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C. Repetti, Il ponte di Picaflor

Repetti scrittore

di Antonio Stanca

repettiNato a Genova nel 1947, Carlo Repetti ha sessantotto anni ed è stato direttore del Teatro Stabile di Genova, dove ha collaborato a mettere in scena opere teatrali sue o di altri autori a volte stranieri e da lui tradotti. Ancora per il Teatro Stabile di Genova dal 1983 al 1986 ha organizzato un ciclo di letture della Divina Commedia, dal 1988 al 1989 delle poesie di Eugenio Montale e in seguito di altre importanti opere. Negli anni ’90 è stato assessore alla cultura del Comune di Genova e come tale ha promosso una serie di iniziative di carattere culturale e artistico. Un animatore lo si potrebbe definire poiché sempre impegnato ad avviare programmi, ad organizzare manifestazioni che facessero giungere al pubblico quanto era avvenuto o stava avvenendo in quella cultura, in quell’arte dalle quali era rimasto lontano. Repetti vuole coinvolgere, far partecipare tutti di ciò che finora è stato di pochi. Un’operazione di sensibilizzazione, di diffusione vuole essere la sua. Un organizzatore e pure un autore è Repetti e non solo di teatro ma anche di narrativa. Nel 2011 pubblicò il primo romanzo, Insolita storia di una vita normale, nel quale, tramite un linguaggio molto semplice e chiaro, narra della vita di un giovane figlio di emigrati europei nell’America del Sud durante il secolo scorso. Il giovane vive diviso tra molti propositi e con il pensiero costante del continente dove stabilirsi. Quando torna in patria soffre per una contrastata vocazione religiosa, compie l’esperienza della Seconda Guerra Mondiale, si cura delle persone bisognose, continua a sentirsi diviso tra Europa e America e così trascorre la sua vita durante l’arco del ‘900 senza che niente di definitivo avvenga o sia da lui cercato o fatto.

Anche ne Il ponte di Picaflor, secondo romanzo del Repetti pubblicato da Einaudi a Maggio del 2015, l’autore dice di un figlio di emigrati italiani nell’America Meridionale. Lui, Giorgio, vive una vita disagiata, si separa dalla moglie che lo tradisce e, sollecitato da alcune lettere che riceve da una misteriosa signora di Picaflor, piccolo paese peruviano tra Cuzco e Lima dove anni prima erano emigrati ed erano rimasti i suoi nonni, decide di compiere un viaggio di pochi giorni per conoscere la mittente delle lettere e sapere cosa gli vuole dire come appunto scrive. Giunge a Picaflor dopo un viaggio compiuto con diversi mezzi di trasporto, aereo, treno, corriera, battello, perché sperduto è il posto tra le foreste peruviane intorno alle Ande. Un viaggio difficile, complicato, faticoso che porterà spesso Giorgio a ripensare, che lo farà dubitare di quel che sta facendo. Questo stato d’incertezza si aggraverà una volta giunto a Picaflor e trovata morta ammazzata la signora delle lettere. Si vedrà tra persone, case, strade, usanze, ambienti che andavano oltre la realtà, che sembravano di fantasia. Di nuovo sarà assalito dal pensiero di tornare a casa ma subito dopo i primi contatti con alcune persone del posto si scoprirà coinvolto in una serie di circostanze che si succederanno, si combineranno, si complicheranno senza che lui ne sia al corrente, senza che lo voglia. Le persone, le situazioni che intorno a lui si alterneranno non gli faranno più pensare di tornare in patria, non gliene lasceranno il tempo, lo faranno rimanere a Picaflor oltre quanto previsto, faranno di lui uno dei suoi abitanti e di quelli più in vista perché straniero e perché divenuto, senza alcuna intenzione, responsabile della ricostruzione di un ponte che era crollato per un passato terremoto, che collegava Picaflor al resto del Perù e ne favoriva gli scambi, i commerci, la vita. Senza quel ponte Picaflor aveva perso, negli anni, ogni possibilità di sostentamento, ogni futuro e stava conoscendo la miseria, la fame, la morte. Giorgio provvederà a ricostruire il ponte e nel paese torneranno il movimento, l’entusiasmo, la gioia di prima, la volontà di fare, di vivere si diffonderanno ovunque, in qualsiasi strato della popolazione. Ma a differenza del passato ora col ponte, con le comunicazioni che permette, oltre ai vantaggi arriveranno pure i problemi propri dei tempi moderni, cioè il malcostume, la corruzione. Le regole saranno stabilite dal denaro, dal guadagno, i valori morali, ideali saranno messi da parte e sostituiti dall’astuzia, dall’inganno, dalla frode e Giorgio tornerà a sentirsi incerto, confuso, a chiedersi se non sarebbe stato preferibile abbandonare il progetto del ponte e tornare nella propria casa.

Come il protagonista del primo romanzo del Repetti anche questo del secondo finirà col non sapersi orientare, decidere su come, su dove vivere, su quale continente stabilirsi, col rimanere sospeso tra tanti pensieri.

La stessa figura è ricorsa per due ampie narrazioni, gli stessi luoghi le hanno caratterizzate, lo stesso ambiente tra reale e immaginario, vero e inventato le ha segnate, lo stesso linguaggio semplice le ha espresse: è il modo col quale Repetti vuol essere scrittore.

G. Sartori, La corsa verso il nulla

LA CORSA VERSO IL NULLA di Giovanni  Sartori
(Dieci lezioni sulla nostra società in pericolo)

di Luigi Manfrecola

la corsa verso il nullaE noi siamo d’accordo senz’altro su alcuni dei  “pericoli” che Sartori individua ma la sua  “lezione” non ci convince, malgrado  come insegnante sia particolarmente autorevole perché, come l’Editore (MONDADORI) spiega nel risvolto di copertina, si tratta non solo di un politologo apprezzato dalle TV di Stato, ma addirittura d’un Professore emerito della Columbia University, dell’università di Firenze e Accademico dei Lincei.

Ed è proprio questo che dovrebbe preoccupare, in quanto gli intellettuali di questo tipo finiscono col disporre dell’arma d’una dialettica sottile, supportata da una addomesticata competenza storica, per veicolare pensieri e convincimenti discutibilissimi : ma in  maniera soft, che quasi non te ne accorgi.

Il rischio qui c’è tutto, ma quasi non te ne avvedi. Sartori è “a destra” con tutta la barra ed ha buon gioco a suscitare consensi e simpatie denunziando l’evidente cecità d’una certa classe politica attuale autoproclamatasi “democratica” che ha tuttavia smarrito la bussola e la propria identità in nome di un universalismo senza futuro che pretende di convivere con un capitalismo senz’anima.

Cominciando dai “pericoli”, lo Zibaldone (così definito dall’Autore ed articolato in dieci capitoletti), ne individua alcuni che sono di tutta evidenza.

1- La difesa tout court dell’ “EMBRIONE” umano  da parte della Chiesa che pretende di asserire che la scienza ha ormai dimostrato che l’embrione è individuo umano e , come tale, non uccidibile;

2-Il “facilismo” col quale i “sinistri” ( testuale) parlano dell’INTEGRAZIONE , erroneamente ritenuta sempre possibile , fermandosi ad un’inconcludente “ETICA DELL’INTENZIONE” che NON si accompagna ad una parallela “ETICA DELLA RESPONSABILITÀ” che, come sarebbe  doveroso,  valuti le conseguenze concrete di un tale retorico  auspicio (citando addirittura Max Weber).

3- il pio desiderio di poter integrare chi non lo cerca e non lo vuole.
In effetti, in ben tre dei restanti capitoli (Cristianesimo ed Islam, laicismo e Religione – Jus sanguinis, jus soli e residenza- Integrazione, assimilazione e rifiuto) la tematica sviluppata resta sempre la medesima, anche se da diverse angolazioni. La tesi è che l’Islam è, per sua natura, «una religione forte» ,come una volta lo era il Cristianesimo, poiché entrambe le Religioni disegnano una società teocratica . Tale caratteristica è stata, poi, persa soltanto dal Cristianesimo in quanto convertitosi ad una sorta di ecumenismo aperto, per effetto della sopraggiunta affermazione d’una società pluralistica e democratica che pratica il laicismo e la tolleranza.
Ne deriva:
– che il monoteismo islamico è fin dall’origine il più forte;
– che nel Corano è possibile trovare, nelle diverse Sure, tanto l’invito ad uccidere i miscredenti quanto l’invito a risparmiarne le vite ove si convertano (La violenza, dunque,  ne è sempre parte costitutiva malgrado ciò che dicono i musulmani occidentalizzati);
– che l’islam estremista e fondamentalista , rigido e sclerotizzato, odia l’Occidente e non tollererà mai “l’integrazione” (quell’integrazione che comunque mai si traduce in vera “assimilazione” come testimoniato dagli ebrei che mantengono la propria identità ovunque si siano insediati o come i musulmani di seconda generazione che, con cittadinanza europea, ingrossano le fila dei terroristi);
-che , non potendosi sostenere l’urto economico e sociale delle attuali invasioni bibliche, avremmo dovuto affondare, con i droni, i barconi prima ancora che salpassero e c’è da chiedersi perché mai non  lo si sia fatto…posto che siamo di fronte ad una vera guerra di religione e «in guerra non c’é un mare territorialmente protetto»;
– che bisogna restituire alle parole il loro giusto significato e capire che siamo in guerra con l’Islam perché ” chi non dice «guerra» quando c’è, è chi quella guerra la perde. Dunque il punto è che chi usa la parola guerra vede una cosa, mentre chi non la usa ne vede un’altra… (dal Cap. IV – Guerra terroristica e guerra al terrorismo»”

Penso di non poter dissentire da tali preoccupazioni e dalle motivazioni poste a base.
Ad esempio, per quanto al punto 1, Sartori ha ragione quando afferma  che “se l’embrione  SARA’ una persona, ciò vuol dire che ancora non lo è, e quindi resta un embrione” sprovvisto di quella consapevolezza che è la condizione perché possa parlarsi autenticamente di “vita UMANA”, ancora mancando quella anima razionale alla quale lo stesso San Tommaso legava l’alito divino che è  infuso da Dio SOLO DOPO che sono emerse l’anima vegetativa (che condividiamo con le piante) e l’anima sensitiva (che appartiene anche all’animale). Tant’è che fono alla Legge 40 in diritto si sosteneva che la capacità giuridica si acquista solo con la nascita.
Anche per il secondo punto riteniamo che non vi sia molto da eccepire poiché non bastano  buone e pie intenzioni che non facciano i conti con la realtà e con la fattibilità dei propositi. Salvo ricordare al Sartori che non tutti i “sinistri” (pur cogliendo il doppio senso ostile attribuito al vocabolo) sono tanto sprovveduti. Tant’è che di recente lo stesso Cacciari ha sostenuto che non ha senso pretendere di  tollerare un’accoglienza indiscriminata che non faccia i conti con le risorse reali. Trovando d’accordo anche ME, pur nella mia umile e misera (si fa per dire) consapevolezza di non possedere altrettanto prestigiose onorificenze.

E mi spingo a definirmi d’accordo anche per il terzo punto, comprendendo che non si possa e non si debba pretendere d’integrare chi ci è culturalmente e dichiaratamente ostile.

Per il resto il mio DISSENSO non può che essere totale, e mi riferisco agli altri due pericoli segnalati dal politologo il quale continua sostenendo:

4- che sussiste il rischio che si affermi definitivamente una (per Sartori “distorta ed intollerabile “) DEMOCRAZIA DISTRIBUTIVA invece della DEMOCRAZIA PROTETTIVA che, sempre per il cavilloso vaneggiamento dell’illustre Professore,  è l’unica tollerabile, visto che il Sartori afferma e ribadisce più volte che ha sempre combattuto e sempre combatterà il cosiddetto  «perfezionismo democratico» , diversamente definito da Berlin «libertà positiva», laddove per il nostro Giovannino  è accettabile solo il concetto di una  «libertà negativa» posta a difesa della singola individualità… tant’è che sostiene che sempre «la politica è stata la forza a disposizione del più forte, del più potente finché non è stata inventata la LIBERAL-DEMOCRAZIA (la sua bestia nera) a partire dalla fine del ‘600 con >Locke e poi con Constant;

5-che ancora c’è il pericolo che si continui a perseverare nell’equivoca attesa d’una rivoluzione di stampo ideologico marxista che miri ad abbattere lo Stato capitalistico-borghese, mentre non può esistere -come teorizzato dal marxismo- una rivoluzione che mai abbia fine in quanto ogni rivoluzione deve poi tendere ad una stabilizzazione degli assetti sociopolitici (ma al di là del profluvio di parole e di argomentazioni fumose ed insistite sui danni e sulle utopie del da lui  odiato marxismo, meglio avrebbe fatto a richiamare il pensiero di un certo Popper che sen’altro conosce e che meglio di lui  sostiene d’essere un riformista perché ogni rivoluzionario, prima o poi, dovrà sempre e comunque fare poi i conti con la parte “costruens” di quegli assetti sociali che ha contribuito a smantellare) .
Ma tant’è, Sartori non può abdicare, pur con mente assai lucida, a quella formazione che lo porta ad essere visceralmente anticomunista ed antiegalitarista a prescindere, forse perché avverte il rischio che  ciò potrebbe intaccare e mettere in discussione il suo orgoglioso individualismo. La sua visione d’una società che non può e non  deve aspirare alla fumosa giustizia sociale affiora continuamente (vedi cap. “Rivoluzioni vere e Rivoluzioni false”) e lo spinge a dichiarare che proprio “il marxismo è riuscito ad interpolare nella nozione di rivoluzione due aggiunte .La prima è che “le rivoluzioni che non sono di sinistra non sono vere rivoluzioni”…La seconda è che “essa rivoluzione non può cessare con l’impianto di un nuovo ordine politico poiché «la vera rivoluzione» deve anche impiantare un nuovo ordine economico-sociale, il che è impossibile e quindi  “configura una rivoluzione che non finisce mai”.
Ma è così lontana dalla mente del vecchio saggio che un nuovo ordine sociale sia doveroso , oltre che possibile, realizzarlo? E cosa sarebbero dunque per lui le rivoluzioni? Un semplice cambio degli assetti di potere fini a se stessi , di Governi forti che non debbono né possono pretendere di fare i conti con le “utopie” di una democrazia egualitaria?  E ciò solo perché  Lui ritiene un errore storico la liberal-democrazia…
A dimostrare l’insensatezza di tale posizione basta rileggere la sua pretestuosa distinzione fra la “democrazia protettiva” da lui propugnata (a difesa del singolo individuo) e la  “democrazia distributiva” da lui fieramente avversata. Mentre è evidente che la democrazia presuppone un concetto di sostanziale parità di diritti fra i consociati, il che esclude ogni forma di diseguaglianza feroce ed implica la limitazione dei diritti individuali non primari.
Ma da tutti i capitoli traspare una medesima impostazione antidemocratica e una sorta di cecità per la devastata situazione sociale attuale che lo spinge a dire che il Vaticano rappresenta anch’esso un rischio nella misura in cui Papa Francesco  esordisce, come ha fatto, “dichiarando che «il denaro è lo sterco del diavolo»ì(pag.74). Sarà, ma questa non è la priorità del momento…”
E a noi viene perciò spontaneo chiedere al buon Sartori quale mai è, invece, la priorità del momento?
E dire che in un mio  precedente intervento avevo citato proprio la lucida denunzia di Sartori che in un’intervista affermava «L’Europa è un disastro. È il trionfo della finanza. Si è azzerata l’economia della produzione a tutto profitto di denari finti, scollegati dal lavoro. Soldi che vanno e vengono e non corrispondono al sudore della fronte di qualcuno, ma sono frutto dell’astuzia degli speculatori. I leader europei non capiscono, o fanno finta di non capire, che c’è differenza tra produrre qualcosa e fare soldi. Il risultato è che abbiamo tassi di disoccupazione mostruosi, e una crescita ridicola. Per dirlo in sintesi abbiamo creato un’Europa indifesa. Tutti subiscono, e nessuno può farci niente».
C’è da interrogarsi seriamente sulla coerenza di certuni…Quasi sembrava che l’illustre analista avesse a cuore la sorte dei cittadini. Come è noto da secoli non bisogna fermarsi mai all’apparenza e non basta dire “…ma mi sembrava così convincente…”
Perciò intendo scusarmi con i miei lettori per la citazione che ebbi a pubblicare senza avere ben chiaro il profilo cultural-politico dello scrittore.
Con le guance arrossate dalla vergogna e con sincero pentimento…mi firmo

Prof. Luigi Manfrecola

C. Wolf, Cassandra

Il tempo superato

di Antonio Stanca

 

«…ivi Cassandra, allor che il Nume in petto
le fea parlar di Troia il dì mortale,
venne…» Foscolo, Dei Sepolcri.

 

wolfUn’altra donna, Cassandra, la leggendaria figlia di Priamo, re di Troia, città dell’Asia Minore collocata sulle rive dell’antico Scamandro, è la protagonista di un altro romanzo di Christa Wolf, la scrittrice tedesca di origine polacca, nata nel 1929 e morta nel 2011. Aveva ottantadue anni e non solo aveva scritto tanto, poesie, diari, racconti, romanzi, critica letteraria, ma aveva anche fatto tanto. Era vissuta nella Repubblica Democratica Tedesca, aveva preso parte alla sua formazione dopo gli eventi della Seconda Guerra Mondiale, aveva militato nelle file del partito marxista, non aveva distinto tra il suo impegno letterario e quello politico, sociale, aveva fatto dei problemi suoi e di ogni donna dei suoi tempi, dei suoi ambienti, quelli delle protagoniste di molte sue opere, aveva creduto nella funzione sociale, didattica della letteratura, era stata convinta che l’opera non fosse solo dell’autore ma di tutti perché di tutti doveva dire e a tutti doveva giungere quanto in essa contenuto, quanto da essa significato. Solo così si poteva sperare di avviare quel processo di formazione di una nuova coscienza civile del quale tanto si parlava e al quale erano affidate tante speranze.

Non mancarono le critiche per certe sue convinzioni e per alcuni comportamenti tenuti in pubblico dalla Wolf ma estesi furono anche i riconoscimenti come quando nel 1963 le fu assegnato il premio letterario Heinrich Mann per il suo romanzo d’esordio, Il cielo diviso, che nel 1964 sarebbe diventato un film e che oggi risulta tra i migliori della letteratura contemporanea. La Rita dell’opera che, dopo le alterne vicende vissute col suo Manfred nella Germania divisa, verrà da questo lasciata e si vedrà costretta a tornare a credere solo in sé, nella sua capacità, nella sua volontà, nel suo coraggio, diventerà una figura ricorrente nella Wolf scrittrice. Attraverso essa vorrà dire che la donna deve formarsi, deve prepararsi ad essere sicura, a farsi valere, ad affrontare imprevisti, pericoli anche a rischio di rimanerne vittima dal momento che tutto avviene in un ambiente per secoli permeato da maschilismo. Ma un’isolata femminista risulterà la Wolf e tale rimarrà. Isolata e inascoltata sarà pure la protagonista di Cassandra, romanzo scritto nel 1983 e recentemente ristampato dalla casa editrice E/O di Roma con la traduzione dal tedesco e la postfazione di Anita Raja (pp.143,€10,00).

Nella leggenda, nel mito è andata questa volta la Wolf a trovare il suo esempio di donna sola, destinata a non essere creduta, della troiana Cassandra ha scritto, della sacerdotessa di Apollo da lui investita di poteri profetici ma condannata a non essere ascoltata perché non gli si era concessa. Ne ha fatto la protagonista del romanzo e come negli altri anche in questo la scrittrice non si è solo proposta di mostrare quella femminile come una grave condizione che dura da secoli ma ha pure inteso alludere, tramite quanto rappresentato, ai tempi moderni, ha voluto fare della vicenda narrata la metafora di una più ampia situazione, di un più pericoloso momento storico quale quello attuale. In tal modo la Cassandra che per tutto il romanzo parla di sé e degli altri, della sua e della loro vita, delle sue e delle loro vicende, dei tempi, dei luoghi, dei popoli, degli uomini, degli dei dell’epoca, che scongiura i Troiani di entrare in guerra contro i Greci, che nella guerra vede la rovina della città, che in nessun altro ammonimento, in nessun’altra profezia è stata ascoltata in precedenza, la Cassandra che assiste inerme a Troia che brucia dopo l’inganno del cavallo di legno, rappresenta per la Wolf la voce dei grossi pericoli che corre il mondo d’oggi sospeso tra le ambizioni, le pretese, le rivalità di capi di stato che sono diventati tanto potenti, che si fanno tanto valere da non prestare ascolto a nessun invito alla pace, a non temere la guerra. Un mondo sempre al limite della guerra nucleare è diventato il moderno e la Wolf che lo grida è la Cassandra che ha superato il tempo per predire, senza essere creduta, questo grave pericolo che incombe sull’umanità.

Non poteva trovare esempio migliore! In Cassandra la Wolf ha voluto identificare se stessa anche in nome delle tante difficoltà, dei tanti problemi che le avevano procurato le sue convinzioni, fossero culturali, politiche, morali, religiose, delle tante volte nelle quali non era stata ascoltata. Come Cassandra è stata la Wolf, come quella di Troia sarà la storia del mondo e non c’era modo più idoneo per esprimere entrambe.

L’arte come mezzo?

L’arte come mezzo?

di Antonio Stanca

fotoE’ una tendenza che si sta diffondendo, della quale si parla sempre più nei convegni, nelle mostre, nelle rassegne cinematografiche, nelle ricorrenze e durante manifestazioni culturali, è quella di indicare nell’arte il modo, la possibilità, il mezzo per ritrovarsi vicini, per riscoprirsi uniti, per recuperare quei rapporti umani, sociali, quei principi morali, quei valori spirituali che facevano parte della vita, della storia dell’uomo e che ai nostri giorni sembrano irrimediabilmente perduti. L’arte, poiché depositaria, espressione di tali valori, viene vista come un importante strumento per recuperarli e diffonderli. Una funzione didattica dovrebbe assumere l’arte se si pensa di affidare ad essa il compito di comunicare, trasmettere quella voce dell’anima, dello spirito che serve alla sua creazione. A tutti dovrebbe giungere questa voce, di tutti dovrebbero diventare i significati delle opere artistiche, per tutti dovrebbero valere.

Non è una novità se si pensa che fino a non molti anni addietro, fin quando, cioè, erano ancora valide istituzioni come la famiglia, la religione, la scuola, l’arte improntava di sé gran parte del pensare, del sentire pubblico. Non disgiunti erano allora i valori artistici da quelli religiosi per l’altezza del loro livello, per l’idealità che li caratterizzava e la scuola, tramite i giovani ai quali li trasmetteva, li faceva giungere nelle case, nelle famiglie, li diffondeva, educava ad essi. Ci si faceva educare ad essi, lo si voleva, lo volevano i ragazzi, lo volevano i loro ambienti, lo voleva la società della quale sarebbero entrati a far parte. Quelli dell’idea erano valori fondamentali, riferimenti essenziali.

Poi i tempi nuovi, quelli contemporanei, hanno fatto assistere a grossi cambiamenti: la materia è tanto sopravanzata da annullare lo spirito, la macchina si è così perfezionata da sostituire l’uomo, la comunicazione si è tanto estesa da riguardare tutti, da diventare di tutti, di massa. Pure l’arte ha risentito di questa mercificazione della vita ma anche se ridotta ad un numero minore di autori ed opere ha continuato ad esistere, ad essere perseguita. Ha dovuto rassegnarsi, però, ad essere di pochi e a valere per pochi, a vedere il suo ambito sempre più ristretto. La scuola ha continuato a parlarne, ad insegnarla, ma diversi, più immediati, più concreti erano ormai gli interessi di chi ascoltava e molto difficile diventava far rientrare tra essi quelli artistici. Né in aiuto di questi c’erano più i valori religiosi poiché richiamavano alla trascendenza persone che avevano ormai bisogno di essere reali. Si è giunti, così, ai nostri giorni, ad un tempo, cioè, ad un mondo che per aver seguito regole diverse da quelle tradizionali ha perso ogni riferimento, ogni certezza e non sa più cosa valga, in cosa credere se non nella macchina che corre, nell’immagine che abbaglia, nel suono che stordisce. Un mondo che ha fatto dell’irregolare, dell’illecito le sue nuove regole fino a farvi rientrare il sopruso, la violenza, la guerra, la morte.

Di fronte ad un simile disastro tante volte, in tanti modi si è cercato di porre riparo ma non si è mai riusciti. Ora si sta pensando di farlo con l’arte dal momento che è l’attività, l’espressione umana che ha conservato intatti i valori dello spirito. Ma con molta probabilità anche questo programma si vedrà costretto a rimanere a livello d’intenzione. Molti, infatti, sarebbero i problemi, i contrasti che sorgerebbero nel cercare di realizzarlo. Innanzitutto non si sta tenendo conto che, come si è detto, l’arte ha avuto questa funzione e poi l’ha persa perché è diventata una manifestazione limitata, isolata, che di arte ormai si parla solo in circostanze particolari e che solo allora ci si accorge che ancora esiste. L’artista è fuggito da un mondo che gli è diventato sempre più ostile e nelle sue opere lo ha accusato e continua a farlo. Pertanto non si può pensare che in nome dell’arte cambi una situazione, una vita che non ha più il tempo, il modo per accettarla, per riconoscerla. Non si può credere di trarre un messaggio valido per tutti da ciò che non riesce più ad interessare. Non si può invitare ad ascoltare chi non vuole farlo. Non si può pensare di procedere verso un nuovo umanesimo tramite quanto dell’uomo rimane nascosto, sconosciuto.

Affascinante, suggestiva sarebbe l’impresa di un mondo risanato, salvato dall’arte ma anche se con rammarico si è costretti a constatare la sua impossibilità.

L. De Crescenzo, Stammi felice

“Statti felice”

di Luigi Manfrecola

  Non è il solito De Crescenzo, ma ne vale comunque la pena. L’arguzia divertita è quella sua solita, la battuta bruciante ed autoironica è presente come sempre, la saggezza bonaria ti incanta ancora col vigore della sintesi bozzettistica. L’umanità calorosa, saggia e lenta dello scrittore-poeta ti seduce ancora. E tuttavia avverti una certa fatica, una stanchezza ed una frettolosità addebitabile agli anni, ma che tuttavia il “mestiere” riesce a camuffare.

E’ un libricino godibile quello dato alle stampe recentemente dal mio conterraneo che, negli anni, ha saputo divenire l’immagine della Napoli più vera , testimone di una “cultura” non paludata e noiosa ma capace di una profondità e di una levità sorprendente, capace di attrarre i non addetti ai lavori anche quando si è accostata ai Maestri del pensiero. L’ha fatto con umiltà e modestia, senza pretese, ma con una efficacia comunicativa e divulgativa che nessuno mai aveva ottenuto. E’ evidente che questo non può bastare ai barbosi cultori della materia se non posseggono quella napoletanità dissacrante che sa avvicinarti al mondo ed alla grandezza di alcuni suoi figli con uno sguardo disincantato ed ironico. Quella stessa grandezza che fu di un Vico o di un Croce, maestri del Pensiero inarrivabili oppure di un De Filippo o di un Viviani quali sociologi e poeti insuperabili. Non a caso, alla grandezza di Eduardo ho infatti in animo di dedicare molti dei miei futuri spazi di riflessione.

Allora, purché non si immagini di trovarvi quello che non può né deve esserci, consiglio a tutti gli amici la lettura della rapidissima ed ultima fatica dell’Ingegnere che discute di “Felicità” immaginando un simposio con convitati degni di considerazione : da Socrate a Platone, passando per Nietzsche e per Schopenhauer. Chiaramente il nocciolo del messaggio dei filosofi è solo sfiorato per divenire pretesto di arguto commento , ma tanto può bastarci.

Due sono le ragioni principali da cui muove questo mio invito. La prima si lega all’esigenza di riscoprire quella speranza di felicità che questi tempi sventurati rischiano di minare. La seconda, molto più banale, si lega alla forza di una citazione che intendo già qui riportare per coloro che il libricino non vorranno comprarlo. A pagina 44 lo scrittore afferma :

“Volete sapere cos’è realmente una “bella catastrofe”?E’ un terremoto che non ammazza nessuno e fa riscoprire il senso delle cose. Volete sapere cosa è la NAPOLETANITA’? Secondo me è la capacità di riuscire a scoprire il senso delle cose senza aver bisogno di un terremoto.

T. Montefusco, La didattica laboratoriale

Tommaso Montefusco
LA DIDATTICA LABORATORIALE
Manuale di buone pratiche. Cosa fare, come fare

Brochure La didattica laboratoriale_Pagina_1Il libro presenta, oltre al saggio di Tommaso Montefusco intorno alle motivazioni di vario ordine che sono alla base della necessità di adottare la didattica laboratoriale nella scuola di massa e di qualità del XXI secolo, 16 sperimentazioni di didattica laboratoriale, realizzate in classi di vario ordine e grado, relative a diverse discipline e finalizzate all’apprendimento delle competenze.
I docenti che le hanno realizzate le raccontano, ne illustrano passo dopo passo tutte le fasi e mettono a disposizione del lettore tutta la documentazione.
In alcuni casi, le pratiche si contaminano, si intersecano: lavoro cooperativo, peer education, webquest, wikispace, flipped classroom, Problem Based Learning (PBL) e Inquiry Based Science Education (IBSE).
Nel saggio iniziale, inoltre, cenni sono dedicati al role playing e alla classe scomposta.
Il report dei docenti lo si può leggere nelle pagine del volume, mentre i materiali relativi a tali report, come le schede di valutazione, di autovalutazione e di osservazione, le varie griglie, le UDA relative alle attività svolte, i materiali prodotti dai docenti e dagli alunni, le sitografie specifiche, i commenti, gli strumenti, i tutorial per la costruzione di siti e piattaforme interattive, come Altervista, per la raccolta dei materiali sono visionabili nel CD allegato al volume.

Alla realizzazione del volume hanno collaborato:

Gabriella Baccelliere, I.C. “Giovanni XXIII” – Grumo-Binetto (Bari)
Simonetta Baldari,  I.C. Aradeo (Lecce)
Giacoma Burdi, 3° C.D. “Don Milani” – Modugno (Bari)
Zoraide  Cappabianca, I.T.E. “Vivante” – Bari
Anna  Chiusolo, 3° C.D. “Don Milani” – Modugno
Anna D’Agostino, 3° C.D. “Don Milani” – Modugno
Francesco Mario Pio Damiani, Licei “Cartesio” – Triggiano (Bari)
Concetta  De Feo, I.T.E. “V.V. Lenoci” – Bari
Alessandra Iacobelli, I.T.T. “Elena di Savoia” – Bari
Antonia Loverre, I.C. “Giovanni XXIII” – Grumo-Binetto
Maria Emma Lozito, I.C. “Giovanni XXIII” – Grumo-Binetto
Maria Giovanna Nanna, Licei “Cartesio”  – Triggiano
Grazia Pollicoro, I.C. “Diaz” –  Laterza (Taranto)
Grazia Priore, 3° C.D. “Don Milani” – Modugno
Vincenza Prisciandaro, 3° C.D. “Don Milani” – Modugno
Margherita Sivo, I.C. “Capozzi-Galilei” – Valenzano (Bari)

B. O’ Carroll, Agnes Browne mamma

La “mamma” di tutti

di Antonio Stanca

ocarrolAd aprile del 2015 dalla casa editrice BEAT è stato ristampato il romanzo Agnes Browne mamma del sessantenne scrittore irlandese Brendan O’Carroll (pp.167, € 9,00). La traduzione dall’inglese è di Gaja Cenciarelli.

O’Carroll, nato a Finglas nel 1955, lo scrisse nel 1994, quando aveva trentanove anni e dopo aver tenuto un dramma alla radio. Fu il suo esordio letterario ed ebbe tanto successo da indurre l’autore a farlo seguire da altri tre romanzi incentrati sul personaggio di Agnes Browne, I marmocchi di Agnes, Agnes Browne nonna, Agnes Browne ragazza. Una saga familiare avrebbe prodotto O’Carroll ed avrebbe anche esteso la sua attività, sarebbe entrato a far parte del mondo dello spettacolo, del cinema, del teatro, della televisione non solo come autore ma anche come regista, sceneggiatore, attore. Nel 1999 avrebbe collaborato alla riduzione cinematografica di Agnes Browne mamma che procurerà al romanzo ulteriore successo, lo farà tradurre in molte lingue e renderà O’Carroll un autore internazionale.

“Una delle opere migliori della letteratura irlandese contemporanea” è stato definito per l’umorismo che lo attraversa e per la capacità mostrata da O’Carroll nel creare una figura femminile come Agnes Browne, nel rappresentarla in modo così autentico, così ricco di valori e significati da farla diventare un personaggio emblematico, un “caso” letterario, un classico della modernità.

Tramite O’Carroll dalla lontana e solitaria Irlanda è provenuta un’immagine femminile ovunque ammirata, un esempio di donna a tutti gradita. E ancor più sorprende questo fenomeno se si pensa che Agnes non è una donna fuori dal comune, non ha qualità eccezionali, non è una persona eletta ma una semplice fruttivendola che ha il suo piccolo banco al mercato del Jarro, un quartiere popolare della Dublino degli anni ’70, sette figli e un marito, Rosso, che non vuole saperne di lavorare e che la maltratta. Rosso morirà lasciandola con i figli ancora piccoli che Agnes, tramite espedienti di ogni genere, riuscirà a far crescere, ad istruire, a far diventare adulti senza che le difficoltà della condizione familiare pesino su di loro poiché in esse saprà coinvolgerli, di esse li saprà rendere responsabili al punto che le sentiranno non come una limitazione, come un motivo d’inferiorità ma come un aspetto tra gli altri della loro vita.

Anche Marion, la migliore amica di Agnes, morirà. Anche lei faceva mercato, aveva un banco di frutta accanto al suo e tra loro si era creata una tale intimità che non c’era pensiero, azione di una che non fosse anche dell’altra. Insieme vendevano la loro merce, insieme facevano la pausa per la colazione, insieme chiacchieravano su quanto di nuovo ogni mattina si veniva a sapere, insieme si trovavano a dire dei problemi, dei bisogni delle loro famiglie. Ci volle molto tempo perché Agnes si adattasse all’idea di essere rimasta senza Marion. Dopo la sua morte non avrà più la coetanea con la quale dire di tutto ed unico, esclusivo diventerà il pensiero della famiglia, dei figli, dei problemi legati alla loro crescita, delle risposte da dare alle loro incessanti domande, del lavoro suo e di quello di alcuni dei figli ormai adulti, dell’economia familiare sempre ridotta e del suo impegno a non farla apparire un impedimento ad essere felici nella loro modesta casa e a guardare al futuro. Tutto questo saprà fare Agnes, questo ambiente sarà capace di creare e mantenere nella sua famiglia. Un esempio di donna forte, coraggiosa, eroica ha voluto offrire con lei O’Carroll, un caso di donna tipicamente irlandese capace di procedere tra molte difficoltà, tra molti pericoli, di muoversi tra le persone, le case, le strade di una Dublino così affollata, così movimentata, di non smettere mai di occuparsi, di affaccendarsi. L’intera vita della città fa conoscere lo scrittore tramite quella di Agnes poiché in essa si svolge, in essa è lei sempre alla ricerca di una soluzione per i suoi tanti problemi.

Anche la madre di O’Carroll era stata una donna forte, anche lei aveva perso il marito quando lui e le cinque sorelle erano ancora piccoli. Tutti, prima dei quattordici anni, avevano dovuto abbandonare la scuola e arrangiarsi nel mondo del lavoro. A dodici anni O’ Carroll era cameriere poi lattaio e dalla vita sua e della sua famiglia gli era venuta l’idea del romanzo, da sua madre quella di Agnes Browne, della “mamma” che avrebbe conquistato il pubblico di ogni parte del mondo, che sarebbe diventata di tutti.

La sua scrittura semplice, chiara, facile gli avrebbe procurato altra ammirazione. E’ una scrittura capace di attirare, coinvolgere come sempre succede quando di cose semplici si dice con parole semplici. Non è il linguaggio delle favole quello di O’Carroll ma delle favole ha quel tono che non finisce mai di piacere, dalle favole deriva quella morale nella quale tutti possono ritrovarsi poiché per tutti vale.

“Qualcosa di buono” di George C. Wolf

“Qualcosa di buono” un film di George C. Wolf

di Mario Coviello

 

qualcosa_di_buonoEsce oggi in tutta Italia nelle sale un film da non perdere “ Qualcosa di buono” , di George C. Wolf, basato sul romanzo di Michelle Wildgen., che ha lo stesso titolo ed è pubblicato in Italia da Vallardi

Kate (Hilary Swank) è una pianista di musica classica , donna in carriera di successo, sposata e dai modi garbati, a cui è stata diagnostica la SLA (più nota con il nome di malattia di Lou Gehrig). Bec (Emmy Rossum) è un’estroversa studentessa universitaria e aspirante cantante rock che riesce a malapena a destreggiarsi in una vita estremamente caotica e confusionaria Eppure quando Bec decide di accettare la disperata proposta di lavoro come assistente di Kate, proprio quando il matrimonio di Kate con Evan (Josh Duhamel) comincia a entrare in crisi, le due donne si affidano a ciò che diventerà un legame non convenzionale, a volte conflittuale e ferocemente onesto. Senza una meta chiara nella vita, Bec è decisa a diventare l’ombra di Kate accompagnandola e traducendo per lei le situazioni più sconcertanti e goffamente comiche. Il risultato è un cameratismo ridotto all’ essenziale, fatto di sostentamento quotidiano e confessioni a notte fonda. Quando la meticolosa e ostinata Kate comincia a influire sulla confusa, spontanea e inafferrabile Bec e viceversa, entrambe le donne si trovano faccia a faccia con i rispettivi rimpianti, esplorando nuovi territori ed espandendo la propria idea su chi in realtà vogliono essere. Il film, che può essere considerato la versione femminile di “Quasi amici” (i protagonisti erano un nobile tetraplegico e il suo badante pregiudicato) parla di handicap, di amicizia, di destino attraverso un impianto a cavallo fra dramma e commedia con molti momenti di umorismo.

Come ha interpretato il suo ruolo? «Mi sono documentata scrupolosamente frequentando dei veri malati», racconta Hilary Swank, «mi sono fatta raccontare la loro vita quotidiana, ho esplorato i loro sentimenti. E’ stata una prova fisicamente ed emotivamente molto faticosa, ma sono felicissima di aver interpretato questo film che regala molte emozioni. Su di me ha avuto un effetto molto potente».Ho pensato che questa storia fosse un’ottima opportunità per raccontare il legame d’amicizia tra due donne che, nonostante siano antitetiche in tutto, si conoscono e riescono a volersi bene rispettandosi a vicenda”, Della stessa idea anche Emmy Rossum “E’ la storia di due donne completamente diverse che s’incontrano e, inaspettatamente, cambiano l’una la vita dell’altra. Con il tempo imparano a conoscersi e a rispettarsi e, soprattutto, capiscono che non c’è niente di sbagliato nell’essere diversi dagli altri”.

Kate è affetta da SLA e nel film assistiamo al progressivo e inesorabile degenerarsi di una vita fin lì normale. L’attenzione nei confronti della malattia si attiene al rispetto del dettaglio per conferire autenticità alla storia, ma, sia l’autrice del libro che il regista, hanno scelto di evitare ogni possibile scadimento della narrazione nel pietismo o nella temibile lacrima facile. E’ affidato al personaggio di Bec, la ribelle studentessa, un ruolo dissacrante: le sue parole sono un invito diretto, e a volte brutale, ad affrontare la malattia e a vivere fuori dagli schemi. Kate era una donna sicura di sé, bella e soddisfatta della sua vita agiata accanto a un marito innamorato; la malattia, però, con il suo orizzonte di sofferenza e di perdita progressiva di ciò che faticosamente ha costruito, la spingono a lasciarsi andare. Solo l’aiuto di Bec e del suo spirito goffo e irriverente modificheranno il modo in cui Kate guarda se stessa, sino a rimpiangere di non avere, in passato, preferito costruire il suo vero Io anziché aderire alle aspettative di altri .Kate e Bec nel film dimostrano che la vita ci pone di fronte a sfide insormontabili, al dolore più lacerante, ma l’amicizia dona la possibilità insostituibile di poter contare su qualcuno. Non sarà la cura miracolosa ai piccoli grandi drammi che ci colpiscono, ma sì un rifugio accogliente in cui poter ancora coltivare la speranza. Abbiamo sempre pensato che le amiche vere fossero tali in virtù della somiglianza, ignorando che le differenze ci rendono complementari, e possono essere un’opportunità di crescita. Proprio come è stato per Kate e Bec.Questo film approfondisce il tema della malattia, delle scelte e delle relazioni: una malattia degenerativa, contro cui non si può combattere e non si può vincere, getta un’ombra d’impotenza e di angoscia disarmante in tutti coloro che hanno a che farci. In un certo senso mi ricorda Still Alice,che vi ho consigliato in una mia precedente recensione, in cui si parla di una donna brillante, giovane e forte che si vede lentamente divorare la mente dall’Alzheimer pur continuando a lottare, pur sapendo che non ci sono speranze. Hilary Swank, riuscirà con questo film a conquistare premi e pubblico come ha fatto nelle precedenti interpretazione in  “Boys don’t cry” e “Million Dollar Baby”?

L. Gruber, Eredità

Eredità: Una storia della mia famiglia tra l’Impero e il fascismo di Lilli Gruber
Rizzoli, 2012

di Mario Coviello

gruber“´Dovete sapere da dove venite, per potere andare lontano’” è quello che i genitori di Lilli Gruber hanno sempre ripetuto ai loro figli. Il romanzo ha richiesto oltre due anni di lavoro di documentazione da parte della giornalista de La7. Gli eventi storici raccontati, protagonista il Sȕdtirol, sono realmente accaduti e i personaggi sono esistiti. “Una storia della mia famiglia tra l’Impero e il fascismo” è il sottotitolo del volume arricchito da una galleria di ritratti di famiglia che sintetizza il senso di questo racconto storico e romanzo autobiografico nel quale s’intreccia pubblico e privato. Partendo dalle pagine del diario della bisnonna Rosa Tiefenthaler Rizzolli (il diario si apre nel 1902 e si interrompe nel Natale del 1939) ritrovato nella grande casa avita di Pinzol “minuscolo villaggio del Sudtirolo” situato sulle alture che dominano l’Adige, l’autrice compie un viaggio nel passato per gettare una nuova luce su avvenimenti nodali e importanti. La Gruber non ha mai conosciuto la nonna “dal viso aperto e generoso, illuminato dagli occhi azzurri”, ricca possidente terriera, donna colta, una figura leggendaria all’interno del clan famigliare. Dietlinde, soprannominata Lilli, dalla sua ava ha certamente ereditato la passione per la scrittura, la tenacia e una grande curiosità intellettuale, qualità fondamentale per chi fa il giornalista. Nelle prime pagine del libro Rosa seduta allo scrittoio apre il diario rivestito di pelle marrone al quale confida i suoi pensieri più intimi. La donna prende una penna la intinge nell’inchiostro nero e con la sua bella calligrafia scrive nel suo antico corsivo tedesco contemplando gli alberi che ricoprono di un verde intenso i fianchi della montagna dove ha ancorato la sua vita. “Novembre 1918”. Il mondo di Rosa è crollato e niente sarà mai più come prima. “Si è concordato l’armistizio con l’esercito italiano” e dal 3 novembre del 1918 gli abitanti del Sȕdtirol, sudditi fedeli dell’ex Impero Austro-Ungarico, sono diventati sudditi del Regno d’Italia. Uomini e donne come Rosa, la cui terra è l’Heimat, vivono tutto ciò come un’occupazione straniera e la divisione del Tirolo è vista come un’amputazione e il distacco dall’Austria come un’ingiusta separazione dall’amata madrepatria. La popolazione non solo parla il tedesco ma è legata da sempre all’impero asburgico da secoli di storia e di cultura condivisa precisa la Gruber. Il simbolo di questa lacerazione è la garitta, una barriera di legno che viene eretta, nei giorni che seguono l’arrivo degli italiani al Brennero, attraverso la strada principale, tra l’Italia e l’Austria.Basandosi rigorosamente sulle informazioni famigliari, sulle lettere, su alcune testimonianze scritte, su libri di storia locale e documenti narrativi l’autrice ha ricostruito “alcune circostanze in modo narrativo”, sullo sfondo le rivendicazioni di una regione di cultura e tradizione tedesca, la quale dopo il crollo dell’Impero asburgico si trovò molto restia all’annessione all’Italia. La famiglia di Lilli Gruber viene quindi usata come lente attraverso cui guardare le cruciali vicende europee che vanno dall’inizio del Novecento fino alle soglie della II Guerra Mondiale. “Sono arrivati i giorni più turbolenti della guerra”.

La brutalità con cui  poche righe di un Trattato decisero il destino e cambiarono radicalmente la vita di migliaia di persone, l’assimilazione coatta, violenta, imposta alla popolazione tedesca del Sud Tirolo esercitata dal Regno d’Italia e dal Fascio attraverso divieti, persecuzioni, emarginazioni, discriminazioni ed aberranti tentativi di deprivare un’intera popolazione della propria lingua (il tedesco), tradizioni, radici, della propria Heimat mi ha lasciato esterrefatto anche per l’imbecillità e la miopia di un metodo che non poteva che accentuare le resistenze e — cosa ancora peggiore — spingere molti sudtirolesi a diventare filonazisti Indimenticabili le pagine in cui di fronte al divieto assoluto di utilizzare sia in pubblico che in privato ed anche durante le funzioni religiose la lingua tedesca viene descritta l’organizzazione di un sistema alternativo di istruzione della lingua e cultura tedesca, una vera e propria rete di “classi clandestine” (le Katakombenschulen, scuole delle catacombe) in cui maestre e maestri prestano la propria opera di insegnamento per far sì che i bambini non perdano il legame con la loro lingua madre.

“Questo non è un libro di storia. E’ un libro di memoria e di recupero di ‘ memoria familiare e culturale che mi appartiene” scrive la Gruber.Una verità semplice: il passato resiste, ma la memoria è sempre troppo corta” . E lei, Lilli Gruber, come si pone oggi di fronte a quella che comunque è una doppia appartenenza?´Ma tu ti senti più italiana o più tedesca?» è tutta la vita che me lo chiedono e non sarò mai abbastanza grata ai padri fondatori dell’Unione Europea perchè oggi posso affermare: ´Sono e mi sento cittadina d’Europa’, una soluzione che trovo perfetta. C’è però anche un’altra risposta, altrettanto vera: sono sudtirolese. E in quanto tale ho vissuto confrontandomi ogni momento, su qualunque questione, con un problema: c’era sempre un punto di vista tedesco e uno italiano su tutto. E ovviamente ognuna delle due comunità perpetuava i più vieti stereotipi sull’altra.

Lilli Gruber,nata a Bolzano, è giornalista e scrittrice. È stata prima donna a presentare un telegiornale in prima serata e dal 1988 ha seguito come inviata per la RAI tutti i principali avvenimenti internazionali. Dal 2004 al 2008 è stata parlamentare europea.  Gli ultimi suoi bestseller pubblicati con Rizzoli sono Chador (2005), America anno zero (2006), Figlie dell’Islam (2007), Streghe (2008), tutti disponibili anche in Bur, e Ritorno a Berlino (2009). Dal 2008 conduce su La7 il programma di approfondimento Otto e mezzo e, oltre ad essere stata il primo volto femminile del telegiornale Rai delle ore 20, ha seguito da inviata Rai i principali eventi internazionali, dalla caduta del Muro di Berlino, ai conflitti in Iraq. Ha viaggiato praticamente in tutto il mondo ma non hai mai dimenticato le sue radici, ben salde in Alto Adige, regione splendida e travagliata che essendo terra di confine è stata teatro di tensioni e contraddizioni.

A. Moore, La moglie dell’albergatore

Il posto che non c’è

di Antonio Stanca

  A Maggio del 2015, nella serie “Le Piccole Varianti” della casa editrice Bollati Boringhieri di Torino, è stato pubblicato il romanzo La moglie dell’albergatore della scrittrice inglese Alison Moore. La traduzione è di Carlo Prosperi (pp.169, € 9,50). La Moore ha quarantaquattro anni, è nata a Manchester nel 1971 e vive nei pressi di Nottingham col marito e un figlio. Ha scritto questo romanzo nel 2012 dopo aver scritto dei racconti che ha pubblicato su riviste o in antologie tra le quali Best British Short Stories. La moglie dell’albergatore è il suo romanzo d’esordio e nel 2012 è stato selezionato per il Man Booker Prize e per il Book Awards National. Nel 2013 ha vinto il Premio Mckiherick.

   Quello della fantascienza, dell’horror è il genere nel quale la scrittrice viene fatta rientrare specie per i suoi racconti mentre nei romanzi si mostra incline a rappresentare situazioni particolari, a scandagliare l’animo di chi le vive, a mostrare le complicazioni dei suoi pensieri, i disturbi della sua mente. Di vite insolite dice la Moore nei romanzi e così fa pure ne La moglie dell’albergatore dove il giovane protagonista Futh decide di recarsi per una settimana dall’Inghilterra in Germania al fine di liberarsi dei problemi che lo assillano. In casa egli ha vissuto una triste esperienza soprattutto da quando la madre se n’è andata lasciandolo solo col padre. Non sopportava più quanto doveva subire, la superficialità con la quale il marito la trattava, i continui tradimenti ai quali la esponeva. Neanche a Futh piacevano i modi, i vizi del padre e per questo era stato più vicino alla madre fin da quando era bambino. Presso di lei aveva trovato conforto per le sue inquietudini, le sue ansie, con lei aveva stabilito un rapporto fatto di rivelazioni, confidenze, intimità. Era stata lei a capire i suoi pensieri, a cogliere i suoi problemi, a soddisfare i suoi bisogni. Rimasto senza la madre Futh aveva sofferto la sua assenza e aveva creduto di colmare quel vuoto sposando Angela, sua vecchia compagna di scuola. Ma questa non si era mostrata disposta a capirlo completamente, a dedicargli molto tempo perché presa da altri interessi, attirata da altre esperienze comprese quelle sessuali. Si separerà da Angela e intanto aggravata si è la condizione del suo spirito. Paure, ossessioni sono diventate le sue ansie. Tra l’altro teme sempre che possa accadere improvvisamente qualcosa di molto grave e che non riesca a mettersi in salvo. Per questo si è legato ad oggetti che è convinto gli portino fortuna, che ha sempre con sé ed ai quali è arrivato ad attribuire un valore sacro. Per questo ambisce ad un luogo sicuro, ad una vita tranquilla, ad una casa che lo accolga, ad una persona che lo ascolti, quelle che aveva pensato di trovare, che si era costruito in seguito ai lunghi dialoghi con la madre.

   Erano ambizioni semplici quelle di Futh, esprimevano i bisogni di uno spirito umile, pacifico. Erano state quelle a farlo andare in Germania, lontano dai luoghi, dalle persone che vedeva all’origine dei suoi problemi. Ma neanche qui riuscirà a realizzarle, a liberarsi dei pensieri, dei ricordi che ormai lo perseguitano e lo portano a ripercorrere la vita passata in ogni particolare, nei momenti più gravi, nelle circostanze più dolorose. Ne uscirà indebolito, fiaccato nello spirito e nel corpo. E’ ancora giovane ma ha assunto l’aspetto, l’atteggiamento di una persona incerta, confusa che con facilità sbaglia l’autobus da prendere, la fermata da usare, l’albergo dove alloggiare e molta strada è costretta a percorrere con i piedi che gli bruciano. Un viandante solitario, dolorante, un ramingo diventerà Futh una volta in Germania, non una vacanza sarà la sua ma una peregrinazione tra posti che non conosce, persone che non capisce, immagini, visioni che lo rincorrono. E sempre lontana rimane quella tanto sospirata quiete che aveva creduto possibile. Non c’è posto per Futh in una vita che altro chiede da quello che lui può dare.

   Il ricordo della madre, delle sue parole, delle sue cose, ritornerà nella mente di Futh, l’attraverserà a volte improvvisamente, inaspettatamente e abile sarà la Moore a mostrare tale movimento, a spostare in continuazione i tempi, i luoghi della narrazione, a saper stare tra passato e presente, Inghilterra e Germania, seguendo quanto avviene nel suo personaggio. Molto ha fatto rientrare nell’opera la scrittrice, tanti elementi, tanti tempi, tanti luoghi, tante persone, senza mai riuscire complicata, difficile nella scrittura. Ha mostrato come i pensieri di Futh passano da quanto è avvenuto a quanto sta avvenendo, da come si è comportato a come si sta comportando, dalle prime persone della sua vita alle altre, da quel che avrebbe voluto a quel che ha ottenuto, dall’idea alla realtà, dal sogno alla verità, dalla speranza alla delusione.

   Non è un romanzo psicologico questo della Moore ma niente trascura della complessa psicologia del protagonista e niente della realtà che lo ha circondato e lo circonda. Dal confronto con questa fa emergere i suoi problemi. Non divisa è l’opera tra l’interno e l’esterno di Futh, tra il suo passato e il suo presente, tra lui e gli altri, tra la sua e la loro vita, ma comprensiva di tutto, ampia, estesa. Questo la rende nuova rispetto ai molti echi letterari, ai molti luoghi comuni, quelli del giovane incompreso, solitario, del viaggio come evasione, fuga o ricerca d’altro, che in essa si possono rintracciare. Nuova è la Moore perché il suo sguardo comprende tutto ciò che è stato ed è del suo personaggio, tutta la vita che intorno a lui si è svolta e si svolge e che ne ha fatto un “diverso”.

A. Kourouma, Allah non è mica obbligato

Bambini d’Africa

di Antonio Stanca

kouroumaAhmadou Kourouma è stato uno dei maggiori scrittori africani contemporanei. E’ nato nel 1927 in Costa d’Avorio ed è morto a Lione nel 2003. Aveva settantasei anni e tante esperienze aveva vissuto: dal 1950 al 1954 aveva preso parte, nelle file dell’esercito francese, alla guerra d’Indocina, in seguito si era trasferito in Francia, a Lione, per studiare matematica e qui aveva conosciuto la donna che sarebbe diventata sua moglie. Nel 1960, quando la Costa d’Avorio si era liberata dalla colonizzazione francese ed aveva acquistato l’indipendenza, Kourouma vi era tornato ma, accusato falsamente dal nuovo governo di essere membro di una congiura ad esso contraria, era stato costretto ad andare in esilio. Dopo molti anni trascorsi tra l’Algeria, il Camerun e il Togo, tornerà in Costa d’Avorio. Qui nel 2002 scoppierà la guerra civile e Kourouma si mostrerà contrario a tanta ostilità tra connazionali. Perciò sarà di nuovo accusato di complottare contro il governo e di nuovo dovrà lasciare il suo paese.

Era bastato che Kourouma non si mostrasse convinto di quanto stava succedendo in Costa d’Avorio perché la sua posizione diventasse motivo di accusa.

Anche i suoi romanzi, che gli sarebbero stati ispirati dalle tristi vicende attraversate, avrebbero sofferto di molti divieti prima di essere pubblicati. Il sole delle indipendenze, il suo romanzo d’esordio scritto nel 1968, avrebbe visto la pubblicazione dopo molto tempo e soltanto in seguito ad un premio ottenuto da Kourouma presso l’Università di Montreal. Da allora le sue narrazioni avrebbero conquistato il mercato francese e poi quello inglese, avrebbero avuto molti riconoscimenti. Il romanzo Aspettando il voto delle bestie selvagge, del 1998, avrebbe vinto in quell’anno il Prix Tropiques e nel 1999 il Grand Prix de la Societé des gens de lettres e il Premio Livre Inter. Il romanzo Allah non è mica obbligato, che risale al 2000, ha vinto il Prix Renadout 2000 e il Prix Goncourt des lycéens. Quest’opera è comparsa per la prima volta in Italia nel 2002 presso le Edizioni E/O di Roma e da queste è stata recentemente ristampata. La traduzione è della Scuola Europea di Traduzione Letteraria.

Anche per il teatro e per i bambini ha scritto Kourouma ma soprattutto nei romanzi ha espresso le sue migliori qualità e sono stati questi a farlo conoscere ed apprezzare. La loro lingua non è raffinata poiché impegnata a dire delle gravi realtà dell’Africa, a far emergere, tramite quanto rappresentato, la posizione dell’autore, la sua condanna di tutto quanto, tra passato e presente, si è opposto al desiderio, al bisogno di libertà del popolo africano, delle ingiustizie, delle sopraffazioni, delle rivalità, delle crudeltà, degli orrori, della violenza di ogni genere che percorre ancora oggi l’Africa e fa apparire come unica, inevitabile, necessaria la sua condizione di miseria, di fame, di morte. Premiato è stato Kourouma per i suoi romanzi perché con essi ha avuto il coraggio di denunciare una situazione tragica, di proclamare ad alta voce che anche i negri hanno diritto alla vita, che anche i poveri devono mangiare.

In Allah non è mica obbligato attraverso i pensieri, i sentimenti, le emozioni, le azioni, le esperienze, la vita del bambino Birahima lo scrittore dice dell’Africa, di quanto negli ultimi anni del secolo scorso succedeva in particolar modo in Liberia e in Sierra Leone, dove erano in corso due guerre civili che si erano trasformate in guerre tribali tante erano le fazioni che miravano al potere, tanti i capi che le comandavano e che si alternavano.

Birahima è un bambino povero che vive con la madre molto malata e che dopo la morte di questa è costretto, per assicurarsi il minimo necessario alla vita, a lasciare la scuola e diventare bambino soldato, a mettersi al servizio del capo di una delle fazioni in lotta prima in Liberia poi in Sierra Leone, a cambiarlo se fosse stato necessario e a combattere contro i suoi nemici, contro altri bambini soldati che per altri motivi lo erano diventati, ad uccidere, a veder uccidere, ad assistere a tante stragi, a tante torture, a tante esecuzioni, a tanta ferocia in quell’Africa dove “Allah non è mica obbligato ad essere sempre buono, a provvedere, cioè, che non si verifichino situazioni sanguinarie”. La guerra e quanto essa comporta di attentati, complotti, inganni, tradimenti, crudeltà, diventeranno gli aspetti quotidiani della vita di Birahima, con essi s’identificherà la sua esistenza, con un’interminabile peregrinazione tra luoghi, persone, cose sempre nuove, sempre ostili, sempre pericolose. Attraverso le peregrinazioni di Birahima lo scrittore farà comparire tante altre tristi verità d’Africa, farà vedere come sono sfruttati i suoi abitanti, le sue regioni, le sue ricchezze, come è percorsa da ladri, banditi, falsari, furfanti di ogni tipo. E tutto dirà con un linguaggio semplice, spontaneo, quello appunto del bambino Birahima, che Kourouma mostrerà come l’autore del romanzo, al quale farà dire di averlo voluto scrivere per narrare le gravi esperienze vissute in Africa da lui e da tanti altri bambini. E’ un espediente che consente allo scrittore di muoversi liberamente tra pensieri e ricordi, realtà e fantasia, magia, leggenda e religione, superstizione e mito. Meglio che in altre opere è riuscito stavolta Kourouma perché immediato, naturale come un bambino è stato, di più ha aderito a quanto voleva dire, più vero, più autentico, più africano è risultato.

Z. Bauman – E. Mauro, Babel

Una conversazione di alto profilo sulla babele del mondo contemporaneo

di Maurizio Tiriticco

 

Zygmunt Bauman, Ezio Mauro, Babel, Laterza, Bari, 2015, pp. 166, € 16,00

“Un tempo, in alcuni regimi, bisognava difendere l’autonomia dell’individuo davanti alla totalità pervasiva del sistema che lo annullava. Oggi bisogna dare un valore alla solitudine del singolo, renderla intelligente, consapevole: anche in questo caso autonoma, sia pure per un processo inverso. Conservare la libertà di scegliere significa tenere aperte opzioni diverse, cioè lo spazio dell’azione, dell’azione politica. Il problema sembra addirittura fisico, è invece culturale” (p. 152).

 

babelIl volume raccoglie una lunga, articolata e documentata conversazione sui problemi del mondo contemporaneo tra un autorevole “lettore” della società di oggi e un giornalista di alto profilo. Il focus è la complessa fenomenologia di un mondo che nel giro di qualche decennio ha subito mutamenti radicali nell’economia, nella politica, nei comportamenti di ciascuno di noi, e soprattutto nei processi di comunicazione.

Il processo di globalizzazione e tutti quei fenomeni che rendono la nostra società sempre più “liquida” non solo sembrano essere irreversibili, ma subiscono giorno dopo giorno sempre più sensibili accelerazioni. In effetti sono le stesse coordinate spazio/temporali, su cui si intrecciano da sempre le relazioni interpersonali, a subire profonde modifiche, le quali si ripercuotono sui campi di comunicazione e sui comportamenti. E’ ozioso alludere ai cellulari e ai social network, che costituiscono i terminali tecnologici di un sistema di relazioni assolutamente nuovo. Ciò che conta e che costituisce spunti di analisi interessanti nella conversazione di Babel è l’insieme delle profonde ricadute che i sempre più veloci cambiamenti a livello planetario impongono sull’economia, sul lavoro, sulla politica, sui modi stessi di pensare e di essere – soprattutto di essere – di noi tutti, cittadini del terzo millennio.

L’accelerazione sempre più intensa delle comunicazioni fisiche – i trasporti – e delle informazioni sta modificando profondamente le coordinate stesse dello spazio e del tempo e della percezione che ciascuno di noi ne ha. E’ come se fossimo “schiacciati” su uno spazio sempre più piccolo e su un tempo sempre più ravvicinato. Il “lontano” non sembra più esistere e il futuro è letteralmente schiacciato su di un presente che sembra ignorare lo stesso passato.

Quando Romolo tracciava il solco a due passi dal Tevere ignorava l’esistenza stessa di un Po e il futuro del suo regno era legato al volo augurale di dodici avvoltoi. Il gruppo degli allevatori e degli agricoltori delle origini della nostra storia viveva e operava nel suo piccolo spazio, e nel tempo si scandivano le regole dei comportamenti che garantivano la coesione e la continuità del gruppo. La trasmissione costante e continua delle leggende – era il ruolo delle mamme e delle nonne – e il culto degli antenati garantivano l’identità e la coesione del gruppo, il suo presente e il suo futuro: un piccolo spazio, ma un tempo estremamente dilatato. Oggi il grande gruppo planetario non conosce più confini e limiti spaziali, ma il tempo si restringe al semplice succedersi delle giornate. Non c’è passato e il futuro è solo quello del giorno dopo. E troppo spesso l’Ecstasy lo suggella per sempre.

E’ una fenomenologia assolutamente nuova e complessa, nella quale e per la quale si allentano anche i vincoli che in genere sono, anzi, erano dati dalla necessità dello “stare” insieme” e insieme garantire la sopravvivenza e il futuro del gruppo.

E le funzioni stesse della comunicazione interpersonale subiscono profonde modifiche. Jakobson ci ha insegnato che le funzioni del comunicare sono sei, che qui non è il caso di ricordare, ma… solo una, purtroppo, è oggi quella dominante, quella fàtica: si ha quando ci si preoccupa soltanto che l’interlocutore ci sia, qualsiasi cosa si dica o si ascolti! L’importante è esserci, inviare e ricevere messaggini a iosa, faccette e altri emoticon, marcare il territorio, possiamo dire. Di qui le centinaia di “amici” sempre nuovi, come scalpi da aggiungere alla propria cintura. Gli oggetti del comunicare diventano sempre più poveri, ma i soggetti che comunicano sul nulla e di nulla sono sempre più numerosi.

In parallelo si va sempre più perdendo la dimensione sociale dello stare insieme e del comunicare; si allenta lo spirito pubblico e si logora la stessa democrazia. Il numero sempre più basso di votanti – fenomeno non solo italiano – è indicativo di un ripiegarsi di ciascuno sul proprio Io. “In questo strappo del patto tra Stato e cittadino c’è una condanna, come se la democrazia fosse una forma temporale della costruzione umana e non riuscisse a governare il nuovo secolo appena incominciato, arenata nel Novecento” (p. 19). Questa instabilità politica e sociale si coniuga con un’altra instabilità, che riguarda il lavoro.

“In passato i lavoratori potevano combattere con un minimo di successo contro gli attacchi dei capitali fissi al loro standard di vita; oggi sono del tutto disarmati di fronte a ‘investitori’ straordinariamente mobili, ondeggianti, capricciosi, inquieti e imprevedibili, continuamente a caccia di più alti profitti e pronti a volare dove la pubblicità fa intravedere fugaci opportunità favorevoli”. Così, assistiamo impotenti a un costante e progressivo logorio dei rapporti sociali e, purtroppo, anche di quelli interpersonali. A valori che si stanno perdendo non corrispondono valori nuovi. E il futuro ci si presenta sempre più liquido, stando all’ultima pubblicazione di Bauman, “Il futuro liquido”, edito da Feltrinelli.

Concludendo, Babel è un libro molto molto amaro: “Viviamo in mare aperto, sotto l’onda continua, senza un punto fermo che misuri il peso e la distanza delle cose” (risvolto di copertina). Forse può fargli da controcanto l’ultimo libro di Edgar Morin, “Insegnare a vivere, manifesto per cambiare l’educazione”, Raffaello Cortina, 2014. Ma in un mondo liquido o che si sta liquefacendo, è possibile un rilancio dell’educazione? Come se questa potesse essere immune dall’assalto della marea liquida? Chissà!

Il volume lascia il lettore abbastanza sconcertato. Possibile che anche la politica sia essa stessa soggetto di liquidità? Le recenti vicende di una Grecia al tappeto in effetti non sono confortanti. Sono un fenomeno a sé, oppure una pericolosa linea di tendenza? Una deriva dalla quale nessuno potrà uscire?

Il libro che ho letto è veramente sconcertante. Le seguenti osservazioni di Ezio Mauro, a mio vedere, costituiscono il senso e il significato dell’intero volume: “Siamo arrivati a Mefistofele: la parola prende completamente il posto del pensiero. In realtà anche la parola viene sempre più spesso ridotta a segno, o almeno a segnale: pensa all’abuso di acronimi. Se ieri il medium era il messaggio, ora il medium può fare a meno del messaggio. I ragazzi si scambiano col cellulare segnali vuoti per salutare, sollecitare, confermare, e l’impulso riassume definitivamente la parola e il vuoto, sostituendoli. D’altra parte, se la tua identità è quella di un punto in una rete e il tuo sistema è fatto a nodi, la questione vitale diventa quella di pulsare, partecipare al grande battito più che al vecchio dibattito, non perdere il ritmo, non uscire dal cerchio. Sentire è necessario più che capire, è una facoltà e non uno sforzo. Al centro della rete – ognuno è al centro e alla periferia del web – io vivo connesso alle emozioni altrui, alle sensazioni degli amici, alle reazioni di sconosciuti, alle informazioni del flusso, alle selezioni prodotte dai social network, alla ‘folla delle impressioni vaganti e volatili’, come dici tu. Io sento, dunque sono. Io sono in rete, dunque sento” (p. 117).

E’ il rovesciamento del “cogito” cartesiano! Dall’affermazione del Sé al suo rovinoso declino…

Donna Tartt, Il cardellino

Donna Tartt, Il cardellino
Rizzoli Vintage

di Mario Coviello

 

tarttLa gente muore, questo è un dato di fatto” dice una madre al figlio, dentro al Metropolitan Museum Of Art “ma il modo in cui perdiamo le cose è insensato e terribile […]. Tutto ciò che sopravvive alla Storia dovrebbe essere considerato un miracolo”. Undici anni dopo Il piccolo amico, Donna Tartt torna con il suo terzo lavoro, Il cardellino, un’opera di 892 pagine, con la storia di Theodore Decker e della detonazione nel museo newyorchese, in cui perde la madre e da cui si salva per caso, per aver seguito i capelli rossi di una ragazza, per noia, per coincidenza. È il caso a essere protagonista di questo romanzo: quello stesso caso per cui anche lei, Pippa, si trova là con l’anziano Welty che, prima di morire, consegna a Theo un anello e il compito di riportarlo al suo socio di affari, l’antiquario Hobart. Prima di uscire dal museo, come richiamato dallo stesso quadro, Il cardellino del titolo, Theo si avvicina alla parete e lo porta via: la tela del 1654 di Carel Fabritius, allievo di Rembrandt, è una delle poche ad essersi salvata dall’esplosione in cui ha trovato la morte, giovanissimo, lo stesso pittore, secoli prima; ancora il caso, le ripetizioni.

“Cosa sarebbe successo se quel particolare cardellino (ed è molto particolare) non fosse mai stato catturato o nato in cattività, esibito in una casa dove il pittore Fabritius potesse vederlo? Non può aver compreso perché sia stato costretto a vivere in una tale tristezza, spaventato dai rumori (così immagino), stressato dal fumo, dai cani che abbaiavano, dagli odori di cucina, importunato dagli ubriachi e dai bambini, impedito a volare dalla più corta delle catene.”

Basta tenerlo tra le mani per cogliere la prima fondamentale componente di questo libro: è una lettura imponente, quasi 900 pagine, che mi ha fatto compagnia nel mio viaggio in Grecia e non poteva avere una cornice migliore. Se a questo aggiungiamo che l’autrice ha impiegato circa dieci anni per scriverlo, così come era successo per i suoi due romanzi precedenti Dio di illusioni e Il piccolo amico, allora si comprende il motivo per cui questo romanzo, Il cardellino, sia nato come un successo annunciato e abbia vinto il premio Pulitzer nel 2014.

Tra le sue pagine scorre la storia della letteratura americana, buona parte della storia dell’arte europea, la frantumazione della società contemporanea e un leggero filo dorato capace di tenere insieme ciascuna di queste grandi tematiche. Come un’ossessione.
Il protagonista della storia è  un adolescente di Manhattan tremendamente intelligente e conseguentemente vessato dai compagni di scuola, molto legato a sua madre, una donna colta e solitaria, e scontroso nei confronti del padre, un ex attore di Broadway, alcolizzato e assente.

Seguiremo Theo durante i primi mesi a New York, solo senza famiglia, ospite nella ricca casa di un suo compagno di scuola, e poi lo ritroveremo quasi catapultato in una realtà a lui completamente avulsa, a Las Vegas, insieme a suo padre, o a quel che ne resta, e alla sua nuova compagna, Xandra, barista al Casinò, spacciatrice di coca e anfetamine. È nelle strade deserte di Las Vegas che il romanzo di formazione che abbiamo letto nella prima parte, ambientato tra Park Avenue e Down Town, si trasforma in un romanzo on the road della Beat Generation. Tra sbronze, fughe, furti, sballo e stordimenti, Theo conoscerà uno dei suoi più grandi amici, Boris, in parte russo in parte polacco, cosmopolita, figlio di un minatore, che gli farà scoprire il lato più oscuro della vita e di se stesso.
Sarà ancora una volta a causa un incidente che Theo, dopo due anni, ormai quindicenne, tornerà a New York e andrà a bussare ancora una volta alla porta del suo amico Hobie, il gigante buono, l’antiquario del Village, da cui era già stato salvato una volta, subito dopo l’esplosione. Il legame tra Hobie, Il cardellino e Theo lo scoprirete immergendovi nella lettura di questo intrigante romanzo. Un libro che si legge ossessivamente fino alle ultime pagine in cui, in una Amsterdam decadente, l’azione e il thriller prendono il posto del racconto di formazione. Un romanzo poderoso, complesso, scritto magistralmente e capace di trasformarsi sotto i nostri occhi, proprio come un capolavoro dell’arte fiamminga che rivela parti di sé in base al punto di osservazione. La voce narrante di questo libro seduce, ci commuove e ci ferisce, è una di quelle voci che continuerà a parlarci anche dopo che avremo letto l’ultima pagina. Perché da un luogo all’altro Theo si porta addosso la stessa condanna, quel rumore sordo della solitudine che si può solo attutire, per un po’, con la sostanza giusta.

Inno all’America e inno a New York, città mondo bellissima e crudele, piena di segreti come in Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick, Il cardellino è un catalogo delle paure e dei traumi dell’Occidente post 11 settembre. E una preghiera sul potere che ha l’arte. Non certo di salvarci, ma di rendere più lieve il nostro passaggio su questa Terra.

La vicenda di Theo è una discesa agli inferi a cui fino alla fine speriamo tenacemente corrisponda una risalita ma ciò che è certo è il peso del passato e il senso di colpa che condiziona tutta la sua vita di adolescente e poi di uomo. È l’incapacità di accettare la perdita e superare un trauma così terribile e l’attentato terroristico, con quel boato che non smette mai di risuonare nella mente dei sopravvissuti, è raccontato in pagine così riccamente dettagliate da richiamare immediatamente quelle immagini tristemente note; è la perdita dell’innocenza, è distruzione che spezza quel legame e quella vita che ancora sembrava possibile.

E il senso di colpa – per la morte della madre, per il furto del dipinto, per le truffe- è il veleno che rovina l’esistenza di Theo. Anche l’amicizia, imperfetta e complicata, è un filo sottilissimo che tiene Theo alla vita, lo strappa alla solitudine pur non riuscendo a colmare la profonda infelicità che lo opprime. Boris è l’unico vero amico di Theo, con lui litiga furiosamente, prova ogni tipo di droga, si azzuffa e si confida, in un rapporto sempre in bilico tra amicizia e amore. Complicato, il confine tra giusto e sbagliato incerto e mobile, innocente e corrotto allo stesso tempo, Boris rappresenta uno dei rapporti più solidi di Theo e un appiglio alla vita.

È, dunque, un romanzo sull’amicizia. Ma è anche un romanzo sulla libertà, sulla solitudine, sul senso della vita. Sulla possibilità di scegliere tra il bene e il male, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Ma anche e soprattutto, si tratta di un romanzo sull’amore. Non solo amore nei confronti di qualcuno. Ma amore come ossessione per un’opera d’arte e in particolare per Il cardellino.

Vi consiglio questo libro perché penso che affezionarsi ai personaggi, giustificarli anche nei momenti peggiori delle loro esperienze, amarli in qualsiasi punto della storia, debba essere una delle prerogative di un buon romanzo.

Z. Bauman – E. Mauro, Babel

La Crisi delle “esauste democrazie” occidentali secondo Bauman

di Luigi Manfrecola

 

babelRitengo estremamente interessante il contributo di riflessione sullo stato di salute delle democrazie occidentali recato al dibattito da parte del solito Bauman, che ha peraltro trovato un puntuale interlocutore in Ezio Mauro, sviluppando una suggestiva disamina della tematica in questione nel Testo “BABEL” – Ed. Laterza.

Voglio riferirne qui in rapida sintesi per sottolineare l’acutezza dell’analisi, pur non evitando di manifestare qualche mia perplessità (segnalata dai punti di domanda) , facendo posto a qualche osservazione finale.

 

 

Interconnessione , Predomino della Finanza e Crisi di governance degli Stati Territoriali

In premessa va osservato che Bauman concorda con Hobbes nel ritenere che ogni Governo dovrebbe disporre della forza necessaria a garantire la sicurezza dei cittadini : una sicurezza che va pagata con la corrispettiva perdita di una certa percentuale di libertà. Ebbene, oggi un tale sacrificio appare mal compensato.

In effetti i Governi non solo non sanno rispondere più alla loro funzione di tutela ma si fanno essi stessi origine e causa dell’ insicurezza globale e rappresentano perfino una minaccia per le rispettive comunità. Non possono e non vogliono arginare la Crisi che sta travolgendo tutta l’impalcatura dell’Occidente : materiale, istituzionale , intellettuale. La democrazia è “esausta” e non basta più a se stessa poiché è messa sotto attacco, con la sconfitta di quel pensiero lungo ed organizzato che l’aveva sorretta e che si va sciogliendo anch’esso nell’attuale “mondo liquido” .

La mutazione è partita nel territorio dell’economia finanziaria, per estendersi poi all’ambito dell’industria e quindi del lavoro, fino a divenire una dinamica sociale e politica. “IL DISORDINE ECONOMICO- FINANZIARIO ha potuto allargarsi a dismisura poiché ha trovato aperti i cancelli della democrazia (?) e si è insinuato comodamente nella debolezza del sistema democratico come ruggine” (E.M.). L’economia finanziaria si è insomma dimostrata una variabile indipendente dal potere politico . Di conseguenza, oggi siamo nell’era della “post-democrazia” originata dall’incontrollabilità di un mondo che vive di interconnessioni globali , tali da scavalcare le possibilità di controllo dei vecchi Stati territoriali nazionali. Quegli Stati “giardinieri” che avevano segnato il felice passaggio dai vecchi Stati monarchici pre-moderni (paragonati a dei “dentisti”, solo pronti ad estorcere risorse dal popolo) agli Stati moderni , capaci invece di raccogliere e di distribuire le risorse a beneficio delle comunità. Ebbene, questi Stati moderni sono ormai impotenti e si dimostrano cattivi conduttori della volontà generale alla quale non sanno più rispondere, anche e soprattutto perché alla lunga, nei sistemi democratici, finisce col prevalere la ferrea “legge dell’oligarchia”, generata dalla mancata partecipazione e dalla distanza che viene a porsi fra eletti ed elettori. In questa “fase di INTERREGNO”(?) e di decadenza che vede la Crisi della Governance, il popolo giustamente si contorce in forme di sterile ribellismo mentre aumenta la distanza fra gli elettori e i loro rappresentanti . Dominano perciò le forme di “neo-populismo” (?), segnate dalla relazione fideistica fra leader e masse, mentre il consenso è banalizzato in “audience” ed il comizio diviene uno show… L’interconnessione globale ha frantumato l’indipendenza dello Stato-Nazione che aveva garantito la libertà dei popoli e viviamo in un mondo che vede il tramonto della cittadinanza solidale, delle Comunità di Vicinato, dell’artigianato.

Vanno dunque indagate le cause storiche d’una tale trasformazione.

 

Il Vecchio Capitalismo

Tali cause, secondo Ezio Mauro, vanno ricondotte alla trasformazione subita dal primo capitalismo moderno che aveva generato benessere collettivo fino a quando era stato interpretato da una classe di artigiani trasformatisi nei primi imprenditori: un capitalismo che si alimentava della “cultura del dare” e non perdeva i legami con la comunità di appartenenza. Era l’epoca in cui le mamme ancora seguivano i figli in azienda e le famiglie si conservavano compatte nei ruoli di sostegno ed ausilio. Proprio la fabbrica e la famiglia rappresentavano, dunque, il tessuto d’una società solidale. Anche secondo Bauman la trasformazione indotta dalla “cultura aziendale del management ha ,però, presto soffocato la fiamma della cooperazione col fumo tossico della competizione”. Ha introdotto la “cultura del prendere” al posto della precedente propensione a dare ed a condividere . Oggi, nell’epoca del Capitalismo finanziario, la società è ridotta ad una “società di consumatori” individualisti. Non abbiamo nemmeno più una vita pubblica che viene sterilmente ridotta ad un gossip incentrato su frammenti di vita spiati dal buco della serratura. La Politica è anch’essa ridotta ad uno show e il cittadino è trasformato in un semplice spettatore.

Ebbene, secondo Ezio Mauro, in un tale scenario il MUTATO RAPPORTO FRA L’UOMO ED IL LAVORO costituirebbe, il tratto distintivo della crisi epocale vissuta dall’Occidente.

 

Il mutato rapporto uomo – lavoro

Riprendendo l’analisi di Rifkin, l’editorialista osserva perfino che già si potrebbero intravvedere le prime avvisaglie d’un mondo “senza lavoro” a causa della SOSTITUZIONE TECNOLOGICA nel settore manifatturiero, con la definitiva rottura del legame fra produttività e occupazione (?). Dunque, come affermato da alcuni ,”se il capitalismo globale vale a dissolvere il nucleo dei valori della società del lavoro, si rompe un’alleanza storica tra capitalismo, Stato sociale e democrazia” poiché, fino ad oggi, il “cittadino doveva guadagnare denaro principalmente per sostenere i suoi diritti politici di libertà”. Si perde, insomma, la storia novecentesca del lavoro come fabbrica di solidarietà e come luogo privilegiato della capacità di passare dagli interessi privati alle questioni pubbliche e viceversa.(?)

Dissentendo da tale impostazione, Bauman non attribuisce solo alle dinamiche della trasformazione produttiva tale situazione. Riprendendo il pensiero di Habermas osserva invece che sono state direttamente LE ISTITUZIONI DEMOCRATICHE a perdere interesse per la gestione di un lavoro che per secoli era stato concepito come un preciso diritto-dovere. In effetti, lo Stato capitalista era venuto molto presto meno a quella sua doverosa funzione di assicurare l’equilibrio e la regolarità nell’ acquisto/vendita fra capitale e lavoro; situazione che solo inizialmente aveva indotto il capitale a pagare un prezzo equo al lavoro , comprendendosi che questo valeva di per sé molto più del capitale impiegato, al punto da essere parzialmente ricompensato – ad integrazione – mediante diritti e prestazioni sociali costituenti il cosiddetto WELFARE. Il compito primario per lo Stato di garantire l’incontro regolare fra capitale e lavoro aveva insomma indotto a ridistribuire le risorse all’interno d’una società che era e restava una società di “produttori”. Mutatasi tale società in una diversa Società di “consumatori”, lo Stato ha poi acquisito l’abitudine a non interpellare più il cittadino, badando alla collettività, ma piuttosto ha fatto principale riferimento al consumatore individualista, lavandosi le mani delle sue responsabilità (?????), unicamente preoccupandosi di garantire l’incontro fra merci e clienti (pag.17).

 

Una Società di consumatori individualisti?

Alla prova dei fatti è stata così sconfessata la tesi di Parsons secondo cui la società vive mantenendo in un suo spontaneo equilibrio interno le varie funzioni . Viceversa, s’è reso evidente che ciascuna Società è un “processo” in dinamica trasformazione e non una struttura omeostatica. La trasformazione subita è visibile nel passaggio da una economia “timotica” ad un’economia “erotica”. La prima era dominata dal timore di non essere apprezzati dagli altri ed induceva ciascuno a rendersi visibile col donarsi e col “dare” agli altri (spinta etica). La seconda ed attuale (economia erotica) è mossa dal desiderio, dalla sensazione di mancanza, dal bisogno di prendere e di possedere. L’attuale società civile propende verso questa seconda dimensione verso la quale viene anche artatamente spinta con la creazione di sempre nuovi e falsi bisogni. Secondo Bauman «Oggi, l’individuo è prima di tutto un consumatore e poi un cittadino».

Fortunatamente però, non mancano studi recenti che dimostrano crescere nel corpo sociale uno spirito comunitario forte, la voglia di dare e di darsi (come appare, ad esempio, dal diffondersi del volontariato- n.d.r.) e si può dire ,con Brower, che «sotto un sottile strato di consumismo giace un Oceano di generosità». Il problema è che un tale atteggiamento non trova un suo prolungamento nella Politica. Su queste premesse Bauman conclude queste prime sue riflessioni riportando un quesito d’un certo Coetzee che si chiede «perché mai la vita debba essere paragonata ad una corsa e perché mai le economie nazionali debbano competere una contro l’altra piuttosto che dedicarsi, insieme, ad una salutare ed amichevole corsetta…»

 

Interrogativi e perplessità

Conclusivamente riprendendo alcune delle idee espresse, non mancano tuttavia delle perplessità.

  • Che senso ha parlare di “Interregno”, quasi a voler prefigurare uno sviluppo futuro della disastrosa situazione sociale, quando è questione, viceversa, di saper recuperare l’antico primato della Politica su un’Economia snaturata, distorta e oltraggiosa.

  • Come è possibile definire “neo-populismo” il richiamo legittimo e doveroso rivolto agli attuali Governi servili affinché perseguano il reale benessere dei cittadini?

  • Chi è stato ad aprire i cancelli della democrazia allo strapotere finanziario, se non qualche idiota incapace di interpretare e di volere il bene collettivo, magari innamoratosi dei salotti buoni e del proprio personale e privatissimo benessere?

  • Il lavoro si traduce, sempre e comunque in un “servizio”, qualunque ne sia la natura, prestato per la comunità di appartenenza. Pertanto l’automazione tecnologica non può che riguardare solo alcune prestazioni, lasciando campo libero alle mille altre forme d’impegno che è possibile spendere per il benessere comune. L’idea espressa nel libro intende, viceversa, il lavoro in un’accezione produttiva limitatamente materiale e costruttiva, com’è tipico della cultura mercificata che sta imperando. Si può invece rendere un servizio alla comunità in mille modi diversi : a livello artistico, culturale, sanitario, di accudienza, di custodia, di tutela …in mille forme differenti, dirottando in quei campi d’impegno le risorse eccedenti che siano state liberate dallo sforzo meccanico o routinario.

In tal senso occupazione e produttività possono comunque e sempre coesistere.

  • Non s’intende, e spiace per Bauman, come possa uno Stato limitarsi a blandire il semplice individuo consumatore . Forse qui il sociologo ha confuso, magari per il caldo eccessivo, l’Azienda e il Mercato per quello che lo Stato è e deve essere, anche e soprattutto in democrazia. Né vale la tesi della distanza fra eletti ed elettori. Un’Oligarchia, comunque costituitasi, non può essere identificata con le Istituzioni democratiche.

  • Malgrado il riferimento a Platone, convince poco anche la distinzione artificiosa fra economia erotica e timotica, fermo restando che ci trova perfettamente d’accordo l’analisi di Bauman sull’ attuale Società di passivi consumatori, plagiati , eterodiretti , smarriti nella precarietà d’un mondo instabile, liquido ed informe.

E si tratta di un mondo liquido, dalle acque agitate solo dai capricci di pochi stolti, di imbecilli avidi che amano solcare questi mari a bordo di yacht osceni, senza mai essersi bagnati nemmeno una volta e senza nemmeno considerare che anche loro varcheranno, alla fine, le Colonne d’Ercole con l’ultimo salto nel vuoto!!!