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K. Vonnegut, Un uomo senza patria

Contro la fine del mondo

di Antonio Stanca

vonnegutUna raccolta di brevi saggi dell’americano Kurt Vonnegut, Un uomo senza patria, è uscita a Ottobre del 2014 per conto della casa editrice Minimum Fax di Roma. La traduzione è di Martina Testa. Il Vonnegut la pubblicò nel 2005 quando aveva ottantatré anni e dopo essersi impegnato in una vasta e varia produzione di romanzi, racconti, saggi e opere teatrali. Era nato a Indianapolis nel 1922 e sarebbe morto a New York nel 2007 a ottantacinque anni. Molte esperienze aveva vissuto prima di dedicarsi all’attività letteraria: lasciata l’Università nel 1943 si era arruolato nell’esercito alleato durante la Seconda Guerra Mondiale, nel 1945 era in Germania, a Dresda, rifugiato insieme ad altri prigionieri in una grotta mentre la città veniva bombardata e distrutta dall’aviazione alleata, tornato negli Stati Uniti aveva ripreso gli studi universitari e svolto il lavoro di cronista, poi di pubblicitario ed infine di autore di racconti. Durante questi anni risiede prima a Chicago e in seguito a Barnstable. Nel 1952 pubblica il primo romanzo, Piano meccanico, nel 1959 il secondo, Le sirene di Titano, entrambi di genere fantascientifico anche se nel secondo la fantascienza tende a cedere il posto a contenuti diversi. Dagli anni ’60 agli anni ’70 Vonnegut scrive i romanzi che lo renderanno celebre e faranno di lui uno dei maggiori scrittori americani contemporanei. Quello che ancora oggi è considerato il suo capolavoro è Mattatoio n.5 o la crociata dei bambini pubblicato nel 1969 e nel quale rievoca la drammatica esperienza vissuta a Dresda durante i giorni del bombardamento. In questo e negli altri romanzi di tale periodo lo scrittore non fa più fantascienza e si mostra impegnato in narrazioni che intendono criticare i tempi moderni poiché ritenuti responsabili dei gravi problemi che hanno investito l’umanità e le hanno fatto perdere la sua dimensione naturale. Semplice, chiaro è il linguaggio, lo stile di queste opere. La scrittura s’identifica con la semplicità, con la spontaneità degli argomenti, li fa giungere facilmente a chi legge. Quelle di un amico sembrano le parole dello scrittore e l’umorismo che spesso le accompagna rientra perfettamente nel tipo di discorso che può avvenire tra chi si conosce. A questa dimensione familiare riduce Vonnegut i grossi problemi che affronta e che sono quelli derivati all’individuo, alla sua anima, alla sua vita, alla sua società, alla sua storia dai moderni, inarrestabili processi di industrializzazione, meccanizzazione, dai nuovi costumi, dai nuovi modi di essere, di stare. Partecipi di questi problemi vorrebbe rendere lo scrittore quante più persone possibili, un discorso che coinvolgesse tutti vorrebbe essere il suo. Da qui la semplicità e l’umorismo, le maniere, cioè, che dovrebbero permettere alla sua scrittura di arrivare ovunque.

Come nei romanzi e nei racconti anche nei saggi Vonnegut è facile e divertente, anche qui continua a voler essere un buon amico, a fare satira, polemica contro quanto ha sostituito nell’uomo moderno i bisogni dello spirito con quelli della materia, contro ciò che ha fatto della Terra un pianeta invaso da una tecnologia sempre più diffusa e sempre più pericolosa per l’ambiente, la sua aria, le sue acque, la sua fauna, la sua flora, contro la sete di dominio che si è scatenata tra gli Stati più potenti e che li porta a scontrarsi in continuazione anche se non direttamente, a fare della guerra, della morte uno degli aspetti della modernità, contro la costruzione di arsenali militari nonché di armi atomiche al fine di farsi temere, di creare continue situazioni di allarme, contro tutto ciò che sta portando all’abuso, alla dissipazione, all’esaurimento delle risorse contenute dalla Terra per scopi completamente diversi da quelli del bene pubblico e soprattutto contro l’assurdo comportamento che fa continuare in tali operazioni pur essendo consapevoli dei pericoli che comportano, pur avendone le prove, pur ritenendole la causa della tanto temuta desertificazione del pianeta o fine del mondo.

Nei saggi della raccolta Un uomo senza patria ritornano questi temi, ritorna lo stile ironico, polemico dello scrittore arricchito stavolta da disegni, uno per ogni saggio, quasi si volesse raffigurare il significato dello scritto. Vignette le si potrebbe definire anche perché risentono del diffuso umorismo. I saggi sono osservazioni, riflessioni fatte in prima persona, polemiche, denunce che il Vonnegut muove agli eventi, ai fenomeni, alle Nazioni, alla loro politica, alla loro economia, a tutto ciò che vede all’origine della grave crisi nella quale è precipitata l’umanità dei nostri tempi. La sua America, l’imperialismo americano sono i bersagli preferiti dal Vonnegut poiché è convinto che le forze maggiori abbiano comportato i maggiori danni.

Non c’è un posto, non c’è una “patria” dove l’”uomo” possa sentirsi sicuro di poter continuare a vivere, “senza patria” egli è rimasto poiché tutto è stato guastato, ovunque sono giunti i nuovi modi, dappertutto si è perso quanto di semplice, di naturale faceva parte dell’uomo, della sua vita. Una distruzione totale è quella che Vonnegut è costretto a constatare e niente vale appellarsi a quanto ha fatto parte dell’umanità, del suo patrimonio culturale. Molti sono nel libro i riferimenti a personaggi illustri, molte le citazioni di opere fondamentali ma servono soltanto a procurare altro rammarico, a farsi accorgere della loro inutilità.

Addolorato si mostra lo scrittore nelle ultime pagine di fronte a quanto è successo e sta succedendo, deluso nel dover riconoscere che tutto il suo impegno nella vita e nell’opera non è servito, sconfitto insieme a quell’umanità che tanto aveva amato.

W. Siti, Resistere non serve a niente

“Resistere non serve a niente” di Walter Siti,
Rizzoli 2013

di Mario Coviello

 

sitiIn questo luglio infuocato, trovate un posto all’ombra ed immergetevi nella lettura di questo romanzo saggio che ha vinto nel 2013 il premio Strega. La storia racconta di Tommaso Aricò, personaggio dal nome pasoliniano. Tommaso è il nome del protagonista di Una vita violenta. In quel caso si tratta di un sottoproletario, qui di un miliardario, che viene dalle borgate e da una storia umile e amara. Walter Siti, che è conosciuto come uno dei principali “esperti” di Pier Paolo Pasolini, non poteva non portare in questa sua fatica il suo autore più amato. Nel romanzo emerge subito il contrasto tra la concretezza del corpo del protagonista, ex obeso che da piccolo parlava con le proprie feci, («il suo corpo esisteva, non era solo un’idea» pag.64) e la finanza intangibile. Di finanza si occupa Tommaso da grande, i soldi hanno preso il posto del cibo, anche se il bello è non usarli. La vita di Tommaso è la grande metafora dei nostri tempi che viene raccontata da Siti con una piacevole, caustica brillantezza di linguaggio. L’autore sceglie la finzione per indagare la “zona grigia” tra l’alta finanza e la criminalità. Un mondo più che mai reale che viene raccontato attraverso personaggi a tutto tondo, che si muovono come pedine intelligenti sulla scacchiera della politica corrotta e dell’economia internazionale, incarnazione di una società che versa in uno stato di completo deterioramento morale, in cui “opprimere è un piacere, essere primi un imperativo e il possesso è l’unica misura del valore.”

Il romanzo si apre con l’agghiacciante scena di un’ esecuzione di stampo mafioso e con un breve intervento-saggio sul divario tra prostituzione reale e prostituzione percepita nella nostra società. Il lettore viene immediatamente trascinato dentro un mondo dominato da logiche alternative a quelle condivise, nel quale “la fluidità di mercato equipara il corpo a una cedola” e il denaro non è altro che un “necessario passaggio intermedio per una transazione psicologica” attraverso la quale l’escort fa sentire l’uomo padrone, mentre lui la fa sentire libera di usare il proprio corpo come vuole. Si impara, così, a familiarizzare con Tommaso, matematico mancato e oggi broker affermato che tenta con donne, lusso, appartamenti e viaggi di coprire quel senso di inadeguatezza che il suo passato gli ha lasciato in eredità: l’adolescenza vissuta alla periferia del sistema, l’eterna lotta contro la “crudeltà cannibale degli specchi”, un padre di cui deve nascondere l’identità e la storia. Uomo-elefante, uomo-cicatrice che cerca di salvarsi con la leggerezza della sua materia grigia, Tommaso accetta di raccontarsi sul teatro del romanzo, un po’ per vanità un po’ per bisogno di un esame di coscienza “egoistico, affannoso perché in ritardo.” La definizione del personaggio va di pari passo con il racconto della sua storia e con la descrizione del sistema marcio in cui si muove: creatura d’autore, scopre se stesso con la fabulazione e arriva a chiedere allo scrittore “ Devi dirmelo tu chi sono”.La struttura narrativa è complessa, multi-livello: da un lato l’autore fa agire e parlare i personaggi, dall’altro interviene – figura tra le altre – a muovere le fila di un discorso articolato. Come Svevo con il suo Zeno, Siti sa che i suoi personaggi sono bugiardi e spesso omettono le proprie ragioni vergognandosene, e allora racchiude in note il proprio pensiero su di loro, postille di un giudizio che – nonostante tutto – non appare mai insindacabile. Si addentra in un mondo che va osservato senza smettere mai di problematizzare perché i valori assoluti sono definitivamente caduti e la distinzione tra bene e male è quanto mai labile. Ma in fondo i due grandi attori del romanzo sono “utili” l’uno per l’altro: Tommaso racconta i propri tormenti perché “delle ossessioni bisogna toccare il fondo.. e poi risalire a piedi”, Walter dichiara di averlo usato come “stuntman, quello che esegue le scene pericolose”. Si è servito di Tommaso e dei suoi amici/nemici per raccontare il tema che da sempre cattura i lettori: la fascinazione del male. Tommaso, sembra trovarsi di fronte una summa di vite che si scontrano con gli eventi attuali: è una figura complessa: «Come nei romanzi settecenteschi, il mio protagonista-racconta Siti in una intervista- è uno “spostato” socialmente che attraversa la società a lui contemporanea, dandoci l’occasione di vederla nei suoi diversi strati. Portando però con sé uno stigma originario che è la bulimia, trasposta dal fisico allo spirituale. Tommaso a forza di desiderare tutto,finisce per desiderare l’infamia.”

Il problema è che oggi viviamo in una situazione sociale in cui una partita a poker tra amici è illegale, da considerarsi un vero e proprio crimine; al contrario sale scommesse, poker on line ecc. dove gente comune si gioca il proprio stipendio nell’arco di un paio di giorni, sono legali perché gli organi governativi arrivano a riscuotere, in alcuni casi, anche l’85% delle giocate. «Legalità è un concetto legato alla convivenza e all’autorità – è ancora Siti che parla in una intervista sul suo romanzo- spesso l’eccesso di leggi, magari contraddittorie, mostra la crisi dell’autorità e favorisce l’infrazione; molte operazioni finanziarie in grande stile giocano sulle diversità di legislazione tra i vari Stati: in nessuno di essi sono strettamente illegali, ma sarebbero illegali se le considerassimo nel loro complesso. Se sia lecito ribellarsi a leggi ingiuste è un problema che ha duemila anni di storia; dotarsi di un sistema semplice e ordinato di leggi preserverebbe la comunità dalla falsa idea che l’illegalità possa essere una scorciatoia necessaria».

Siti ha uno stile dissacrante e veloce che riesce perfettamente nell’intento di evidenziare i dislivelli sociali e a mettere in mostra un’elite schifosamente oligarchica che impera con cattivo gusto sulle spalle del popolino. Di noi che ancora adottiamo la pratica di contare i soldi che abbiamo in tasca, che tentiamo di non comprare i sentimenti con gli assegni e che tentiamo di dare un senso al nostro agire, tenendo sempre a mente che, anche senza yacht a Porto Cervo, e forse grazie a questa mancanza, un sorriso di serenità riusciremo sempre a concedercelo.

Un senso di fastidio, di disperazione ci avvolge nel leggere quelle pagine, nel rendersi conto di quanto sia reale quel mondo e seppur così lontano dal nostro quotidiano, quanto condizioni ogni nostra azione per renderci schiavi di un padrone invisibile, servi inconsapevoli di colonne colorate negli schermi di un computer.
Un romanzo non solo bello, ma anche importante per capire, con il filtro della finzione, il mondo che ci circonda, il sovvertimento dei valori e allo stesso tempo il bisogno di ridefinirli per poterli vivere. Mentre si leggono le pagien di “Resistere non serve a niente “, oltre a sentirsi minuscoli come formiche, pedine al servizio di altri, non ci si può non interrogare su ciò che facciamo ogni giorno, di come nel nostro piccolo ci comportiamo e chiedersi cosa faremmo se all’improvviso ci trovassimo in quel mondo, quanto la nostra moralità sarebbe forte e quanto non si farebbe seppellire dalla ricchezza prima e dal potere che quella ricchezza compra poi.
Questo romanzo agisce a tantissimi livelli, pone un’infinità di dubbi, si entra nelle pagine sicuri di noi stessi e se ne esce un po’ meno forti, un po’ più dubbiosi, ma di sicuro arricchiti di un’opera che lascia il segno nella letteratura contemporanea. E la grandezza del libro sta nel fatto che lo fa con la letteratura che è rimasta forse “l’unico guardiano che non si lascia corrompere”.

Resistere non serve a niente, «Il titolo è interno alla storia, è adeguato (spero) alla storia che racconto,- è Siti che parla- non ha nessuna pretesa prescrittiva…. È ovvio che resistere serve molte volte, bisogna vedere a che cosa si resiste; la cosa a cui oggi principalmente mi pare che si debba resistere è alle interpretazioni superficiali e consolatorie del mondo».
Ma c’è un passaggio in cui sembra che il senso di questa frase sia da attribuire al contesto economico e finanziario che controlla le nazioni, causa la crisi e continua a dominare anche dopo: «c’è chi teme che, come nel secolo breve, la recessione conduca alla violenza e alle guerre mondiali; ma al tempo delle rivoluzioni russa e fascista l’età media era la metà di oggi e il sangue ribolliva il doppio. Ormai le masse sono atomizzate e disperse, i ragazzi che saccheggiano i negozi rubano gli i Pad e si contemplano compiaciuti in differita; gli striscioni nelle manifestazioni degli indignados dicono “dividiamo la grana”. Nessuno vuole davvero rinunciare al potere salvifico del consumo, le vittime sono invidiose dei carnefici ed è facile ingannarle con l’elemosina di un simulacro anche miserabile» (pag.282).

Jurgen Habermas: la ritrovata tracotanza germanica nell’analisi critica del filosofo

Jurgen Habermas: la ritrovata tracotanza germanica nell’analisi critica del filosofo

di Luigi Manfrecola

HabermasHABERMAS è certamente uno dei più grandi filosofi viventi, in una certa misura legato alla cosiddetta Scuola di Francoforte resa celebre dalle aspre denunzie da essa sviluppate fin dagli anni ’30 nei confronti di quella società mercificata, inautentica, eterodiretta che si andava già allora timidamente delineando.

Erano in essa rintracciabili i prevalenti filoni critici di quella ricerca sociologica che trovò spazi fecondi di riflessione anche nella lezione di Freud e nelle teorie marxiste .

I nomi di Marcuse, Adorno, Fromm sono ancora ben noti ai giovani del ’68 , quelli tuttora sopravvissuti e portatori di quella cultura contestatrice e movimentista che segnò gli anni ’70 in Europa ed in America.

La critica che venne rivolta , all’epoca, al potere costituito ed asservito alle logiche di un efficientismo senz’anima, denunziava l’ alienazione di un uomo diserotizzato ed incapace di vivere in maniera autentica, rasserenata e fraternamente protesa all’incontro con l’altro.

Alla cultura dell’Avere, portatrice di conflittuali avidità , andava sostituita una Società dell’Essere, capace di rintracciare una dimensione compiutamente umana di realizzazione intima e piena (Fromm).

Con sguardo retrospettivo ci è possibile intravvedere oggi, in quelle analisi ed in quelle antiche denunzie un puntale presagio di ciò che sarebbe avvenuto, di quello che oggi viviamo in termini culturali ed economici di espropriazione delle nostre individualità critiche e dei nostri diritti civili e sociali.

Il Villaggio globale, i mass media, la droga di un consumismo omologante e di un esibizionismo disperato, ricercato come segno di distinzione e di fuga da un anonimato impotente e mortificante -sconsolati connotati dei nostri tempi inquieti- erano già presenti nell’epoca dell’incalzante sviluppo tecnologico ed industriale, prima ancora che il capitalismo fuori controllo generasse quei guasti che oggi viviamo sulla nostra pelle.

Le oligarchie politiche ancora non erano state sostituite e mortificate dalle odierne oligarchie economiche che dettano politiche e pseudo-valori agli odierni governi fantoccio .

Occorreva , dunque, che la cultura ufficiale demolisse quei soprassalti di coscienza critica e solidaristica che si andavano affermando in quegli anni – anni di fiori e di piombo – ed è ciò che è stato fatto da una genìa di pseudo-intellettuali affascinati da quel binomio di denaro-potere che sembrava offrirsi loro in forme sempre più accessibili e remunerative.

Le accresciute occasioni di dibattito e la disponibilità di un palcoscenico mondiale che potesse dare gloria, prestigio, potere a buon mercato hanno consentito di far convergere mille addomesticate voci nelle forme comode d’un coro idiota; un coro che ha giocato la carta d’uno scetticismo erudito, d’un relativismo snobistico che si ammantasse d’un tronfio e finto progresso culturale.

Si è dichiarata guerra ad ogni antica certezza, si sono bollati i VALORI che trovavano la loro radice e ragion d’essere nelle praterie più antiche e profonde dell’essere umano, si è irriso ad ogni etica e ad ogni religiosità, si sono ripudiati i padri – da Socrate fino a Platone, da Cartesio fino a Kant, da Budda fino a Cristo- e si è data voce all’ERMENEUTICA; si sono eretti altari e consumati sacrifici a Giano bifronte, s’è contestata l’idea stessa di una Verità possibile e s’è bestemmiata e bollata come forma di vuota ideologia ogni fede, ogni evidenza, ogni valore.

Così un certo Signor Lyotard s’è inventato, con un termine nuovo, il POST-MODERNO e la finta cultura che l’accompagnava , ha contestato ogni residuo simulacro del passato in nome di un totale RELATIVISMO E SCETTICISMO che pretendeva e pretende di attribuire legittimità ad ogni opinione, in una prospettiva individualistica che inquadra ogni realtà non più in forme prefigurate e stabili , ma come semplici percezioni soggettive.

Tutto diviene ed è soltanto ed unicamente “fenomeno” (quasi riprendendo l’antico “esse est percipi”) e, come tale, può dar luogo a mille e più interpretazioni. Su tale troncone si è andato poi sviluppando il filone di quel “pensiero sistemico” che, riconoscendo le mille connessioni che legano la realtà e le mille possibili prospettive di analisi, giunge a conclusioni non molto dissimili, contestando anch’esso la possibilità d’una visione univoca e certa.

E’ in questa desolante prospettiva che va inquadrata la testimonianza e le ricerca di HABERMAS, uno dei pochi a levarsi CONTRO IL RELATIVISMO CULTURALE ODIERNO contestando alla radice la pretesa post- modernista e smentendo Lyotard stesso per riaffermare la necessità d’un recupero delle certezze e delle verità; sostenendo che proprio la verità/certezza è la premessa necessaria e connaturata ad ogni incontro/ colloquio fra gli uomini che NELL’AGIRE COMUNICATIVO trovano intesa e corrispondenza.

Ed è evidente che tale prospettiva conduce verso una dimensione solidaristica che recupera il valore del dialogo, dell’autenticità, dell’umanità, della dimensione dell’ESSERE per rifondare un “lifeworld” -un mondo delle vita rasserenato ed intimistico- da opporre al “sistemworld”, mondo dell’efficienza, dell’alienazione della performance…cioè quel mondo che oggi siamo indotti a frequentare e a vivere , da automi devoti al profitto ed al materialismo più bieco.

E’ dunque questo l’Habermas di cui stiamo parlando, il filosofo tedesco che non ha esitazioni a denunziare la tracotanza, la meschinità e la miopia del suo stesso popolo, sostenendo che l’attuale politica finto-europeistica praticata dalla Merkel e da Schaeuble smentisce quei buoni propositi e quella voglia di emendarsi che la Germania aveva voluto e saputo dimostrare dopo la vergognosa e colpevole ecatombe scatenata col conflitto mondiale.

Come a dire che il lupo perde il pelo ma non il vizio; come a dire che ancora una volta l’ottusa stupidità tedesca e la sua pretesa ansia di superiorità ha scatenato una terza guerra totale contro i più deboli, vittime incolpevoli di non condividere quella mentalità rigorista e sacrificale che si è voluto imporre alla Grecia e agli altri popoli mediterranei in difesa degli interessi nazionalistici di un rapace Gotha finanziario, senz’anima e senza alibi per un’avidità che non ha senso né alcuna ragione d’essere.

Ciò premesso, basterà lasciare la parola al filosofo stesso il quale,a proposito della Crisi in atto, nell’intervista rilasciata a Repubblica (19/07/2015) , fra l’altro « ha lanciato un veemente attacco alla cancelliera Angela Merkel, accusandola di essersi giocata con la linea dura tenuta nei confronti della Grecia, tutti gli sforzi compiuti dalle precedenti generazioni tedesche per ricostruire la reputazione della Germania nel dopoguerra, compiendo un “atto di punizione” contro il Governo di sinistra guidato da Tsipras.
Fra l’altro, osservando che “questa esautorazione tecnocratica della democrazia è il risultato di un modello neoliberista di politiche di deregolamentazione dei mercati. L’equilibrio tra politica e mercato è andato fuori sincrono, a spese dello Stato Sociale”.

Ogni ulteriore commento è superfluo , come superfluo riuscirebbe ogni tentativo di acculturare quelli che si vanno dimostrando geneticamente degli analfabeti a livello morale, affettivo ed etico; esseri devoti unicamente al paradigma del sadismo, del rigore da esercitare contro il mondo intero asservibile alla FEDE teutonica , necessaria alla Super-razza per dare senso alla Sua povera esistenza ; all’esistenza di chi non riesce a vivere con pienezza la sua misera parabola esistenziale e deve inventare o seguire un Credo di cui si fanno portatori i Potenti del momento.

Che si tratti di Hitler o dei Signori della Finanza internazionale conta poco, ciò che conta è dimostrare a se stessi ed agli altri d’ essere incrollabili testimoni d’una costanza folle e pervicace che può spingere fino al sacrificio estremo, preferibilmente degli altri… poiché “Deutschland uber alles”.

S. Nocera e N. Tagliani, La normativa inclusiva nella nuova legge di riforma sulla “buona scuola”

La casa editrice Key ha pubblicato l’instant book

 

La normativa inclusiva nella nuova legge di riforma sulla “buona scuola”

di Salvatore Nocera e Nicola Tagliani

 

L’OPERA

noceraTrattandosi di una legge appena pubblicata, la cui interpretazione non è ancora sorretta dal supporto di interpretazioni giurisprudenziali, abbiamo tentato di effettuarne una lettura a caldo, basandoci sull’esperienza quotidiana di consulenza a famiglie, dirigenti scolastici e docenti ed operatori di associazioni, enti ed istituzioni territoriali, realizzata presso la sezione legale (Nocera) e psicopedagogica (Tagliani) dell’Osservatorio Scolastico dell’AIPD (Associazione Italiana Persone Down).

Abbiamo voluto offrire nel primo capitolo una mappa di lettura dell’ampia materia ammassata informalmente nei 212 commi dell’unico articolo di cui si compone la legge; ciò al fine di avvicinare i lettori a prendere confidenza con una materia tanto vasta e varia.

Nel secondo capitolo abbiamo evidenziato le principali novità normative introdotte, cercando di accennare al clima culturale e politico in cui tali novità sono state imposte, anche se con qualche compromesso, dal Governo.

Nel terzo capitolo ci siamo concentrati sull’analisi dei possibili contenuti del decreto delegato che la legge prevede debba essere emanato sulla revisione della normativa inclusiva. In applicazione dei principi contenuti nella delega, sono state ipotizzate delle soluzioni, de jure condendo, applicative degli stessi che riteniamo possano migliorare la qualità inclusiva delle scuole italiane, sperando che esse trovino una qualche udienza negli estensori istituzionali dei contenuti del decreto delegato.

Il nostro lavoro espositivo ed interpretativo mira a facilitare l’utilizzo della nuova legge di riforma da parte non solo degli operatori della scuola, ma anche delle famiglie e degli operatori delle organizzazioni del Terzo Settore, al quale la legge fa continuo riferimento, per ottenerne la collaborazione per le attività durante l’apertura pomeridiana delle scuole, durante le vacanze e per l’alternanza scuola-lavoro, fortemente volute dal legislatore.

Anche gli operatori del diritto potranno trovare spunti utili per l’applicazione delle norme contenute nella riforma e nei numerosi decreti applicativi e saremo grati a quanti vorranno fornirci interpretazioni diverse dalle nostre. Se così fosse, saremo lieti di aver positivamente contribuito, con le nostre piccole forze, al dibattito sulla riforma della “buona scuola”.

 

INDICE

Capitolo Primo: OPPORTUNITÀ DI UNA MAPPA DELLA LEGGE

 

Capitolo Secondo: LE NOVITÀ DELLA LEGGE

  1. Rafforzamento dell’autonomia scolastica – 2. Piano triennale dell’offerta formativa – 3. L’organico dell’autonomia – 4. I nuovi poteri del dirigente scolastico – 5. La valutazione dei docenti – 6. Immissioni in ruolo – 7. Obbligo di formazione in servizio – 8. Nuove possibilità per gli studenti. – 9. Benefici economici per le iscrizioni alle scuole paritarie – 10. L’edilizia scolastica – 11. La copertura finanziaria

 

Capitolo Terzo: IL DECRETO DELEGATO SULL’INCLUSIONE SCOLASTICA

  1. Nuove specializzazioni per i docenti per il sostegno – 2. Appositi ruoli per il sostegno – 3. Livelli essenziali – 4. Indicatori per l’autovalutazione e la valutazione – 5. Profilo di funzionamento – 6. Revisione degli organismi territoriali – 7. aggiornamento obbligatorio per dirigenti e docenti – 8. aggiornamento obbligatorio per collaboratori e collaboratrici scolastiche – 9. Istruzione domiciliare – 10. Altre rare norme sull’inclusione

 

Conclusioni

Andrea Jublin, Banana

Andrea Jublin “Banana”, un film da non perdere

di Mario Coviello

 

bananaNella settimana che vede l’inizio del Festival di Giffoni ( Salerno), una esperienza che consiglio a tutti di fare,voglio raccomandarvi un film “Banana” di Andrea Jublin , disponibile in dvd.

Giovanni ha 11 anni e, nel campetto da calcio dove passa tutti i pomeriggi, i suoi compagni di squadra lo chiamano “Banana”, per i suoi piedi non proprio adatti a un gran calciatore. Lo piazzano in porta e lì deve rimanere. Fermo immobile ad affrontare la realtà: lui è il più scarso della squadra. Giovanni però nella realtà ci sta davvero stretto, così quando deve rilanciare la palla, immagina tutto lo stadio che lo incita a partire di corsa verso la porta avversaria, come un fantasista del calcio brasiliano. Perché per Banana la vita va vissuta “alla brasiliana”, ovvero con coraggio, determinazione, volontà di rischiare. Peccato che Banana si muova nell’Italia di oggi, in cui tutti hanno paura di sognare.

Banana è un piccolo film che fin dalla prima scena si pone un problema grosso: come si fa a essere felici, oggi? Felici: non “contenti”, distinzione tragica che separa questo ragazzino , bruttino, grassottello (l’ottimo Marco Todisco) dal resto del suo mondo. Un mondo di adulti “contenti” nel senso letterale della parola. Accontentàti. O meglio: rassegnati, sconfitti, disperati. Dalla sorella archeologa (Camilla Filippi), sospesa tra ambizioni frustrate, un fidanzato superficiale e un possibile futuro ancora più superficiale, alla cupa, feroce, esilarante professoressa Colonna (Anna Bonaiuto), uno di quei personaggi che un autore usa per dire cose vere, orribili e divertentissime. Dai genitori di Banana, ormai incapaci di comunicare, alle amiche feroci e buzzurre di Jessica. E a Jessica, compagna di classe tamarra e rovinosamente ignorante. Banana vuole aiutarla perché rischia di essere bocciata per l’ennesima volta. Così potranno ancora restare in classe insieme, perché lui è innamorato di lei. Banana è ingenuo, quindi coraggioso. Patetico, quindi tragico. Continuamente sconfitto e umiliato, quindi mai rassegnato. Banana è l’unico che lotta. Lotta per una sua personalissima idea di felicità, assoluta, confusa, disordinata e nata sconfitta, come sono le idee che hai a dodici anni. Eppure limpida, senza compromessi. Con un’unica speranza: che “non faccia tutto schifo”. A Banana la vita non fa che prenderlo a sberle, metaforiche e letterali. Ma lui non molla. E, nel suo piccolo, diventa un esempio. Chi non molla e resta se stesso, alla fine, riesce a cambiare un pochino anche gli altri.
Banana è l’opera prima di Andrea Jublin, esordiente già noto per essere stato candidato all’Oscar per il miglior cortometraggio con Il Supplente , disponibile su Youtube, e che oggi è anche docente alla scuola Holden di Torino. Jublin racconta una storia dagli echi francesi ambientata in una periferia romana che non diventa mai grigia, tetra, che è sempre vivacizzata da colori forti, quasi da cartoon, ben sottolineati nella fotografia di Gherardo Gossi.  Il cast molto azzeccato, a partire proprio dai più giovani protagonisti, vede tra le sue fila anche Giorgio Colangeli, nei panni di un preside innamorato. Scritto con una fluidità, una serietà e un rispetto della materia trattata che impressionano, vanta anche una consapevolezza della vera lingua parlata dai ragazzi (non i termini gergali e di moda ma l’atteggiamento, gli insulti, le insicurezze e le arroganze) che rischiara tutto il racconto di plausibilità. Anche la confezione apparentemente naif è opera di un team di professionalità affermate che affianca Jublin nella sua veste di regista, sceneggiatore e attore, ex fidanzato della sorella di Banana. Con lui Esmeralda Calabria al montaggio, Nicola Piovani alle musiche, Ginevra Elkann e Luigi Musini alla produzione.

Film come Banana in Italia, semplicemente, non se ne fanno. Lungometraggi in cui i ragazzi sono protagonisti e vengono trattati con la medesima complessità e sfaccettatura degli adulti, non come figli ma come coetanei, non come esseri umani cretini ma come esseri umani diversi (un filo più idealisti e ingenui, ma solo di una sfumatura), non tutti per bene ma all’occorrenza anche bastardi, piccini e meschini senza salvezza come il resto dell’umanità. Mentre all’estero questo tipo di cinema è abbastanza florido, lo sa solo chi frequenta il Festival di Giffoni o la sezione Alice nella città del Festival di Roma, da noi non ne esiste una vera tradizione, solo sporadiche incursioni che, anche nei casi migliori, non ricevono il credito che meritano. E’ anche per questo che lo consiglio a genitori e docenti in questo luglio così caldo per capire un po’ meglio i nostri ragazzi e perché come dice Banana “Certo non si può mica essere felici del tutto. Però, forse, basta esserlo di qualcosa. Che poi quel qualcosa illumina tutto il resto e siamo salvi”.

La sirenetta dell’amore brado

“LA SIRENETTA DELL’AMORE BRADO VERSO DUE PERLE DI BAMBINI NAUFRAGHI E PROFUGHI…E CON LA PELLE DI TUTTI I COLORI POSSIBILI DELL’ARCOBALENO TELEOLOGICO!”  ===

Racconto Miracoloso di Gianfranco Purpi ispirato da Dio e da una Mamma “Maria Maddalena” di Jesus –

…E all’improvviso il mare si disegnò e si formattò con misteriosi cerchi concentrici che fluttuavano spume bianche bianche come il candore delle vesti degli Angeli dell’Umanità Occidentale e Orientale di entrambi gli Emisferi del Globo terrestre,…mentre il sole rifrangeva tutti gli spettri cromatici di un arcobaleno davvero divino!
…E questo mare divenne immediatamente e inaspettatamente,…all’improvviso,…increspato con onde che sembravano algoritmi senza ritmo matematizzante e senza regolarità euclidea o di relativismo meccanicistico da razionalizzazione scientifico/sperimentale;…e peraltro affatto uniformi in quanto a loro proiezione storicistica di mistica dell’estasi…e dell’amore personalistico tomistico/contingentista…
…E,così,…affiorò vicino agli scogli di una riva con la costa a due passi dagli attracchi delle barche dei pescatori saggi e veri,…il caro Jesus che con le mani giunte pregava senza sosta affinchè in questo suo mondo terrestre non ci fossero più perseguitati,emarginati e naufraghi di terribile ingiusta caducità vitalistica…dallo sballottamento letale e…dal pregiudizio razzista che alcuni profughi siano da “rimandare” cinicamente e violentemente verso i loro porti di origine …come se tutte “le genesi” del cosmo e dei planetari … non le avesse deciso Gesù!
…E ,miracolo del miracolo,…una mamma che pareva sicuramente quella ecumenica di Dio e la farfalla angelica di un mio precedente racconto (che ormai tutti conoscono!)…emerse a pelo d’acqua con un sorriso radioso e felice,…e con tanta gioia in corpo e nell’anima per aver potuto porsi maieuticamente quale creatura meravigliosa di “salvataggio” di anime e corpi di due angioletti (anche se con la pelle scura…),certamente più bianchi e candidi di anima e di contentezza di stare a questo mondo…delle meteore reificanti che stagnano ideologiche in trascendimento antropologico …sopra il cielo azzurro degli aquiloni belli e colorati di profumo di un mare turchino da Fata di Pinocchio …(quello Bravo,”dopo che era uscito dalla Balena”!)…
……E la gioia di questa mamma era davvero non comparabile nemmeno a quando le si era venuto a regalare qualche gioiello d’oro,di perle di diamanti e di brillanti di perle d’ostrica!
…E d’ora in poi pare che qualche pellegrino …,uno questi due bambini…,li abbia visti sempre con questa loro Mamma Divina in sembianza dolce e incantevole di Sirena della Bontà e della Felicità  …e denotata incessantemente dalla voglia irrefrenabile di donare tutto a tutti,senza chiedere niente…,perchè il Bene e l’Amore “erga omnes” lo si dà a tutti i Figli di Jesus senza interesse di Logica Feticistica dell’Avere ,…ma solo con la felicità dell’Essere “qui e ora” …intenzionati a baciare ogni persona che soffre e che ci invoca aiuto e misericordia amorevoli a più non posso…
…E pare pure che uno di quei pescatori testimoni dell’emergere di questa donna straordinaria e meravigliosa…avesse issato la bandiera colorata d’arcobaleno con la scritta…”Pacem In Terris”,…e con la Musica solo della Natura del Mare …dalla Vita Bella e Armonicamente Inarrivabile.

H. Tuzzi, Il principe dei gigli

In Italia il primo libro…

di Antonio Stanca

tuzziIl sessantatreenne scrittore e saggista milanese Adriano Bon usa lo pseudonimo Hans Tuzzi per firmare i suoi romanzi. E’ il nome di un personaggio del noto romanzo L’uomo senza qualità dello scrittore austriaco Robert Musil (1880-1942). Tuzzi è conosciuto soprattutto per la sua produzione di romanzi gialli che ha cominciato nel 2002 con Il Maestro della Testa sfondata ed ha continuato fino ad oggi. Ha scritto pure romanzi di altro genere e molti saggi di critica letteraria, di storia del libro e del suo mercato antiquario, è master in editoria cartacea presso l’Università di Bologna.

Il “giallo” è, però, il genere letterario che più ha permesso a Tuzzi di esprimere le sue qualità, di raggiungere il successo e continuamente ristampati sono i suoi romanzi gialli. La ristampa più recente è avvenuta a Giugno di quest’anno e ha riguardato Il principe dei gigli, romanzo che risale al 2005 e che in quell’anno comparve insieme ad altri due nella raccolta Tre delitti, un’estate. Stavolta la vicenda non è ambientata a Milano, come generalmente succede nei “gialli” di Tuzzi, ma a Spelta, una cittadina dell’Italia centrale compresa tra Spoleto e Viterbo, tra i villaggi, le campagne, le colline, i boschi, le acque che distinguono questa parte della penisola e che ne fanno un posto altamente suggestivo e capace di attirare tanti turisti. Molto concede Tuzzi, durante la narrazione, alla descrizione dell’ambiente, del paesaggio e molto spesso si sofferma a scoprirvi i segni del passato, a citare autori, opere della tradizione letteraria non solo italiana che da esso hanno tratto ispirazione. Colto risulta questo romanzo e non solo per quanto l’autore mostra di sapere circa la letteratura dei tempi passati ma anche perché fa dei propri interessi specifici, quelli della bibliofilia, il motivo centrale dell’opera. Di un convegno internazionale di bibliofili scrive Tuzzi nel romanzo. Si tiene presso l’Università di Spelta e vi sono convenuti studiosi noti in ambito nazionale e straniero, docenti universitari oltre che autorità del posto e rappresentanti di rinomate istituzioni culturali o collaboratori di prestigiose riviste. Di storia del libro si dovrà parlare, di edizioni antiche, rare, della carta usata per queste, della loro rilegatura, di tutto ciò che Tuzzi conosce molto bene poiché fa parte della sua attività. Tramite i suoi personaggi vuole egli dire dei suoi studi e molto interessante riesce perché dai discorsi dei convenuti tante sono le rivelazioni, le scoperte che al lettore giungono circa un argomento che, nonostante il suo fascino, non ha mai avuto una larga divulgazione e rimasto è sempre nell’ambito degli addetti ai lavori.

Non molto, però, di un tema così particolare si giungerà a sapere perché interrotte, frammentate saranno le relazioni da due gravi avvenimenti, l’omicidio di un giovane studente, Beniamino, avvenuto in una stanza vicina a quella del convegno e mentre questo era in corso e dopo qualche giorno l’altro di Ricciarelli, un anziano signore conosciuto a Spelta perché spacciava droga presso gli studenti e presso i militari della vicina caserma. Ricciarelli viene trovato morto nei pressi dell’Università, è stato pugnalato mentre Beniamino è stato strangolato.

L’ispettore Melis, che è il commissario al quale in ogni “giallo” del Tuzzi vengono affidate le indagini, era venuto al convegno per accompagnare la moglie Fiorenza che faceva parte del gruppo editoriale interessato alle pubblicazioni di quella Università. Anche di questo caso viene, quindi, incaricato Melis che entra subito in azione, chiama i suoi aiuti ma per molto tempo la vicenda rimane inspiegabile, misteriosa. Non si capisce quale collegamento possa esserci tra la vita, la figura di uno studente così eccellente come Beniamino e quelle di uno spacciatore di droga, non si capisce se è stata la stessa persona ad uccidere entrambi o due persone diverse e per quali motivi. Le indagini procedono senza sosta ed anche i lavori del convegno procedono anche se con interruzioni e indignati si mostrano gli studiosi per il danno che avvenimenti come due omicidi possono arrecare alla loro manifestazione e all’Università di Spelta in un momento che la vedeva all’avanguardia rispetto ad altre università e preparata a migliorare sempre più la propria posizione. Vorrebbero non parlare dell’accaduto ma sono costretti a farlo visto che devono accettare di essere indagati.

Molte diventeranno le supposizioni, molti i sospetti, i dubbi nella mente di Melis, molte strade gli si presenteranno ma nessuna gli sembra possa condurre ad una spiegazione, possa far intravedere l’autore o gli autori dei delitti, far individuare i motivi. Si è venuto a sapere soltanto che Beniamino era fidanzato con Malina, una ragazza figlia di un ricco industriale del posto, che da questi il giovane non era ben tollerato date le sue umili origini e condizioni, che entrambi, Beniamino e Malina, conoscevano il Ricciarelli per il piccolo consumo di droga che praticavano. E si era pure saputo che Beniamino da qualche tempo diceva ai suoi familiari che le loro condizioni economiche sarebbero presto migliorate, che sarebbero diventati ricchi. Ma ancora non si era capito come questo sarebbe avvenuto e in questo c’era la soluzione dei tanti misteri che si erano addensati sul caso.

Beniamino si stava laureando col professore Belange e molte ricerche aveva compiuto per la sua tesi che riguardava il restauro delle carte usate nel 1465 a Subiaco, dove, primi in Italia, cominciarono a lavorare due stampatori tedeschi, Sweynheym e Pannartz. Era successo, così, che nel corso delle sue ricerche il giovane avesse casualmente scoperto le parti principali del leggendario Donato sublacense, la grammatica latina stampata a Subiaco proprio dai due stampatori tedeschi prima di ogni altro loro libro e, quindi, prima di ogni altro libro in Italia. La scoperta era clamorosa visto che si trattava del primo libro stampato in Italia, un libro del quale per cinquecento anni si era stati alla ricerca senza aver mai scoperto alcuna traccia. Beniamino lo aveva detto al professore Belange e questi, elettrizzato, aveva subito pensato alla preparazione di un convegno di studi per annunciare al mondo la scoperta di un’opera di inestimabile valore scientifico, aveva promesso allo studente che si sarebbe incaricato della pubblicazione del Donato e che di questa gli avrebbe fatto firmare la parte relativa al restauro delle pagine del libro da lui compiuto. Ma all’improvviso Beniamino aveva cambiato idea, molto probabilmente perché consigliato dal Ricciarelli, col quale era in contatto. Aveva pensato di vendere il Donato ad un grande libraio antiquario che lo avrebbe pagato moltissimo. Questa la ricchezza della quale parlava ai suoi familiari. Aveva, quindi, nascosto il libro perché Belange non vi potesse intervenire. Questi lo aveva pregato, supplicato affinché cambiasse idea ma il giovane non ne aveva voluto sapere. Di fronte a tale comportamento e allo scherno che si era permesso di usare nei suoi riguardi Belange non si era più controllato e lo aveva ucciso. Poi avrebbe ucciso anche Ricciarelli che, dopo il fatto, lo aveva minacciato.

In seguito il Donato sarà trovato nella stanza di Beniamino, tra le sue carte. Il suo valore era stato salvato anche se la sua difesa era costata il carcere al professore Belange. Contro questa grave situazione di crisi morale, spirituale che ormai dilaga ai giorni nostri si sofferma a dire il Tuzzi nelle pagine conclusive dell’opera, contro gli interessi economici, contro la venalità che riguarda ogni aspetto della vita, che ha annullato i principi primi, i valori fondamentali dell’uomo, della sua storia. La sua critica dei moderni costumi percorre segretamente tutto il romanzo, assume i toni della satira, si fa ironia ed è rintracciabile in ogni suo libro. Attraverso le indagini del suo commissario lo scrittore fa emergere quanto si è perso di quello che costituiva il patrimonio dell’umanità. E’ un umanista Tuzzi che condanna i sistemi diffusi, che lancia i suoi strali contro tutto ciò che offende le regole costituite. I delitti da lui rappresentati nei romanzi gli offrono l’occasione per denunciare il guasto che ha invaso la vita moderna.

Non solo giallista ma anche e soprattutto scrittore è Hans Tuzzi e di quelli che non si sono ancora rassegnati a considerare la vita come un’esperienza soltanto negativa.

P. De Marzo, Frammenti di luce

Nella Luce dell’esistenza, una vibrante voce di donna: la parola poetica di Paola De Marzo

di Carlo De Nitti

 

 

 

Il poetare è la capacità fondamentale dell’abitare umano.

Ma l’uomo è capace di poetare soltanto

nella misura in cui la sua essenza è traspropriata

a ciò che da parte sua ama e rende possibile l’uomo,

e perciò adopera e salvaguarda la sua essenza.

MARTIN HEIDEGGER

L’amicizia trascorre per la terra annunziando a tutti noi

di destarci per darci gioia l’un con l’altro

EPICURO

 

 

  1. PREMESSA

 

demarzoQuesto testo è una rielaborazione del mio contributo Tra frammenti di luce, una voce di donna …, che ha visto la luce come prefazione del volume di PAOLA DE MARZO, Frammenti di luce, uscito – or è qualche giorno – per i tipi della Casa Editrice Gelsorosso di Bari. Le righe che seguono non ambiscono a costituire un’ipotesi critica intorno ai testi, operata con gli strumenti professionali della filologia e dell’analisi testuale: esse hanno, più semplicemente, come fine quello di ricostruire un percorso tematico compiuto dall’Autrice, attraverso una lettura dei suoi testi poetici in una prospettiva che potrebbe essere definita realistica.

Poetare è un modo umanissimo – ben noti sono il verso di Friedrich Holderlin e l’interpretazione heideggeriana del medesimo[1] – di abitare la Terra da parte delle donne e degli uomini, per vivere nel mondo con la propria singolare soggettività interiore. La poesia è la via regia della riconciliazione dell’umano con se stesso, consentendo al Poeta di essere consapevolmente nel mondo, in una luce nuova.

In questa silloge, non sono né casuali né giustapposti i bellissimi disegni di Lucia de Marco che accompagnano e variamente caratterizzano le poesie.

 

 

 

  1. FRAMMENTI DI LUCE E DI ENERGIA

 

In quest’ottica, Paola De Marzo ci offre i suoi componimenti poetici – “frammenti di luce” li chiama – perché “a volte dimentichiamo quale sia il nostro compito su questo pianeta … SIAMO ESSERI DI LUCE in un corpo di materia … la rabbia, il dolore, la malinconia, il risentimento, vanno trasformati in Luce e Amore, solo così potremo ritrovare il nostro splendente Spirito”[2].

In questa sua prima raccolta di trentotto poesie, l’Autrice – docente di lettere, esperta di psicopedagogia, ma anche, non casualmente, insegnante di Tecniche di Meditazione e Reiki, un’antica disciplina bioenergetica di origine orientale – esprime a tutto tondo la sua visione della vita e del mondo: vivere in armonia con gli Altri e con il Cosmo, partendo da una soggettività femminile forte, ricca di quell’interiorità affettiva unica, che soltanto il dono della maternità (matris munus, non a caso, è l’etimo della parola matrimonio) consente di conseguire: “Come una Dea / ho corso perdifiato / nei mattini puliti / di un settembre solo nostro […] Settembre / con le sue brezze profumate / portò vita / nel mio tormentato Spirito bambino”[3] (Settembre).

Una femminilità forte e proteiforme quella espressa dalla De Marzo, che è declinata in diverse accezioni ed in plurimi significati, espliciti e reconditi. Femminilità archetipa come in Mia madre: “Grande Madre in te risiede la mia gioia e il mio sorriso […] ho sentito il tuo amore scendere dal cielo nelle fitte gocce di pioggia […] Nel tuo grembo ho imparato ad amare, ad accogliere, a comprendere, a sorridere perdonando”[4]; femminilità prospettica in Micaela: “Non temere di seguire/ le fate, gli gnomi e gli elfi del bosco, / anche se ti diranno che è tutto un sogno… / Credi nella tua Anima femminile, / tu sei una Dea, così come lo sono state tutte le Donne che hanno abitato questo pianeta. / Ama con cuore tenero, dolce, sincero… / Soffrirai / ma non importa, / avrai amato sentendo un / brivido nelle tua Anima”[5] ed in Figlio (“Osservi con Spirito bambino / occhi agitati / mani confuse / labbra pietrose / ed io / ti tendo il sorriso / scaldandoti il cuore”)[6]; femminilità solidale in Volteggiando: “Camminerò / in punta di piedi / per asciugare i tuoi pensieri / rigati di lacrime”[7], ma anche in Mia amica (“[…] il tuo respiro unisce al mio / nella danza / della nostra amicizia”[8]); femminilità consapevole: “Mi ritrovai a cantare inebriata / con altre Dee / Donne e Sorelle di luce che, come me, / seguivano il cammino nel rosso del sole”[9] (Il cammino della Dea).

E’ la femminilità una dimensione senza tempo, in cui l’io è in armonia con il noi e con il cosmo (Ucronia): “Guerriera senza paura / Figlia senza tempo,/ dinanzi un cammino / solo mio / ed io immobile / fissavo gli occhi / di un cielo / sospeso nel presente[10] che si trasforma in una continua pratica di vita. In questa prospettiva, affascinante è la poesia che dà il titolo all’intera silloge, Frammenti di luce e di vita che nella Luce si compie: i frammenti “vibrano, danzano, volano […] si innalzano […] si mescolano […] si sciolgono” nell’unità socio-psico-somatica della persona/poetessa (“li stringo in una danza lieve, / ma indomita / li ricompongo nel mio cuore”)[11].

L’orizzonte valoriale in cui la dimensione di genere si inscrive è quello di un’armonia cosmica che abbraccia maternamente chi riesce a viverla mediante una sorta di metànoia interiore che consente di coniugare ‘terra’ e ‘cielo’: “Il mio Spirito / un albero / immerso tra cielo e terra. / Radici intrecciate […] Chiome mosse da luminoso vento […] libera contemplo / lo spazio infinito”[12] (Il mio Spirito). Un messaggio d’amore a tutto tondo verso l’Altro con cui vivere in simbiotica comunione: “Viaggiai / vibrando all’unisono / con i pianeti, / non temevo l’infinito / assaporando / le vibrazioni dello spazio”[13] (Stelle). Un cum – vivere che nulla – la lontananza fisica, i drammatici distacchi che la vita purtroppo impone agli esseri umani, la morte – riesce a scalfire o a recidere, in una dimensione ancora una volta ucronica degli affetti: “Non so / cosa ci sia dall’altra parte / forse / fili di luce nel cielo / dove / ho sperato di cogliere / visi / di chi non c’è più […] ho vinto il silenzio / nel ricordo / di voci che erano mie, / ho fissato nel vento / tutti i momenti scanditi / nella mia memoria bambina”[14] (Non so).

Con un linguaggio semplice, quasi quotidiano, che proprio per questa ragione arriva dritto ai cuori di tutti i lettori in modo estremamente efficace (“Viaggio nelle rotte del mio cuore regalandomi un vento […] luminoso, luccicante che abbaglia tepori di vibrazioni solo mie”[15], Le rotte del cuore) – che c’è da augurarsi essere tantissimi – la poetessa veicola il suo “augurio” di fiduciosa speranza: “Ho chiuso cerchi / per ricominciare / a vivere […] per dileguare / le ombre della notte, / aprendo la porta / a girandole di luce colorata”[16] (Ricominciare).

 

 

  1. INSEGNARE POETANDO E POETARE INSEGNANDO

 

Quelle “girandole di luce colorata” cui – coniugando passione poetica ed educativa – Paola De Marzo fa accedere le sue alunne ed i suoi alunni preadolescenti, “aprendo la porta” ed appassionandoli con il linguaggio poetico alla pratica della poesia: “ci trasformeremo in farfalle, / librandoci nell’aria, / la nostra trasformazione prenderà vita in / mille colori sfumati di gioia. / Il cuore tra fiori, alberi, stelle / pulserà / nella danza leggera”[17] (Farfalle).

La parola poetica si fa – nella quotidiana prassi pedagogica di Paola De Marzo – strumento ed esempio educante, offrendo il proprio specifico contributo nella legittimazione del valore della persona e della sua educazione integrale. Notoriamente, la poesia è in grado di facilitare nei discenti, segnatamente nella fascia della “preadolescenza”, una serie di “saperi” / competenze:

  1. a) la conqui­sta di una maggiore consapevolezza di sé e di ciò che è Altro da sé;
  2. b) l’esercizio del diritto all’originalità espressiva ed all’autentica singolarità;
  3. c) la promozione e l’arricchimento della dimensione emotiva ed affettiva;
  4. d) la valorizzazione della competenze semantiche, linguistiche e lessicali;
  5. e) il pluralismo cognitivo ed il pensiero divergente ed, infine,
  6. f) la funzione sociale del messaggio poetico[18].

Provare a far conseguire queste competenze in età preadolescenziale è un dovere professionale per tutti i docenti che in-segnano, riuscirci a pieno anche con riconoscimenti pubblici ai discenti è dei poeti, che riescono ad insegnare poetando ed a poetare insegnando.

[1] MARTIN HEIDEGGER, Poeticamente abita l’uomo, in MARTIN HEIDEGGER, Saggi e discorsi, Milano 1976, Mursia.

[2] PAOLA DE MARZO, Frammenti di luce, Bari 2015, Gelsorosso Editrice, p.5.

[3] PAOLA DE MARZO, Op. cit., p. 46.

[4] PAOLA DE MARZO, Op. cit., p. 28.

[5] PAOLA DE MARZO, Op. cit., p. 26.

[6] PAOLA DE MARZO, Op. cit., p. 29.

[7] PAOLA DE MARZO, Op. cit., p. 18.

[8] PAOLA DE MARZO, Op. cit., p. 27.

[9] PAOLA DE MARZO, Op. cit., p. 24.

[10] PAOLA DE MARZO, Op. cit., p. 45.

[11] PAOLA DE MARZO, Op. cit., p. 31.

[12] PAOLA DE MARZO, Op. cit., p. 22.

[13] PAOLA DE MARZO, Op. cit., p. 12.

[14] PAOLA DE MARZO, Op. cit., p. 23

[15] PAOLA DE MARZO, Op. cit., p. 37.

[16] PAOLA DE MARZO, Op. cit., p. 50.

[17] PAOLA DE MARZO, Op. cit., p. 19.

[18] E’ pleonastico aggiungere che, a suffragare quanto asserito – che è, di certo, nell’esperienza di chiunque svolga attività di docenza – potrebbe essere citata una bibliografia enorme, che esulerebbe dai limiti del presente testo.

M. Agus  – L. Castellina, Guardati dalla mia fame

Un “caso” da ricordare 

di Antonio Stanca

 Una scrittrice di sessant’anni, Milena Agus, che a Cagliari svolge il lavoro di docente e da tempo è nota per i suoi romanzi, ed una giornalista-scrittrice di ottantasei anni, Luciana Castellina, che vive a Roma e che si è fatta conoscere sia per la sua produzione giornalistica e letteraria sia per la sua attività politica, hanno scritto per le edizioni di Nottetempo (Roma 2014, pp.204, € 15,00) il libro Guardati dalla mia fame nel quale ognuna porta il suo contributo per la ricostruzione di una grave vicenda verificatasi nella Puglia del secondo dopoguerra. Qui ad Andria, comune della provincia di Bari, la sera del 7 Marzo 1946 furono uccise le due sorelle Porro, Luisa e Carolina, da una folla che si era radunata in Piazza Municipio per ascoltare il comizio di un politico di sinistra e che in seguito a degli spari provenienti dal palazzo delle Porro, che in piazza si trova, si era allarmata fino ad inferocirsi, assalire, invadere il palazzo e commettere il grave gesto. Le altre due sorelle, Vincenza e Stefania, erano riuscite a salvarsi.

   Tranne Stefania le Porro erano rimaste nubili, erano giunte in età matura, abitavano nel grande palazzo di famiglia e vivevano delle entrate della ricca proprietà soprattutto terriera provenuta loro per eredità. Erano conosciute per la vita molto semplice, molto riservata che conducevano, per i costumi molto severi che osservavano, per la loro generosità verso i tanti poveri che allora c’erano, per i loro rapporti con la chiesa, per tutte quelle qualità che avevano sempre distinto la loro antica e nobile famiglia. Per questo risultavano inspiegabili sia l’episodio degli spari che quella sera erano partiti dal palazzo diretti verso la folla sia quello della ferocia nei riguardi di persone che nessuno avrebbe potuto mai accusare della pur minima colpa. Neanche il processo che seguirà dopo alcuni anni riuscirà a fare piena luce sull’accaduto.

   Sono stati questi misteri durati fino ad oggi a muovere le due scrittrici a trarne un’opera impegnata in modo diverso. Per la Agus la vicenda diventa motivo per una rivisitazione di tempi, luoghi, ambienti, costumi lontani. Abile, attenta si mostra, come nei suoi romanzi, a cogliere i particolari delle varie situazioni presentate, l’intimità dei personaggi che le vivono. In questo caso fa emergere come sia stato possibile che le tre sorelle nubili delle Porro abbiano accettato una vita fatta soltanto della loro casa, del loro cucito, del loro ricamo, ridotta a pochissimi contatti esterni, come si siano sentite appagate di una situazione simile e convinte che niente mancasse loro. Riesce la Agus a far trapelare tanto, a ripercorrere intere vite, a ricostruire un’intera epoca tramite le parole, i gesti, le azioni di queste donne. Neanche lei, però, sa spiegare la crudeltà usata la sera del 7 Marzo 1946 contro Luisa e Carolina Porro e pure in quella circostanza mostra le sorelle assenti, lontane dal tumulto che si è scatenato intorno a loro, incapaci di capire e come sempre indifese pur di fronte ad una così grave ingiustizia.

   Alla Castellina del libro spetta la seconda parte, quella che si sofferma ampiamente e minutamente a ricostruire la storia della Puglia del secondo dopoguerra. Una storia fatta di scontri armati tra forze dell’ordine e lavoratori della terra, di violenze perpetrate dai tanti poveri, affamati che allora c’erano contro i ricchi proprietari. Una storia da guerra civile completamente diversa da quella che si stava verificando nel Nord d’Italia. In Puglia la fine della seconda guerra mondiale, la caduta del fascismo, la diffusione di idee politiche ispirate al Partito Comunista, fecero emergere quegli antichi rancori che la infinita moltitudine di braccianti, di poveri aveva sempre nutrito verso la classe dei ricchi, dei proprietari terrieri, dei padroni e l’aveva mossa a ribellarsi, ad armarsi contro di loro ed i loro uomini. Se a questi scontri si aggiungono gli altri che si stavano verificando tra tedeschi in ritirata e alleati da poco sbarcati, tra reduci, monarchici infervorati dalla presenza del re a Brindisi, nuovi arruolati, espatriati di diverse nazioni, si capisce quanto fosse diventato difficile distinguere di che tipo fossero o tra chi avvenissero gli scontri. Poco note in gran parte sono queste vicende della Puglia del dopoguerra e merito della Castellina è aver saputo chiarirle, ordinarle nonostante l’intrico, la confusione che le caratterizzarono. Anche l’episodio delle sorelle Porro la scrittrice inserisce in un contesto così violento e confuso e ne azzarda una spiegazione collegandolo con crimini dello stesso genere che allora furono compiuti da parte dei poveri rivoltatisi contro i ricchi. Ma sospeso rimane il suo giudizio poiché deve constatare che, a differenza degli altri ricchi, le Porro non avevano mai abusato dei loro dipendenti, non avevano mai commesso soprusi nel loro riguardi, non li avevano mai fatti soffrire anzi vicine, generose si erano mostrate verso di loro ed altri poveri, pronte ad aiutarli, a sollevarli dai loro problemi e questo ad Andria era risaputo e lo sapeva anche quella folla che quella sera le aveva uccise.

   Più vicina alla verità sembra giungere la Castellina quando dice che in una Puglia devastata dalle conseguenze della seconda guerra mondiale, percorsa da tanta gente, da tante notizie, da tante idee, da tante voci era facile che presso la popolazione di un comune fossero sorti dei sospetti circa quanto avveniva in una casa grande, in un palazzo come quello delle Porro ad Andria, che si fosse cominciato a pensare che si nascondessero delle persone in fuga o fossero depositate delle armi. Alla ricerca di quello che poteva essere nascosto si erano mostrati, infatti, gli assalitori di quella sera, di quello che non si vedeva, che non c’era. L’intera casa avevano percorso mettendola a soqquadro e poi avevano ucciso. Un’esplosione feroce, malvagia di vecchi rancori e di nuovi sospetti può, quindi, essere considerato l’evento. Ma di là da quanto effettivamente può averlo causato rimane la sua gravità. E’ questa che non trova spiegazione poiché è stata usata verso persone buone, deboli, indifese, è questo che ne fa un “caso” da ricordare e questo risultato si sono proposte di ottenere le due scrittrici.

P. McGrath, Follia

Follia di Patrich McGrath, Adelphi, 1998

di Mario Coviello


“Le storie d’amore contraddistinte da ossessione sessuale sono un mio interesse professionale ormai da molti anni». Inghilterra 1959. Dall’interno di un tetro manicomio criminale vittoriano uno psichiatra Peter Greave comincia a esporre, con apparente distacco, il caso clinico più perturbante che abbia incontrato nella sua carriera : Max Raphael, psichiatra, si trasferisce con la moglie Stella ed il figlio Charlie in un manicomio vittoriano, fuori Londra, in cui è stato nominato vice-sovraintendente.

Stella, è una donna molto bella e raffinata, ma fragile e sensibile e ben presto arriva a disprezzare l’atmosfera claustrofobia del manicomio e suo marito, uomo freddo ed insensibile, votato solo al suo lavoro. La sua vita sarebbe andata avanti così in una quotidianità ossessiva, se non avesse incontrato Edgard Stark, un paziente uxoricida, in semilibertà per la cura del giardino.

Edgard è un artista, uno scultore, per il quale il confine tra arte e passione, amore e morte è diventato inesistente . Dall’incontro scaturisce un amore folle, una passione erotica incontrollabile ed irrazionale e, quando Edgard riesce a fuggire……

Leggendo la trama sembrerebbe alto il rischio di ritrovarsi tra le mani uno dei soliti polpettoni nel più classico stile Harmony. Sin dalle prime pagine, però, s’intuisce la qualità e lo spessore di questo romanzo che racconta la malattia di Stella, una malattia chiamata amore.

“Già, l’amore” dissi. “Parliamo di questo sentimento che non riuscivi a dominare. Come lo descriveresti?”. Qui Stella fece un’altra pausa. Poi, con voce stanca, riprese:

“Se non lo sai non posso spiegartelo.”

“Allora non si può definire? Non se ne può parlare? E’ una cosa che nasce, che non si può ignorare, che distrugge la vita delle persone. Ma non possiamo dire nient’altro. Esiste, e basta.”

“Queste sono parole, Peter” mormorò Stella.

Il libro è un viaggio sofferto all’interno di un’anima tormentata: il lettore viene tuffato a capofitto nei meandri più oscuri di una mente che ha il coraggio di abbandonare la bellezza agognata di una tranquillità illusoria… Se ogni nostro atteggiamento sembra essere meccanico e assolutamente normale, pensiamo per un attimo a quali meccanismi inconsci vi sono alla base, ma anche facendolo non arriveremo mai a comprendere quella sfera che ci appartiene, che è forse la nostra essenza più importante.

La forza di questo romanzo è nella narrazione . E’ come se ogni parola usata da McGrath fosse una calamita che attrae il lettore tra le pagine per impedirgli di staccarsi, anche solo per respirare. Durante tutto il romanzo sembra quasi di attraversare un girone dantesco: aria di inquietudine, di dramma, di esasperazione, di battaglie mentali destinate a infrangersi sul muro della ragione; è un viaggio senza ritorno sin dalla prima pagina.

L’autore, Patrick McGrath, ha trascorso gran parte della sua infanzia nel manicomio criminale di Broadmoor, dove il padre esercitava la professione di psichiatra ed è diventato un osservatore straordinariamente acuto di pazienti psichiatrici e di coloro che se ne occupano ed usa il suo talento letterario per raccontare storie cupe e avvincenti.

Francesco Munzi, Anime nere

Francesco Munzi “Anime nere”

di Mario Coviello

 

anime_nere1Al Teatro Olimpico di Roma il 12 giugno è andata in scena la 59sima edizione dei David di Donatello. A trionfare è Anime nere di Francesco Munzi, storia cupa di camorra che conquista nove premi. Passato in concorso a Venezia 71, batte Nanni Moretti (Mia madre), Mario Martone (Il giovane favoloso) Saverio Costanzo (Hungry Hearts), Ermanno Olmi (Torneranno i prati). Dopo il successo internazionale della serie tv Gomorra, tratta dal romanzo di Saviano, che è stata venduta in 106 paesi, mi chiedo: fa bene all’Italia che sta uscendo faticosamente da una crisi così grave presentarsi al mondo con vicende di drangheta e camorra ? E perché il David che è il premio più ambito per i cineasti italiani riconosce questo cinema così ostico, difficile e lo preferisce a Moretti che racconta della morte della madre, a Martone che canta Leopardi, a Costanzo che parla di una madre difficile e urticante?

“Anime nere” è la storia di Luciano, Rocco e Luigi tre fratelli che sono tre aspetti di come la malavita organizzata, in questo caso quella calabrese, possa attecchire in maniera differente. Luciano, il maggiore, si illude di poter sfuggire al destino che macchia la famiglia dal giorno in cui il padre fu ucciso per una vendetta trasversale, e vive tra le sue capre, in Aspromonte. Proprio lui che è rimasto nella terra dove il crimine sembra non lasciare scampo, tenta l’esclusione dalle logiche del crimine stesso a cui il fratello minore, Luigi , aderisce con l’attività di narcotrafficante, mentre Rocco,apparentemente distaccato, a Milano è un’ imprenditore edile che ricicla il denaro sporco del fratello.

Questo il prologo. Si, perchè “Anime nere” può essere considerato una moderna tragedia sofoclea, in cui il libero arbitrio viene soffocato da un destino ineluttabile.

anime_nere2Eddy Skin del film ha scritto : “Io non sapevo come fosse Africo. Sapevo che esisteva un paese di nome Africo, sapevo che fosse in Calabria. Ma non ne conoscevo il cielo livido, le case con i mattoni a vista, le opere pubbliche fuori scale, le strade come mulattiere, non conoscevo le capre con le corna, la chiesa di cemento in mezzo al paese. Io non sapevo che dialetto si parlasse ad Africo, avrei immaginato un calabrese caricaturale con tutte le t aspirate, non ne conoscevo la parlata chiusa, tra le vocali del salentino e la sintesi espressiva del siciliano. Con Anime nere ho viaggiato in un luogo dove non avrei messo piede, e mai avrei immaginato….Anime nere mi ha portato ad Africo, mi ha fatto sentire il freddo della notte aspromontina, mi ha fatto attraversare strade che non avrei mai pensato di percorrere….
Anime nere non racconta solo una tragedia familiare, ma anche un modo di pensare, un dramma generazionale tra l’equilibrio raggiunto dai padri e il nichilismo del giovane cresciuto con quel disperato bisogno di identità che finirà di compromettere ogni difficile, faticoso, labile equilibrio. Nella scelta suicida di Leo ho riletto non solo l’incomprensibile scelta dei giovani jihadisti britannici che vanno a uccidere e morire in Iraq, ma anche le mille violenze urbane di giovani uomini e donne che vogliono tutto, e lo vogliono subito, e non capiscono perchè altri hanno ciò a cui loro devono rinunciare, e tutto distruggono per affermare il loro solo desiderio di esistere. Munzi non dà lezioni, pare quasi che finga di sospendere il giudizio, il suo punto di vista appare neutrale e rispettoso per un mondo atavico ma non primordiale, capace di attendere, e non a caso destinato alla dannazione quando l’urgenza di velocità del moderno contamina il più giovane e il più debole della famiglia. Un film, poi, ho l’abitudine di giudicarlo davvero il giorno dopo, quando vai a dormire e pensi al film, quando con gli amici che erano con te parli del film. E Anime nere dura molto di più delle due ore di proiezione. Perchè di Calabria, di Aspromonte, di Africo si parla, ma le Anime nere di Francesco Munzi sono universali.”

E. von Arnim, Un’estate da sola

Una donna sola

di Antonio Stanca

von_arnimNella serie “Le Piccole Varianti” della casa editrice Bollati Boringhieri di Torino è comparsa a Gennaio del 2015 una ristampa del romanzo Un’estate da sola di Elizabeth von Arnim, pseudonimo di Mary Annette Beauchamp, scrittrice inglese nata in Australia nel 1866 e morta in America nel 1941. La traduzione dell’opera è di Daniela Guglielmino. La von Arnim la scrisse nel 1899, un anno dopo aver scritto Il giardino di Elizabeth che rappresenta il suo esordio letterario. Allora si trovava a Nassenheide in Pomerania (attuale Polonia), dove si era trasferita col marito, il conte tedesco August von Arnim, alcuni anni dopo il matrimonio. A Nassenheide il conte possedeva un’immensa tenuta con castello e qui Elizabeth avrebbe cominciato a scrivere, avrebbe avuto i suoi cinque figli, avrebbe assistito alla loro istruzione avvenuta in casa ad opera di precettori ma non avrebbe goduto di un buon rapporto col marito poiché di carattere collerico e col tempo esposto a problemi con la giustizia. Visse, tuttavia, diciotto anni in Pomerania e nel 1910, rimasta vedova, tornò a Londra dove divenne l’amante dello scrittore George Wells. Nel 1916 si risposerà con un conte inglese e nello stesso anno morirà la figlia Felicitas che si era recata in Germania per studiare musica. Neanche il secondo matrimonio andrà bene per la von Arnim che finirà col separarsi e legarsi ad un uomo molto più giovane di lei. Visse tra Inghilterra, Svizzera, Francia e nel 1939, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, si trasferì definitivamente in America dove morì nel 1941 a Charleston, nella Carolina del Sud.

Bella, colta, raffinata nei gusti, nelle esigenze ma anche irrequieta, sempre insoddisfatta si mostrò, sempre alla ricerca di quanto potesse colmare i bisogni del suo spirito libero, contrario ai vincoli che provenivano dal passato, alle convenzioni diffuse, ai pregiudizi di una società ancora e soltanto maschilista. Rifiutava tutto ciò che limitava la vita della donna, i suoi pensieri, le sue azioni. Tanto dovette lottare in famiglia e fuori la von Arnim per poter scrivere, pubblicare giacché inconcepibili erano allora, in particolare nei suoi ambienti, tali attività per una donna. Nuova fu per quei tempi e per quegli ambienti, ed anche per questo soffrì i rapporti con entrambi i mariti nonostante fosse diventata nota già dopo la pubblicazione del primo romanzo. Con questo aveva avuto un enorme successo e col secondo, Un’estate da sola, sarebbero continuati il successo e il tema trattato, quello dei diritti della donna, del suo bisogno di non essere ridotta ai soli doveri della casa, della famiglia. Ricorrenti saranno nelle altre opere certi personaggi femminili ed in ognuno la scrittrice trasferirà, con ognuno rappresenterà il suo anelito ad una vita diversa da quella che le si chiedeva, ad una condizione che le permettesse di partecipare a quanto succedeva al suo esterno, di comunicare le sue volontà, di farle valere. Soffrirà la von Arnim ma non rinuncerà a dire di quanto le urgeva, dei bisogni del suo spirito e la scrittura le sembrerà il modo migliore per farlo. Una scrittura soltanto sua che non rientrava in nessuna corrente, non aveva nessun precedente poiché soltanto di lei era quel che esprimeva. Saranno tante le situazioni che la scrittrice costruirà nei suoi romanzi, tante le vicende che immaginerà, tanti i modi con i quali crederà di liberare la donna dalla millenaria sudditanza all’uomo. L’amore rientrerà tra questi, sarà tra i più importanti perché inteso in senso molto ampio, come piacere, godimento, cioè, degli aspetti migliori della vita fossero di persone o di cose, di luoghi o di tempi, di luci o di colori, d’immagini o di suoni, di piante o di acque, di terra o di cielo. Con la bellezza della natura la von Arnim vorrà entrare in contatto, comunicare, come la natura vorrà essere libera, con quella della natura identificherà la propria libertà nelle opere Il giardino di Elizabeth e Un’estate da sola. In quest’ultima dirà della sua intenzione di trascorrere “un’estate da sola”, di voler godere completamente, totalmente del suo tempo nei giardini, nei prati, nelle aiuole, nei boschi che circondavano la sua grande casa in Pomerania, tra i fiori, le acque tutt’intorno. Sarà tanto il piacere che le deriverà da quei contatti, si sentirà tanto libera da volersi annullare tra quei luoghi, da voler vivere la loro stessa vita. Ampi spazi dell’opera, molte pagine sono dedicate alle sue ripetute passeggiate, alle sue lunghe permanenze tra il verde dei campi, il canto degli uccelli, il fondo delle valli sotto l’azzurro del cielo, di fronte alla luce dell’alba, al colore del tramonto. Sola, libera si descriverà nei luoghi intorno alla casa, tra tanta natura anche lei si sentirà sua parte e ne scriverà con un linguaggio così appropriato, così modulato da ottenere effetti musicali, da mostrare i suoi come dei rapimenti. Guastata vedrà, però, una simile condizione di pace, di estasi quando si sentirà chiamata per altri compiti dall’uomo che sta con lei, quando dovrà prestare attenzione alla servitù perché la tenuta non scadesse nel disordine, quando dovrà cercare di contenere i pericoli di malattia, di morte sempre presenti nel villaggio intorno al castello a causa delle gravi condizioni di arretratezza, ignoranza, superstizione, false credenze nelle quali si trovavano i suoi abitanti. Godere una completa estate da sola non le sarà, quindi, possibile a causa di quanto le sta succedendo intorno e quell’aspirazione diventerà uno dei termini del confronto tra sé e il mondo, la vita, la storia. Sola si scoprirà di fronte ad essi ma anche se non penserà di superarli non rinuncerà a lottare e la sua lotta per la libertà delle donne dalle loro eterne regole diventerà, nelle opere seguenti, quella tra il nuovo e l’antico, il bene e il male, l’amore e l’odio, la pace e la guerra, la vita e la morte. Estenderà il suo ambito, trascenderà la situazione particolare, assumerà significati ampi, otterrà esteso riconoscimento, diventerà motivo di letteratura, di arte.

E. Morin, Insegnare a vivere, manifesto per cambiare l’educazione

Edgar Morin, Insegnare a vivere, manifesto per cambiare l’educazione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, pp. 117

di Maurizio Tiriticco

 

morinIn un momento così difficile e complesso per il nostro Sistema educativo nazionale di istruzione e formazione – dire semplicemente scuola sarebbe riduttivo – questo nuovo intervento dell’autore de “La Tête bien faite” (1999) mi sembra assolutamente significativo e importante. Non va dimenticato che le prime “Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione” del 31 luglio 2007, firmate dal Ministro Fioroni, portavano lo stigma – se si può dir così – di Edgar Morin. Nella presentazione delle Indicazioni che ebbe luogo in Roma nell’aprile di quell’anno, Morin ebbe a dire tra l’altro:

“Cultura, scuola e persona sono inscindibili… ‘Voglio apprendere a vivere’: questa frase rimarca l’importanza vitale della formazione sia da un punto di vista di umanità che di cittadinanza perché, per risolvere i problemi fondamentali dell’uomo, è necessaria un’alleanza educativa tra cultura umanistica e cultura scientifica. Una mancanza di congiunzione tra le due infatti non può servire a un’adeguata maturazione morale e spirituale…. Una conoscenza priva di contestualizzazione è una conoscenza povera. Come fare a riunire i saperi delle varie discipline? Serve un pensiero complesso che permetta di unire ciò che è separato. Oggi serve un nuovo umanesimo… Come apprendere a vivere? La conoscenza non si ha con la frammentazione ma con l’unione. È necessaria una riforma della conoscenza del pensiero, un nuovo umanesimo globale che sappia affrontare i temi della persona e del pianeta. I giovani oggi si sentono persi, non trovano le ragioni dell’essere. Durante la seconda guerra mondiale i ragazzi dovevano resistere al nazismo, divennero partigiani, contribuirono a liberare le loro vite e le loro nazioni. E oggi? Oggi i giovani sono chiamati ad affrontare un compito ancora più ampio: la salvezza del genere umano. Hanno una missione grande davanti a loro e dobbiamo educarli ad apprendere e a maturare una conoscenza adeguata ad assolvere a questo compito fondamentale a cui sono chiamati”.

Fu un discorso di grande respiro, anche perché è l’epoca stessa in cui viviamo che ci “costringe” a riflessioni profonde. Sono gli stessi concetti di conoscenza e di sapere che sono profondamente cambiati. Dei “Sette saperi necessari all’educazione del futuro”, di Edgar Morin (Unesco, Parigi, 2000), ne voglio ricordare soltanto due, i più significativi: il 2° – insegnare a cogliere le relazioni che corrono tra le parti e il tutto in un mondo complesso; e il 5° – insegnare a navigare in un oceano di incertezze attraverso arcipelaghi di certezze. Si tratta di un forte richiamo a considerare le differenze che corrono tra l’analitico e il sintetico, il razionale e l’immaginativo, l’analogico e il digitale, per non dire poi delle intelligenze multiple, di Howard Gardner, tutte ricerche che hanno messo sotto scacco i processi cognitivi fondati sulla lettura/ascolto, che hanno caratterizzato metodi di insegnare/apprendere che, in tempi trascorsi, avevano pure una loro efficacia.

Se queste considerazioni sono vere, ne consegue che l’intero impianto scolastico, che abbiamo ereditato da un lontano passato, non può non essere rimesso in discussione. Al centro di questo impianto c’è il rapporto insegnante alunno. E su questo rapporto si sofferma in più punti del suo nuovo libro l’attenzione di Morin. In effetti, in un mondo sempre più liquido – per dirlo alla Bauman – occorre, invece, “ritrovare una missione insostituibile, quella della presenza concreta, della relazione da persona a persona, del dialogo con l’allievo per la trasmissione di un fuoco sacro e per la delucidazione reciproca di malintesi” (p. 66).

E Morin ricorda anche l’affermazione di Platone, secondo cui, “per insegnare c’è bisogno dell’Eros, cioè dell’amore. E’ la passione dell’insegnante per il suo messaggio, per la sua missione, per i suoi allievi che garantisce un’influenza possibilmente salvifica, che fa sbocciare una vocazione da matematico, da scienziato, da letterato” (p. 64). Morin è, quindi, assolutamente contrario alla consueta sequenza lezione, studio domestico, interrogazione, compito in classe, voto. “E’ tutto il sistema di educazione contemporaneo, fondato sul modello disciplinare dell’università e sulla disgiunzione fra scienza e cultura umanistica, che bisogna nello stesso senso rivoluzionare” (p. 103). Oggi viviamo in un mondo in cui non ci sono più i maestri e i libri come unici depositari dei saperi, perché le Tic e il Web sono a disposizione anche del cellulare meno costoso. L’insegnante non è più l’unico depositario del sapere, ma deve essere l’organizzatore e l’animatore dei saperi dei suoi alunni. Di qui la metafora del direttore d’orchestra. “Questa nozione di direttore d’orchestra inverte il corso stesso delle lezioni. L’insegnante non distribuisce più come priorità il sapere agli allievi. Una volta fissato il tema di un compito o di un’interrogazione orale, sta all’allievo trarre da Internet, dai libri, dalle riviste e da tutti i documenti utili la materia del compito o dell’interrogazione e presentare il suo sapere all’insegnante. E quindi sta a quest’ultimo, vero direttore d’orchestra, correggere, commentare, apprezzare l’apporto dell’allievo, per arrivare, nel dialogo con i suoi allievi, a una vera sintesi riflessiva del tema trattato” (p. 104).

Morin sottolinea con forza la responsabilità che oggi ha un sistema di istruzione e formazione – soprattutto nei Paesi a più alto sviluppo – per garantire a tutti e a ciascuno quell’apprendimento per tutta la vita che è determinante per lo sviluppo culturale e civile per ciascuno e per tutti. “Si potrebbe, come si faceva in passato per il servizio militare, immaginare che ogni cittadino o cittadina possa ventotto giorni all’anno effettuare un servizio di educazione, che comprenda la revisione e l’aggiornamento delle conoscenze, l’esercizio della ginnastica psichica dell’autoesame…” (p. 105).

Il nuovo libro di Morin – in un momento particolarmente difficile per il nostro Sistema di istruzione – propone ai responsabili politici, agli uomini e alle donne di scuola e ai cittadini tutti, un momento di riflessione attenta sulle natura stessa e sulle finalità che oggi hanno, in una società sollecitata da cambiamenti sempre più rapidi, i processi di insegnamento/apprendimento. Una didattica cooperativa, quella “didattica laboratoriale”, che ricorre ormai in tutti i nostri documenti relativi al riordino del sistema di istruzione, dovrebbero veramente diventare il nodo centrale di qualsiasi processo riformatore.

E’opportuno che di questo insieme di problematiche, così magistralmente rappresentateci da Morin, si tenga, comunque e sempre, il dovuto conto, ed evitare che gli attuali motivi del contendere attorno a un ddl che provoca contenziosi a non finire, non ci consentano di centrare e analizzare i nodi centrali dell’insegnare/apprendere, che poi si consumano all’interno di un’aula, in quel rapporto docente/alunno che costituisce il clou di quel successo formativo che – come ci siamo impegnati con il dpr 275/99 – dovremmo garantire a tutti e a ciascuno.

E… grazie a Morin, che non finisce mai di insegnarci qualcosa!

F. Greco, Gocce d’amore

La forza dell’amore

di Antonio Stanca

grecoLa sera di Venerdì 5 Giugno 2015 a Sternatia (Lecce) presso i locali del Centro Studi “Chora-Ma”, da molti anni diretto da Donato Indino e impegnato nel recupero e nella valorizzazione della cultura e del sostrato linguistico del territorio, è stato presentato il breve volume Gocce d’amore (Poesie del cuore) del dott. Franco Greco, edito dalla Tipografia Minigraf di Campi Salentina (Lecce). Il libro è stato messo a disposizione degli spettatori in cambio di un’offerta che sarebbe stata devoluta a Triacorda, un’Associazione Onlus che si sta adoperando perché nel Salento venga creato un Ospedale Pediatrico d’avanguardia, dotato di strutture capaci di risolvere casi di patologie complesse evitando che per questi ci si debba spostare nel Nord Italia.

Dopo la presentazione del Presidente Indino è intervenuto il Presidente dell’Associazione Onlus Triacorda, Antonio Aguglia, che ha illustrato il progetto del nuovo Ospedale. Non solo come luogo di cura, ha detto, dovrebbe essere inteso ma anche come luogo d’incontro, di scambio. Ci dovrebbero essere locali adibiti a queste e ad altre attività quali il gioco, la lettura, l’ascolto di musica ed ogni altra propria dell’età infantile. Una struttura moderna, completamente nuova nei suoi servizi dovrebbe essere, una struttura pari al Meyer di Firenze e al Children’s Hospital di Miami.

Di seguito il Professor Gorchia si è soffermato ad illustrare gli aspetti specifici che il nuovo Polo ospedaliero dovrebbe avere, quei reparti, cioè, che finora sono mancati agli ospedali esistenti e che dovrebbero riguardare la terapia intensiva, le patologie croniche (malattie genetiche, ereditarie), le malattie rare, la chirurgia pediatrica. Per casi di questo genere solo a distanza si è potuta cercare la soluzione con notevoli difficoltà per le famiglie interessate.

Il giornalista Claudio Alemanno ha sottolineato l’importanza di un progetto simile e ha detto che soltanto con una partecipazione collettiva lo si potrebbe attuare. Solo se ci si dispone tutti a perseguirlo lo si potrà fare.

Si è passati, infine, alla lettura di alcuni componimenti del libro del Greco. E’ stato lo stesso autore a leggerli mentre Carlo Alberto Augieri, dell’Università del Salento, li ha commentati. Questi si è soffermato a lungo sul profondo significato dei versi del Greco. Ha spiegato come essi colgano particolari momenti della vita, quelli propri di persone che si trovano in circostanze difficili, che hanno bisogno di aiuto e come sia necessario rispondere a queste domande, esaudire queste richieste. Un invito ad essere buoni, a fare del bene, a voler bene rappresentano le poesie e per questo possono essere inserite, ha detto Augieri, nello spirito di partecipazione e collaborazione che il progetto sta cercando di suscitare.

Da un libro, dalle sue poesie scritte in una lingua molto semplice, a volte in dialetto, si dovrebbe giungere ad un’opera. Sembra un percorso lungo e difficile ma non impossibile se a sorreggere chi lo ha intrapreso è la forza dell’amore.