Archivi categoria: Tiriticcheide

Z. Bauman – E. Mauro, Babel

Una conversazione di alto profilo sulla babele del mondo contemporaneo

di Maurizio Tiriticco

 

Zygmunt Bauman, Ezio Mauro, Babel, Laterza, Bari, 2015, pp. 166, € 16,00

“Un tempo, in alcuni regimi, bisognava difendere l’autonomia dell’individuo davanti alla totalità pervasiva del sistema che lo annullava. Oggi bisogna dare un valore alla solitudine del singolo, renderla intelligente, consapevole: anche in questo caso autonoma, sia pure per un processo inverso. Conservare la libertà di scegliere significa tenere aperte opzioni diverse, cioè lo spazio dell’azione, dell’azione politica. Il problema sembra addirittura fisico, è invece culturale” (p. 152).

 

babelIl volume raccoglie una lunga, articolata e documentata conversazione sui problemi del mondo contemporaneo tra un autorevole “lettore” della società di oggi e un giornalista di alto profilo. Il focus è la complessa fenomenologia di un mondo che nel giro di qualche decennio ha subito mutamenti radicali nell’economia, nella politica, nei comportamenti di ciascuno di noi, e soprattutto nei processi di comunicazione.

Il processo di globalizzazione e tutti quei fenomeni che rendono la nostra società sempre più “liquida” non solo sembrano essere irreversibili, ma subiscono giorno dopo giorno sempre più sensibili accelerazioni. In effetti sono le stesse coordinate spazio/temporali, su cui si intrecciano da sempre le relazioni interpersonali, a subire profonde modifiche, le quali si ripercuotono sui campi di comunicazione e sui comportamenti. E’ ozioso alludere ai cellulari e ai social network, che costituiscono i terminali tecnologici di un sistema di relazioni assolutamente nuovo. Ciò che conta e che costituisce spunti di analisi interessanti nella conversazione di Babel è l’insieme delle profonde ricadute che i sempre più veloci cambiamenti a livello planetario impongono sull’economia, sul lavoro, sulla politica, sui modi stessi di pensare e di essere – soprattutto di essere – di noi tutti, cittadini del terzo millennio.

L’accelerazione sempre più intensa delle comunicazioni fisiche – i trasporti – e delle informazioni sta modificando profondamente le coordinate stesse dello spazio e del tempo e della percezione che ciascuno di noi ne ha. E’ come se fossimo “schiacciati” su uno spazio sempre più piccolo e su un tempo sempre più ravvicinato. Il “lontano” non sembra più esistere e il futuro è letteralmente schiacciato su di un presente che sembra ignorare lo stesso passato.

Quando Romolo tracciava il solco a due passi dal Tevere ignorava l’esistenza stessa di un Po e il futuro del suo regno era legato al volo augurale di dodici avvoltoi. Il gruppo degli allevatori e degli agricoltori delle origini della nostra storia viveva e operava nel suo piccolo spazio, e nel tempo si scandivano le regole dei comportamenti che garantivano la coesione e la continuità del gruppo. La trasmissione costante e continua delle leggende – era il ruolo delle mamme e delle nonne – e il culto degli antenati garantivano l’identità e la coesione del gruppo, il suo presente e il suo futuro: un piccolo spazio, ma un tempo estremamente dilatato. Oggi il grande gruppo planetario non conosce più confini e limiti spaziali, ma il tempo si restringe al semplice succedersi delle giornate. Non c’è passato e il futuro è solo quello del giorno dopo. E troppo spesso l’Ecstasy lo suggella per sempre.

E’ una fenomenologia assolutamente nuova e complessa, nella quale e per la quale si allentano anche i vincoli che in genere sono, anzi, erano dati dalla necessità dello “stare” insieme” e insieme garantire la sopravvivenza e il futuro del gruppo.

E le funzioni stesse della comunicazione interpersonale subiscono profonde modifiche. Jakobson ci ha insegnato che le funzioni del comunicare sono sei, che qui non è il caso di ricordare, ma… solo una, purtroppo, è oggi quella dominante, quella fàtica: si ha quando ci si preoccupa soltanto che l’interlocutore ci sia, qualsiasi cosa si dica o si ascolti! L’importante è esserci, inviare e ricevere messaggini a iosa, faccette e altri emoticon, marcare il territorio, possiamo dire. Di qui le centinaia di “amici” sempre nuovi, come scalpi da aggiungere alla propria cintura. Gli oggetti del comunicare diventano sempre più poveri, ma i soggetti che comunicano sul nulla e di nulla sono sempre più numerosi.

In parallelo si va sempre più perdendo la dimensione sociale dello stare insieme e del comunicare; si allenta lo spirito pubblico e si logora la stessa democrazia. Il numero sempre più basso di votanti – fenomeno non solo italiano – è indicativo di un ripiegarsi di ciascuno sul proprio Io. “In questo strappo del patto tra Stato e cittadino c’è una condanna, come se la democrazia fosse una forma temporale della costruzione umana e non riuscisse a governare il nuovo secolo appena incominciato, arenata nel Novecento” (p. 19). Questa instabilità politica e sociale si coniuga con un’altra instabilità, che riguarda il lavoro.

“In passato i lavoratori potevano combattere con un minimo di successo contro gli attacchi dei capitali fissi al loro standard di vita; oggi sono del tutto disarmati di fronte a ‘investitori’ straordinariamente mobili, ondeggianti, capricciosi, inquieti e imprevedibili, continuamente a caccia di più alti profitti e pronti a volare dove la pubblicità fa intravedere fugaci opportunità favorevoli”. Così, assistiamo impotenti a un costante e progressivo logorio dei rapporti sociali e, purtroppo, anche di quelli interpersonali. A valori che si stanno perdendo non corrispondono valori nuovi. E il futuro ci si presenta sempre più liquido, stando all’ultima pubblicazione di Bauman, “Il futuro liquido”, edito da Feltrinelli.

Concludendo, Babel è un libro molto molto amaro: “Viviamo in mare aperto, sotto l’onda continua, senza un punto fermo che misuri il peso e la distanza delle cose” (risvolto di copertina). Forse può fargli da controcanto l’ultimo libro di Edgar Morin, “Insegnare a vivere, manifesto per cambiare l’educazione”, Raffaello Cortina, 2014. Ma in un mondo liquido o che si sta liquefacendo, è possibile un rilancio dell’educazione? Come se questa potesse essere immune dall’assalto della marea liquida? Chissà!

Il volume lascia il lettore abbastanza sconcertato. Possibile che anche la politica sia essa stessa soggetto di liquidità? Le recenti vicende di una Grecia al tappeto in effetti non sono confortanti. Sono un fenomeno a sé, oppure una pericolosa linea di tendenza? Una deriva dalla quale nessuno potrà uscire?

Il libro che ho letto è veramente sconcertante. Le seguenti osservazioni di Ezio Mauro, a mio vedere, costituiscono il senso e il significato dell’intero volume: “Siamo arrivati a Mefistofele: la parola prende completamente il posto del pensiero. In realtà anche la parola viene sempre più spesso ridotta a segno, o almeno a segnale: pensa all’abuso di acronimi. Se ieri il medium era il messaggio, ora il medium può fare a meno del messaggio. I ragazzi si scambiano col cellulare segnali vuoti per salutare, sollecitare, confermare, e l’impulso riassume definitivamente la parola e il vuoto, sostituendoli. D’altra parte, se la tua identità è quella di un punto in una rete e il tuo sistema è fatto a nodi, la questione vitale diventa quella di pulsare, partecipare al grande battito più che al vecchio dibattito, non perdere il ritmo, non uscire dal cerchio. Sentire è necessario più che capire, è una facoltà e non uno sforzo. Al centro della rete – ognuno è al centro e alla periferia del web – io vivo connesso alle emozioni altrui, alle sensazioni degli amici, alle reazioni di sconosciuti, alle informazioni del flusso, alle selezioni prodotte dai social network, alla ‘folla delle impressioni vaganti e volatili’, come dici tu. Io sento, dunque sono. Io sono in rete, dunque sento” (p. 117).

E’ il rovesciamento del “cogito” cartesiano! Dall’affermazione del Sé al suo rovinoso declino…

Per una scuola a dimensione europea

Per una scuola a dimensione europea

di Maurizio Tiriticco

 

A Napoli abbiamo vissuto una “due giorni” di grande interesse e di grande combattività. Con nutrite rappresentanze degli istituti scolastici partenopei abbiamo unanimemente condiviso la nostra profonda preoccupazione per il voto della Camera in favore della cosiddetta Buona scuola. Il che significa essenzialmente due cose: a) che la battaglia contro la legge e i decreti che seguiranno non finisce oggi, ma continuerà in tutte le sedi in cui potrà e dovrà essere condotta; b) che, comunque, a settembre ci dovremo misurare con i provvedimenti che il Miur e le amministrazioni periferiche assumeranno per rendere attuativo un processo riformatore che, per la portata che intende assumere, non potrà concludersi in tempi brevi. A meno che una lotta più dura non porti a soluzioni diverse.

Pertanto, dovremo insieme ricercare e trovare spazi di manovra per contrastare il disegno che intende costruire un sistema di istruzione che nulla ha a che vedere con i principi costituzionali e con le finalità che da sempre la nostra scuola e i suoi operatori hanno perseguito. I dirigenti scolastici e gli insegnanti hanno vinto concorsi non solo in forza delle loro competenze professionali, ma anche e soprattutto in virtù di quell’impegno civile che la Costituzione affida a tutti gli uomini e le donne del nostro “Sistema educativo di istruzione e formazione” (come recitano le leggi di riforma 30/2000 e 53/2003). Si veda anche l’impegno che deriva dalla Carta costituzionale e dalla stessa Autonomia delle istituzioni scolastiche, tenute a garantire a ciascun cittadino/alunno di realizzare quel suo personale “successo formativo” (dpr 275/99, art. 1), perché possa vivere e operare in una società che non si può e non si deve permettere di selezionare e premiare i cosiddetti migliori ed emarginare i cosiddetti peggiori.

La scuola cosiddetta di classe l’abbiamo già battuta fin dal varo dei Decreti Delegati del 1974 per dare forza e prospettive certe alla scuola della Costituzione del 1948. E in questa direzione andavano anche i Nuovi programmi della scuola media del ’79, quelli della scuola elementare dell’85 e gli Orientamenti per la scuola materna del ’91. Purtroppo, troppa acqua è passata sotto i ponti, e oggi viviamo in un mondo in cui questi “modelli” di scuola sono acqua passata, un limite a un certo modello di sviluppo. I processi di globalizzazione sono gestiti da ristrette minoranze transnazionali che considerano il lavoro dei più uno strumento di ricchezza per pochi. E questo alla faccia della cosiddetta Società della Conoscenza! In effetti, l’ignoranza dei più è la migliore garanzia per la ricchezza dei pochi. La Buona scuola, targata purtroppo PD, costituisce per il nostro Paese un segmento operativo di un processo che purtroppo viene da lontano e mira altrettanto lontano. In tale scenario, la lotta contro la Buona scuola non è una battaglia solo per la scuola, ma anche per una società di uomini – e di donne – che siano sempre più – grazie anche alla scuola – autenticamente liberi ed eguali.

Per queste complesse ragioni, Il NO alla Buona scuola coincide in larga misura con il NO del popolo greco ai ricatti dei banchieri che oggi fanno il buono e il cattivo tempo nell’Unione europea: che non è più quella per cui hanno dato l’anima uomini della statura di Alcide De Gasperi, Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, Eugenio Colorni, Konrad Adenauer, Robert Shuman, Jean Monnet, Paul Henri Spaak, e tanti altri di cui non ho memoria. Per questo insieme di ragioni, la lotta contro la Buona scuola coincide con la lotta per l’Europa, quella Vera e che non deve tradire le sue origini, quella del primo trattato firmato a Roma nel lontano 1957, con cui sei Paesi, quelli che maggiormente avevano sofferto nella seconda guerra mondiale, dettero vita alla Comunità Economica Europea. Ne nacque una tradizione che oggi l’Unione europea di 28 Paesi sembra avere dimenticato.

E non è un caso che nella Buona scuola manchi ogni riferimento serio alla Dimensione Europea che oggi dovrebbe, anzi deve avere, l’Educazione. Non è un caso che le competenze di Cittadinanza, di cui alla Raccomandazione europea del 12 dicembre 2006, e le competenze culturali, di cui all’European Qualification Framework del 23 aprile 2008, siano pressoché ignorate dalle finalità e dagli obiettivi che il nostro Sistema di istruzione e formazione dovrebbe, invece, perseguire. Proprio in questi giorni si sta consumando il rituale di un esame di Stato che distribuisce punteggi a iosa, ma che non certifica ancora competenze! Anche se previste fin dalla legge istitutiva, la 425 del lontano 1997. E i nostri giovani, il mondo del lavoro, l’Europa stessa possono, anzi debbono attendere! Fino a quando?

Per tutto questo insieme di ragioni, sempre in attesa di un riordino dei curricoli – che sempre meno rispondono alle esigenze culturali e lavorative del mondo contemporaneo – e della stessa didattica, in larga misura ancora legata al modello di sempre, lezione/compito/interrogazione/voto, non possiamo non denunciare con forza la vuotezza contenutistica, sotto il profilo curricolare e didattico, della Buona scuola.

La questione dei curricoli e della didattica costituisce un insieme di urgenze vive e concrete che non vengono minimamente affrontate! Perché? Per la semplice ragione che le finalità della Buona scuola sono altre: creare un sistema di istruzione in cui siano ricercati, promossi e gratificati i cosiddetti Migliori. E gli altri? Colpa loro se non ce la fanno! Un discorso che, con una scuola che si ispirasse all’articolo 3 della Costituzione, pensavamo TUTTI di avere liquidato per sempre! Ma così non è! E non sarà! Fino a quando?

Contestare sì, ma con quali modalità?

Contestare sì, ma con quali modalità?

di Maurizio Tiriticco

 

Non mi è piaciuta affatto la contestazione di ieri a Corradino Mineo. E’ un senatore PD che indubbiamente avrà sofferto, e non poco, optando per l’astensione. Ovviamente, poteva anche votare contro, ma il suo VOTO, indubbiamente ONESTO, va rispettato e non può essere contestato nelle forme che ho viste. Lo stesso Piero Bernocchi, noto esponente dei Cobas e per nulla tenero verso le scelte del PD, ha avvertito la necessità di abbracciarlo e proteggerlo da una folla urlante e veramente minacciosa. Parolacce a non finire, apostrofi irriverenti al massimo! Comprendo la rabbia – che condivido – di migliaia di insegnanti, dirigenti e altro personale della scuola, che si sono sentiti maltrattati e offesi dalla sicumera e dalla arroganza di questo PD ormai fuori dalle righe, ma… NO!!! Il livello della nostra professionalità di uomini e donne di cultura e di scuola non ci consente manifestazioni del genere.

Però – e mi dispiace dirlo – è nello stesso Parlamento che ormai NON SI PARLA più, SI URLA, si fanno interventi asfittici, a volte sgrammaticati, poveri nei contenuti, sempre connotati da espressioni che in volgo si chiamano parolacce! Per non dire dei tanti spettacolini (striscioni, magliette, carte al vento, lancio di oggetti, salto dai banchi, ecc.) che si ripetono tutti i giorni! NO! E’ una deriva che mi preoccupa! Il Parlamento non è un mercato! Non è una piazza! Non è uno stadio! E’ uno spazio in cui SI PARLA! E in cui si deve parlare bene, con correttezza grammaticale, di argomentazioni e di idee. E in cui, anche, SI ASCOLTA!

Il nostro Parlamento ha conosciuto tempi indubbiamente migliori. Basta andare a rileggere gli atti dell’Assemblea Costituente! Discorsi ricchi di dottrina e di pensiero. Da quegli interventi è nata – e nel giro di un anno – una Carta costituzionale che tutti ci invidiano. Il che non significa che a volte la contestazione non possa e non debba toccare toni alti. Basta ricordare ciò che avvenne quando la maggioranza impose la cosiddetta Legge truffa (siamo nel 1953). E ancora: quando all’Assemblea costituente si doveva decidere che cosa “fare” dei Patti Lateranensi, che, per la loro stessa natura, avrebbero connotato un certo tipo di Repubblica, o del concetto di “proprietà privata”, o di scuola. Si trattava di gettare le fondamenta di uno Sato assolutamente nuovo, che usciva da un secolo o poco meno di monarchia e da un ventennio di dittatura… e da due guerre che avevano messo a dura prova un popolo intero e… nato da poco! Si trattava di costruire un Paese in cui compito primo della Repubblica fosse quello di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. La temperie era altissima, ma gli interventi, pur se vigorosi, sempre di alta levatura. Oggi sembra che con la Buona scuola questa prioritaria condizione – contenuti elevati e correttezza espressiva – sia stata accantonata, ma… torno alla mia riflessione.

Quello che mi preoccupa, oggi, è la povertà di pensiero e di linguaggio dentro e fuori il Parlamento. E da questa povertà non possono che uscire cattive leggi e… cattivi cittadini, purtroppo. Il malaffare dilagante è un segno terribile di questa decadenza civica! E sarebbe peggio che ne uscisse un intero cattivo Paese, e proprio in un momento storico molto difficile. Basti pensare a problemi enormi, quali la globalizzazione galoppante e le immigrazioni che si faranno sempre più pesanti, un’Unione europea che giorno dopo giorno rischia di frantumarsi, incapace di affrontare i problemi tremendi dell’oggi, un’ONU pressoché inesistente! Per non dire di qull’Islamic State of Iraq and Syria, che diventa sempre più pericoloso. Sono problemi transnazionali che solo una classe dirigente di elevata statura può affrontare.

E una classe dirigente che ha elaborato questa Buona scuola e ha varato questo decreto mi preoccupa non poco. In effetti, non ha avvertito che è la natura costituzionale stessa del nostro “Sistema educativo di istruzione e formazione” che viene pericolosamente messa in discussione. Una maggioranza che non ha voluto ascoltare le opinioni e i suggerimenti – e ce ne sono stati tanti – di semplici iscritti ed esponenti del PD, oltre a Mineo, Walter Tocci e Felice Casson, di uomini di scuola e di cultura, veramente mi preoccupa! In politica, o se si vuole, in una Buona politica, l’autoreferenzialità è estremamente pericolosa.

E non vorrei che la cosiddetta Buona scuola fosse solo una delle tante Buone politiche che seguiranno.

La goccia che fa traboccare… l’urna

La goccia che fa traboccare… l’urna

di Maurizio Tiriticco

 

Sono mesi che insisto presso tutti i compagni e gli amici del PD sulla necessità di… non insistere con la Buona scuola e con il ddl che ne è seguito. Sono mesi che ho insistito, con tutta la ridondanza del caso, e non da solo ovviamente, sul fatto che la pretesa ed ennesima “riforma della scuola”, dopo un quindicennio di riforme, riordini e, soprattutto, di tagli, viene ad abbattersi su una scuola già fortemente provata. Per non dire poi delle prove Invalsi, che ritornano puntuali come una pioggia di meteoriti a dettare un Verbo che pochi capiscono, molti subiscono e altri rifiutano. Come se bastasse predicare il Verbo perché questo sia accolto come una salvifica redenzione da una sofferenza che ormai da troppo tempo connota il nostro “Sistema educativo di istruzione e formazione”.

Sono mesi che insisto nel denunciare che gli anonimi estensori della Buona scuola e del ddl hanno operato con una tale disinvoltura da dimenticare che ci sono fondamenti costituzionali, istituzionali e giuridici che non possono essere stravolti con la spigliatezza dell’improvvisazione o – e ciò è peggio – con la determinazione di voler fare della “nostra” scuola una scuola “altra”.

Comunque sia, l’ignoranza – con tanto di virgolette – si coniuga con l’arroganza – senza virgolette – e l’esito è sotto gli occhi di tutti: questa Buona scuola tanto buona non è, se la Vera scuola è insorta con manifestazioni e scioperi che non vedevamo da tempo! Per non dire poi che ciò che è accaduto con i recenti ballottaggi è sotto gli occhi di tutti.

La scuola militante in larga misura ha sempre mal sopportato le cosiddette riforme della Destra e ha visto nella Sinistra – e il 40% dei voti alle recenti votazioni per il Parlamento europeo è stato un importante segnale – una valida sponda per contenere le derive imposte dalla destra e riprendere un discorso serio e produttivo per un riordino effettivo del Sistema di istruzione. Però, le attese sono state disattese e oggi questa scuola militante ha parlato chiaro! Lo ha detto e lo ha fatto: niente voti al PD!!! L’insistenza e l’arroganza delle Giannini e dei Faraone è stata sonoramente punita. Ed è così che la Buona scuola è stata la goccia che ha fatto traboccare… l’urna delle recenti votazioni.

Ma ciò che soprattutto mi dispiace è il fatto che non sono mancati, e non mancano, dirigenti scolastici che, invece, vedono nella Buona scuola un qualcosa di innovativo. In effetti, sono molti i dirigenti “onesti” – e ne conosco tanti – che sostengono che non è la fine del mondo se “passa” il ddl che riordina la struttura interna delle Istituzioni Scolastiche Autonome (non mi piace dire “scuole”, perché sono termini che riconducono agli edifici più che alle istituzioni), in quanto i nuovi compiti che saranno loro affidati saranno affrontati e risolti con il massimo del rigore formale e della responsabilità professionale. Aggiungono, infatti, che è nel loro stesso interesse non “favorire gli amici e gli amici degli amici”, ma adoperarsi perché l’istituzione che è loro affidata migliori sempre più e non rischi alcun default. In effetti, il favorire gli amici ricadrebbe negativamente come un boomerang, e in tempi brevi; sull’istituzione e su loro stessi. Aggiungono che sono più che disponibili a sottoporsi a una prova assolutamente nuova che investe a tutto campo le loro responsabilità decisionali; e che è nel loro stesso interesse adoperarsi perché l’istituzione che è loro affidata migliori sempre più e divenga anche – se del caso – competitiva sul territorio.

Ed è proprio su questo “competitiva” che avanzo tutte le mie riserve. In effetti, il problema non riguarda la moralità pubblica, civica e professionale di un DS. Anche se tutti i DS fossero i più onesti di questo mondo, il ddl non andrebbe bene egualmente! Il problema è un altro: che “si vuole passare” a una scuola “altra”, che nulla ha a che vedere con l’impianto di cui agli articoli della Costituzione (a memoria: 2, 3, 4, 9, 33, 34, 117) che hanno fondato la nostra scuola democratica e repubblicana. Il ddl, in effetti, creerebbe e sancirebbe distinzioni tra DS e DS, tra insegnanti e insegnanti, tra scuole e scuole, distinzioni che, invece, “costituzionalmente” non vogliamo, non possiamo volere e che dobbiamo, invece, superare. Tutte le ISTITUZIONI SCOLASTICHE AUTONOME devono essere “eccellenti”, non alcune sì e altre no!

E il GOVERNO e il MIUR devono garantire questa eccellenza: “dare di più a che ha di meno”!!! E’ stata la nostra divisa, almeno per tutta la seconda metà del “secolo breve”. Concretamente, stando all’art. Cost 117, lo STATO, in fatto di scuola, ha competenza su due materie: le “norme generali sull’istruzione” e i “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Per non dire della “determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”: di uno Stato che è Uno e unitario dalle Alpi al Lilibeo, anche e soprattutto in materia di Educazione e di Istruzione, con cui si intende garantire quell’“eguaglianza di tutti i cittadini, di cui all’art. 3 Cost.

Si tratta di finalità e obiettivi che a tutt’oggi, a partire dal nuovo Millennio, “grazie” ai governi di destra, ovviamente, non sono stati realizzati. E si tratta di obiettivi che dovrebbero rafforzare l’unitarietà del SISTEMA EDUCATIVO DI ISTRUZIONE E FORMAZIONE, non sgretolarla. Un Sistema, come un qualsiasi motore, deve funzionare bene in ogni sua parte. Se un pezzo del motore si rompe, è l’intero motore che non funziona. Ebbene: il ddl sgretola questo Sistema, quindi IMPOVERISCE di fatto l’intera offerta Educativa, Istruttiva e Formativa che il SISTEMA, invece, deve offrire a tutti i cittadini/alunni, perché a ciascuno dobbiamo garantire il suo personale SUCCESSO FORMATIVO: lo abbiamo scritto nel dpr 275/99. Lo STATO, quindi, deve dare di più a chi è più debole, non “emarginarlo” e, di fatto, “premiare” i più forti. Ora, i principi egalitari (che abbiamo ereditato dalle grandi Rivoluzione della storia e sancito con le Carte dell’Onu e la nostra stessa Costituzione) con il ddl semplicemente scompaiono e si dà vita a una scuola “altra”.

E questa scuola “altra” non possiamo volerla! Questo è l’obiettivo di chi contesta il ddl. Il che non significa che non sia assolutamente necessario andare a un riordino complessivo del Sistema, ma dei suoi CURRICOLI, su cui peraltro ho scritto tanto, anche se il tutto è discutibile e perfettibile. Allo stato attuale abbiamo curricoli di studio spezzatino, verticali e orizzontali, eredità di progressive aggiunte che via via si sono succedute nel tempo, ma che frammentano e non coordinano processi che invece devono costituirsi OGGI come SISTEMA: auspicato dalle norme, ma ben lungi dalle intenzioni dei pensatori della Buona scuola. E il tempo per cambiare è giunto: ce lo hanno detto le urne.

Ritornare alla scuola della Costituzione, di tutti e di ciascuno

Ritornare alla scuola della Costituzione, di tutti e di ciascuno

di Maurizio Tiriticco

La difficoltà con cui procede al Senato la discussione sul ddl che intende riordinare il nostro SISTEMA di ISTRUZIONE sta a significare quanto questo provvedimento sia non solo impopolare, ma anche assolutamente insufficiente a sanare i mali che travagliano la nostra scuola. Si tratta di una difficoltà che per altro allontana giorno dopo giorno quell’assunzione dei precari che in effetti deve costituire solo un atto dovuto di giustizia e nulla ha a che vedere con provvedimenti altri che intendano riformare l’intero impianto del nostro SISTEMA EDUCATIVO DI ISTRUZIONE E FORMAZIONE (leggi 30/2000 e 53/2003).

La via da seguire è, a mio vedere, la seguente: 1) lasciar cadere in via definitiva il ddl attualmente in discussione al Senato; 2) varare uno o più provvedimenti che sanino in via definitiva la questione dei precari; 3) avviare una seria e condivisa proposta sul riordino dei curricoli, per liquidare l’attuale “spezzatino” verticale e orizzontale di gradi e ordini, eredità di una organizzazione scolastica funzionale per un modello di società ormai largamente superato. Basti pensare che i titoli di studio terminali tuttora rilasciati dal nostro Sistema di Istruzione non “dicono nulla” circa le reali COMPETENZE acquisite dallo studente e non lo sostengono né per il proseguimento degli studi né per l’accesso al mondo del lavoro, tanto meno a quello dell’Unione europea.

Va considerata, anche e soprattutto, la dimensione ormai europea, se non transnazionale, sia del “mercato” delle CONOSCENZE e della CULTURA sia del “mercato” della COMPETENZE e del LAVORO. L’European Qualifications Framework (2008), recepito dal nostro governo ormai da tre anni (si veda l’Accordo quadro Stato-Regioni per la referenziazione del sistema italiano delle qualifiche al Quadro Europeo delle Qualifiche, di cui alla Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008, siglato il 20 dicembre 2012), non può non costituire un efficace punto di riferimento per legiferare. A tutt’oggi nessuna iniziativa, se non di puro carattere formale ed esemplificativo, è stata assunta in proposito.

Inoltre, il riordino a cui si deve giungere non deve in alcun modo alterare la fonte costituzionale su cui il nostro SISTEMA di ISTRUZIONE (generalista, di competenza statale) e FORMAZIONE (professionalizzante al lavoro, di competenza regionale) si fonda, e i cui cardini sono:

  • garantire a ciascuno non solo di raggiungere il suo personale “successo formativo” (dpr 275/99), ma anche di “raggiungere i gradi più alti degli studi” (Cost. 34);

  • il diritto/dovere di ciascuno “all’istruzione e alla formazione per almeno dodici anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il 18° anno di età” (legge 53/03).

Il ddl di cui alla “Buona scuola” non solo non contempla i suddetti obiettivi, ma rischia di rompere quell’unitarietà dei processi di istruzione e formazione che, invece, devono costituire l’indiscusso polo di riferimento per qualsiasi riordino.

Ripropongo in questa sede la bozza di un possibile riordino dei curricoli, la quale può costituire la base di un confronto di merito su un tema che, non solo a mio vedere, costituisce il vero problema del nostro sistema di istruzione.


Per un riordino complessivo del sistema educativo di istruzione

tiriticco

E. Morin, Insegnare a vivere, manifesto per cambiare l’educazione

Edgar Morin, Insegnare a vivere, manifesto per cambiare l’educazione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, pp. 117

di Maurizio Tiriticco

 

morinIn un momento così difficile e complesso per il nostro Sistema educativo nazionale di istruzione e formazione – dire semplicemente scuola sarebbe riduttivo – questo nuovo intervento dell’autore de “La Tête bien faite” (1999) mi sembra assolutamente significativo e importante. Non va dimenticato che le prime “Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione” del 31 luglio 2007, firmate dal Ministro Fioroni, portavano lo stigma – se si può dir così – di Edgar Morin. Nella presentazione delle Indicazioni che ebbe luogo in Roma nell’aprile di quell’anno, Morin ebbe a dire tra l’altro:

“Cultura, scuola e persona sono inscindibili… ‘Voglio apprendere a vivere’: questa frase rimarca l’importanza vitale della formazione sia da un punto di vista di umanità che di cittadinanza perché, per risolvere i problemi fondamentali dell’uomo, è necessaria un’alleanza educativa tra cultura umanistica e cultura scientifica. Una mancanza di congiunzione tra le due infatti non può servire a un’adeguata maturazione morale e spirituale…. Una conoscenza priva di contestualizzazione è una conoscenza povera. Come fare a riunire i saperi delle varie discipline? Serve un pensiero complesso che permetta di unire ciò che è separato. Oggi serve un nuovo umanesimo… Come apprendere a vivere? La conoscenza non si ha con la frammentazione ma con l’unione. È necessaria una riforma della conoscenza del pensiero, un nuovo umanesimo globale che sappia affrontare i temi della persona e del pianeta. I giovani oggi si sentono persi, non trovano le ragioni dell’essere. Durante la seconda guerra mondiale i ragazzi dovevano resistere al nazismo, divennero partigiani, contribuirono a liberare le loro vite e le loro nazioni. E oggi? Oggi i giovani sono chiamati ad affrontare un compito ancora più ampio: la salvezza del genere umano. Hanno una missione grande davanti a loro e dobbiamo educarli ad apprendere e a maturare una conoscenza adeguata ad assolvere a questo compito fondamentale a cui sono chiamati”.

Fu un discorso di grande respiro, anche perché è l’epoca stessa in cui viviamo che ci “costringe” a riflessioni profonde. Sono gli stessi concetti di conoscenza e di sapere che sono profondamente cambiati. Dei “Sette saperi necessari all’educazione del futuro”, di Edgar Morin (Unesco, Parigi, 2000), ne voglio ricordare soltanto due, i più significativi: il 2° – insegnare a cogliere le relazioni che corrono tra le parti e il tutto in un mondo complesso; e il 5° – insegnare a navigare in un oceano di incertezze attraverso arcipelaghi di certezze. Si tratta di un forte richiamo a considerare le differenze che corrono tra l’analitico e il sintetico, il razionale e l’immaginativo, l’analogico e il digitale, per non dire poi delle intelligenze multiple, di Howard Gardner, tutte ricerche che hanno messo sotto scacco i processi cognitivi fondati sulla lettura/ascolto, che hanno caratterizzato metodi di insegnare/apprendere che, in tempi trascorsi, avevano pure una loro efficacia.

Se queste considerazioni sono vere, ne consegue che l’intero impianto scolastico, che abbiamo ereditato da un lontano passato, non può non essere rimesso in discussione. Al centro di questo impianto c’è il rapporto insegnante alunno. E su questo rapporto si sofferma in più punti del suo nuovo libro l’attenzione di Morin. In effetti, in un mondo sempre più liquido – per dirlo alla Bauman – occorre, invece, “ritrovare una missione insostituibile, quella della presenza concreta, della relazione da persona a persona, del dialogo con l’allievo per la trasmissione di un fuoco sacro e per la delucidazione reciproca di malintesi” (p. 66).

E Morin ricorda anche l’affermazione di Platone, secondo cui, “per insegnare c’è bisogno dell’Eros, cioè dell’amore. E’ la passione dell’insegnante per il suo messaggio, per la sua missione, per i suoi allievi che garantisce un’influenza possibilmente salvifica, che fa sbocciare una vocazione da matematico, da scienziato, da letterato” (p. 64). Morin è, quindi, assolutamente contrario alla consueta sequenza lezione, studio domestico, interrogazione, compito in classe, voto. “E’ tutto il sistema di educazione contemporaneo, fondato sul modello disciplinare dell’università e sulla disgiunzione fra scienza e cultura umanistica, che bisogna nello stesso senso rivoluzionare” (p. 103). Oggi viviamo in un mondo in cui non ci sono più i maestri e i libri come unici depositari dei saperi, perché le Tic e il Web sono a disposizione anche del cellulare meno costoso. L’insegnante non è più l’unico depositario del sapere, ma deve essere l’organizzatore e l’animatore dei saperi dei suoi alunni. Di qui la metafora del direttore d’orchestra. “Questa nozione di direttore d’orchestra inverte il corso stesso delle lezioni. L’insegnante non distribuisce più come priorità il sapere agli allievi. Una volta fissato il tema di un compito o di un’interrogazione orale, sta all’allievo trarre da Internet, dai libri, dalle riviste e da tutti i documenti utili la materia del compito o dell’interrogazione e presentare il suo sapere all’insegnante. E quindi sta a quest’ultimo, vero direttore d’orchestra, correggere, commentare, apprezzare l’apporto dell’allievo, per arrivare, nel dialogo con i suoi allievi, a una vera sintesi riflessiva del tema trattato” (p. 104).

Morin sottolinea con forza la responsabilità che oggi ha un sistema di istruzione e formazione – soprattutto nei Paesi a più alto sviluppo – per garantire a tutti e a ciascuno quell’apprendimento per tutta la vita che è determinante per lo sviluppo culturale e civile per ciascuno e per tutti. “Si potrebbe, come si faceva in passato per il servizio militare, immaginare che ogni cittadino o cittadina possa ventotto giorni all’anno effettuare un servizio di educazione, che comprenda la revisione e l’aggiornamento delle conoscenze, l’esercizio della ginnastica psichica dell’autoesame…” (p. 105).

Il nuovo libro di Morin – in un momento particolarmente difficile per il nostro Sistema di istruzione – propone ai responsabili politici, agli uomini e alle donne di scuola e ai cittadini tutti, un momento di riflessione attenta sulle natura stessa e sulle finalità che oggi hanno, in una società sollecitata da cambiamenti sempre più rapidi, i processi di insegnamento/apprendimento. Una didattica cooperativa, quella “didattica laboratoriale”, che ricorre ormai in tutti i nostri documenti relativi al riordino del sistema di istruzione, dovrebbero veramente diventare il nodo centrale di qualsiasi processo riformatore.

E’opportuno che di questo insieme di problematiche, così magistralmente rappresentateci da Morin, si tenga, comunque e sempre, il dovuto conto, ed evitare che gli attuali motivi del contendere attorno a un ddl che provoca contenziosi a non finire, non ci consentano di centrare e analizzare i nodi centrali dell’insegnare/apprendere, che poi si consumano all’interno di un’aula, in quel rapporto docente/alunno che costituisce il clou di quel successo formativo che – come ci siamo impegnati con il dpr 275/99 – dovremmo garantire a tutti e a ciascuno.

E… grazie a Morin, che non finisce mai di insegnarci qualcosa!

Lo studio dell’economia in laboratorio: come e perché

Lo studio dell’economia in laboratorio: come e perché

di Jeanna Tolordava, Docente di Scienza Economica, Università Statale I.Dzhavahishvili, Tbilisi, Georgia

 

L’economia sperimentale è una scienza relativamente nuova che si è sviluppata rapidamente a partire dal 1980. Vernon Smith, premio Nobel 2002, ne è considerato il fondatore. Ha ricevuto il Premio Nobel per l’economia per il suo lavoro sullo studio dei meccanismi di mercato e per i metodi alternativi di rete sul mercato di economia sperimentale.

Il comitato Nobel, spiegando questo premio, ha riconosciuto che gli esperimenti economici Controlled sono diventati una componente integrante della ricerca economica, e che in alcuni casi hanno portato ad una revisione degli stessi postulati dell’economia. Ciò è stato reso possibile grazie alla ricerca in due specifici settori: gli studi di psicologia del processo decisionale e la creazione delle condizioni per l’Economia Sperimentale

Attualmente Vernon Smith è il direttore del, Centro Interdisciplinare per lo Studio di Economia (CIEM), presso l’Università George Mason di Washington. Oltre alla formazione degli studenti, il centro collabora con varie aziende, agenzie governative e altri governi in materia di economia sperimentale.

Il proficuo lavoro di V. Smith ha comportato lo sviluppo di metodi di indagine di laboratorio. Per 50 anni ha condotto migliaia di esperimenti con diverse categorie di persone: dai bambini ai magnati industriali e ai membri del Congresso. Il numero di laboratori di sperimentazione, i cui lavori sono pubblicati su una scala sempre crescente, è in rapida crescita in tutto il mondo. Oggi, il CIEM è il centro più famoso e considerato per lo sviluppo dell’economia sperimentale.

Va notato che gli esperimenti economici sono stati condotti in analogia con quelli di fisica, chimica e altre scienze naturali, con l’unica differenza che coinvolgono persone sollecite a prendere decisioni economiche in laboratori sperimentali o interessate allo svolgimento di giochi di role-playing, o di simulazioni.

Per decenni si è creduto che un metodo sperimentale di ricerca in economia fosse impossibile. Tuttavia in analogia con analoghe esperienze condotte nel campo della psicologia, si è operato in modo da creare un’economia sperimentale, la cui finalità fosse quella di creare situazioni artificiali in cui tutti i parametri del comportamento dei soggetti economici potessero essere controllati dallo sperimentatore in laboratorio.

In situazioni di laboratorio, in campo psicologico sono stati sviluppati esperimenti per consentire a un gruppo di partecipanti di sperimentare le attività connesse a un processo decisionale che fornisse un quadro del comportamento tipico degli agenti economici in condizioni controllate di laboratorio. Un vantaggio di questo metodo riguarda l’opportunità di osservare e articolare il comportamento del soggetto di fronte alle scelte da compiere in situazione economiche reali. Il che consente di esplorare all’interno dei processi decisionali i fattori che determinano le scelte compite dai soggetti in osservazione, a fronte della varietà delle opzioni che si prospettano all’agente economico in una situazione reale.

La metodologia in uso da parte dell’economia sperimentale consiste nell’adozione di metodi sperimentali per verificare la validità delle teorie economiche. Il che sta diventando una parte integrante della ricerca scientifica. L’esperimento in economia si basa su un certo numero di caratteristiche, rispetto alla sperimentazione nel campo delle scienze naturali. L’economia sperimentale può essere caratterizzata, quindi, come una prova della teoria economica dei concreti comportamenti dei singoli soggetti e costituisce un prototipo che consente di analizzare le azioni di agenti professionali effettivamente coinvolti nella soluzione di vari problemi in situazioni controllate.

Poiché la sperimentazione coinvolge l’uomo, e le sue azioni sono strettamente connesse alle sue personali caratteristiche, occorre ammettere che tali circostanze rendono quasi impossibile prevedere conseguenze o stabilire in modo assoluto la ripetitività dell’esperienza. Purtroppo, molti parametri del comportamento umano (ad esempio, l’avversione al rischio) negli esperimenti di controllo non sono possibili. Pertanto, al fine di trarre conclusioni valide, è necessario sviluppare procedure speciali al dine di progettare, organizzare e condurre l’esperimento. Attualmente, l’economia sperimentale ha intensamente sviluppato sperimentazioni attraverso il computer, settore nel quale le prospettive sono estremamente ampie.

Uno dei vantaggi di questi esperimenti consiste nel fatto che ciascuno di essi è realizzato con materiali significativi e impegni di lavoro altrettanto significativi. E necessaria un’attenta attività preliminare di progettazione, perché, nel caso di un esperimento fallito, i risultati attesi possono trasformarsi in gravi perdite, quali lo stress dei partecipanti e la perdita di attività e di iniziativa.

Nel 1994, nel suo saggio “Economia in laboratorio”, W. Smith ha formulato i sette motivi per cui gli economisti provano il bisogno di sperimentazione:

  1. la necessità di verificare una teoria o di valutarla in confronto con altre teorie;
  2. comprendere e capire perché la teoria ha fallito;
  3. stabilire la regolarità empirica come punto di partenza per nuove teorie;

4.confrontare le differenti condizioni di partenza (cioè, scorte iniziali degli agenti, i benefici ed i costi che incidono sulle dinamiche del mercato);

5.comparare le istituzioni collegate (con le quali originariamente si erano condivise le regole e le norme di scambio, così come il linguaggio della comunicazione di mercato);

  1. essere in grado di valutare le raccomandazioni in materia di politica economica;
  2. esplorare nuovi modi di progettazione istituzionale.

Il lavoro scientifico di V. Smith ha contribuito a diffondere ed apprezzare le moderne metodiche sperimentali in economia. E vi sono valide ragioni per considerarle positivamente. In primo luogo, gli studi sperimentali offrono l’opportunità di identificare gli effetti di diverse variabili e l’affidabilità di una teoria. Va considerato anche che i metodi economico-matematici per prevedere con precisione le variabili o i risultati e per verificare le ipotesi formulate non possono ancora tener conto delle caratteristiche soggettive del comportamento umano e del pensiero economico. In secondo luogo, gli esperimenti hanno permesso un nuovo modo di sottoporre ad analisi molti dei problemi metodologici della scienza economica. Di tratta di un’analisi che si estende fino alla verifica della validità di una teoria economica o di opinioni consolidate su alcuni fenomeni ad essa connessi.

Campi di applicazione della sperimentazione sono l’organizzazione e lo svolgimento delle attività economiche di molte istituzioni del mondo reale. V. Smith e i suoi colleghi hanno sviluppato un modello di mercato per il funzionamento delle borse in Arizona e del mercato dell’acqua in California, elemento essenziale per la produzione dell’energia elettrica. In particolare, il metodo proposto ha contribuito a prevedere, in sede di laboratorio, gli effetti della deregolamentazione del mercato do tale energia prima che tale processo venisse concretamente realizzato.

In futuro, l’economia sperimentale potrà assumere un posto di rilievo tra le discipline economiche. L’aumento della popolarità dell’economia sperimentale è dimostrato dalla diffusione di riviste quali il “Journal of Experimental Economics“, che hanno operato a lungo con successo in diversi paesi. In economia sperimentale particolarmente feconda è l’integrazione di modelli concernenti le “teorie dei giochi” e i relativi esperimenti. La “Modellazione Game” (business game) e la simulazione occupano giustamente una posizione leader in esperimenti di laboratorio. Oggi, dopo i risultati innovatori della ricerca universitaria ottenuti con metodi sperimentali, fanno parte dei corsi di lezioni sulla microeconomia attività che implicano la teoria dei giochi, l’organizzazione industriale, per non dire degli approfondimenti condotti con pubblicazioni mirate, testi ed enciclopedie. Occorre tuttavia riconoscere che nei lavori in corso in economia sperimentale i ricercatori e i laboratori speciali non occupano posizioni centrali nel curricolo formativo come accade invece in molte università straniere. Gli esperimenti di V. Smith spesso sono usati in forma di giochi nei corsi iniziali di economia, per dimostrare agli studenti il funzionamento del mercato.

Esistono molte pubblicazioni sulla specifica applicazione degli elementi di economia sperimentale per insegnare, in particolare, agli studenti la tecnologia di apprendimento attraverso l’economia sperimentale, a conferma del fatto che la formazione consentirà agli studenti di comprendere meglio il campo di applicabilità delle varie teorie economiche. Ad esempio, cambiando la “messa in scena” di un esperimento economico, è possibile modificare le condizioni iniziali per la costruzione del modello. E ciò sarebbe una buona lezione per coloro che non capiscono le condizioni in cui è possibile utilizzare l’una o l’altra teoria economica.

Concludendo, va sottolineato che l’economia sperimentale è riconosciuta come uno dei settori più promettenti della ricerca contemporanea, e che il campo di applicazione pratica di queste tecniche è in continua espansione. Ciò è facilitato dal fatto che la sperimentazione per l’economia è una nuova fonte di conoscenza della realtà sociale, e presenta altresì un deciso impatto sull’economia nel suo complesso.

 

BIBLIOGRAFIA

 

  1. Smith V. L. Economics in the laboratory, in “Journal of Economic Perspectives”, Vol. 8, N 1, 1994
  2. Голубцов А.А., Меньшиков И.С. Агрегированное равновесие лабораторных сетевых рынков. – М.: ВЦ РАН, 2007
  3. Тодд Сандлер. Экономическая концепция для общественных наук. М. 2006
  4. Толордава Ж. Экспериментальная экономика. “Tsu-is Jurnali ekonomika da biznesi”, №1, 2011
  5.    Tolordava J, Giochi di simulazione e formazione creativa Italia, in “EDUCATION 2.0”, gennaio 2012
  6. Tolordava J, Sustainable Development and Simulation Game Modeling: 26 the European Conference on operational research. Rome, Italia, 2013

 

NOTA – Della stessa autrice si veda: Giochi di simulazione e formazione creativa, in Educationduepuntozero del 4 gennaio 2012

L’esame di Stato… e la scadenza del 2015!

L’esame di Stato… e la scadenza del 2015!

di Maurizio Tiriticco

 

nds_esamipubblicato in “Notizie della Scuola”, n. 19/20 del 1/30 giugno 2015, pp. 192, € 16,00 – raccolta coordinata delle disposizioni relative allo svolgimento degli esami conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore

si veda anche: Diario d’Esame 2014-2015
Una guida, passo per passo, al lavoro delle Commissioni
a cura di Dario Cillo

 

Un cambiamento disatteso

Un lettore attento e che segue le nostre pubblicazioni constaterà che, nell’edizione del fascicolo speciale dello scorso anno, il mio pezzo introduttivo aveva il medesimo titolo. Perché? Ritenevo gli esami di Stato dello scorso anno come gli ultimi da condursi senza una chiara certificazione delle competenze accertate e raggiunte dai candidati. E ritenevo invece che, con la tornata del 2015, andando a regime sia le Indicazioni nazionali per i licei che le Linee guida per gli istituti tecnici e professionali, adottate con il riordino avviato nel 2010, questa tanto attesa e necessaria certificazione avrebbe dovuto finalmente effettuarsi.

E ciò anche in considerazione del fatto che sia le Indicazioni che le Linee guida – quest’ultime con definizioni indubbiamente più mirate e articolate – indicano quali sono le competenze da certificare in termini di “risultati di apprendimento” al termine del quinquennio [1]. In effetti, è semplicemente fuori del tempo che i nostri giovani, licenziati dal secondo ciclo di istruzione, non possano far valere sia per gli studi ulteriori che per il mercato del lavoro – scelte oggi a dimensione europea – un titolo di studio che, invece di indicare i punteggi conseguiti, sempre di difficile comprensione, “dichiari” chiaramente “che cosa sanno fare”.

Insomma, pare che questa certificazione delle competenze… non s’ha da fare! Riprendere la nota intimazione manzoniana può sembrare eccessivo, ma il fatto è che ormai da ogni parte della nostra amministrazione si richiamano le istituzioni scolastiche e gli insegnanti all’insegnamento finalizzato alle competenze, al loro accertamento e alla loro certificazione, ma… sembra che da questo richiamo la conclusione degli studi secondari di secondo grado sia esclusa!

 

Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?

Eppure, la legge parla chiaro! Siamo nel lontano 1997 – lo scorso millennio – e nella legge di riforma degli esami di maturità, un concetto tutto di impronta gentiliana ma fuori della storia e della società, che ormai preferisce giovani competenti, che sappiano più “fare” che “essere” – pur se l’essere è sempre condizione del fare – abbiamo scritto all’articolo 6: “Il rilascio e il contenuto delle certificazioni di promozione, di idoneità e di superamento dell’esame di Stato sono ridisciplinati in armonia con le nuove disposizioni, al fine di dare trasparenza alle COMPETENZE, CONOSCENZE e CAPACITA’ acquisite secondo il piano di studi seguito, tenendo conto delle esigenze di circolazione dei titoli di studio nell’ambito dell’Unione europea”.

Tre concetti nuovi, rivoluzionari rispetto a una tradizione consolidata da decenni, concetti sui quali il Regolamento attuativo della legge doveva stendere parole chiare e definitive. Ma il Regolamento, dpr 323/98, all’articolo 1, comma 2, così recita: “L’analisi e la verifica della preparazione di ciascun candidato tendono ad accertare le CONOSCENZE generali e specifiche, le COMPETENZE in quanto possesso di abilità, anche di carattere applicativo, e le CAPACITA’ elaborative, logiche e critiche acquisite”. In effetti, era un po’ poco! Si trattava, invece, di dare indicazioni chiare alle scuole e alle commissioni d’esame, poste di fronte a un cambiamento che avrebbe dovuto essere epocale! Com’è noto, i generici bizantinismi non aiutano a modificare le cose.

Chi scrive – allora ancora in servizio come dirigente tecnico – provò a mettere nero sul bianco, anche e soprattutto perché occorreva dare alle commissioni, che nella tornata del ’99 avrebbero dovuto operare secondo le nuove disposizioni, indicazioni operative che avessero un minimo di chiarezza. Un “nero sul bianco” che in quell’anno divenne un “dischetto” con tutta una serie di interventi autorevoli ed esempi operativi. L’anno successivo – gli insegnanti più anziani lo ricorderanno – i contenuti e le finalità del nuovo esame di Stato divennero una sorta di leit motif in una serie di trasmissioni televisive interattive con le scuole effettuate su Rai-Sat-3. Si trattò di dodici lezioni settimanali che ebbero luogo tutti i venerdì dal gennaio all’aprile.

Pertanto, stante il fatto che ormai era una tradizione consolidata nelle nostre scuole ragionare e operare in termini di “sapere”, “saper fare” e “saper essere”, si potevano assumere e condividere, a proposito delle “parole nuove” che intendevano caratterizzare il cambiamento dal concetto di maturità a quello di competenza, le seguenti definizioni:

CONOSCENZA come acquisizione di contenuti, cioè di dati, informazioni, termini, regole, procedure, metodi, tecniche, concetti, principi…, come insiemi di date conoscenze afferenti ad una o più aree disciplinari;

COMPETENZA come utilizzazione delle conoscenze acquisite, necessarie per risolvere situazioni problematiche o produrre nuovi “oggetti”, in quanto applicazione concreta di una o più conoscenze teoriche;

CAPACITA’ come utilizzazione responsabile e significativa di determinate competenze in situazioni organizzate in cui interagiscono più fattori e/o più soggetti e si debba assumere una decisione.

Si trattava, ovviamente, di approfondimenti concettuali che potremmo definire provvisori, tuttavia aderenti a quanto indicato dalle definizioni date dal Regolamento. Non si trattava, infatti, delle definizioni che sono state date negli anni successivi anche e soprattutto con il concorso delle interlocuzioni avute con i partner europei nel contesto dell’Unione.

 

Un modello di certificazione provvisorio… ancora in adozione!

In effetti, in quegli anni, la ricerca e la letteratura in merito alle competenze non era affatto univoca e la stessa Unione europea, nata a Maastricht qualche anno prima, nel 1992, pur nelle sue diverse articolazioni, non dava indicazioni univoche precise in merito. In tale carenza dottrinale, nostrana ed europea – se si può dire così – il Ministero scelse la via più facile, quella di rinviare di due anni una vera e propria certificazione di competenze e di prendersi e dare alle scuole un periodo di riflessione.

Fu così che, quando si trattò di definire un primo modello di certificazione conclusivo del nuovo esame di Stato con il dm 450/98, si optò per un modello in cui si indicassero semplicemente i risultati ottenuti in termini numerici del punteggio ottenuto dal candidato. Le commissioni, comunque, avrebbero potuto attestare le “ulteriori specificazioni valutative con riguardo anche a prove sostenute con esito particolarmente positivo”. Quindi, di una certificazione vera e propria e definitiva, neanche l’ombra! Il Ministero si prendeva il tempo per riflettere e decidere. E nel medesimo decreto, infatti, leggiamo: “I modelli delle certificazioni integrative del diploma hanno carattere sperimentale e si intendono adottati limitatamente agli anni scolastici 1998/1999 e 1999/2000”. Sono passati ormai sedici anni, ma di certificazione e relativi modelli ancora non si parla! E il dm 26/2009, che rinnova quello di undici anni prima, ovviamente nulla dice in proposito.

Il ritardo in materia è grave in quanto non consente ai nostri diciannovenni in uscita dal sistema di istruzione di produrre un documento che certifichi ciò che veramente sono in grado di fare. E non c’è giustificazione alcuna al riguardo, perché nel corso degli anni la ricerca educativa comunitaria – e si ricordi che l’Unione europea e le sue istanze non sono organismi “altri” dai nostri, perché, com’è noto, anche noi ne facciamo parte e i documenti europei sono prodotti anche con il nostro contributo.

 

Le competenze nei documenti dell’Unione europea

E’ opportuno quindi segnalare che, in materia di competenze il Parlamento europeo e il Consiglio hanno recentemente prodotto documenti definitivi, che ogni Stato membro dovrebbe considerare e far propri.

Il primo documento è la Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea del 18 dicembre 2006, che detta le competenze chiave di cittadinanza in grado di garantire a ciascun cittadino dell’Unione anche e soprattutto l’apprendimento permanente: 1) comunicazione nella madrelingua; 2) comunicazione nelle lingue straniere; 3) competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia; 4) competenza digitale; 5) imparare a imparare; 6) competenze sociali e civiche; 7) spirito di iniziativa e imprenditorialità; 8) consapevolezza ed espressione culturale.

Il secondo documento è la Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea del 23 aprile 2008, con cui viene istituito il Quadro europeo delle qualifiche (European Qualifications Framework, EQF) per l’apprendimento permanente. Si tratta di un sistema comparativo che permette di confrontare ed equiparare titoli di studio e qualifiche professionali dei cittadini degli Stati membri dell’Unione europea. In altri termini, un cittadino europeo che circoli per studio o per lavoro in ciascuno dei Paesi membri, sa che il suo titolo corrisponde a un preciso livello europeo debitamente riconosciuto.

In tale Raccomandazione i risultati di apprendimento sono definiti in termini di CONOSCENZE, ABILITA’ e COMPETENZE. Si noti che la scansione di cui alla citata legge 425/97 e successivo Regolamento aveva adottato un ordine diverso e precisamente CONOSCENZE, COMPETENZE e CAPACITA’, un ordine che, ovviamente, oggi, va assolutamente corretto, anche perché la Raccomandazione dà definizioni formali ormai definitive, che ciascun sistema di istruzione sia generalista che di formazione professionale dei 28 Paesi membri deve fare proprio. Pertanto, con l’EQF si definisce, in modo chiaro e trasparente, il livello di apprendimento e di competenza raggiunto da un qualsiasi cittadino europeo in un certo ambito di istruzione e/o di formazione.

I livelli adottati sono 8. Mi limito a riprodurre il primo, relativo a un’istruzione minimale di base, e l’ultimo, relativo ad alte specializzazioni.

Livello 1 – CONOSCENZE generali di base. ABILITA’ di base necessarie a svolgere mansioni/compiti semplici. COMPETENZE: lavoro o studio, sotto la diretta supervisione in un contesto strutturato.

Livello 8 – Le CONOSCENZE più all’avanguardia in un ambito di lavoro o di studio e all’interfaccia tra settori diversi. Le ABILITA’ e le tecniche più avanzate e specializzate, comprese le capacità di sintesi e di valutazione, necessarie a risolvere problemi complessi della ricerca e/o dell’innovazione e ad estendere e ridefinire le conoscenze o le pratiche professionali esistenti. Le COMPETENZE: dimostrare effettiva autorità, capacità di innovazione, autonomia, integrità tipica dello studioso e del professionista e impegno continuo nello sviluppo di nuove idee o processi all’avanguardia in contesti di lavoro, di studio e di ricerca.

Le definizioni che oggi finalmente possiamo dare in via definita dei tre termini/concetti di CONOSCENZE, ABILITA’ e COMPETENZE sono le seguenti:

CONOSCENZE – insieme organizzato di dati e informazioni relative a oggetti, eventi, procedure, tecniche, regole, principi, teorie, che il soggetto ap-prende, com-prende, archivia e utilizza in situazioni operative quotidiane procedurali e problematiche;

ABILITA’ – atti concreti singoli che il soggetto compie utilizzando date conoscenze e dati strumenti; di fatto un’abilità costituisce un segmento di competenza;

COMPETENZA – “la comprovata capacità di usare conoscenze, abilità e capacità personali (il Sé), sociali (il Sé e gli Altri) e/o metodologiche (il Sé e le Cose) in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e/o personale. Nel Quadro Europeo delle Qualifiche le competenze sono descritte in termini di responsabilità e autonomia”. NB: Le virgolette stanno a indicare che si tratta del testo ufficiale della Raccomandazione europea, fatta eccezione degli scritti tra parentesi.

 

Le Raccomandazioni europee nella normativa italiana

Le due Raccomandazioni sono state fatte proprie dal nostro Governo.

La Raccomandazione relativa alle competenze di cittadinanza la ritroviamo adottata dal dm 139/2007, relativo all’innalzamento e adempimento dell’obbligo di istruzione decennale, e dal dm 9/2010, relativo al modello di certificazione.

Nel dm 139/2007 le otto competenze chiave di cittadinanza europee sono state così “curvate” alla specificità del nostro “sistema educativo di istruzione e formazione: 1) Imparare ad imparare; 2) Progettare (riguardano lo sviluppo del Sé in quanto persona); 3) Comunicare; 4) Collaborare e partecipare; 5) Agire in modo autonomo e responsabile (riguardano lo sviluppo del Sé in rapporto con gli Altri); 6) Risolvere problemi; 7) Individuare collegamenti e relazioni ( riguardano lo sviluppo del Sé in rapporto con la realtà naturale e sociale).

I tre vettori relativi allo sviluppo della Persona riprendono in effetti quanto sancito del dpr 275/99 relativo all’autonomia delle istituzioni scolastiche, che all’articolo 1, comma 2 così recita: “L’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di EDUCAZIONE, FORMAZIONE e ISTRUZIONE mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento”. L’educazione riguarda lo sviluppo/crescita del soggetto all’interno di un contesto sociale organizzato; la formazione riguarda il suo personale sviluppo/crescita e apprendimento; l’istruzione riguarda l’acquisizione di quelle personali conoscenze, abilità e competenze che gli consentiranno di accedere con successo al mondo del lavoro [2].

E’ opportuno ricordare che nel citato dm 139/2007 vengono anche individuate 16 competenze culturali così distribuite: 6 competenze afferenti all’asse dei linguaggi; 4 competenze afferenti all’asse matematico; 3 competenze afferenti all’asse scientifico-tecnologico; 3 competenze afferenti all’asse storico sociale. Si tratta da competenze che vengono accertate e certificate al termine dell’obbligo di istruzione decennale.

La Raccomandazione relativa all’European Qualifications Framework è stata è stata recepita dall’“Accordo Stato Regioni (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Conferenza Permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano) per la referenziazione del sistema italiano delle qualifiche al Quadro Europeo delle Qualifiche (EQF – European Qualifications Framework), di cui alla Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008”, siglato il 20 dicembre 2012.

Dal citato Accordo si evincono le seguenti corrispondenze tra i livelli europei e i nostri titoli di studio:

livello1 – diploma di licenza conclusiva del primo ciclo di istruzione;

livello 2 – certificato delle competenze di base acquisite in esito all’assolvimento dell’obbligo di istruzione;

livello 3 – qualifica di operatore professionale;

livello 4 – diplomi conclusivi del secondo ciclo di istruzione; diploma professionale di tecnico; certificato di specializzazione tecnica superiore;

livello 5 – diploma di Istruzione Tecnica Superiore;

livello 6 – laurea; diploma accademico di primo livello;

livello 7 – laurea magistrale; diploma accademico di secondo livello; master universitario di primo livello; diploma accademico di specializzazione (primo livello); diploma di perfezionamento o master (primo livello);

livello 8 – dottorato di ricerca; diploma accademico di formazione alla ricerca; diploma di specializzazione; master universitario di secondo livello; diploma accademico di specializzazione (secondo livello); diploma di perfezionamento o master (secondo livello).

Nell’Accordo leggiamo anche che occorre “adottare le misure necessarie affinché, a far data dall’1 gennaio 2014, tutte le certificazioni delle qualificazioni rilasciate in Italia… riportino un chiaro riferimento al corrispondente livello del Quadro Europeo delle Qualificazioni per l’apprendimento permanente”.

Gli 8 livelli europei sono scanditi secondo tre descrittori, ormai adottati anche nel nostro Paese: CONOSCENZE, ABILITA’ e COMPETENZE; e di ciascun livello si indicano le rispettive corrispondenze.

Per quanto riguarda la conclusione del primo ciclo italiano, gli esiti di apprendimento indicati dall’Unione europea sono i seguenti:

  • conoscenze: conoscenze generali di base;

  • abilità: abilità di base necessarie per svolgere mansioni/compiti semplici;

  • competenze: lavorare o studiare sotto supervisione diretta in un contesto strutturato.

Com’è noto, la competenza relativa al lavoro non riguarda il nostro ordinamento, in quanto “l’età minima di ammissione al lavoro è fissata al momento in cui il minore ha concluso il periodo di istruzione obbligatoria” (dlgs 345/99, art. 5), quindi dopo il compimento dei 16 anni di età. E’ opportuno ricordare che ai 15 anni di età è possibile accedere all’apprendistato di primo livello, finalizzato al compimento dell’obbligo di istruzione, al conseguimento di una qualifica di primo livello e a un diploma professionale (si veda il Testo Unico sull’apprendistato, dlgs 167/2011).

Per quanto riguarda il conseguimento dell’obbligo di istruzione decennale (si consegue nei percorsi del secondo ciclo di istruzione, nei percorsi dell’istruzione e formazione professionale regionale e nell’apprendistato), gli esiti di apprendimento indicati dall’Unione europea sono i seguenti:

  • conoscenze: conoscenze pratiche di base in un ambito di lavoro e di studio;

  • abilità: abilità cognitive e pratiche di base necessarie per utilizzare le informazioni rilevanti al fine di svolgere compiti e risolvere problemi di routine, utilizzando regole e strumenti semplici;

  • competenze: lavorare o studiare sotto supervisioni diretta con una certa autonomia.

Il quarto livello interessa gli studenti che concludono e superano il secondo ciclo di istruzione. Gi esiti di apprendimento, di cui al quarto livello europeo, sono i seguenti:

  • conoscenze: conoscenze pratiche e teoriche in ampi contesti in un ambito di lavoro e di studio;

  • abilità: una gamma di abilità cognitive e pratiche necessarie per creare soluzioni a problemi specifici in un ambito di lavoro e di studio;

  • competenze: autogestirsi all’interno di linee guida in contesti di lavoro o di studio solitamente prevedibili, ma soggetti al cambiamento; supervisionare il lavoro di routine di altre persone, assumendosi una certa responsabilità per la valutazione e il miglioramento delle attività di lavoro e di studio.

L’accordo è entrato in vigore a partire dal primo gennaio 2014.

 

I diciannovenni non sono (ancora) competenti, ma…

…gli undicenni e i quattordicenni sì! Che strano Paese! Che strana amministrazione! Eppure le “carte” parlano chiaro. Alludo alla cm 3 del 13 febbraio 2015 con cui vengono proposti alla sperimentazione delle istituzioni scolastiche autonome due modelli di certificazione delle competenze relativi rispettivamente al termine della quinta classe primaria e della terza media. L’incipit della circolare è il seguente: “Come è noto l’ordinamento scolastico vigente (DPR n. 122/2009) prevede che al termine del primo ciclo di istruzione sia rilasciata ad ogni allievo una certificazione delle competenze acquisite in esito al percorso formativo frequentato. Analoga prescrizione è prevista al termine del percorso della scuola primaria. Il rilascio della certificazione è di competenza dell’istituzione scolastica frequentata dall’allievo, che vi provvede sulla base di un modello nazionale (Legge 53/2003). Come precisano le Indicazioni Nazionali per il curricolo (DM 254/2012), che dedicano a questo tema un apposito capitolo, la certificazione delle competenze attesta e descrive le competenze progressivamente acquisite dagli allievi”.

In effetti, sembra che la nostra amministrazione abbia imboccato ormai da oltre un decennio la strada delle competenze e della loro certificazione – forse perché “ce lo chiede l’Europa” – senza però avviare, e soprattutto con gli insegnanti, una seria riflessone sia sul concetto di competenza che su quello di certificazione. Sono in molti a chiedersi se un bambino di 11 anni e un adolescente di 14 possano avere seriamente maturato una competenza, se è vero che la competenza è un saper fare complesso rispetto al “saper fare” di un soggetto in età evolutiva.

La scelta che avevamo compiuta con la legge 296/2006, articolo 1, comma 622, era chiara: “L’istruzione impartita per almeno dieci anni è obbligatoria ed è finalizzata a consentire il conseguimento di un titolo di studio di scuola secondaria superiore o di una qualifica professionale di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età… L’adempimento dell’obbligo di istruzione deve consentire, una volta conseguito il titolo di studio conclusivo del primo ciclo, l’acquisizione dei saperi e delle competenze previste dai curricula relativi ai primi due anni degli istituti di istruzione secondaria superiore…”.

Si indicava chiaramente la necessità di avviarsi verso un curricolo verticale continuo e progressivo, pur in permanenza di quella cesura costituita dalla “licenza media” conclusiva di un primo ciclo di istruzione. Com’è noto, il comma 5 dell’articolo 33 della Costituzione prescrive “un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi…”. Pertanto, la licenza media, pur non costituendo il termine dell’obbligo di istruzione, conclude, comunque, un ciclo e l’esame di Stato è più che legittimo, finché non ci si decida a riconoscere che un reale primo ciclo di istruzione coincide con il compimento dell’obbligo.

In conclusione, sarebbe forse il caso di dire che apprendere per competenze non significa tout court certificarle ad ogni pie’ sospinto. Una competenza necessita di tempi lunghi di apprendimento e di maturazione, e un soggetto in età evolutiva è assai difficile che maturi precocemente una competenza, tranne le rare eccezioni: un Giotto, un Mozart, un Leopardi; e come non ricordare il piccolo Ermes che, appena nato, con il carapace di una tartaruga si costruì una lira! L’importante è che l’insegnante sappia che l’apprendimento di un dato contenuto (oggetti, eventi, personaggi, procedure, regole, tecniche, principi, teorie, ecc.) non è mai fine a se stesso, ma è condizione di un “saper fare” prossimo venturo, che nei tempi brevi costituirà un’abilità e che nei tempi lunghi, coniugato con altre conoscenze e con altre abilità, darà luogo a dei “saper fare” complessi, quindi a una o più competenze.

In effetti, la stessa cm 3 – nonostante la dotta e circostanziata introduzione – non sembra cedere molto all’invito a certificare competenze a tutto tondo, quando si limita ad usare l’espressione “profili di competenza”, che di fatto rinviano ai “traguardi per lo sviluppo delle competenza”, che ritroviamo nelle Indicazioni nazionali.

Per concludere, da parte dell’amministrazione l’enfasi sulle competenze è molto alta, ma le indicazioni concrete sono molto poche. Comunque, in tale situazione i nostri diciannovenni attendono. Fino a quando?

[1] Si vedano in proposito: a) i risultati di apprendimento comuni a tutti i percorsi liceali e quelli distinti per ciascuno degli otto licei nell’allegato A del dpr 89/2010; b) i risultati di apprendimento relativi al quinto anno dei percorsi tecnici e professionali, rispettivamente nelle Direttive ministeriali 4 e 5 del 16 gennaio 2012.

[2] Va sottolineato che, mentre sotto oil profilo psicopedagogico, per formazione si intende la formazione della persona, sotto il profilo istituzionale e normativo per formazione si intende l’“istruzione e formazione professionale”, di cui all’articolo 117 Cost., di competenza delle Regioni.

Uno sciopero che farà lavorare di più!

Uno sciopero che farà lavorare di più!
Ma che sindacati abbiamo?

di Maurizio Tiriticco

Qualcuno mi deve spiegare a che cosa serve lo “sciopero breve di un’ora degli scrutini da parte del personale docente per due giornate consecutive”, proclamato dai sindacati scuola confederali, Snals e Gilda.

Conosciamo tutti – forse non li conoscono gli amici sindacalisti? – i tempi ristretti, anzi ristrettissimi, che un’istituzione scolastica ha, quando si chiudono le lezioni e si deve poi passare alle operazioni d’esame.

Pertanto, i tempi utili per gli scrutini, che, com’è noto, sono “prestazioni indispensabili”, quindi da farsi comunque, perché a rischio di precettazione, sono quelli che sono.

Va anche considerato che gli scrutini delle classi che devono sostenere esami non sono investite dallo sciopero.

Pertanto, i tempi sono pressoché contingentati! In effetti, è così da sempre!

A mio vedere, si tratta di uno sciopero che non tocca il governo, perché gli scrutini, COMUNQUE, SI DEVONO FARE!

In quali tempi all’amministrazione non interessa!

Purché si facciano!

Gli insegnanti saranno costretti a FARE COMUNQUE GLI SCRUTINI, purtroppo anche in orari imprevedibili!

Un tour de force faticosissimo!

Quindi, se un insegnante sciopera, non solo perde soldi – e l’amministrazione ci guadagna – ma poi si trova a lavorare di più successivamente e in orari assurdi.

Quindi, si sciopera per… LAVORARE DI PIU’!!!

IL GOVERNO PUO’ BELLAMENTE PROCEDERE PER LA SUA STRADA.

E I SINDACATI NON PERDONO LA FACCIA!

Almeno così pensano.

Ma questo è sindacalismo? Mah!

Ho fatto un sogno!

Ho fatto un sogno!

di Maurizio Tiriticco

 

La maestra Alessandra Pirozzi ha redatto un appello contro la Buona scuola e il ddl che ne è seguito (https://www.facebook.com/maurizio.tiriticco/posts/10202915093353475), ricco di note e di argomentazioni. E’ bene acquisirlo! Io lo condivido.

Cara maestra Alessandra! Il tuo appello mi ha molto colpito e… ho fatto un sogno! Mi è venuto a trovare Don Lorenzo e mi ha chiesto se non sia il caso oggi di scrivere una LETTERA… indovina a chi? A una MINISTRA. Mi ha detto che, quando i suoi alunni nel 1967 scrissero la famosa Lettera, la inviarono a una Professoressa (in effetti, implicitamente, anche a me, che allora insegnavo nella scuola media e – confesso – insegnavo maluccio), non a un Professore, e sai perché? Perché il ministro di allora, Luigi Gui, stava realizzano con grande fatica una riforma epocale, l’innalzamento dell’obbligo di istruzione da 5 a 8 anni, da concludersi in un triennio successivo alle scuole elementari, che non venne più distinto nella scuola media per PIERINO e nella scuola di avviamento al lavoro (ovviamente manuale) per il povero GIANNI, ma che fu unificato. Non a caso si parlò di “scuola media unica”.

Si trattava di una delle leggi più belle della nostra Repubblica, così ardita e avanzata che noi stessi, professori e professoresse, stentavamo a realizzare: era la legge n. 1859 del 1962, sempre con il ministro Gui. Ebbene, dall’anno scolastico 1962/63 le bocciature fioccavano, e sai perché? Perché a noi insegnanti nessuno aveva detto che avremmo dovuto modificare i tradizionali modi di insegnare. E quella lettera degli alunni di Don Lorenzo – a cinque anni dalla riforma – per noi fu una vera e propria bomba! Infatti, furono proprio gli alunni della scuola di Barbiana a insegnare a me e a tanti altri insegnanti come si doveva – e si deve – insegnare nella Scuola di una Repubblica che nella Sua Carta Costituzionale ha inserito l’istruzione come strumento primario dell’eguaglianza e della democrazia.

Io questa notte ero un po’ frastornato! Sogno o realtà? Don Lorenzo stava lì… ai piedi del letto e mi esortava a scrivere una nuova lettera, stavolta a un Ministro, o meglio a una Ministra, e a un intero Governo: una lettera in cui si dicesse chiaro e tondo che la vera scuola è quella che vuole e deve garantire a tutti e a ciascuno il proprio personale successo formativo! “Lo avete scritto voi – mi ha detto – nel Regolamento sull’autonomia delle istituzioni scolastiche! All’articolo !! E ve ne siete dimenticati? Ma che diavolo state combinando? Ma che governanti avete? Io sto nell’aldilà e un ufficio postale qui non c’è! Ma voi che state nell’aldiquà e avete pure il web… ai miei tempi non c’era… che aspettate? Scrivetela questa nuova lettera ai vostri cattivi ministri! La scuola che vi stanno proponendo non ha nulla a che vedere con quella che io e i miei alunni avevamo impiantato su a Barbiana. Faceva un freddo cane d’inverno. La scuola era in un casolare, però io e i miei ragazzi imparavamo… e tanto… e ci divertivamo pure. Però eravamo anche rigorosi! La disciplina era al primo posto! Ma si era tutti d’accordo! Eravamo convinti di questo: se non si impara a leggere e a scrivere, ci sarà sempre qualcuno che ci comanda e ci sfrutta e noi questo non lo vogliamo più! E allora non c’erano le multinazionali, credo; non c’era la globalizzazione! Tutte cose molto pericolose, oggi, per il lavoro, la vita, l’istruzione. Eravamo convinti di questo! Dai! Maurizio! Datti da fare”!

Cara Maestra Alessandra! Mi sono svegliato tutto sudato e mi sono chiesto: ma è stato veramente un sogno? Un odore acre di campagna si sentiva per tutta la camera… e io sono un professorino di città! A volte i sogni sono più veri della realtà! Così dicono. A presto, Maestra Alessandra! Il 5 maggio di tanti anni fa è morto un Grande uomo – si fa per dire… sempre ai posteri le ardue sentenze…, ma il 5 maggio del 2015 può nascere un’altra Grande Scuola! Un abbraccio solidale!

La scuola come quarto potere costituzionale

La scuola come quarto potere costituzionale

di Maurizio Tiriticco

 

Ferdinando Imposimato in un convegno tenutosi a Roma lo scorso 24 aprile, promosso dagli insegnanti dell’Adida, nell’esprimere la sua preoccupazione nei confronti del disegno di legge di riforma della scuola presentato dal Governo Renzi, ha voluto sottolineare che si tratta di un vero e proprio attacco “contro la democrazia e la Costituzione e contro il diritto degli studenti a ricevere gratuitamente una seria educazione e formazione culturale e morale a vantaggio della loro persona e della collettività. A differenza dello Stato totalitario, lo Stato democratico, perseguendo l’interesse collettivo alla cultura, lascia alle persone libertà di formarsi e non stabilisce con arbitraria sopraffazione, quello che è etico e giusto insegnare (Atti costituzionali, relazione A Moro 18 ottobre 1946)”. E, a sostegno della sua tesi, ha voluto ricordare come lo stesso Piero Calamandrei sostenesse che la scuola è un vero e proprio organo costituzionale.

Mi piace riportare quanto testualmente ebbe a dire in proposito Piero Calamandrei nel suo intervento al terzo Congresso dell’ADSN, Associazione per la Difesa della Scuola Nazionale, tenutosi in Roma l’11 febbraio 1950: “La scuola, come la vedo io, è un organo costituzionale. Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel complesso di organi che formano la Costituzione. Come voi sapete (tutti voi avrete letto la nostra Costituzione), nella seconda parte della Costituzione, quella che si intitola L’ordinamento dello Stato, sono descritti quegli organi attraverso i quali si esprime la volontà del popolo. Quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto, le vitali e sane lotte della politica si trasformano in leggi. Ora, quando vi viene in mente di domandarvi quali sono gli organi costituzionali, a tutti voi verrà naturale la risposta: sono le Camere, la Camera dei deputati, il Senato, il presidente della Repubblica, la Magistratura: ma non vi verrà in mente di considerare fra questi organi anche la scuola, la quale invece è un organo vitale della democrazia come noi la concepiamo. Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue”.

In tempi non sospetti, in un articolo dallo stesso titolo, del 9 ottobre 2012, avanzavo l’dea della scuola come “quarto potere”, sollecitato da un documento varato dal Coordinamento nazionale per la Scuola della Costituzione, contenente severe e fondate critiche al pdl 953, meglio noto, allora, come proposta Aprea. E sostenevo anche che l’autonomia della Scuola, o meglio dell’intero “Sistema educativo di istruzione formazione” – così hanno voluto denominarlo due ministri di posizioni politiche avverse, Luigi Berlinguer, con la legge 30/2000, e Letizia Moratti, con la legge 53/2003 – ha e deve avere un respiro ben più ampio di quello indicato dalla legge delega 59/1997 e dal dpr 275/99, un respiro costituzionale. E non è un caso che, con la legge costituzionale 3/2001, con cui si è modificato il Titolo V della Costituzione, al comma 3 dell’articolo Cos. 117, l’autonomia delle istituzioni scolastiche sale al rango costituzionale.

In quell’articolo così mi esprimevo:

“Se queste considerazioni sono vere, perché non rivendicare allora il fatto che il Sistema di istruzione si colloca come un quarto potere autonomo e indipendente dagli altri? La sua diretta discendenza è data dalla Carta costituzionale (e si potrebbero citare altri articoli, oltre ai già noti 2, 3, 9, 33, 34, 117), come dalla Carta discendono le autonomie dei tre poteri canonici. Tutte le disquisizioni sui rapporti tra Stato, Parlamento, Miur e Istituzioni scolastiche (fino a che punto deve giungere la decretazione centrale?) vengono a cadere nel momento in cui si ritorna alle origini stesse della separazione dei poteri, che ovviamente non significa – e non lo è – la via delle delegificazione! Esiste un Ministero della Giustizia ed esiste una Magistratura indipendente (anche se a volte emergono delle frizioni). Quindi possono e devono continuare ad esistere un Miur e una Scuola autonoma: ai quali sono affidati finalità e compiti diversi”.

“Tutto questo per dire che l’autonomia non solo viene da lontano, ma costituisce, o dovrebbe costituire, la garanzia stessa dell’esercizio della democrazia. I Padri costituenti hanno anche guardato lontano quando, nella Parte seconda, hanno chiaramente indicato quale fosse la scelta di fondo di un Paese democratico: l’indipendenza dei tre poteri, dalla felice intuizione di quel Montesqiueu che in pieno Illuminismo gettò le basi teoriche di un governo della Cosa Pubblica che fosse autenticamente democratico. Ricordo a memoria quella sua massima, secondo la quale, ‘perché non si possa abusare del potere, occorre che il potere arresti il potere’. E’ una delicata operazione di uncinetto quella svolta dai nostri Padri costituenti, quando hanno puntualmente descritto gli ambiti e i limiti del Governo, del Parlamento, della Magistratura: una tripartizione che è nel contempo il sale della democrazia e l’esercizio dell’autonomia”

Se queste considerazioni, di ieri e di oggi, sono vere, è anche vero che l’autonomia delle istituzioni scolastiche non può e non deve essere rimessa in discussione da un ddl che non solo attenta al principio stesso dell’autonomia, ma intende costruire una scuola “altra” che con la Costituzione e con la nostra storia non ha nulla a che fare.

La Buona scuola: l’ottimismo della ragione non è di casa

La Buona scuola: l’ottimismo della ragione non è di casa
risposta ad Aldo Tropea

di Maurizio Tiriticco

 

Caro Aldo! Io da questo governo, “nostro”, eletto da noi, di sinistra, oltre il 40% dei voti alle europee, non mi sarei mai aspettato una bufala grossa così! Sono anni che conduciamo una battaglia o, se vuoi, un discorso” sulla scuola, che va in una certa direzione, quella avviata da Berlinguer e da De Mauro – con tutti i suoi limiti – centrata su un riordino complessivo dell’intero sistema educativo di ISTRUZIONE e FORMAZIONE: discorso che, del resto, ha anche caratterizzato le iniziative di ministri di centro destra, Moratti e Gelmini, piene di limiti, e che con il “nostro” governo avremmo dovuto correggere, ma… Invece è uscita quella preoccupante Buona scuola, scritta da chi e perché… MA CHI GLIELO HA CHIESTO!!!

Il DISCORSO “nostro” era avviato da tempo e, dopo anni di berlusconismo e di centrodestra, occorreva riprendere quelle fila, su tre percorsi, se vuoi, AUTONOMIA, CURRICOLI, COMPETENZE, sempre nell’ottica della Scuola della Costituzione, fondata sulla cittadinanza, sull’offerta formativa inclusiva, sul rafforzamento dell’esistente e sulla ripresa di un percorso interrotto.

NULLA DI TUTTO QUESTO ho visto, abbiamo visto!!! Hanno tirato fuori dal cappello un coniglio inatteso, come al circo… da quel cappello è uscito di tutto, ma nulla di quanto atteso e sollecitato e sostenuto da anni. Ho letto la Buona scuola e ho letto il ddl. E mi sono detto: ma questa è la scuola di un altro Paese, di non so dove, ma noi “che ci azzecchiamo” con questi discorsi? Non è roba nostra, non ci riguarda, non è sulla scia e sull’onda della scuola per cui abbiamo lottato e lavorato io e te e tanti altri. E’ un calzino rovesciato! Siamo al Circo Togni! Come contenuti e come linguaggio!

Dentro quelle proposte non c’è l’eco della 517, dei programmi del ’79, dei programmi dell’85, non c’è il respiro dei Programmi Brocca, o del Progetto 92, non ci sono i progetti assistiti dei tecnici, non c’è l’obbligo di Don Milani, non c’è la nostra storia, non c’è l’Europa! C’è una Scuola Altra, disegnata con tratti aziendalistici, scuole da premiare e sostenere e scuole da punire e da chiudere; dirigenti a cui è data carta bianca, insegnanti che dovranno “piacere” e i cui titoli varranno solo il due di briscola! Che faranno un concorso senza poter scegliere la sede. Che traghetteranno da una scuola all’altra, se traghetteranno, sempre in attesa di una chiamata! Avanzata chissà con quali criteri, diversi da scuola a scuola, da dirigente a dirigente.

E poi la mannaia della valutazione di sistema! Già vedo l’Invalsi che si frega le mani! Tra il gracidare di migliaia di RAV, RAV, RAV. Carte su carte impazzite e inutili, buone solo ad aprire e chiudere il bordone dei finanziamenti. E in un Paese di raccomandazioni e bustarelle ci sarà da ridere, o meglio da soffrire! Perché questo istituto frascatano, tra una foglietta e l’altra, sarà il vero nuovo Ministero dell’Educazione Nazionale! Io e te abbiamo buona memoria! E sai cosa voglio dire. E il Miur possiamo anche chiuderlo! Avremo la scuola a punti, a seconda del gradimento dei clienti genitori e dei padroncini dirigenti!

E questa sarebbe l’autonomia? No, caro Aldo! Io non ho “lavorato” per la scuola di Giannini, Faraone e Puglisi e degli altri anonimi estensori di Buone scuole e ddl.

I Padri Costituenti hanno scritto nel lontano 1947 articoli chiarissimi sul nostro sistema di istruzione generalista e di formazione professionale e te li voglio ricordare: 2, 3, 4, 9, 33, 34, e il novellato 117. Che indicano e sanzionano principi che nel ddl non esistono! No, Aldo! Il polpettone che ci stanno proponendo e imponendo è indigeribile! L’ho detto e l’ho scritto! Piuttosto, si dessero da fare per sanare quello sconcio dei 150.000 precari, che è una vergogna a fronte della quale gli amici stranieri rimangono solo stupefatti e increduli! Il precariato! Un’arma di ricatto che si protrae da decenni! Ma, se non si sbrigano, conoscendo la nostra amministrazione, i precari rimarranno tali a vita! QUESTA E’ L’UNICA COSA CHE DEVONO FARE! Per il resto, devono solo tacere!

Purtroppo, non solo parlano, ma hanno anche scritto! Ebbene, sappi che il testo, sotto il profilo giuridico-formale, è impreciso, lacunoso, oscuro e offrirà il fianco a mille scritturazioni, a mille imprecisioni. Purtroppo, pensano anche di giocare con un linguaggio che non è il loro! Ma me lo aspettavo perché quella Buona scuola non eccelle affatto sotto il profilo formale. Sembra più un testo pubblicitario per brave massaie che un testo propositivo di un riordino rigoroso e SERIO! Perché il ddl divenga operante, occorreranno decine e decine di decreti delegati, e la RIFORMA RENZIANA procederà a pezzi e a bocconi! Passeranno anni e anni! Tra mille incertezze, mille imprecisioni, mille ricorsi!

Una valanga sta per abbattersi sul nostro SISTEMA EDUCATIVO DI ISTRUZIONE E FORMAZIONE! Speriamo che non sia così, ma, purtroppo, è stagione di terremoti.

Caramente, Maurizio

Giullarata – si fa per dire – in onore di Tullio De Mauro

GIULLARATA – si fa per dire – in onore di Tullio De Mauro

di Maurizio Tiriticco

 

Il 14 aprile u.s. i professori, gli alunni e gli ex alunni del Liceo Giulio Cesare di Roma hanno voluto rendere omaggio a uno dei suoi alunni più famosi. Io ho voluto “rileggere” in chiave giullaresca i libri relativi alla sua biografia

 

Tullio De Mauro, Parole di giorni lontani, il Mulino, Bologna, 2006

Tullio De Mauro, Parole di giorni un po’ meno lontani, il Mulino, Bologna, 2012

 

Tullio De Mauro, Torre Annunziata, classe 1932, infanzia trascorsa a Napoli fino al 1942 quando, dopo il bombardamento a tappeto del 4 dicembre, si trasferisce con la famiglia a Roma.

 

Tullio è un bambino curioso, che tutto vuole vedere e tutto vuole capire. Con tutti gli errori in cui un bambino può cadere!

Quindi una lingua ascoltata e ricostruita a seconda dei suoni e delle assonanze…

E’ tipico dei bambini

Così la canzone Popolanella tu sei la stella perché sei bella nella tua semplicità – Carlo Buti, 1932 – cantata da una bambina forse troppo in carne… diventa Popona Nella…

 

Le ingenuità

Dopo avere assistito a un funerale, carro nero, cavalli neri… forse un morto importante, e il saluto… il saluto fascista… “papà, oggi ho visto un morto con certi denti enormi, enormi così… era nero… e nitriva forte…

Tullio aveva scambiato il cavallo per il cadavere…

 

E poi… la lectura Dantis

A Natale tornano le ciaramelle, la madre innamorata del POETA… racconta a Tullio che il padre aveva spiegato a una signora un po’ saputa e un po’ pretenziosa che Dante nel suo poema parla di un singolare strumento musicale, la manconella

Dal canto terzo dell’Inferno

Diverse lingue, orribili favelle,

parole di dolore, accenti d’ira,

voci alte e fioche, e suon di man con elle

 

La parole e la langue… il futuro studioso del De Saussure

E per Benito Mussolini eia eia alalà   il perbenito per Tullio è un participio del verbo “perbenire”       Io perbenisco tu perbenisci…

 

Un piccolo Tullio che nel suo primo decennio deve fare i conti con le parole della quotidianità e ANCHE con quelle della retorica imperiale e guerrafondaia: un’esperienza non semplice, ma utilissima per chi comincia ad allenarsi per diventare un linguista!

Muore D’Annunzio – siamo nel marzo del ’38 – e Tullio si sorprende perché non vede i tricolori “abbrunati”: ed è la mamma che deve spiegare che “abbrunato” non va inteso nel suo senso letterale.

E così è per lo “sciamare” delle foglie o per le “torride” steppe della Russia: c’è sempre l’intervento adulto a rendere espliciti significati che nella mente di un bambino, sempre fervida e produttiva, sono sempre un’altra cosa. Insomma, qua e là spunti oltremodo interessanti di analisi del linguaggio (sic!), in cui il gioco tra la parole e la langue saussuriane è sempre aperto in chi cresce, si sviluppa e apprende.

 

L’interazione linguistica come condizione della crescita!

 

Un bambino vivace e curioso con gli occhi aperti sul mondo, che poi è quello di un’Italietta imperiale e provinciale nel contempo.

Una famiglia fascista, se si può dir così, come tutti potevamo e dovevamo essere negli anni Trenta e Quaranta, quando al bastone inferto ad alcuni si accoppiava la carota … offerta ai più.

 

Tullio ha un fratello aviatore, Franco, nel lessico famigliare “la perla”, volontario e fascista, aviatore, morto in un incidente aereo nel 1943… e un secondo, Mauro, “il genio”, quello che poi verrà ucciso dalla mafia nel 1970, anche lui più che convinto del fascismo e della guerra, tant’è vero che dopo l’8 settembre aderirà alla Repubblica di Salò.

Tullio è un bambino intelligente e nel pieno della guerra e della carenza dei beni primari che giorno dopo giorno cominciano a scarseggiare, viene anche a sapere che qualcuno tra le persone che frequenta, anzi proprio il suo maestro, a detta del fratello Mauro, ormai pronto per partire per il fronte greco, era ANTIFASCISTA

Il pensiero unico è messo alla prova!

Più tardi la fame, le bombe, i fronti aperti dalla Russia all’Africa del Nord insinuano alcuni dubbi nel piccolo Tullio, anche se in famiglia si preferisce non parlare, anche perché, come diceva un manifesto, il nemico ti ascolta, e – com’è noto – il disfattista era sempre pronto a gettare discredito sulle sorti del conflitto.

 

Insomma, Tullio, crescendo si dimostra intelligente e preparato quanto basta per aspirare agli studi liceali, là dove il latino era la materia discriminante. E fu così che il professor Cocchia, “assai popolare a Napoli per la sua dottrina”, propose al piccolo Tullio alcune domande. “Il referto fu positivo: ne sapevo abbastanza di grammatica e di sintassi italiana e avrei senza dubbio potuto studiare latino. Fui iscritto, nell’autunno del 1942, al ginnasio-liceo Sannazzaro, alla succursale di via Cimarosa, a poca distanza da casa” (p. 128, primo volume).

I primi dieci anni a Napoli, la scuola elementare e la scuola media riformata dalla “Carta della scuola” di Giuseppe Bottai… 1939, anno XVII dell’Era Fascita!

Con il latino di sempre e… con qualche lavoretto manuale; lo prevedeva la riforma: “studio e lavoro”, ma anche “libro e moschetto fascista perfetto”: un insegnamento per un pensiero unico, con le adunate del sabato, la cultura militare e la mistica fascista che servivano egregiamente ai fini della dittatura.

 

MA   c’era la guerra… e il marchese Cubbe era sicuro: “colpiranno giorno dopo giorno tutte le città, e Napoli per prima, la più vicina, la più esposta. Solo Roma, forse, si salverà. C’è il Papa, ci sono i monumenti, forse sarà città aperta” (p. 141, primo volume).

E Napoli fu bombardata, e come. Ma il bombardamento più pesante fu quello del 4 dicembre del1942.

 

E gli altri dieci anni a Roma, in quel di Piazza Bologna: il ginnasio, il liceo, l’università.

 

Nel primo volume l’infanzia e la prima adolescenza napoletana; nel secondo la giovinezza, la maturità, le letture “colte” e i primi incontri interessanti, dal liceo romano Giulio Cesare alla Sapienza.

 

Due volumi molto diversi:

il primo molto sentito, ricco di tutte le emozioni che un bambino può avere, dalla scoperta dei primi misteriosi vocaboli, la cromatina, il babà, i dubat, seno e coseno, i bagni di sole, la stanza da pranzo – si dice così – e la camera da letto – si dice così!

Nel primo c’è indirettamente, ma di fatto una vera e propria analisi di come si apprende il linguaggio: come il bambino che cresce, apprende a parlare. Le parole, o meglio i nomi concreti, per intenderci, indicano un evento o un oggetto, a volte ambedue le circostanze: il bagno, ad esempio. A volte non indicano nulla, gli articoli, le preposizioni, le congiunzioni, ma servono, e come se servono. Non potremmo produrre pensiero né costruire proposizioni.

Ma il bambino deve catturare e padroneggiare a poco a poco le parole oggetto… maa volte le parole sono vuote se non hanno un oggetto o un fatto a cui riferirsi. La parola aeroplano non avrebbe detto nulla a un romano antico. E a me, che molti anni fa traducevo un libro dal francese, la parola informatique non diceva assolutamente nulla.

L’acquisizione progressiva della lingua e del suo uso corretto, non tanto sotto il profilo grammaticale, quanto sotto il profilo di una comunicazione efficace, non è affatto una cosa semplice. Per un bambino passare da MAMMA PAPPA al saper formulare MAMMA VOGLIO LA PAPPA non è affatto cosa semplice.

Ebbene, in questo primo volume la progressiva conquista del linguaggio comunicativo efficace è affrontata dal BASSO, potremmo dire, non dall’ALTO.

O meglio la concreta e progressiva conquista delle parole e dei legami grammaticali non è analizzata dal LINGUISTA ricercatore di professione, ma dal PARLANTE concreto, cioè dal bambino che cresce, si sviluppa e apprende.

Per concludere, una lettura attenta i questo primo volume ci conduce a dire che non si tratta solo del racconto di un bambino che cresce e impara a parlare, ma di una sottesa analisi di come il linguaggio si apprende.

Si parla quando si è immersi nel BAGNO LINGUISTICO, per dirla con LORENCE LENTIN. Più il bagno è ricco di sollecitazioni, più l’attante, il bambino apprende.

Insomma, caro Tullio, ancora una volta ci hai regalato un libro che è insieme STORIA, AUTOBIOBIOGRAFIA, SAGGIO

 

Ribadisco! Due volumi molto diversi.

 

Nel primo c’è indirettamente, ma di fatto una vera e propria analisi di come si apprende il linguaggio: come il bambino che cresce, apprende a parlare. Le parole, o meglio i nomi concreti, per intenderci, indicano un evento o un oggetto, a volte ambedue le circostanze. A volte non indicano nulla, gli articoli, le preposizioni, le congiunzioni, ma servono, e come se servono. Non potremmo produrre pensiero né costruire proposizioni.

Ma il bambino deve catturare e padroneggiare a poco a poco le parole oggetto… a volte le parole sono vuote se non hanno un oggetto o un fatto a cui riferirsi. La parole aeroplano non avrebbe detto nulla a un romano antico. E a me, che molti anni fa traducevo un libro dal francese, la parola informatique non diceva assolutamente nulla.

L’acquisizione progressiva della lingua e del suo uso corretto, non tanto sotto il profilo grammaticale, quanto sotto il profilo di una comunicazione efficace, non è afffattomuna cosa semplice. Per un bambino passare da MAMMA PAPPA al foirmulare MAMMA VOGLIO LA PAPPA non è affatto cosa semplice.

Ebbene, in questo primo volume la progressiva conquista del linguaggio comunicativo efficace è affrontata dal BASSO, potremmo dire, non dall’ALTO.

O meglio la concreta e progressiva conquista delle parole e dei legami grammaticali non è analizzata dal LINGUISTA professionale, ma dal PARLANTE concreto, cioè dal bambino che cresce si sviluppa e apprende.

 

Il secondo volume è più meditato, più colto – se si può dir così: letture e studi mirati, incontri interessanti e produttivi.

Nel primo volume c’è il bambino stupito e meravigliato a fronte di un mondo che deve esplorare e conoscere. Ci sono la conquista delle parole e delle cose, e le canzoni, anzi gli inni fascisti di un’Italia che deve prepararsi alla guerra:

e il 10 giugno del 1940 aggrediamo la Francia, già stremata dall’invasione tedesca, e ci prepariamo a “spezzare le reni alla Grecia”, come nel ’35 avevamo fatto con il Negus.

Anche perché dovevamo dominare l’intero Mediterraneo, il mare nostrum!

Ma, dopo il bombardamento di Napoli del 4 dicembre

si apre quindi, per Tullio e la sua famiglia, la strada per Roma.

 

Il secondo volume quindi è un’altra cosa. E’ molto diverso! Si avverte che è stato scritto perché sollecitato – e giustamente – da molti. Non ha la freschezza e l’ingenuità del primo, nato quasi, a mio vedere, da una necessità di raccontarsi – la potenza esplorativa e creativa dell’autobiografia – dove in effetti si racconta di un bambino che si affaccia sul mondo e lo descrive per quello che è, con tutti i suoi stupori, le sue incertezze, i suoi interrogativi!

Nel secondo, invece, c’è già l’adulto – diciamo così – che sa quello che vuole, che fa letture intelligenti e colte, che sembra compiacersi di osservare il ragazzo che cresce! E in effetti se ne compiace!

Là invece c’è il bambino che esplora e costruisce il suo mondo con l’incanto e l’ingenuità che gli sono congeniali. Insomma, il primo volume ha un’autenticità che, a mio vedere, non ha il secondo.

Del resto lo dice lo stesso autore: “Non ho scritto di getto le pagine di questo ulteriore manipolo decennale di ricordi linguistici personali tra l’inverno del 1942 e l’autunno del 1952” (p. 7)”.

Insomma, il fascistello del primo volume è più accattivante del giovane che, ovviamente, in un restaurato clima di democrazia, non può non rendersi conto di ciò che il fascismo è stato. Del resto anche Mauro, il fratello, ha fatto il suo percorso verso la democrazia!

E c’è anche un po’ di saccente autocelebrazione! La specificità delle letture, quasi tutte mirate ormai, perché la vocazione si sta affinando! Comunque, c’è la Roma che io stesso ricordo e che ho vissuto: l’occupazione tedesca, la borsa nera, la bomba sulla via Nomentana

Nel libro non ci sono le Fosse ardeatine perché noi ragazzi non sapemmo nulla! Solo dell’attentato di Via Rasella… poche righe su IL MESSAGGERO.

C’è Mauro che sceglie la Repubblica sociale. Anche alcuni miei compagni di classe la fecero!

E poi gli studi ulteriori!

Anch’io ho frequentato il Giulio Cesare. Esperienze e sensazioni comuni! Nel secondo volume c’è il ragazzo che si interroga più che stupirsi, si pone domande quelle domande che tutti ci ponemmo dopo il 25 luglio e l’8 settembre: la natura del fascismo, le ragioni di un conflitto più che mondiale rispetto a quello del ’15-’18, il perché di un’altra guerra che “altri” chiamavano di Liberazione.

Comparvero come dal nulla partiti e movimenti e cominciammo ad assaggiare una libertà di stampa su cui però ancora con il governo Badoglio si esercitava la censura: colonne bianche… caratteri di piombo interamente cancellati sui giornali.

E la nostra curiosità di lettori nuovi ad una stampa “libera”: che cosa ci sarà stato scritto in quegli spazi bianchi?

Tutte cose assolutamente nuove per un ragazzo di poco più di dieci anni. Il lento passaggio da un fascismo da balilla a un antifascismo da cittadino di una Repubblica democratica nata dalla Resistenza, e senza alcuna enfasi. E i nuovi incontri: tra i tanti Marco Pannella, Gabriele Giannantoni, Stefano Rodotà. E gli autori americani! La Luna è tramontata di Steinbeck. E i nostri autori: Omodeo, Croce, De Sanctis. Giorgio Pasquali.

E poi l’ipotesi di andare alla Normale di Pisa. Era nata così. All’esame di maturità, Tullio, un po’ impelagato tra i tanti fogli della brutta del tema e incerto di come ricopiarli in bella copia secondo le prescrizioni di rito, chiede al professor Marchi, un membro esterno, come doveva scrivere; e il prof Marchi rispose candidamente con un sereno “Scrivi come mamma t’ha fatto” (p. 163).

Poi l’interrogazione in latino e greco e ancora il professor Marchi chiede a Tullio che cosa aveva in mente di fare. E Tullio risponde:

il professore, che gli pareva il mestiere più bello del mondo. E Marchi di rimando: “Sa che cos’è la Normale di Pisa?” (p. 166). E Tullio accarezzò con piacere questa ipotesi, ma… “La prova alla Normale si avvicinava. I quindici giorni di lontananza mi avevano fatto sentire assai forte il legame con la mia compagna lontana. Lei mi spingeva ad andare a Pisa. Preferii non farne niente e restarle vicino a Roma. Tradendo il buon professor Marchi, mi iscrissi alla Facoltà di lettere alla Sapienza, lettere antiche, filologia classica” p. 167).

 

E qui finisce il ragazzo e nasce l’uomo, il linguista, il valente linguista che tutti conosciamo e che tanto ci ha dato sia nella ricerca di alto profilo che nella ricerca didattica: un professore che insegna ai professori… e ai maestri!

Grazie Tullio!

 

Roma, Aula Magna del Liceo Giulio Cesare, 14 aprile 2015

 

Maurizio Tiriticco

decano dell’Associazione ex alunni del GC

SE AMIAMO LA SCUOLA, SCIOPERIAMO!

SE AMIAMO LA SCUOLA, SCIOPERIAMO!

di Maurizio Tiriticco

 

Vedo molte firme di amici e amiche apposte al documento IO NON SCIOPERO!

Ebbene! Io, invece, SCIOPERO!

Il ddl è semplicemente un pasticcio contenutistico e normativo che rischia sensibilmente di destabilizzare definitivamente quel SISTEMA EDUCATIVO DI ISTRUZIONE E FORMAZIONE che con la legge 30/2000 abbiamo cercato invano, purtroppo, di mettere in piedi!

Il ddl non fa altro che peggiorare il declino inesorabile a cui la nostra scuola è sottoposta ormai da almeno un quindicennio.

E l’appoggio che Luigi Berlinguer ha dato a tutta l’operazione Buona scuola non mi è piaciuto affatto – e gliel’ho detto – perché il pastrocchio della Buona scuola nulla ha a che vedere con le ipotesi di rinnovamento a cui lavorammo alla fine del secolo scorso.

L’unico provvedimento serio da avviare è un riordino complessivo dei cicli.

Io la mia proposta l’ho avanzata, l’ho redatta con gruppi di docenti e la trovate in edscuola.it: è articolata e rigorosa, ma non destruttura l’impianto del nostro sistema pubblico – ispirato alla nostra Costituzione – di educazione, istruzione e formazione.

Il ddl, invece, non solo destabilizza ulteriormente l’impianto e la mission della nostra scuola, ma ignora nel modo più assoluto il fatto che sono i PERCORSI che i nostri studenti compiono che devono essere riordinati.

Come ho già detto in altre sedi, occorre passare dalla tre C negative, Cattadra, Classe e Campanella, a tre C positive, Curricoli, Competenze, Certificazione.

Se poi, oltre al ddl, andate a leggere le proposte della cm 3, vi renderete conto del fatto che l’insegnare/apprendere per competenze non solo si allontana, ma si impasticcia indecorosamente!

Anche sulla certificazione delle competenze di fine primo ciclo trovate un mio modello sempre in edscuola.it

E che dite del fatto che a giugno si conclude il riordino – si chiama così – dell’istruzione secondaria avviato dalla Gelmini, ma che di certificazione delle competenze, pur indicate sia nelle Indicazioni Nazionali che, soprattutto, nelle Linee Guida, non si parla affatto?

Vi rendete conto che la Giannini è il peggior ministro dell’istruzione che mai si sia potuto avere?

Andiamo verso un baratro e non ve ne accorgete?

Eppure vi conosco e so che siete abbastanza intelligenti per non essere complici di uno sfascio annunciato!

La Scuola che non c’è e non ci sarà

LA SCUOLA CHE NON C’E’, E CHE NON CI SARA’

di Maurizio Tiriticco

Confesso di avere atteso con una certa ansia il Porta a Porta di stasera, Zingaretti vs Giannini, ma… una grossa delusione!

Scommetto che qualunque spettatore generico avrà cambiato canale dopo le prime battute!

Io ho resistito, ma… nulla di nuovo sul fronte della scuola… un ministro che sa solo sorridere e che non dice nulla, un DS di appoggio che al nulla aggiunge altro nulla, e i due oppositori che avrebbero dovuto fare a fettine i due Buonisti e che invece… si sono dispersi nel mare magnum delle cose più vaghe e scarsamente informative per il pubblico generico di Bruno Vespa.

E un Vespa che vede nel Sessantotto lo spartiacque tra la scuola Buona di ieri e quella Cattiva di oggi, preoccupato soltanto di saltellare qua e là da una slide a un’altra, da un argomento a un altro senza portare a termine nulla e fare il gioco del padrone, o meglio della padrona, a sua volta preoccupata soltanto di elargire sorrisi e concludere il nulla nel minor tempo possibile!

Siamo proprio messi male!

Io lo so il perché: perché la Buona scuola e il decreto che ne è seguito sono soltanto un Buon pasticcio.

Io non parlo e non scrivo a vanvera!

Le mie indicazioni le ho date: non so se sono Buone, ma sono molto sensate.

Basta cliccare su Tiriticcheide, in www.edscuola.it.

Non propongo aggiustamenti Buonisti che non servono a nulla, ma un riordino complessivo, che veramente ci porti in Europa e non ci costringa a guardare sempre l’immarcescibile ombelico gentiliano!

A questo punto, l’unica cosa da salvare di questo DL buonista sarebbe solo l’assunzione dei precari.

Lo facessero e la piantassero con “cose” che non sono capaci di fare.

Basterebbe un DL di un articolo solo.

Sanato il bubbone dolente, riapriamo il discorso su come avviare veramente e seriamente un riordino vero del nostro SISTEMA EDUCATIVO DI ISTRUZIONE E FORMAZIONE che a tutt’oggi sistema non è affatto.

Ah! Dimenticavo!

E la piantassero per almeno qualche anno con le prove Invalsi, con i Rav e prodotti similari!

Non si infierisce sui malati!