazione tra scuole “buone” e scuole “cattive”.

[2] Si vedano almeno i classici: il belga Gilbert Leopold De Landsheere scrisse Les comportements non-verbaux de l’enseignant, in collaborazione con A. Delchambre, nel 1979; Graziella Ballanti si è occupata sperimentalmente dei metodi adottati in genere in aula dai nostri insegnanti. Si veda il suo Il comportamento insegnante, Armando, Roma, 1996.

[3] Anche la prossemica e la cronemica – e non solo i riferimenti di cui alla nota 2 – quindi, grosso modo, le distanze interpersonali e i ritmi delle interazioni verbali, ci aiutano a comprendere quanto il “non verbale” sia più producente, in positivo come in negativo, del comportamento verbale, che in genere è sempre sotto il controllo di chi lo agisce. Forse siamo maestri della parola, ma non del “non detto”.

[4] Mi piace suggerire un recente volume di Alain Goussot, dell’Ateneo bolognese: L’educazione nuova per una scuola inclusiva, edizioni del Rosone, Foggia, 2014. Si tratta di una ricerca sulla cosiddetta Scuola Nuova, della fine dell’800, di cui furono rappresentanti Adolphe Ferrière, Edouard Claparède, Roger Cousinet, autori legati al primo attivismo pedagogico. La centralità dell’alunno come protagonista attivo del suo apprendimento sembra tornare di attualità con l’adozione della cosiddetta didattica laboratoriale.

[5] Si rinvia ad autori ormai “classici” come Mario Castoldi, Mario Comoglio, Gaetano Domenici, Roberto Maragliano, Michele Pellerey, Benedetto Vertecchi.

[6] Mi piace ricordare il mio Programmazione come animazione, pubblicato da Tecnodid, Napoli, nel lontano 1986.

Sulla formazione degli insegnanti

Sulla formazione degli insegnanti

di Maurizio Tiriticco

 

E’ noto il modello che Harold Lasswell adottò nel lontano 1948: “Who says What in Which channel to Whom with What effect?”, ovvero “Chi dice cosa attraverso quale canale, a chi e con quale effetto?”. E che costituisce la regola di ogni buon giornalista, ovvero, a mio parere, oggi, di chiunque voglia dire e scrivere qualcosa… nonché – e non è cosa strana – insegnare. Si apriva così quella grande stagione dei mass media che nel 1964 Marshall McLuhan suggellò con quell’Understanding Media: The Extensions of Man, che ha rivoluzionato i modi dello scrivere – e del pensare e del comunicare – in un’epoca che mandava in soffitta i caratteri mobili di Gutemberg. E oggi il Pc e le Tic hanno fatto il resto… e continuano, e con maggiore insistenza, per giunta!

La ricerca scientifica e tecnologica procede sempre più spedita e in misura sempre più geometrica. Gli stessi saperi si arricchiscono sempre più. Nascono discipline sempre nuove, perché si moltiplicano i modi stessi e le forme del reale con cui ci misuriamo giorno dopo giorno. Ebbene, in questo scenario così mobile e sempre cangiante, la nostra scuola o meglio il nostro “Sistema nazionale di istruzione e formazione” – è l’epigrafe della legge 107/2015 – non solo stenta a diventare Sistema, ma rischia anche di non essere più neanche Scuola. Il Pasticciaccio brutto si è trasferito da Via Merulana a Viale Trastevere! E la cosiddetta Buona scuola, così come delineata in 212 commi di un unico articolo 1, sfugge davanti ai nostri occhi come quella cometa che in questi giorni Gaspare, Melchiorre e Baldassarre stanno inseguendo per raggiungere la grotta del Salvatore. E non è un caso che oggi editori su editori stanno facendo a gara per presentare vulgate della legge per renderla accessibile non dico ai più, ma agli stessi uomini e donne che la scuola la fanno giorno dopo giorno… e forse anche agli anonimi che l’hanno scritta.

Il fatto è che la legge non affronta per nulla il necessario riordino di quei gradi e di quegli ordini di scuola che da sempre spezzettano in verticale e in orizzontale percorsi di studio e discipline che, invece, dovrebbero essere ricondotti ad una vision unitaria e a finalità omogenee, pur nella differenziazione di quelle COMPETENZE – le maiuscole sono d’obbligo – di cui tanto si parla, ma che nessuno sa bene che cosa siano e come debbano essere CERTIFICATE. E’ una legge che, invece di andare verso una direzione da sempre attesa e necessaria, va da tutt’altra parte, a impasticciare ulteriormente una macchina organizzativa che invece necessiterebbe di coraggiosi alleggerimenti.

Comunque, a prescindere da ogni valutazione di merito, mi piace ricordare che la FCS, la Formazione Continua in Servizio degli insegnanti, viene formalmente sancita come obbligatoria in due commi della citata legge, il 121 e il 124. In quest’ultimo leggiamo testualmente: “Nell’ambito degli adempimenti connessi alla funzione docente, la formazione in servizio dei docenti di ruolo è obbligatoria, permanente e strutturale. Le attività di formazione sono definite dalle singole istituzioni scolastiche in coerenza con il piano triennale dell’offerta formativa e con i risultati emersi dai piani di miglioramento delle istituzioni scolastiche previsti dal regolamento di cui al dpr 80/2013, sulla base delle priorità nazionali indicate nel Piano nazionale di formazione, adottato ogni tre anni con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, sentite le organizzazioni sindacali rappresentative di categoria”.

Indubbiamente è positivo il fatto che venga sancito l’obbligo di una formazione che, oggi e sempre più domani, deve durare per tutta la vita, e non tanto per legge, quanto per necessità. Come si suol dire, la zappa ha resistito millenni, ma il cellulare cambia giorno dopo giorno. Il problema si pone oggi per qualsiasi operatore, dal dentista al chirurgo, dall’impiegato mezze maniche al meccanico che da tempo ha cessato di essere “vile”, e financo all’insegnante. Anzi, soprattutto all’insegnante, che non ha che fare con oggetti o con carte da riempire – anche se, purtroppo ne deve riempire sempre di più – ma con cervelli sempre più “informatizzati” e con personalità in sviluppo/crescita/apprendimento sempre più complesse. La società oggi non ci “regala” più solo Gianni e Pierini – per dirla con Don Lorenzo – ma una casistica di alunni che portano con sé bisogni sempre più articolati, dai disagi famigliari alle culture e alle lingue sempre più diverse. Forse la stessa ricerca pedagogica oggi non è in grado di fornire strumenti adeguati. Bruner e Morin forse volano troppo alto. Anche il buon Piaget e i suoi 4 stadi sembrano aver fatto il loro tempo; e la polemica con Vygotskij sembra roba da preistoria, se è lecito scherzare con i santi!. In uno scenario così ricco, la stessa differenza tra formazione iniziale e formazione continua sembra superata: ormai la formazione è continua, comunque, da sempre e per sempre. E non è obbligatoria per legge, ma obbligatoria di fatto.

I nodi fondanti della formazione docente, oggi, iniziale o continua che sia, a mio giudizio sono molti, ma… E’ doveroso ricordare in premessa che in qualsiasi interazione umana il campo della comunicazione e i ruoli sociali condizionano fortemente lo scambio delle informazioni. Un contesto famigliare e il ruolo di un padre, come un contesto lavorativo e il ruolo di un capo, come un contesto scolastico e il ruolo di un insegnante sono sempre variabili da considerare. E le stesse “distanze interpersonali”, di cui alla prossemica di Edward Hall, non sono affatto indifferenti. Per non dire poi della cronemica [1]. Fatto sta che una informazione ex cathedra resa alle 9 del mattino non ha lo stesso valore o peso della stessa informazione scambiata in pizzeria alle 9 di sera.

Contesti e ruoli sono, quindi, le prime variabili di cui l’insegnante di una vera Buona scuola deve tener conto. In altri scritti ho sempre accennato ai tradizionali condizionamenti delle tre C, la Cattedra, la Classe e la Campanella. La cattedra rende prigioniera una disciplina; la classe imprigiona le età e crea, di fatto e di diritto, promozioni e bocciature; la campanella veicola tempi eguali per tutti indipendentemente dalle reali necessità di apprendere. Il fatto è che, dopo l’Unità, i governi savoiardi si son dati un gran da fare per rendere obbligatori la scuola e il servizio militare, e hanno costruito caserme e scuole con analoghi criteri. Oggi, a tanti anni di distanza le caserme le abbiamo dismesse, ma le scuole resistono, e come, anche se spesso, sotto il profilo edilizio, cadono a pezzi. E la legge 107, purtroppo, eroga fondi per l’edilizia scolastica, ma lascia inalterati gli ordinamenti di sempre.

In tale contesto sostanzialmente immutato sotto il profilo ordinamentale e organizzativo non sarà facile avviare attività di formazione insegnanti che incidano come si dovrebbe su abitudini inveterate e che solo contesti “altri” e “diversi” metterebbero in seria discussione. Già riuscire a rendere chiare ed evidenti le tre W di Lasswell sarebbe un ottimo avvio. Ma lo spazio è tiranno e l’hardcore del mio pensiero e una concreta proposta operativa, li rinvio, come si suol dire, a una prossima puntata.

 


 

[1] Si veda quel bel volume di Bruno Zucchermaglio, Dalla cronemica all’aptica, la percezione del tempo e dello spazio per una didattica interculturale, Booksprint Edizioni, Salerno, 2012.

La mia svolta pedagogica

La mia svolta pedagogica

di Maurizio Tiriticco

 

Dopo aver girovagato per tutte le scuole del Lazio con incarichi annuali, finalmente, vincitore del mio primo concorso, approdai alla scuola media Ottavia di Roma. Era l’anno scolastico 1963-64, primo della grande riforma di cui alla legge 1859/1962: una legge per cui anch’io mi ero battuto! E tanto! In quegli anni, comunque, erano in molti a non ritenere opportuno abolire l’avviamento professionale. Il ritornello di sempre: non tutti sono portati per lo studio. E poi perché liquidare il latino? Per aprire la scuola ai figli di tutte le classi sociali? E rendere così gli studi più facili? In effetti, non si trattava di rendere gli studi più facili, ma di permettere l’accesso alla scuola e alla cultura a quelle classi sociali che da sempre ne erano state escluse. Ma è proprio vero che la cultura è solo quella dei borghesi e dei piccolo-borghesi? Questi erano gli interrogativi che mi ponevo in quegli anni. E non era un caso che proprio nel 1962 Carlo Salinari pubblicasse un saggio illuminante: “Storia popolare della letteratura italiana”. Insomma, la cultura è tutto ciò che un aggregato sociale esprime come lingua, abitudini, costumi. Il fatto è che poi, nel dipanarsi della storia, i gruppi dominanti hanno imposto la loro cultura a danno di qualsiasi cultura “altra”.

Tornando al fatidico anno scolastico 1963/64, il mio entusiasmo era alle stelle e cominciai fin dal primo giorno di scuola a mettercela tutta: pronto a fare delle lezioni meravigliose destinate a un pubblico infantile che nel giro di un triennio avrebbe preso netta padronanza nel leggere e nello scrivere in forma più che corretta e piena consapevolezza dei diritti e dei doveri di cui alla nostra bella Costituzione repubblicana.

Ma giorno dopo giorno il mio entusiasmo cominciò a scemare: mezza classe mi ascoltava e studiava, ma l’altra mezza si ostinava a guardarmi di sottecchio: nessun’attenzione, niente compiti a casa, spallucce o occhiatacce. Avvertivo che mi sentivano come una sorta di nemico. Che fare? Mi interrogai: come rompere quel muro di gomma? Eppure le mie lezioni erano belle e interessanti: lo sapevo. Negli anni precedenti, come incaricato, non avevo mai avuto problemi di questo tipo. Cos’era che non andava?

Mi feci coraggio. E un bel mattino “presi di petto” gli alunni più ostinati: feci un bel predicozzo, molto aperto e anche un po’ cattivello, e dissi: vivete in una repubblica che vuole che tutti i cittadini siano eguali; basta con i ricchi e con i poveri; basta con quelli che non sanno leggere e scrivere; avete la fortuna di studiare gratis e nel giro di tre anni migliorare la vostra lingua, conoscere nuove cose, aspirare a un lavoro migliore di quello dei vostri genitori… e qui fui interrotto. Per la prima volta dopo tanti giorni l’alunno Bomba, piccolo piccolo, primo banco, che da sempre mi aveva guardato storto e in silenzio, aprì bocca: “Io a scola nun ce vojo veni’. Io vojo lavorà”… e io sorpreso lo invitai a continuare. “Io ciò er forno e lavoro co’ mi’ padre… e mo’ nun ce posso più lavorà e mi padre sta solo”.

Poche parole che mi stupirono e mi segnarono. Un tumulto di pensieri mi assalì. Dopo Bomba parlarono altri. E tutti sostenevano le stesse ragioni. Che venivano a fare a scuola e a perdere tempo con i libri, quando a casa, a bottega, in campagna o non so dove c’era tanto da fare? Ragionamenti che oggi nessuno fa più e fortunatamente, ma che allora avevano una piena giustificazione. Obbligo di istruzione! Appunto! Obbligati a fare una cosa che non avevano e non avrebbero mai scelto. Ovviamente, non si trattava di atteggiamenti diffusi su larga scala, ma, in effetti, una parte della popolazione vedeva nell’obbligo, appunto, un obbligo non ripagato. Ripensai a quei carabinieri presi d’assalto coi forconi quando con le prime leggi dello Stato postunitario venne sancito un obbligo di istruzione elementare biennale. Si rubavano braccia a una campagna già povera e da sempre!

Dopo giorni e giorni in quella prima B mezza classe prese la parola: tutti contro l’obbligo e contro di me, la Legge, lo Stato, che fa perdere tempo sui libri a chi, da sempre, ha invece a che fare con le cose. Mi ricordai quei versi del Giusti a Gino Capponi che i miei alunni certamente non conoscevano: “Gino mio, l’ingegno umano partorì cose stupende, quando l’uomo ebbe tra mano meno libri e più faccende”. La saggezza popolare è sempre grande! E per me fu una doccia scozzese! Mi resi conto di non avere capito nulla. Un conto sono i Princìpi, Sacrosanti, altro conto i Fatti, più che Sacrosanti.

E non cercai di convincere Bomba dell’importanza dello studio, ma di comprendere, invece, che cosa veramente pensasse. “Certamente, gli dissi, il pane è importante…”. “E io lo faccio”, soggiunse Bomba. Ed era sottinteso: “e tu no”! Raccolsi la sfida, confessai la mia ignoranza in materia di panificazione e gli proposi di parlarci del suo lavoro. Bomba accettò. Il giorno dopo si presentò in aula con una cesta in cui c’erano tanti pani di diverso formato: le faccende opposte ai libri. Confesso che rimasi più che sorpreso. Senza molto pensarci su, gli proposi di salire in cattedra e di spiegarci tutto di quei pani. E con molta modestia mi andai a sedere sul suo banco. Bomba, dall’alto di una cattedra che sembrava fosse una vetta conquistata, ci fece una lezione meravigliosa, non so quanto corretta sotto il profilo grammaticale, ma ricchissima sotto il profilo dei contenuti. Capii che fare il fornaio non è affatto una cosa semplice.

Ma capii non solo tutto del pane, ma anche tutto dell’insegnamento. Lo scendere dalla cattedra e ascoltare come un alunno “ignorante”, con tanto di virgolette, potesse insegnarmi e insegnarci qualcosa non fu solo un’intuizione momentanea, ma divenne una pratica quotidiana. Bomba finalmente “si iscrisse” per la prima volta nella prima B! E seguirono gli altri, a turno, giorno dopo giorno, ciascuno a parlare di sé e del suo lavoro. Da cosa nasce cosa. E nei giorni che seguirono le faccende presero il posto dei libri. E la cattedra veniva occupata a turno dai miei alunni ormai felicemente obbligati. Comunque, le materie di studio, quelle della tradizione e dei programmi ministeriali, non vennero affatto abbandonate. Venivano aggredite trasversalmente. Il pane ha una sua storia, è diverso da Paese a Paese; a monte del pane ci sono civiltà diverse, geograficamente collocate. Il pane implica farina, l’agricoltura, l’acqua, i fiumi e gli acquedotti. Il pane si vende: i conti aritmetici. Mi è difficile scrivere in poche righe quel lento capovolgimento della didattica tradizionale. Dai libri ai fatti, alle cose. E Bomba e i più ex resistenti si ritrovarono a redigere appunti, a far di conto e così via. Bomba fotografò i suoi diversi tipi di pane: ne nacquero cartelloni con relative scritte esplicative. Io correggevo e non mettevo voti. E Bomba e i suoi compagni di “classe sociale”, più che di “classe d’età”, addirittura pretendevano che io correggessi! Le materie di studio divennero dei calzini rovesciati. Io non stavo più in cattedra: divenni a poco a poco regista di un nuovo modo di “stare a scuola” e di “fare lezione”. E non sapevo nulla di pedagogia! Per me, roba da maestrine delle elementari!

Però, nella misura in cui legavo sempre più con i miei alunni, dislegavo con i miei colleghi, anzi con le mie colleghe del consiglio di classe. Tiriticco non sa tenere la disciplina! Gli alunni fanno quello che vogliono! Non studiano! In effetti “non studiavano” nel senso classico della parola. Libro di grammatica, niente! Antologia, qualcosina qua e là… e io stesso per certi versi mi sentivo un po’ in colpa. Però i miei alunni scrivevano e parlavano, leggevano poco dei libri di testo, ma leggevano tutto di ciò che loro stessi scrivevano. E pretendevano, tra di loro, delle calligrafie leggibili! E si correggevano anche! Insomma, la classe era diventata una sorta di cantiere! E non sapevo nulla di un certo Freinet. E non mi rendevo conto che in quell’aula si stavano confrontando due metodi di studio.

Capii tutto più tardi. Alla fine di quell’anno scolastico le bocciature fioccarono, non solo nella mia scuola, ma in tutto il Paese! Che cosa stava succedendo? E fioccarono anche l‘anno successivo, e poi ancora. L’innalzamento dell’obbligo di istruzione di almeno otto anni, sancito anche dalla Costituzione, era un fallimento? Ma fallivano gli alunni o falliva la scuola? Gli interrogativi erano tanti, finché nel 1967 apparve un libro, di una strana casa editrice, una Lettera a una professoressa, in cui si leggeva che “a prima vista sembra scritto da un ragazzo solo, invece gli autori sono otto ragazzi della scuola di Barbiana”. Ma nel ’67 io ero già “passato di grado”. Avevo vinto il concorso per le scuole secondarie: un altro mondo! Gli alunni non erano obbligati e professori e professoresse erano tenuti a promuovere o a bocciare, come sempre!

E tornai al mio ruolo di sempre! Ma il mio cuore era sempre là con gli alunni obbligati ad apprendere e gli insegnanti obbligati a fare apprendere. E la lettera di Don Milani fu per me un toccasana. E capii che era la scuola media a fallire, non i suoi alunni. Di lì la mia svolta pedagogica! Di fatto, anche se comunista, la mia formazione era pur sempre crociana, come comunista/crociano – se si può dir così – era stato il mio maestro, Natalino Sapegno. E la pedagogia ai nostri occhi era pur sempre un cascame, un potpourri di discipline. Poi mi capitò tra le mani Educazione e condizionamento sociale di Aldo Visalberghi: aria nuova, aria fresca! I miei dubbi e le mie incertezze vennero illuminati, se si può dir così, e mi avviai decisamente sul terreno della ricerca pedagogica. Il ’68 e il movimento studentesco furono una sorta di viatico e il ritorno all’università fu una scelta che direi obbligatoria. Raffaele Laporta stava lavorando a La difficile scommessa, una lettura critica sugli accadimenti di quegli anni nelle scuole e nelle università.

E dieci anni con Raffaele segnarono una sorta di rinascita, quella che segnò la mia svolta pedagogica.

A proposito di EaG 2015: un ottimismo giustificato?

A proposito di EaG 2015: un ottimismo giustificato?
Luigi vs Walter

di Maurizio Tiriticco

 

Luigi Berlinguer conduce su educationduepuntozero un’attenta disanima dei dati della ricerca “Education at a Glance” 2015 e afferma che l’analisi longitudinale dei dati rivela un trend positivo sull’istruzione in Italia.

Leggiamo tra l’altro: “È vero che, in un’analisi comparativa con i Paesi più avanzati, la nostra nazione non sempre regga il confronto e risulti indietro, talvolta con gravi insufficienze sulle quali è doveroso riflettere per operare. Tuttavia è possibile che uno sguardo frettoloso ai dati Ocse ci mostri una verità parziale. Azzardando una valutazione d’insieme, si può intanto dire che l’Italia di oggi è meglio di quella di venti anni fa, è cresciuta, ha temperato in parte l’iniquità di fondo prodotta da una scuola classista, come la nostra – che tuttavia resta ancora classista, ma un po’ meno. Va subito aggiunto, però, che – salvo per alcuni aspetti – in complesso siamo educativamente indietro rispetto alla media OCSE ed a quella Europea”.

A me sembra che dal rapporto, che riguarda ben 34 Paesi, emergano non poche criticità. In Italia, il tasso di occupazione dei giovani laureati è il più basso. Tra i giovani di 25/34 anni, nel 2014 solo il 62 per cento era occupato, 5 punti percentuali in meno rispetto ai dati del 2010, e 20 punti percentuali in meno rispetto alla media Ocse. Circa il 35 per cento dei giovani tra i 20 e i 24 anni di età non lavora, non studia, non segue corsi di formazione: si tratta della seconda percentuale più alta tra i paesi membri dell’Ocse. I nostri insegnanti, tra tutti i Paesi Ocse, sono i più anziani e ricevono gli stipendi più bassi. A fronte di tale situazione a tutt’oggi solo lo 0,9% del Pil viene investito nell’istruzione terziaria.

In tale contesto Luigi Berlinguer individua, comunque, alcuni fattori di crescita. “In Italia gli iscritti agli ultimi anni della scuola secondaria giovani (di anni dai 15 ai 19) erano ben sotto l’80%: un risultato interessante. Salvo che non regge il confronto con il dato dei giovani di 26 paesi OCSE (su 37) che si collocano fra l’80% ed il 90%, o più. E se si considerano i diplomati della scuola superiore, confrontati con il numero complessivo dei ragazzi italiani sotto i 25 anni, rispetto ad una media OCSE dell’88% abbiamo un dato del nostro paese del 78%”.

Insomma, tra le pieghe del rapporto EaG è possibile individuare elementi che non ci facciano oltre modo disperare. “Sono personalmente convinto – soggiunge Berlinguer – che l’Italia di oggi è meglio di quella di ieri, ma ciò mi porta ad una ulteriore considerazione e cioè che la scuola e l’università, nel loro complesso, nonostante taluni aspetti contraddittori, abbiano rappresentato un fattore di crescita sociale e di consolidamento culturale. Anche qui, ripeto, non si può essere assolutamente né soddisfatti né paghi, non si può abbassare la guardia dello sprone ad un allargamento consistente del fenomeno, ma il quadro oggettivo non può essere sottovalutato, anche per comprendere che cosa la scuola e l’università hanno effettivamente dato al nostro Paese”.

Confesso che non comprendo fino in fondo queste valutazioni di Berlinguer, anche perché è sotto gli occhi di tutti lo sbando attualmente esistente nelle nostre scuole. Le urgenze da affrontare sono tante e vanno affrontate in modo diffuso e con criteri unitari: Purtroppo, le impasticciate sollecitazioni della legge 107 spingeranno le nostre scuole a misurarsi tra loro, l’un contro l’altra armata! Addio a quei principi di eguaglianza e di equità, cardini costituzionali del nostro sistema di istruzione! Perché saranno sostituiti dai principi contrari: concorrenza e competizione! Altro che eguaglianza delle opportunità formative! Avremo la corsa dei DS ad accaparrarsi gli insegnanti cosiddetti “migliori”, ma non per i titoli di studio, bensì per altri mille variabili che solo il mercato libero è solito offrire. Non dico altro e non voglio ripetere cose già dette nei miei scritti precedenti. Siamo di fronte a una legge che ignora volutamente il problema numero uno del nostro sistema di istruzione: il riordino dei cicli e degli ordini di studio!

Eppure lo stesso Berlinguer alla fine del secolo corso aveva visto giusto, quando non solo innalzò l’obbligo di istruzione, ma volle riordinare l’intero sistema, anche per consentire ai nostri giovani di uscirne a 18 anni di età. E afferma anche nel testo citato: “Sono personalmente convinto che, da questo punto di vista, l’Italia di oggi è meglio di quella di ieri; ma ciò mi porta ad una ulteriore considerazione e cioè che la scuola e l’università, nel loro complesso, nonostante taluni aspetti contraddittori, abbiano rappresentato un fattore di crescita sociale e di consolidamento culturale”. Certamente “hanno rappresentato un fattore di crescita”, ma quando? Lo sbando esistente nel nostro sistema di istruzione secondario e terziario è sotto gli occhi di tutti! E’ dall’inizio del nuovo secolo che, in forza di scellerati ministri, la nostra scuola è in declino.

Ed è qui che voglio opporre all’ottimismo di Berlinguer il pessimismo accorato di Walter Tocci. Questa è la sua recentissima pubblicazione: “La scuola, le api e le formiche, come salvare l’educazione dalle ossessioni normative”. E questa è la fascetta della copertina: “La Buona scuola è una riforma mancata. E’ questa la critica più benevola, e insieme la più severa”. E in quarta di copertina: “Ecco una sorta di manuale per i riformatori dell’istituzione scolastica: formicai accoglienti per le domande dei giovani, per i migranti, per gli adulti che tornano a studiare. E favi sapienti, alimentati dalla curiosità per il nuovo mondo e dalla creatività didattica. Sono questi i mondi vitali che salvano l’educazione dalle ossessioni normative”.

E’ un libro che si può leggere tutto d’un fiato, come si suol dire, ma che contiene tante pillole di saggezza che non vanno affatto perdute. Mi limito ad alcune citazioni.

“Poco meno di un terzo della popolazione attiva possiede le competenze necessarie per interagire consapevolmente nella società del XXI secolo. In gran parte gli italiani faticano a gestire le attività di lettura e di calcolo che si accompagnano a un pieno esercizio della cittadinanza. È una tendenza al neoanalfabetismo che si riscontra in molti paesi civili ma che solo da noi riguarda il 70% dei cittadini dai 16 ai 65 anni. Al risultato contribuiscono per la lettura tre componenti: 6% di analfabeti primari, molto di più delle autodichiarazioni al censimento; 22% di analfabeti di ritorno che perdono nel corso della vita le competenze acquisite sui banchi di scuola; 42% di analfabeti funzionali che pur sapendo decifrare un testo non riescono a padroneggiarne il significato per le funzioni necessarie; in altri termini, questi soggetti si trovano costantemente in una condizione di inadeguatezza che per un momento può essere quella anche della persona istruita quando si impappina di fronte a una pratica insolita, in un’occasione di dipendenza psicologica oppure alle prese con una nuova tecnologia” (p. 65).

“Il figlio di genitori che non hanno studiato, che vive nelle periferie sociali, che sceglie l’istruzione professionale cammina per un sentiero incerto e rischioso. Non era così nell’Italia povera del dopoguerra, anzi la nostra generazione è arrivata alla laurea spesso partendo da genitori quasi analfabeti. È intollerabile che invece oggi si riduca la mobilità sociale, in un paese comunque più ricco di allora. Significa che si è spezzato qualcosa nella dinamica di emancipazione delle classi subalterne e che l’istruzione è rimasta impigliata in questa frattura sociale” (p. 71).

“Se non è una crisi dell’educazione ma una crisi nell’educazione, i problemi e le soluzioni devono ampliare il campo di analisi e di azione. Certamente si richiede un impegno didattico più forte e inclusivo, ma non si può dimenticare che dietro c’è la montagna del disagio del 70% della popolazione. In molti casi per migliorare i risultati dei figli bisogna riportare sui banchi anche i genitori che non hanno studiato o che tendono a perdere le capacità acquisite. In un paese siffatto l’educazione permanente dovrebbe essere al primo posto dell’agenda, non solo come formazione professionale, né solo come supporto alle attività del tempo libero, ma come politica che si prende cura della cittadinanza” (p. 76).

“Le imprese realizzano un investimento in ricerca più basso di quello dello Stato, unico caso tra i paesi occidentali; la bassa domanda di tecnologie ICT da parte delle aziende rivela una scarsa innovazione dei processi produttivi in vasti settori della struttura economica” (p. 91).

“Se in Germania il governo avesse espresso l’intenzione di tagliare otto miliardi di euro (l’autore allude ai tagli del Ministro Gelmini), non avrebbero protestato solo gli insegnanti ma l’intero establishment economico,

ben consapevole del valore del sistema formativo per la competitività. Al contrario, in Italia la classe dirigente ha sollecitato i tagli perché non impensierivano un’economia a bassa domanda di qualità della forza lavoro” (p. 92).

“Nel dopoguerra un paese affamato, distrutto e in gran parte analfabeta riuscì in poco tempo a raggiungere i vertici del sapere moderno: la plastica di Natta; il grande calcolatore Olivetti a transistor sviluppato prima degli americani; il primo satellite spaziale europeo di Broglio; il sincrotrone di Amaldi; il CNEN di Ippolito e l’ENI di Mattei; l’istituto superiore di sanità di Marotta, crocevia di ben tre premi Nobel; l’innovazione tecnologica dell’IRI; il design industriale; cinema, teatro e letteratura di livello internazionale. Che a tutto ciò si sia accompagnata nel 1962 anche la più avanzata riforma scolastica, dimostra che le politiche dell’educazione sono i segnavia del progresso di un paese” (p. 94).

“C’è forse da riscoprire un altro incipit della modernità, meno fortunato ma gravido di promesse per l’avvenire, quello di Comenio, di una educazione integrale che rifugge ogni divisione: «Vogliamo proporre, dunque, tre cose inconsuete […] e cioè che vengano istruiti all’universale cultura 1) tutti gli uomini; 2) intorno a tutte le cose; 3) affinché divengano colti totalmente. Tutti, cioè tutte le nazioni, le classi sociali, le famiglie, le persone, nessuno escluso, in nessun luogo, perché tutti sono uomini»” (p. 118).

“La riforma dei cicli è l’assenza più clamorosa della Buona scuola. Qui si vede che la nuova generazione non si è liberata degli incubi dei predecessori. Che hanno esagerato per eccesso e per difetto. Per tanto tempo l’argomento è stato sopravvalutato, fino a considerarlo la panacea di tutti i mali, poi è diventato un tabù. Quella proposta da Berlinguer era una soluzione di alto livello, forse l’ambizione migliore del ventennio. Non meritava l’ostilità della sinistra che pure ne aveva condiviso l’intenzione né la furia distruttiva della destra che la cancellò senza alcun rispetto per la continuità istituzionale” (p. 120).

“La famiglia si è frammentata in nuclei sempre più piccoli, spesso con genitori separati e tendenzialmente più anziani. È saltata la funzione educativa della bottega familiare che secondo Tullio De mauro fino al miracolo economico ha sopperito alle carenze della scolarizzazione. La «piccola» famiglia, invece, scarica le proprie tensioni sulla scuola in forme divaricanti: da un lato la trascuratezza spesso associata a povertà minorile, e dall’altra un assillo protettivo che interferisce nella didattica e a volte condiziona la formazione delle classi secondo criteri selettivi. L’educazione integrale è l’unica via per allentare la tensione crescente tra istituzione scolastica e famiglia. La scuola aperta distende le relazioni tra insegnanti, ragazzi e genitori rielaborando nella dimensione sociale la funzione che fu della bottega familiare” (p.129).

“Non è stata una scelta felice il messaggio della didattica del potenziamento (di cui alla legge 107); piuttosto è tempo di una didattica mite che si ritira dalla volontà di conoscere tutto, per dedicarsi ai percorsi degli apprendimenti e ai nodi fondanti dei saperi. Una didattica mite che si ritira dalla volontà di conoscere tutto, per dedicarsi ai percorsi degli apprendimenti e ai nodi fondanti dei saperi” (p. 133).

“La lettura è sovrastata dalla visione, passando più frequentemente dalla logica sequenziale a quella simultanea. Ritorna il primato della percezione iconica dei significati, come era prima dell’avvento della scrittura. Il testo perde altresì quel carattere di stabilità che lo aveva posto a fondamento della legge e della sovranità. La scrittura digitale diventa un’infinita interpolazione, un copia e incolla, una chiosa che apre il testo ad ogni contaminazione, come avveniva nelle compilazioni medievali. Il futuro è spesso alle nostre spalle. Queste e tante altre novità contribuiscono a creare un fossato tra il maestro e l’allievo: «lento contro veloce, complicato contro semplificato, articolato contro elementare, noioso contro divertente, profondo contro brillante» (da Raffaele Simone, Presi nella rete, la mente ai tempi del web, Garzanti Milano, 2012, p 115). La scuola è lacerata dalla divaricazione tra l’endopaideia costrittiva e gerarchica dell’istituzione e l’esopaideia vitale e suadente del mondo giovanile” (p. 135).

Si tratta di riflessioni importanti e significative! Che colgono, a mio vedere, alcuni dei nodi chiave della problematica dell’Educazione, dell’Istruzione e della Formazione (sì, con tanto di maiuscole!) oggi nel nostro Paese. Che denunciano situazioni sulle quali occorre intervenire prima che sia troppo tardi. Dove sono i segni di ripresa che Luigi Berlinguer vuole forzatamente vedere passim, tra un dato e l’altro di un rapporto internazionale che certamente non è affatto benevolo verso la nostra scuola? Segnali positivi diffusi, a mio vedere non esistono, anche se so di iniziative di grande interesse (il Pacioli di Crema, il Fermi di Mantova, il Volta di Perugia, il Savoia Benincasa di Ancona, il Marco Polo di Bari, il Majorana di Brindisi) che Berlinguer ben conosce. E non vorrei che una legge improvvida si abbattesse come un uragano a distruggere formicai accoglienti e favi sapienti di cui, invece, dobbiamo andar fieri.

Festività, croci e crocifissi

Festività, croci e crocifissi

di Maurizio Tiriticco

 

Sono polemiche sterili, a mio avviso, quelle di questi giorni: festeggiare o no il Natale nelle nostre scuole? Mah! Se si va un po’ indietro nel tempo, rileviamo che la nostra scuola pubblica, statale e comunale, nacque più di cento anni fa con l’avvio dell’Unità nazionale e all’insegna, appunto, di un’assoluta laicità. Erano gli anni in cui i Savoia requisivano conventi e collegi cattolici per farne ginnasi e licei che nel tempo divennero anche prestigiosi istituti statali di studio. E si avviava anche quella scuola obbligatoria pubblica con la quale si apriva una decisa concorrenza con quelle parrocchie che da sempre, insieme al Vangelo, di fatto insegnavano anche i primi rudimenti di lettura. Come del resto avviene oggi nelle scuole coraniche, dove la lettura del Corano diviene anche lettura di altri testi. E, quando si dice che gli atei più agguerriti sono usciti dalle scuole cattoliche, si dice in effetti una banalità. Quali altre scuole esistevano nei nostri numerosi staterelli nei secoli precedenti all’Unità? E neanche l’età dei Lumi aveva portato buoni consigli ai nostri altrettanto numerosi governanti. Qualche eccezione ci fu, ma non fu la regola.

Ed è anche noto quanto si preoccupassero i Papi di una lenta ma progressiva estensione dell’obbligo di istruzione. Come avremmo potuto costruire un’Italia in grado di reggere la concorrenza con una Francia o una Germania o una Gran Bretagna, da decenni Paesi industriali? E colonialisti per giunta! E’ nota la lettera di Pio IX del 3 gennaio 1870 a Vittorio Emanuele II! Maestà, La prego di fare tutto ciò che è in suo potere per “allontanare un altro flagello, e cioè una legge progettata, per quanto si dice, relativa alla istruzione obbligatoria. Questa legge parmi ordinata ad abbattere totalmente le scuole cattoliche, soprattutto i Seminari. Oh quanto è fiera la guerra che si fa alla religione di Gesù Cristo!”

Il fatto è che la nostra scuola statale non nacque contro le scuole cattoliche, ma all’insegna della neutralità in materia religiosa. In seguito le cose cominciarono a cambiare, quando il regime fascista pensò di rafforzare il suo potere ingraziandosi proprio quel mondo ecclesiastico che i Savoia avevano sempre “snobbato”. E nel Trattato firmato l’11 febbraio 1929 non solo leggiamo che “la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato” (art. 1), ma anche che “l’Italia considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica” (art. 36). Le cose non sono cambiate di molto né con la caduta del fascismo né con il varo della Costituzione repubblicana (si veda l’articolo 7) né con il “nuovo” Concordato sottoscritto da Bettino Craxi e il cardinale Casaroli il 18 febbraio del 1984. In effetti, presepi e canti natalizi nelle nostre scuole sono cose abbastanza recenti. Con il fascismo non si allestivano presepi nelle scuole, tanto meno alberi di Natale, roba nordica… nulla a che vedere con il nostro presepe francescano di Greccio. Si festeggiavano le ricorrenze laiche, ovviamente fasciste: il 23 marzo, nascita dei fasci di combattimento, il 28 ottobre, la Marcia su Roma, e così via. E anche il genetliaco del Re!

Insomma, con il passar del tempo, abbiamo lasciato che a poco a poco il Natale entrasse di peso anche nelle nostre scuole pubbliche. Del resto, se lo Stato chiude le sue scuole per una ventina di giorni e più perché la maggioranza dei suoi iscritti possa festeggiare al meglio le sue convinzioni religiose, perché stupirci se anche nell’orario normale delle lezioni, da qualche anno a questa parte, si allestiscono presepi, spettacoli e festeggiamenti natalizi? E ora di che cosa ci lamentiamo? Abbiamo voluto aprire le nostre scuole pubbliche – non religiose di norma – ad avvenimenti religiosi di un certo tipo; poi abbiamo aperto le nostre scuole anche ad alunni di altre fedi. E ora dobbiamo pagare il conto. Festeggiare tutti? O non festeggiare nessuno? Che dilemma! Che fare? Semplicemente ci siamo infilati in un vicolo cieco dal quale non sappiamo come uscire. Il che è molto triste. Anche e soprattutto perché il valore, l’importanza e il peso delle nostre scuole pubbliche, laiche per nascita, ce li siamo perduti, con le nostre stesse mani. Non vedo via di uscita! Se ne uscirà, apparentemente, solo dopo il 6 gennaio del 2016… per ricominciare il 20 dicembre dello stesso anno… se non a Pasqua!

E a tutto questo bailamme si lega anche la presenza o meno del crocifisso nelle nostre aule. A miei tempi – o tempora o mores – c’era poco da discutere! Nelle tante aule da me frequentate sulla parete dietro la cattedra figuravano il Crocifisso al centro e ai due lati la foto di Vittorio Emanuele III, Re d’Italia e d’Albania e Imperatore d’Etiopia, e di Benito Mussolini, Duce del Fascismo e Capo del Governo! E tutto con tanto di maiuscole! La statuetta di un uomo inchiodato su di una croce, in effetti, non ci stupiva più di tanto: ciascuno di noi la conosceva bene a l’aveva vista fin dalla nascita. Però mi sono sempre chiesto quale impressione ne potesse avere un bambino di un’altra cultura esposto per la prima volta a un’immagine del genere. E capivo e capisco perché per certe religioni la rappresentazione grafica di un dio, anzi di Dio con tanto di maiuscola, bella o brutta che sia, con o senza la barba, è semplicemente impossibile.

Occorre anche dire che la croce è cosa molto antica. E la si ritrova in quasi tutte le rappresentazioni religiose precedenti a quelle cristiane. E’ un simbolo di una grande efficacia. Rappresenta la creazione (ovviamente, ammesso che vi sia stato un atto creativo) e lo sviluppo dell’intero universo. La retta verticale è l’eternità di un tempo che si materializza all’incrocio con una retta perpendicolare orizzontale, che è l’eternità dello spazio e degli oggetti materiali che lo sostanziano. Il punto di incontro tra le due rette, quella immateriale del tempo e quella materiale dell’infinito mondo degli oggetti, costituisce la fonte di una creazione che non si sa quando ha avuto inizio né si sa se avrà una fine. In effetti, l’atto creativo è sempre… in atto! E la sua rappresentazione è efficace. Se poi la “cosa” graficamente rappresentata con una croce la vogliamo risolvere in una formula, possiamo felicemente ricorrere, mutatis mutandis, ma solo fino a un certo punto, a quell’E = mc2, che il genio di Einstein ci ha voluto regalare. Tempo, spazio, luce, massa, energia, velocità: sono i modi nominali e numerici con cui tentiamo di accedere ai segreti dell’universo. Insomma, le intuizioni religiose che affondano nella notte dei tempi vengono a mano a mano disvelate dalla nostra umana capacità di pensare, cercare, intuire, scoprire. E’ così? Non so!

La croce è anche un simbolo antichissimo e universale. E ci sono tanti tipi di croce, C’è la croce uncinata, o meglio la croce rotante, cioè il tentativo di simboleggiare un atto creativo che non ha mai fine. La croce rotante normalmente gira in senso destrorso – orario, diremmo oggi – e le fiamme sulle quattro sommità vanno all’incontrario, da destra a sinistra. Ma c’è anche la croce che gira in senso antiorario: è quella della magia nera, quella adottata da Hitler e dalla ideologia nazista. Fu una scelta? O una casualità? Stando alle credenze naziste, opterei per una scelta: si trattava di rovesciare un mondo, quello governato dalle religioni positive e, tra queste, dalle religioni cristiane (cattolici, protestanti, anglicani, ortodossi, copti e così via), per crearne uno del tutto nuovo, governato da un’unica razza, quella ariana che aveva la sua tradizione religiosa ben più antica di quella del cristianesimo e dei suoi derivati.

Le varianti della croce sono moltissime. La più nota presso di noi è la croce latina, con il braccio verticale più lungo di quello orizzontale. Fu adottata in quanto la tradizione vuole che Cristo fosse stato crocifisso su quel tipo di croce. Secondo altri, sarebbe stato crocifisso sulla croce cosiddetta di sant’Andrea, a forma di X, con i bracci della stessa lunghezza, in quanto – come sembra – in quel periodo in Palestina i condannati si crocifiggevano in quel modo. C’è anche la croce greca, con i bracci eguali, adottata dai cavalieri templari.

Tornando a noi, è molto difficile che una scuola oggi, in un mondo che si fa sempre più plurale quanto a culture e a credi religiosi, possa e debba rispondere ai credi di tutti i suoi alunni. Ed è anche improduttivo proporre o imporre, come cancellare o abolire, ricorrenze di sorta. Se la scuola tornasse al suo compito primigenio di insegnare a leggere, scrivere e far di conto, sarebbe la soluzione migliore. Ma non sarà una facile impresa! Infatti, ormai da qualche decennio ci siamo avviati per il vicolo cieco dei festeggiamenti religiosi a senso unico. Tornare alle origini della nostra scuola veramente laica, quella di Casati, di Coppino, e anche di un Vittorio Emanuele II, galantuomo “dalla cintola in su”, scomunicato da Pio IX dopo la Breccia e notoriamente mangiapreti, forse sarebbe la cosa migliore. Si gioca con i fanti e i santi è meglio lasciarli perdere.

C’era una volta l’Italia

C’era una volta l’Italia

di Maurizio Tiriticco

 

In effetti, l’Italia ha avuto una breve esistenza. Vagheggiata da sempre, da Dante a Machiavelli e ai profeti del Romanticismo, costruita dal concorso di più forze politiche e militari, costituita come Regno nel 1861, oggi, dopo più di un secolo e mezzo, sembra che torni ad essere quella espressione geografica che per un certo Metternich è sempre stata.

Le difficoltà di comunicazione tra un lombardo e un siciliano nel 1861 erano enormi. Due mondi, due storie, due culture, due lingue, anche se negli stessi anni un certo Manzoni, sciacquando i panni in Arno, definiva il lessico e la grammatica di una lingua che ci avrebbe accomunato dalle Alpi al Lilibeo. Quante lotte e quanto sangue! Dalle Guerre di indipendenza del Risorgimento alla Liberazione di Trento e Trieste e all’annessione (sic!) del Südtirol e di Rijeka. E poi la Libia e l’Etiopia, l’imperialismo straccione, comunque, per non essere da meno di altri Stati europei imperialisti a tutto tondo da tempi più lontani. Insomma, ce l’abbiamo messa tutta – soprattutto con il fascismo – per ricostruire gli antichi splendori, addirittura di una Roma imperiale: la massima espansione ai tempi di Traiano!

E poi con la Resistenza finalmente ci siamo affrancati da un passato equivoco, illusorio e guerrafondaio e, sulla scorta del pensiero dei nostri Mazzini, Cattaneo e Pisacane, abbiamo contribuito – con il manifesto di Ventotene, con l’europeismo di un De Gasperi, di un Silone, di uno Jemolo – alla costruzione di quel primo nucleo di Europa dei sei Paesi della CEE, una semplice comunità economica, ma avviata – pensavamo – a destini ben più alti. Era il lontano 1957 e proprio in Roma, caput mundi, venne firmato il Trattato che metteva insieme, dopo dodici anni dalla fine della guerra, vincitori e vinti! Allora erano solo sei Paesi! E gli interrogativi per il futuro erano tanti.

Oggi i Paesi membri sono ventotto, dall’Atlantico al Mar Baltico, e gli interrogativi non sono affatto da meno. Anche e soprattutto perché, dopo avere firmato in Campidoglio a Roma nel 2004 una Costituzione, solo tre anni dopo, a Lisbona abbiamo dovuto ripiegare su un semplice Trattato. Una Europa nuova che cresce per cinquant’anni e che, dal 2007 in poi rischia, invece di perdere la sua stessa identità! E’ forse un colosso d’argilla? Manca una politica estera. Le politiche economiche sono restrittive più che espansive; alla moneta comune non corrisponde un vero mercato comune. Anzi, aumentano i vincoli e diminuiscono le opportunità. E soprattutto l’Unione non è in grado di dare risposte ai sommovimenti di popolazione che ormai caratterizzeranno, e in forme sempre più massicce, l’intero Terzo millennio. Per non dire poi di quella guerra senza confini che ci hanno dichiarato e mosso gli uomini dell’Isis.

Migrazioni epocali si faranno sempre più massicce e non saranno né leggi né filo spinato a fermarle. E confrontarsi con chi si suicida per uccidere è ancora più difficile. E’ l’assetto stesso di Popoli, Nazioni, Patrie che con tante fatiche e centinaia di anni abbiamo costruito qui in Europa che si sta sgretolando. E’ finita l’epoca in cui un Mazzini poteva affermare: “La Patria è una comunione di liberi e d’eguali affratellati in concordia di lavori verso un unico fine… La Patria non è un aggregato, è una associazione”. I sommovimenti di oggi e di domani – dall’esterno e al nostro interno – liquidano giorno dopo giorno fatti e concetti a cui abbiamo creduto e su cui abbiamo costruito. C’erano una volta le Nazioni, e qui in Europa soprattutto, da costruire o già costruite. Oggi sono solo piccoli castelli di sabbia che onde impetuose stanno dissolvendo giorno dopo giorno e con forza sempre maggiore.

Resistere od opporsi alle ondate migratorie di oggi e di domani è impossibile, non serve e non ha senso. Occorre prenderne atto e ricercare assetti sociali diversi da quelli che abbiamo costruito. Ed è qui la difficile scommessa! La storia è un continuo divenire di eventi e nessuno può mai considerarsi definitivo. L’Europa delle Patrie è al collasso e l’Unione dei ventotto Stati membri non può unire Patrie che si stanno dissolvendo. Il fenomeno è epocale e non si conclude né in tempi brevi né con soluzioni che si suppongono miracoliste. Purtroppo la storia non la capisce mai che la fa, ma solo chi la studia dopo anni. E almeno tentare di studiare i fenomeni che oggi ci attanagliano è la prima cosa da fare. Se vogliamo ricercare e adottare le opportune possibili strategie.

C’erano una volta gli Stati nazione. C’era una volta l’Italia.

La legge 107: ovvero dalla scuola dell’eguaglianza alla scuola della concorrenza

La legge 107: ovvero dalla scuola dell’eguaglianza alla scuola della concorrenza *

di Maurizio Tiriticco

 

Sono un cittadino della Repubblica impegnato nel sociale e nel professionale, ma sono anche, in qualità di dirigente tecnico emerito dell’Istruzione, un uomo delle istituzioni.

Pertanto, come cittadino, tento di adoperarmi perché le leggi siano sempre in grado di affrontare e risolvere i problemi che emergono nei diversi settori pubblici e perché vengano poi applicate nel migliore dei modi. Di qui, come cittadino, la mia posizione contraria a quanto sancito dalla legge 107; ma, come uomo delle istituzioni con precise e definite competenze professionali, una volta che la legge è stata approvata, sono sempre disponibile affinché sia realizzata nel migliore dei modi possibili.

Nella mia lunga vita professionale ho avuto la fortuna di imbattermi in leggi per cui mi sono adoperato e che ho sempre condiviso, dalla riforma della scuola media del 1962 all’innalzamento dell’obbligo di istruzione del 2006. Si è trattato di un mezzo secolo di grandi trasformazioni, nel campo sociale, in quello economico e anche in quello dell’istruzione. La legge successiva tendeva sempre a migliorare quella precedente, e il nostro sistema di istruzione ne ha fruito positivamente e i nostri giovani, soprattutto, anche. E non è un caso che l’analfabetismo strumentale è stato sconfitto da decenni, anche se quello funzionale è ancora persistente, come le recenti ricerche internazionali dell’Ocse ci confermano.

Con l’inizio del nuovo secolo si è aperta una stagione convulsa per la nostra scuola. Si sono avvicendati governi di diverso colore e leggi a volte in contraddizione una con l’altra che non pochi problemi hanno prodotto nella scuola e nei suoi insegnanti più che risolverli.

E tutto ciò, nonostante un insegnamento che ci viene da lontano e che voglio riprendere. John Dewey in Democrazia e educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1949, a p. 111, scrive quanto segue: “Una società distinta in classi deve prestare attenzioni speciali soltanto all’educazione dei suoi elementi dirigenti. Una società mobile, invece, ricca di canali distributori dei cambiamenti dovunque essi si verifichino, deve provvedere a che i suoi membri siano educati all’iniziativa personale e all’adattabilità. Altrimenti essi sarebbero sopraffatti dai cambiamenti nei quali si trovassero coinvolti e di cui non capissero il significato e la connessione. Ne conseguirebbe una confusione nella quale un piccolo numero di persone si impadronirebbe dei risultati delle attività altrui cieche e dirette dall’esterno”.

Ed è ciò che è avvenuto con il varo della legge 107. Dirigenti scolastici e insegnanti non solo non sono stati coinvolti nel processo di un cambiamento che vuole avere un carattere epocale, ma addirittura ne sono stati esclusi e sopraffatti a cose avvenute. Il che è testimoniato dalle iniziative che hanno coinvolto in tutte le città d’Italia decine di migliaia di insegnanti e di dirigenti.

E anche uno studioso del nostro secolo, Tullio De Mauro, su un recente numero della rivista “Internazionale” è fortemente critico nei confronti della legge 107 e, tra l’altro, denuncia tre silenzi della legge che fanno male alla scuola: 1) il mancato riconoscimento per ciò che la nostra scuola pubblica ha fatto dalla Liberazione e per tutta la seconda metà del secolo scorso; 2) i vincoli che la Costituzione ha posto alla scuola pubblica, che non è un pezzo qualunque dello Stato, ma un organo costituzionale a cui sono affidati precisi doveri, compiti e obiettivi; 3) la progressiva dealfabetizzazione della nostra popolazione adulta, denunciata da tutte le ricerche internazionali e non, di cui la scuola, e soprattutto quella media superiore, ha una precisa responsabilità.

Che la nostra scuola necessiti di un riordino da almeno un decennio, se non oltre, è fuor di dubbio. Ciò che avviene giorno dopo giorno nel mondo dei saperi, delle competenze e del lavoro è sotto gli occhi di tutti. E non c’è sistema scolastico di un Paese ad alto sviluppo che non si adegui, giorno dopo giorno, a queste necessità. E noi italiani facciamo ormai parte di un’Unione europea che si compone di ben 28 Paesi: ciascuno ha un suo sistema scolastico e ciascun si adopera per renderlo sempre migliore e all’altezza delle esigenze sempre nuove che si manifestano nel mondo della cultura e in quello del lavoro. L’Unione europea non chiede di adottare un sistema scolastico unico per tutti i Paesi membri: sarebbe impossibile e folle. Ma ci ha dato indicazioni precise circa le finalità che ogni scuola deve perseguire. Con una Raccomandazione del 2006 ci ha indicato le competenze di cittadinanza attiva che garantiscono a ciascun cittadino dell’Unione l’accesso a quell’apprendimento che ormai chiamiamo permanente: la società cambia rapidamente e siamo tutti tenuti ad apprendere sempre, ogni giorno. In seguito, con una Raccomandazione del 2008, l’Unione ci ha indicato otto livelli di competenze, dai minimi ai massimi, ai quali ogni sistema scolastico europeo deve attenersi per organizzare sempre al meglio il suo sistema di istruzione generalista e di formazione professionale.

In ordine a queste indicazioni e finalità, ormai transnazionali, la legge 107 dimostra tutta la sua debolezza. E ne indico le ragioni.

Ciò di cui il nostro Sistema nazionale di istruzione necessita è un urgente riordino dei cicli. Esiste tuttora una scuola per l’infanzia non obbligatoria, quando invece l’obbligatorietà almeno del terzo anno (5-6 anni di età), anche in considerazione che una grande maggioranza degli iscritti alla prima classe primaria sono da tempo anticipatari, permetterebbe l’avvio – ovviamente da considerare con tutte le cautele possibili – di quegli insegnamenti previsti dalle Indicazioni nazionali del primo ciclo di istruzione. Va anche considerata la frammentazione in tre gradi del percorso obbligatorio decennale, che viene da lontano e che di fatto non permette che le competenze terminali degli alunni vengano concretamente certificate alla fine del biennio di un’istruzione secondaria, ulteriormente suddiviso e spezzettato nei tre ordini di sempre, sanciti fin dalla riforma Gentile del 1923. In nessun Paese europeo oggi gli indirizzi liceali, tecnici e professionali, sono così connotati da sancire quelle differenze di classe che ancora connotano, invece, i nostri percorsi. Com’è noto, in Italia si iscrivono ai licei i figli dei “dottori”, ai tecnici gli alunni considerati non portati per studi impegnativi, e ai professionali i cosiddetti “sfigati”. Abbiamo così ancora, in pieno Terzo millennio, un’istruzione secondaria che potremmo definire, con un’espressione un po’novecentesca, di classe.

Per quanto riguarda, poi, la terminalità degli studi secondari, siamo tra gli ultimi Paesi che licenzia i suoi alunni a 19 anni di età, per di più maggiorenni. Un riordino dell’intero sistema di istruzione, cha parta dal basso verso l’alto, dovrebbe prevedere l’uscita dal sistema secondario a 18 anni età. Per non dire, poi, che ancora non siamo stati capaci – nonostante la legge di riforma degli esami di Stato sia del lontano 1997 e lo preveda – di certificare quelle competenze di uscita assolutamente necessarie perché il titolo di studio abbia un vero valore reale, oltre a quello legale che, com’è noto, non ne esaurisce lo spessore professionalizzante. Vorrei sperare che il decreto legislativo di competenza del Miur, relativo all’“adeguamento della normativa in materia di valutazione e certificazione delle competenze degli studenti e degli esami di Stato”, previsto dalla legge 107 (articolo 1, comma 181), vada in porto al più presto possibile.

Ma la cosa più preoccupante della legge 107 è, a mio avviso, che nella sua progressiva attuazione, nei prossimi anni si vengano a rompere quei principi dell’eguaglianza e dell’equità che invece, a norma costituzionale – considerando anche la riscrittura del Titolo V della Costituzione – devono caratterizzare l’intero sistema di istruzione. L’articolo 2 della Costituzione afferma tra l’altro che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. E la prima formazione sociale che accoglie e forma i cittadini, tutti e ciascuno, è la scuola! Nell’articolo 3, infatti, leggiamo che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Si tratta di impegni che abbiamo assunto nei confronti di tutti i cittadini. E non è un caso che da quel lontano 1948 ci siamo adoperati in ogni modo perché la scuola garantisse a tutti, nessuno escluso, di raggiungere i gradi più alti dell’istruzione. Abbiamo costruito, quindi, una scuola che offrisse a tutti non solo le stesse opportunità, ma abbiamo anche lanciato la sfida di accogliere nelle nostre aule anche gli alunni diversamente abili (legge 517/1977).

Oggi, a mio avviso, con la legge 107 si compie una scelta opposta. Si innescano meccanismi tali per cui avremo, nel prosieguo del tempo, scuole in competizione tra loro per offrire insegnamenti e insegnanti diversi e concorrenziali. Si innestano così atteggiamenti e comportamenti competitivi sia nei dirigenti scolastici che negli stessi insegnanti. I primi saranno tenuti a scegliere dal mercato di elenchi territoriali gli insegnanti che saranno considerati i “migliori”. E gli insegnanti non scelti saranno assegnati di ufficio alle scuole in cui si verificheranno dei “buchi”. Così nel medesimo istituto avremo l’insegnante “bravo” in quanto scelto e quello “tollerato”, in quanto assegnato d’ufficio. Per non dire poi che, dopo un triennio, l’insegnante scelto potrebbe essere sostituito da un altro ritenuto “migliore” e/o più adatto alle finalità e agli obiettivi proposti da un piano triennale riveduto, corretto e aggiornato. Si avrà quindi una circolazione di insegnanti da scuola a scuola che rompe non solo la continuità didattica, ma anche la certezza e il diritto al posto di lavoro che, invece, sono dovuti – com’è noto – a una faticosa conquista di tanti anni di lotte sindacali e politiche.

Avremo scuole, dirigenti e insegnanti in concorrenza tra loro, e il tutto con la sanzione indiscussa e indiscutibile delle prove Invalsi: una sorta di Moloch! Avremo così scuole cosiddette migliori e scuole cosiddette peggiori, come vogliono le rigide leggi del mercato: una vera e propria privatizzazione di un servizio che è nato pubblico e che pubblico dovrebbe restare! Addio per sempre alla scuola della Costituzione! E in nome e in forza di un’autonomia, a mio vedere, tradita!

Trascrivo quanto abbiamo scritto anni fa nel comma 2 dell’articolo 1 del dpr 275/1999: “L’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento”.

Si tratta di un triplice impegno: educare ai valori della democrazia, formare tutti e ciascuno – non uno di meno – secondo le sue personali attese e attitudini, istruire a quelle conoscenze indispensabili al mondo del lavoro. Si tratta di tre percorsi paralleli e fortemente integrati, affinché ciascuno raggiunga il suo personale successo nella scuola, nel lavoro e nella vita.

Con la legge 107 questo impegno educativo e civile verrà a cadere. Avremo così una scuola “altra”, che nulla ha a che fare con una tradizione consolidata che ha avuto il suo inizio, fin dalla legge Casati che voleva insegnare a tutti a leggere, scrivere e far di conto. Avremo scuole diverse, tra loro in competizione, che promuoveranno i migliori ed escluderanno i peggiori! E vorrei veramente sbagliarmi!

Ormai la legge è legge e dovremo adoperarci perché la sua progressiva attuazione eviti per quanto è possibile le derive che ho denunciato. A mio avviso, sarà compito delle associazioni professionali degli insegnanti e dei dirigenti, delle associazioni dei genitori, dei sindacati di categoria, adoperarsi perché sui singoli territori non si verifichino quelle differenziazioni tra scuola e scuola che romperebbero quell’unitarietà dell’offerta educativa, formativa ed istruttiva auspicata e garantita dalla Costituzione. Sotto il profilo istituzionale, sui singoli territori spetta alle Reti di scuole, di cui all’articolo 7 del Regolamento sull’autonomia, divenire motore attivo perché tutte le istituzioni scolastiche presenti sul territorio garantiscano l’eccellenza dell’offerta educativa.

A mio avviso, gli anticorpi che possano evitare le conseguenze funeste che la legge 107 comporta sono nelle istituzioni scolastiche stesse. Quei principi della solidarietà (artt. Cost. 2 e 119) e della sussidiarietà (artt. Cost. 118 e 120), che sono i fondamenti della nostra convivenza civile e democratica, hanno la loro peculiarità in primo luogo proprio là dove i nostri bambini, italiani e stranieri oggi, crescono e apprendono, e che hanno pieno diritto ad un’offerta educativa che sia in grado – citando Don Milani – di dare di più a chi ha di meno! E tutto ciò, nonostante la legge 107! Innovare è necessario. Stravolgere è pericoloso.

Spetterà alla saggezza e alla mission dei nostri dirigenti e dei nostri insegnanti attenuare il più possibile le pericolose derive che la legge 107 potrebbe innescare. E l’Uciim, di conserva con tutte le altre associazioni professionali degli insegnanti e dei dirigenti scolastici, e con le associazioni dei genitori, può e deve assumere tutte le iniziative del caso.

E… grazie di non avermi fischiato!!!


 

* “Legge 13 luglio 2015 n 107: come ricucire il rapporto tra la scuola scritta nella legge (con i suoi 212 commi da decifrare) e la scuola reale (con le sue speranze, i suoi timori e i suoi doveri)”

Paternò, 25 novembre 2015

Uciim della Provincia di Catania