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Le Regioni al declino

Le Regioni al declino

di Gian Carlo Sacchi

Non giungono inaspettati i ricorsi alla Corte Costituzionale sulla “buona scuola”, ma mentre in passato tali impugnative erano tese a smantellare le si pensava residue resistenze statali nei confronti delle “competenze concorrenti” con le regioni, decretate dalla riforma del titolo quinto della Costituzione risalente al 2001, oggi il centralismo statale non solo resiste, ma riparte all’attacco riappropriandosi di tutto quanto riguarda il sistema di istruzione-formazione.

E’ stato più volte ripetuto che l’ulteriore revisione costituzionale attualmente in discussione sarà una vera e propria controriforma che abolisce i predetti aspetti concorrenti e riporta l’ordinamento tra le competenze esclusive dello stato.

La recente legge sulla buona scuola anticipa questo nuovo orientamento, dandone per scontata l’approvazione, ma esponendosi al contempo al ricorso sulla base della previgente normativa. Due sole regioni si sono mosse in tal senso e a giudicare dai toni quasi sommessi delle loro motivazioni c’è da chiedersi se non si tratti degli ultimi Giapponesi nella foresta, mentre tutte le altre hanno già ritirate le truppe dal fronte, non sappiamo bene se con convinzione o rassegnazione, a giudicare dall’altrettanto timido documento emesso dalla conferenza delle Regioni stesse in occasione dell’ultimo provvedimento legislativo patrocinato esclusivamente dal governo centrale. Si tratta quasi di un atto dovuto per rispetto alla legislazione, ma ben altre ambizioni avevano tali regioni a giudicare dalle loro leggi specifiche.

Dal 1997 ad oggi si sarebbe dovuto verificare un decentramento delle competenze statali verso le scuole e gli enti territoriali che a loro volta avrebbero dovuto costituire sistemi integrati locali per meglio interagire con le diverse realtà ed essere più tempestivi nell’affrontare il cambiamento, ben sapendo di come la burocrazia con le sue diverse emanazioni non aveva espresso né efficienza né efficacia e ben consapevoli della tendenza a livello europeo ad un funzionamento decentrato del sistema stesso e dei risultati ottenuti da tali modelli di governo. In quest’ottica le scuole e i loro dirigenti e docenti avrebbero svolto la funzione di “presidio pedagogico del territorio”, con un ruolo specifico nel “sistema delle autonomie” e con spazi riconosciuti di progressiva rappresentanza.

Quello che lascia increduli è che negli ultimi decenni le regioni sono intervenute pesantemente a rivendicare le loro prerogative ed hanno trovato uno stato resistente, oggi, viceversa quest’ultimo ha ripreso l’iniziativa e le regioni sono destinate a sostituire le province sull’area vasta a scapito della loro potestà legislativa.

Quindi anche il tono dei ricorsi è di chi segnala una competenza violata ma che potrà finire in nulla con l’approvazione del nuovo titolo quinto e le scuole così continueranno ad essere “terminali territoriali” dello stato, con un po’ più di autonomia nella didattica ma non nella politica, governate dai funzionari ministeriali e dai dirigenti scolastici, ai quali anziché i poteri verranno delegati i conflitti.

Le regioni protestano perché non sono coinvolte su tante materie o si limitano a dare pareri: dov’è finita tutta l’enfasi sulla sussidiarietà ? Al contrario in termini di risorse finanziarie ad esempio si cercano capitali privati da portare alle strutture statali.

La buona scuola attraverso le sue deleghe e linee guida si occupa delle indicazioni di dettaglio, quando è noto che compito dello stato sono le famose ma mai emanate “norme generali”. Insomma non avendo applicata la riforma costituzionale del 2001 e quindi dovendo esibire un’esperienza confusa e frammentaria, oggi non ci si può lamentare della controtendenza, anche se un’opportunità storica è stata di nuovo sprecata per costruire un sistema radicato nelle comunità e forte nelle reti territoriali. Mantenere un’ organizzazione calata dall’alto ci potrebbe riportare alla riforma Casati, dimenticando il livello di personalizzazione oggi richiesto sia per il successo negli apprendimenti, sia nell’efficacia dei servizi.

Questa rubrica aveva investito molto nel dibattito sull’autonomia e i territori, proprio per cercare di costituire un ponte tra la pedagogia istituzionale tradizionale e quanto si poteva elaborare nella costruzione dei sistemi locali. Oggi tutto questo sta perdendo di interesse, una buona scuola sarà caratterizzata sempre più dall’alleanza tra sistema politico ed economico, che per ora sono entrambi in una situazione di crisi: l’uno non riesce ad evitare la dispersione e l’altro a risolvere il problema dell’occupazione giovanile.

La formazione come si sa è altro ancora, ma questo dipende appunto dal ruolo delle scuole e delle professionalità che in esse operano per quanto riguarda la crescita delle persone e la valorizzazione sociale.

I due principali oggetti dei ricorsi riguardano la progettazione della rete scolastica e il settore istruzione e formazione professionale. Il primo era stato attribuito alle Regioni fin dai decreti applicativi delle riforma Bassanini del 1998, passato come competenza concorrente e visto dalle diverse realtà in relazione ad esigenze specifiche. In Emilia Romagna ad esempio gli ambiti territoriali scolastici tendevano a coincidere con i distretti socio-sanitari; allo Stato competeva l’assegnazione del personale. La buona scuola affida agli Uffici regionali del ministero la definizione dell’ampiezza di tali ambiti al fine di prevedere il complesso meccanismo di scelta dei docenti da parte dei dirigenti scolastici. L’ambito incontra la rete ed anche qui viene evidenziato un concetto ambiguo: da un lato la rete è uno strumento organizzativo che parte dalla progettazione delle scuole (DPR 275/1999) e in tal senso si esprime la predetta legge 107 che attribuisce all’amministrazione scolastica la “promozione” delle reti stesse, dall’altro però esse diventano un provvedimento amministrativo nel momento in cui venga assegnato del personale.

Per quanto riguarda poi istruzione e formazione professionale si tratta di una competenza esclusiva delle regioni derivante dalla Costituzione del 1948 (art. 117) e replicata nel 2001. Ma proprio il termine istruzione nella prospettiva decentralistica faceva pensare al passaggio alle regioni degli istituti professionali di stato, mentre, al contrario, nella legge 107/2015 si indica in un provvedimento statale la necessità di disciplinare l’intera materia al fine di coordinare le iniziative regionali soprattutto in relazione alla circolazione a livello nazionale delle qualifiche professionali.

Tolti questi due elementi strategici cosa resta alle regioni ? Non solo le competenze concorrenti sono state eliminate, ma anche quelle esclusive vengono depotenziate. E’ la stessa cosa che nel jobs act per quanto attiene alle politiche attive del lavoro, attraverso la creazione dell’agenzia nazionale, poi mitigato dall’intesa sui centri per l’impiego. Già in passato si era paventata l’istituzione di un’analoga agenzia nazionale per la istruzione e formazione professionale (art. 88 DLvo 300/1999) di cui non si è più sentito parlare, probabilmente per l’intervento delle Regioni. Forse adesso sarà ripristinata.

Anche per l’edilizia scolastica la tradizione ha visto il finanziamento di piani regionali, mentre ora sul fronte delle scuole “innovative dal punto di vista architettonico, impiantistico, tecnologico, dell’efficienza energetica e della sicurezza strutturale e antisismica, caratterizzata da dalla presenza di nuovi ambienti di apprendimento” è il Ministero che ripartisce le risorse e “individua i criteri per l’acquisizione da parte delle regioni stesse delle manifestazioni di interesse degli enti locali…interessati alla costruzione di una scuola innovativa.”

Anche sui servizi per l’infanzia (0-3 e 3-6)oggi sotto l’egida di Comuni e Regioni arriva il Governo con “standard strutturali, organizzativi e qualitativi.” Qui la questione è molto più delicata, perché si tratta di superare i servizi così detti a domanda individuale che prevedono il cofinanziamento dell’utenza; per realizzare un vero servizio universale e raccogliere la sfida europea c’è bisogno di notevoli interventi finanziari soprattutto al sud del Paese. La buona scuola rinvia tutto ad un decreto delegato: staremo a vedere.

Cosa deciderà la Corte Costituzionale lo si saprà, ma da come si prevede l’approvazione del nuovo titolo quinto, non si può non constatare un declino della politica regionale. Forse è il momento di dire la verità: nessun partito con responsabilità di governo è veramente interessato ad un sistema istituzionale decentrato. Cosa dobbiamo aspettarci dal nuovo Senato delle autonomie se i poteri queste ultime non li hanno ? Anche quando si dice di dare compimento all’autonomia delle scuole bisogna capire bene quali siano le vere implicazioni. Ministero, USR, dirigente scolastico costituiscono la nuova “catena di comando”, il resto è partecipazione alla Decoubertin.

Federalismo fiscale: un decreto fuori tempo massimo?

Federalismo fiscale: un decreto fuori tempo massimo?

di Gian Carlo Sacchi

 

Un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri varato il 27 marzo 2015 ha dato applicazione al D. Leg.vo n. 216 del 26 novembre 2010 in materia di determinazione dei costi e fabbisogni standard di Comuni, Città Metropolitane, Province. Tale decreto era a sua volta attuativo della L. n. 42 del 2009 che introduceva il così detto “federalismo fiscale”.

Si tratta di un’opera monumentale (due volumi di Gazzetta Ufficiale) che indica le note metodologiche per la definizione dei fabbisogni standard, dai quali nasceranno i costi e le relative coperture per i comuni delle regioni a statuto ordinario su diverse materie tra le quali risaltano per l’interesse di questo contributo l’istruzione pubblica e gli asili nido.

Un’approfondita indagine sulla gran parte dei comuni italiani che a partire dai loro conti consuntivi hanno compilato questionari con indicatori standard, di carattere interno, sulla gestione dei servizi, ed esterno sulle situazioni territoriali, attraverso i quali è stato possibile individuare coefficienti considerati appunto di fabbisogno. Un lavoro che può servire per superare, com’era nelle intenzioni dei provvedimenti di allora, il criterio della “spesa storica” generale per arrivare ad individuare le esigenze per ogni singola realtà locale.

Rispetto ai compiti assegnati dal citato decreto 216, l’elaborazione ha riguardato i Comuni, per le città metropolitane di standard c’è ancora molto poco e le Province non ci saranno più, ciò a significare i cambiamenti che in cinque anni si sono verificati nello scenario istituzionale e che ancora sono in atto.

Intanto che i Comuni compilavano i questionari il federalismo scemava ed oggi viene da chiedersi perché questo provvedimento è passato quasi inosservato e benchè possa essere sempre utile in termini di efficienza andare oltre la spesa storica ci si potrebbe trovare ad utilizzarlo proprio nel modo opposto a quello ipotizzato all’origine, cioè a livello centrale piuttosto che decentrato.

Con la predetta legge 42 si delegava il governo a realizzare il federalismo fiscale, cioè una mescolanza di tributi riscossi dallo Stato, ma anche dalle Regioni e dai Comuni ed in passato anche dalle Province, che andavano a sostenere servizi indicati dal citato decreto 216 come “funzioni fondamentali”, in una visione di integrazione per cercare così di rendere non solo efficiente i servizi stessi, ma anche di favorire investimenti per l’eccellenza in un contesto di spesa pubblica virtuosa. Tra queste funzioni ci sono l’istruzione pubblica e gli asili nido. Mentre è stata un’importante ammissione togliere i nidi dall’ambito dei servizi a “domanda individuale”, a totale carico dei comuni e degli utenti, per il sistema dell’istruzione ci si è limitati alle attività di supporto: assistenza, refezione, integrazione disabili, edilizia scolastica.

Su quest’ultimo punto si è giocata e si sta ancora giocando una partita decisiva per il governo del sistema e per il mutamento del ruolo istituzionale e sociale delle scuole. L’art. 117 della Costituzione riformato nel 2001 prevedeva un compito per lo Stato legato alle norme generali, ai principi fondamentali ed ai livelli essenziali delle prestazioni (LEP), e competenze “concorrenti” tra Stato e Regioni sull’intero sistema. Va da sé che l’applicazione di tale provvedimento avrebbe dovuto dar vita ad un “sistema di autonomie” territoriali (reti, ambiti locali ottimali, ecc.), nel quale fosse riconosciuta anche l’autonomia scolastica, in un’ottica di decentramento amministrativo: un impianto già introdotto dalle norme applicative delle leggi Bassanini di riforma della pubblica amministrazione. Fabbisogni e costi standard, assieme ai LEP, avrebbero dovuto funzionare da regolatori del rapporto tra riscossioni e investimenti, con fondi perequativi dello stato nei confronti di quegli enti locali che non avevano abbastanza “capacità fiscale”, “indicatori rispetto ai quali comparare e valutare l’azione pubblica”.

La riforma dell’art. 117 attualmente in cantiere sembra però invertire la tendenza riportando il tutto alle competenze statali . Infatti nelle dichiarazioni tecnico-normative riportate nel ddl Giannini si evidenzia la compatibilità con le competenze delle regioni, dopo aver sottratto tutto quanto era concorrente con lo stato, non solo, ma nelle deleghe al governo si rientra anche in quanto era loro attribuito in via esclusiva, come ad esempio una si prevede una legge nazionale per l’istruzione e formazione professionale.

Tutte le materie indicate nel decreto sulla buona scuola vengono attribuite allo stato intendendole come norme generali, principi fondamentali e livelli essenziali delle prestazioni per i diritti civili e sociali e quindi tali da non intralciare la predetta concorrenza con le regioni svuotate ormai completamente di capacità decisionali, e, per conseguenza, “non si determineranno nuovi ed onerosi compiti a carico degli enti locali”.

Come si vede la riorganizzazione dei poteri fatta discendere da una nuova versione del predetto art. 117 vede la scuola rientrare nell’orbita del presidio territoriale dello Stato, con un’autonomia, com’è ora “funzionale”. Un passo avanti verso l’autodeterminazione sarebbe avvenuto qualora si fossero portate le autonomie scolastiche a far parte delle autonomie locali e pertanto legate ad una fiscalità multilivello, per la quale era indispensabile l’analisi dei fabbisogni e dei costi standard.

In quest’ottica c’è da chiedersi a cosa potrà servire al riguardo il Senato delle autonomie se le regioni verranno in tal modo svuotate della capacità legislativa e saranno ridotte ad area vasta a prender in carico le deleghe una volta attribuite alle province.

Per il finanziamento del servizio scolastico anziché far ricorso alla sussidiarietà verticale: dal comune alla regione allo stato attraverso diverse fiscalità e corrispondenti politiche di investimento, si preferisce quella orizzontale, cioè ricorrere ai privati, tramite lo school bonus e il crowdfunding o defiscalizzare chi accede alle scuole private, in un sistema di parità ancora molto incerto e mal regolamentato.

Senza nulla togliere al valore di questo procedimento che assicura una maggiore trasparenza ed equità nella redistribuzione delle risorse pubbliche, non si può non evidenziare a che cosa sarebbe dovuto servire, in base al quadro politico di quegli anni ed invece a che cosa servirà in base ad una nuova inversione di tendenza che sta intervenendo ai nostri giorni.

Il decreto comprende le competenze comunali integrative di supporto al servizio scolastico, ma che non attengono alla funzione educativa vera e propria. Il dibattito attualmente in atto sulla riforma costituzionale fa ritenere che le cose continueranno in questa ottica, mentre una fuga in avanti si era ipotizzata agli inizi del duemila con la precedente revisione del titolo quinto, suffragato peraltro da un referendum popolare, che prevedeva la definizione dei LEP attinenti ai diritti delle persone e allo sviluppo sociale ed economico del Paese che avrebbero fatto da sfondo integratore ad una reale autonomia delle scuole e “l’ulteriore autonomia “delle regioni in tale settore. Si sarebbe così arrivati ad “un’unità scolastica locale”, con una serie di indicatori di valutazione dei servizi e della continua ridefinizione del fabbisogno, per far seguito alla necessità di miglioramento continuo. Il discorso sui LEP inoltre impedisce di prendere la strada dei soli risultati, cercando risorse su base per così dire meritocratica e inducendo una competizione nel Paese o addirittura su scala internazionale: qui c’è il problema delle disuguaglianze insito in tutti i processi di autonomia. I LEP sono infatti la sentinella del giusto rapporto che si instaura con i fabbisogni soprattutto in periodi di crisi economica, dove questi ultimi cercano di conculcare i diritti. Ed è in questa situazione che si manifesta la diffidenza tra lo stato, le regioni e gli altri enti territoriali in termini di decentramento amministrativo.

Il dato sull’impegno dei comuni per le scuole private è molto interessante in quanto di solito è assente nel dibattito che si ferma sul livello nazionale anche per quanto riguarda l’applicazione dell’art. 33 della Costituzione. Incrocia le problematiche relative a recenti prese di posizione sul calcolo di un costo standard universale per lo studente italiano che porta con sé una quota capitaria di finanziamento pubblico che viene incassata dalla scuola frequentata. Senza contare poi, per essere completi, le tassazioni locali sugli immobili e sui servizi così detti indivisibili.

Sono stati presi in considerazione i modelli organizzativi praticati dall’EL, le modalità di svolgimento del servizio e la collocazione territoriale del comune, visto anche nelle sue forme associate. Il decreto individua così il fabbisogno standard per tutti i comuni.

Una particolare attenzione viene riservata agli asili nido, che attualmente sono a gestione diretta dei comuni o in convenzione con i privati fino ad arrivare ad un costo unitario del servizio. Ma anche per loro è in atto un processo di statalizzazione, che se da un lato li si vuole far uscire dalla domanda individuale e diventare a tutti gli effetti servizi educativi, dall’altro vedranno i comuni titolari di una concessione ed i privati rientreranno nel sistema paritario regolamentato dallo Stato, come accade per la scuola per l’infanzia. Nella buona scuola è infatti prevista una delega al governo per la riorganizzazione in tal senso di tutto il segmento 0-6 anni.

E’ così determinato il livello ottimale del servizio pubblico e il suo costo di fornitura unitaria.

La filosofia di tutta quanta l’impostazione è condensata in un frase che merita di essere riportata a conclusione: “si consideri uno stato suddiviso in vari giurisdizioni il cui governo locale, eletto democraticamente dai cittadini residenti, abbia la funzione di amministrare la fornitura dei servizi pubblici locali”. La domanda sorge spontanea: in questi tempi di revisionismo questo decreto non è fuori tempo massimo?

Le covergenze paralelle

LE CONVERGENZE PARALLELE

di Gian Carlo Sacchi

L’autonomia delle scuole avrebbe dovuto essere il vero indicatore del cambiamento degli ultimi trent’anni. Proveniente dall’apertura alla partecipazione della famiglia-società, è passata attraverso il decentramento della pubblica amministrazione, per arrivare a configurare la personalità giuridica ad ogni istituzione scolastica mettendola in grado di dialogare con il “sistema” delle autonomie sul territorio. Il tutto rinfrancato dalla riforma costituzionale del 2001 che introduceva un nuovo ruolo delle regioni nella programmazione del servizio in concorso con lo Stato che si sarebbe dovuto occupare di “norme generali” a carattere nazionale. Da qui era partita da un lato la revisione degli organi collegiali e, dall’altro, l’elaborazione dei “livelli essenziali delle prestazioni” dai quali dedurre i “costi standard”.

In attesa di recidere il cordone ombelicale che le collegavano all’amministrazione scolastica, il dibattito era acceso su quale collocazione politico-istituzionale le scuole autonome avrebbero assunto: o più simile ad un comune, soprattutto per quanto riguardava l’autonomia finanziaria e la dimensione partecipativa, o assomigliare di più ad un “corpo intermedio” per la sua caratteristica comunitaria e la vocazione educativa , o rimanere nell’ambito delle “scuole della Repubblica” come promozione del “diritto allo studio” per tutti i cittadini e garanzia dell’uguaglianza sociale.

Praticamente la discussione è rimasta ai preliminari in quanto le scuole sono appese al cappio amministrativo statale per ragioni finanziarie e di gestione del personale, senza che però gli Enti Locali e soprattutto le Regioni rivendicassero come in altri paesi europei una competenza specifica e soprattutto assumessero precisi impegni economici e di governo. Nessuna delle parti in causa ha fatto quello che doveva sulla base del riformato dettato costituzionale: lo Stato ha mantenuto le competenze gestionali sulle scuole e poche regioni hanno provveduto ad una legge di sistema. Risultato, anni di impasse con evidenti conflitti di attribuzioni e gran lavoro per l’alta Corte.

Senza dunque aver mai dato compiuta applicazione alla predetta revisione, con l’inevitabile contenzioso dettato in gran parte da dispute giuridiche prive di esperienze concrete, si apre una nuova stagione, sia sul piano della legislazione in campo scolastico, sia sul modello costituzionale: una grossa operazione che ancora come filo rosso ha l’autonomia. Sembra di capire però, se non vi saranno successive modifiche, che si cambi rotta e cioè che vi sia più autonomia nella scuola, ma meno della scuola. La legislazione precedente faceva arrivare al singolo istituto un carico di competenze e responsabilità per cui allo stesso tempo avrebbe dovuto lavorare per la promozione della propria comunità e raggiungere gli standard nazionali (sistema nazionale di valutazione), lasciandosi alle spalle uno stato regolatore e custode dei diritti dei cittadini.

L’attuale dibattito parlamentare sembra improntato alle convergenze parallele dove la parola autonomia è largamente spesa nell’ottica del “come” fino anche ad arrivare all’autofinanziamento, ma il governo del sistema sembra restare nelle mani del centralismo amministrativo che sarà mantenuto per effetto della “controriforma” del titolo quinto e rappresentato dal dirigente scolastico, che certo non può essere pensato elettivo, anche se viene chiamato “sindaco”, ma magari nominato direttamente dal presidente del consiglio. Gli uffici amministrativi centrali e periferici dell’istruzione, che si pensava sparissero in ossequio al predetto sistema delle autonomie locali di cui la scuola entrava a far parte, si vedono potenziati in un’operazione di ricentralizzazione complessiva.

Nel rapporto del commissario sulla spending review non si propongono tagli per l’istruzione pubblica e questo se da una parte è un fatto positivo, dall’altra mantiene tutto l’apparato così com’è, mentre si sarebbe potuto effettuare qualche risparmio sui predetti uffici amministrativi, in previsione dell’annunciata riforma della governance e dell’accentuazione dell’autonomia scolastica, con economie da riversare sulle scuole stesse, come aveva già previsto la legge 440/1997.

Il segnale più forte dell’inversione di tendenza lo troviamo nella nuova riforma del titolo quinto approvata alla Camera, all’art. 30, dove modificando l’art. 116 della Costituzione si parla di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia…che potranno essere concesse alle Regioni……”(virtuose, senza cioè deficit di bilancio) nelle “politiche attive del lavoro e istruzione e formazione professionale”, materie queste ultime che la Costituzione aveva attribuito come competenze esclusive alle regioni stesse. Prima vengono tolte, attraverso la modifica dell’art. 117, e poi per gentile concessione potrebbero venire di nuovo attribuite.

Nell’ultima versione di questo articolo oltre alle “disposizioni generali e comuni sull’istruzione” si ribadisce la competenza esclusiva dello Stato “sull’ordinamento scolastico”. Alle Regioni la “potestà legislativa” per “l’organizzazione…dei servizi della formazione professionale, … scolastici, di promozione del diritto allo studio”. Mentre per sanità e welfare si parla anche di programmazione, nel settore educativo sembra molto depotenziata tale potestà, al punto che assomiglia di più alle funzioni che oggi svolgono le Province che saranno abolite e sotto il controllo degli Uffici Scolastici Regionali del Ministero. Manca altresì un’importante funzione oggi regionale che è quella della programmazione della rete scolastica, che in passato non si è mai riusciti ad integrare con gli altri servizi sociali e che in futuro sarà difficile far entrare nel processo di riorganizzazione dei Comuni: si parla genericamente di “pianificazione del territorio”.

In queste condizioni a poco servirà la partecipazione delle Regioni alla formazione degli atti normativi dell’UE, in un’Europa che sarà sempre più dei governi regionali, ed ancora più complicata sarà la pratica relativa ai fondi europei. Qui non si tratta più soltanto di sostituire le regioni inadempienti, ma di ristatalizzare, come si è detto, tutto il processo.

A conclusione di questo primo ma fondante filone di riforma c’è da chiedersi a cosa può servire il Senato, come Camera nazionale di coordinamento di politiche federali che con tale impianto si possono dare per abbandonate. Non toccando poi le regioni a statuto speciale si accentua la distanza tra il sistema nazionale e quelli locali.

Un’altra strada si sarebbe potuta intraprendere se si voleva razionalizzare il regionalismo e cioè quella della riorganizzazione territoriale nel tentativo di costruire macroregioni più omogenee. In tal senso era sorta una commissione al ministero delle regioni, ma il governo ha ribadito che non esistono le condizioni (ministro Boschi, audizione alla commissione bicamerale per il federalismo fiscale il 20/11/2015): segno di una volontà anche politica di neocentralismo, che forse coglie un favorevole momento di debolezza delle regioni stesse.

Diventa perciò politicamente contraddittorio vedere che il disegno di legge sulla buona scuola dedica tanto spazio all’autonomia delle istituzioni scolastiche. Sembrava più coerente ai tempi delle riforme Bassanini con un decentramento della pubblica amministrazione che sfociava in un’articolazione di autonomie territoriali di cui quella scolastica avrebbe fatto parte, in una prospettiva di autodeterminazione. Una governance soggetta alle norme generali sull’istruzione da parte dello stato, leggi regionali relative all’autogoverno del sistema scolastico territoriale, autonomia didattica, finanziaria, di ricerca e sviluppo da parte delle scuole in una prospettiva di valutazione nazionale.

In questo nuovo ddl si vorrebbe “garantire la massima flessibilità, diversificazione, efficienza ed efficacia del servizio….e l’integrazione con il contesto…” Si richiede addirittura una programmazione triennale dell’offerta formativa ad una scuola che sul piano costituzionale rimane saldamente ancorata alle competenze esclusive dello stato che le esercita attraverso il Ministero e le sue articolazioni.

Il sospetto che l’autonomia sia soltanto una questione metodologica viene dalla proposta di modificare l’art. 21 della predetta legge Bassanini, che introduceva l’autonomia in un’ottica decentralistica, a cui segue il rafforzamento della funzione del dirigente scolastico.

Insomma per garantire “ i livelli unitari e nazionali di fruizione del diritto allo studio” si poteva agire come previsto da un governo dei vari ambiti territoriali per arrivare alla nuova camera delle autonomie e ad un consiglio nazionale dell’autonomia scolastica, mentre qui si sceglie la strada restauratrice del centralismo burocratico.

Non mancheranno certo le discrasie tra una simile importazione programmatica e organizzativa delle scuole autonome ed i compiti degli Enti Locali, rispetto anche alle risorse da impiegare, a meno che non si pensi di far governare la scuola dall’Ufficio Scolastico Regionale (di organi collegiali si parla molto poco), che approva i piani triennali, di scaricare di fatto sugli Enti Locali l’operatività del servizio (lo Stato vuole aprire le scuole al pomeriggio, le Province le vogliono chiudere anche il sabato mattina perché non hanno i soldi per il riscaldamento) e farlo pagare agli utenti attraverso modalità di investimento e di defiscalizzazione.

Scorrendo l’articolo due del ddl governativo si vede come l’autonomia proclamata viene gradualmente ridotta ad un asse: dirigente scolastico-Ufficio Scolastico Regionale-Ministero. E qui si registra la convergenza con l’impostazione della riforma del titolo quinto. A che serve il consiglio di istituto ?

Un altro esempio che sul piano della governance non convince completamente riguarda l’istituzione dei “poli per l’infanzia”. Mentre da un lato è da superare la parcellizzazione di un servizio ancora definito a “domanda individuale”, facendolo diventare un bene generalizzato della Repubblica, dall’altro è da valutare il suo trasferimento sotto lo Stato in relazione all’attuale governo degli Enti Locali.

Un’ultima questione che una vera autonomia avrebbe contribuito a risolvere è il rapporto tra le scuole statali e quelle paritarie. A parte la necessità di dare piena attuazione alla legge 62/2000 è solo a livello territoriale che si può superare la difficoltà costituzionale del finanziamento. Le paritarie infatti oltre ad essere l’esempio della libertà di educazione devono svolgere una funzione pubblica comprendendole in una programmazione territoriale, come già avviene per la scuola dell’infanzia e per la formazione professionale, nonostante una progressiva e non chiara statalizzazione di questo segmento. Tutto ciò perché abbiano piena cittadinanza le provvidenze per il diritto allo studio ed altre forme di autofinanziamento che saranno introdotte anche per le scuole statali, fino ad arrivare al possibile pagamento dei docenti da parte dello Stato, attinti a loro volta dagli “albi regionali”.

Con delega al Governo saranno disciplinati gli organi collegiali in base a “nuovi criteri” (sic ?) che valorizzano la partecipazione, individuando “le articolazioni funzionali all’esercizio dell’autonomia”. E’ previsto per ciascuna scuola l’adozione di uno “statuto”, già presente in precedenti progetti di legge, ma con ben altra concezione dell’autonomia, che rasentava la privatizzazione. Nel principio della delega si parla di organi rappresentativi a livello nazionale, regionale e territoriale, pensati però come filone a parte rispetto alla potestà legislativa e amministrativa delle Regioni ed Enti Locali. Qui manca il potere sostitutivo e di vigilanza, che ovviamente dovrà competere ai predetti Uffici Scolastici Regionali; inevitabilmente come nel passato regime dei “decreti delegati” del 1974 in cui i Provveditori agli Studi finirono per attrarre a sé le autonomie scolastiche allontanandole da quelle territoriali.

Le Regioni e il “Sistema educativo professionalizzante”

Le Regioni e il “Sistema educativo professionalizzante”

di Gian Carlo Sacchi

Merita una particolare attenzione un documento della Conferenza delle Regioni del dicembre scorso che cerca di disegnare un profilo del nostro “sistema educativo professionalizzante”. L’interesse nasce da una serie di fattori: è la prima volta che in tempi recenti le Regioni motu proprio si pronunciano sul sistema educativo nel suo complesso, perlopiù hanno espresso pareri o stipulato intese per iniziativa governativa; sono tornate a far sentire la loro voce in un momento in cui le riforme istituzionali sembrano diminuire i loro poteri: le “competenze concorrenti” sono sparite dal nuovo testo costituzionale, da un lato l’ordinamento scolastico rimane saldamente nelle mani e dello stato, e, dall’altro, il ministro Poletti ritiene di dare maggiore organicità alla formazione professionale attraverso la sua nazionalizzazione, non limitandosi al già esistente repertorio delle qualifiche. Per le Regioni il sistema è educativo professionalizzante forse non solo per mantenersi nell’ambito delle proprie attribuzioni, ma perché l’interesse prevalente a questo livello è quello del lavoro e dell’occupazione.

Il riferimento è a Europa 2020 ed alle previsioni circa la domanda di professionalità ad alto livello di qualificazione che in altri Paesi arriva direttamente dal canale professionale, mentre da noi si raggiunge soprattutto passando per i licei. Qui c’è una questione dirimente: qual è il ruolo che viene attribuito in termini di obiettivi formativi, di esiti occupazionali e di governance alla “istruzione e formazione professionale” indicata dalla Costituzione come competenza esclusiva delle regioni stesse. Il governo nazionale con il documento sulla “buona scuola” sembra non affrontare con chiarezza il problema, è più disponibile a piegare tutto il sistema formativo verso il mondo del lavoro, anticipando le scelte professionalizzanti e riportando le competenze di governo, come si è detto, verso lo stato nazionale, piuttosto che riorganizzare i diversi segmenti del sistema, magari trasferendo gli istituti statali del settore alle regioni, evitando però la polarizzazione con i licei e mantenendo le relazioni, soprattutto in termini di risultato, tra competenze generali e professionali. Dove poi vadano collocati gli istituti tecnici è un problema tutto italiano, in riferimento ai profili che gli stessi devono sviluppare a scala nazionale soprattutto in relazione con la grande impresa.

L’ambiguità che dovrebbe essere risolta è proprio quella della confluenza di diversi indirizzi e modalità di governance nel momento in cui si debbono attribuire qualifiche riconosciute anche a livello europeo e costruire percorsi territoriali ad alta qualificazione (ITS, Poli Tecnici) che vadano in aiuto perlopiù alle piccole e medie imprese. Il nuovo Senato delle autonomie potrebbe essere un luogo adatto a presidiare tale complesso sistema e proprio per questa ragione la divaricazione di competenze istituzionali renderebbe difficile una gestione integrata dei curricula utile non solo all’occupabilità, ma alla crescita delle persone, allo sviluppo delle competenze ed alla formazione continua.

A proposito di centralismo c’è da notare che nel decreto così detto “collegato per il lavoro” si riportano allo Stato le “politiche attive per il lavoro”, oltre al predetto ordinamento scolastico, e compare l’istituzione di un’agenzia nazionale per l’occupazione e la gestione dei servizi per l’impiego. Tali politiche, precisa il decreto, si occuperanno di attivazione dei soggetti che cercano lavoro….al fine di incentivare la ricerca di una nuova occupazione secondo percorsi personalizzati…..A regioni ed enti locali la programmazione sul territorio.

Istruzione e formazione professionale, un sistema frammentato, sia per i riconoscimenti delle qualifiche, sia per la qualità delle prestazioni e questo lo si vede da un lato con il tentativo di arginare la dispersione mediante la formazione professionale regionale e l’apprendistato (il 73% dei dispersi, rileva il documento regionale, proviene da quegli indirizzi scolastici), e, dall’altro, dalla sgangherata collaborazione tra istituti professionali ed enti di formazione regionali per quanto riguarda le qualifiche triennali.

L’ISFOL rileva che questi livelli di preparazione sono più facilmente spendibili nel mondo del lavoro e quindi più richiesti, come prima scelta, da quelle famiglie che, complice anche la crisi economica, rinunciano a percorsi di studio più lunghi.

La proposta ordinamentale delle Regioni è di unificare l’istruzione tecnica e professionale, con un primo livello di qualificazione dopo il terzo anno, arrivare al quarto già presente nell’IFP, prevederne un quinto come IFTS, per proseguire poi con ITS/università. Questo potrebbe avvicinarsi all’idea di concludere la scuola superiore a 18 anni, di rinforzare il carattere terziario non accademico, di guadagnare diverse opportunità lavorative anche europee. Può trattarsi di scuola a tempo pieno o a tempo parziale con contratti, come avviene in Germania, di apprendistato retribuito, finalizzati al completamento del percorso formativo. Il tutto seguito dall’aumento delle ore destinante alle materie professionalizzanti, ai laboratori, per creare un solido ancoraggio con la vocazione del territorio. E da qui, come si è detto, lanciare la formazione permanente, come sequenza di opportunità di uscite e rientri tra formazione e lavoro.

il tanto decantato modello tedesco tiene ben distinte la formazione liceale da quella professionale, mentre noi dobbiamo ancora capire se la buona scuola sia quella completamente funzionale all’economia, e su quest’ultimo versante molta strada resta ancora da compiere per quanto riguarda la continuità verticale fino ad arrivare alle più alte qualificazioni (messa a sistema degli ITS) e quella orizzontale nei rapporti tra scuola e imprese (dare impulso alle varie forme di apprendistato). A tenere questa impalcatura i tedeschi hanno alle spalle una storica pedagogia del lavoro ed un grosso impegno, anche finanziario, delle aziende private. il Confronto con la nostra realtà è piuttosto evidente. I numerosi pronunciamenti di Confindustria sulle riforme della scuola non mettono in campo risorse dirette, ma chiedono investimenti pubblici, che nelle regioni più avvedute hanno visto nascere i poli tecnici.

Dall’altra parte la governance della nostra scuola non facilita certo rapporti efficaci con il territorio: autonomia degli istituti, flessibilità dei curricoli, modifica delle classi di concorso per i docenti, organici funzionali, reti territoriali, di cui si parla nel documento delle regioni sono condizioni già note da tempo ma mai compiutamente realizzate.

Parlare di “costi standard” anche per il settore scolastico significa avere una visione federalista, di cui però c’è ragione di dubitare; in quest’ottica il compito dello Stato è quello di definire i “livelli essenziali delle prestazioni” per la garanzia dei diritti sociali, cosa che non sembra essere tra le preoccupazioni della politica.

E’ interessante cogliere la necessità di consolidare un’efficace azione orientativa che nella scuola deve riprendere la dimensione della crescita personale ed ispirare la valutazione: non serve infatti ripristinare una selezione che porta a sacche di abbandono che risultano essere di peso per la società, ma per ognuno bisogna cercare la strada giusta, che non è semplicemente un rapporto meccanicistico tra domanda e offerta o un apprendistato precoce, se non vogliamo che le politiche attive del lavoro siano destinate quasi esclusivamente al riorientamento.

Istruzione e formazione professionale hanno bisogno di un forte rinnovamento nella organizzazione pedagogica e didattica: se un tale intervento avrà successo sul piano occupazionale non dipende direttamente dalla “vision” formativa, ma il valore aggiunto nel lavoro è il lavoratore e la cura delle sue capacità non solo professionali, ma personali e di cittadinanza. Ed è bene che siano le Regioni a ripartire perché in questi anni si è avuta l’impressione che tranne alcune eccezioni, giocassero di rimessa nei confronti dello stato, e la qualità formativa ne abbia risentito. Un rinnovato rapporto tra competenze generali e professionali, che non vuole rieccheggiare modelli scolastici considerati obsoleti, dato anche l’alto tasso di abbandono, ha bisogno di ricerca e di innovazione, ma anche la comunità scientifica su questo fronte, a parte certi enti di tradizione pedagogica, non sembra particolarmente impegnata. Indagini effettuate dicono che i risultati formativi sembrano migliori nei centri di formazione accreditati che negli istituti professionali.

Siamo ad un bivio: da una parte si vuole configurare un nuovo asse tecnico-professionale su tutto il territorio nazionale che gradualmente lascia scomparire quella che oggi è la formazione professionale regionale, dall’altra si può pensare ad istituti statali e centri regionali insieme per una nuova istruzione e formazione professionale, indicata dalla riforma della Costituzione come competenza esclusiva delle regioni stesse.

Ma quello che un po’ sconcerta è che negli anni settanta del secolo scorso le Regioni avevano un gran fretta di entrare in possesso di tale competenza, oggi sembra che il loro atteggiamento coincida con quello citato del ministro Poletti. Il documento in discussione chiede una funzione di coordinamento e di responsabilità dello stato anche in questo settore come parte del sistema nazionale di istruzione, in modo che quello che resta si limiti a qualcosa di molto più simile alla formazione aziendale, di supporto all’apprendistato, alla riconversione professionale, ecc. Sarà una questione economica o si dichiara fallimento sul piano del governo del sistema da parte delle realtà regionali ? L’allarme lanciato dalle Regioni sul finanziamento dell’istruzione e formazione professionale, o meglio di un sistema ancora a pezzi, basato su intese con il ministero dell’istruzione, che nonostante venisse previsto nel 2001 ancora non si riesce a costruire in modo organico, dimostra da un lato che il federalismo fiscale viene progressivamente svuotato, con buona pace del movimentismo impresso dagli enti locali su tutto il capitolo risorse, dall’altro che lo Stato in questi anni ha investito ancora meno nell’istruzione e non si sa se questo atteggiamento rinunciatario delle regioni servirà a convogliare maggiori soldi statali.

Che il governo centrale adotti un comportamento gattopardesco non stupisce più di tanto, anche se verrebbe da chiedersi di cosa abbiamo parlato, con tanto di leggi e decreti mai applicati, dal 1997 ad oggi, lamentandoci del centralismo burocratico dello stato e dei suoi organi territoriali. In questo orizzonte non serve più la potestà legislativa alle regioni, le quali possono tranquillamente andare a sostituire le province ad esercitare mere funzioni amministrative.

L’efficacia del decentramento è sotto gli occhi di tutti, ma lo è altrettanto la debolezza della politica. Anche questa volta pare che non riusciremo proprio ad orientare i processi formativi verso l’apprendimento permanente, altra caratteristica che ci distanzia in profondità dalla realtà europea.

Le Regioni e la Buona Scuola

LE REGIONI E LA BUONA SCUOLA

di Gian Carlo Sacchi

Di solito i pareri o le intese sono documenti molto stringati e mirati ai singoli problemi ed è quindi difficile cogliere la posizione delle Regioni in materia scolastica. Quanto restituito al Governo sulla “buona scuola” è qualcosa di più articolato che ci da modo di intravvedere una posizione più complessiva, e, quello che più ci interessa, ci permette di considerare l’evoluzione dei rapporti tra i due versanti, statale e regionale, che ancora oggi non hanno scelto tra autonomia e centralismo.

Di tutti gli argomenti di cui si occupa la Conferenza delle Regioni in risposta alle sollecitazioni governative ci limitiamo a considerare quelli della governance, più legati all’impianto istituzionale, da sempre ondivago, alla base del quale ci sono le questioni finanziarie e di gestione del sistema a livello nazionale e locale.

Non vogliamo andare molto indietro nel tempo per recuperare i termini di questo dialogo tra sordi: ci basti constatare che nel periodo di maggiore discussione su questi temi, quello cioè tra le due riforme costituzionali, del 2001 e l’attuale appena avviata, ad un’azione politica assai arrogante del governo centrale, che non ha mai dato seguito alle modifiche istituzionali richieste dalla riforma del Titolo Quinto, ha corrisposto una enorme debolezza delle Regioni che non solo non hanno mai rivendicato in modo energico e organico le proprie prerogative in materia, poche infatti sono quelle che hanno legiferato sull’argomento, ma si sono limitate ad agire di rimessa, in una posizione di perenne sudditanza.

Insomma ogni volta che c’era uno spazio le regioni non sono andate più di in la di ricercare, quando non vi erano costrette, un’intesa, e quando timidamente avanzavano qualche proposta regolamentare , rimaneva lettera morta, non si usciva nemmeno dalla Conferenza stato- Regioni per la decisa opposizione del ministero, qualunque fosse la maggioranza politica in quel momento in auge.

Altro che federalismo, che tra alterne vicende propagandistiche e referendarie, poteva anche essere una strada per dare piena espressione alla riforma degli enti locali del 1990 ed a quella della pubblica amministrazione del 1997, nella quale fu “riconosciuta” l’autonomia scolastica e venne conferita loro la personalità giuridica.

Da come le cose si sono sviluppate potremmo dire che niente può ostacolare la burocrazia dei ministeri (vedi la spending review quanto poco ha colpito a centro e quanto nelle periferie) e la scarsità delle risorse porta le regioni a non farsi avanti per paura che lo stato scarichi le competenze e i debiti. Qualche modifica nel senso di una finanza decentralizzata fu tentata con le politiche di bilancio del secondo governo Prodi; gli enti locali però quasi non raccolsero e quando ci fu da organizzare la governance delle autonomie scolastiche sul territorio, le regioni si limitarono a pochi interventi formali del tutto marginali.

L’autoregolamentazione delle scuole autonome poteva trovare nelle regioni stesse un punto d’appoggio per spostare il baricentro verso un “sistema delle autonomie”, invece oggi è chiaro che sono una realtà politica che dialoga con un’entità amministrativa quale l’Ufficio Scolastico Regionale, che è ancora quello che nomina i commissari ad acta per coloro che si discostano dalle norme e obbedisce al ministero centrale. Esso infatti si rinforza con l’ultima versione del Titolo Quinto, ma soprattutto con l’immagine neoimperialista degli attuali governanti. Ci sarà molto da fare nei prossimi mesi per riorganizzare gli enti territoriali, dopo l’abolizione delle province e con l’introduzione del nuovo Senato, ma tutto questo sarà un diversivo per distogliere dalle vere battaglie, quelle per i poteri locali.

La scuola non cambierà e forse non vuole cambiare: la Minerva rimarrà sempre il faro nazionale, se mancano le risorse forse sarà meglio introdurre i bond o l’8 per mille.

Si è data la colpa al contenzioso presso la corte costituzionale per eliminare la “legislazione concorrente”; nel settore dell’istruzione le sentenze sono state veramente poche; alcune cercavano di far fronte ai tagli di personale e della rete scolastica messe in campo da certi ministri ed una sola ha ridisegnato il sistema e a ben guardare si poteva prendere ad esempio per fare un decisivo passo sull’applicazione del precedente titolo quinto, ma si è preferito modificarlo di nuovo anziché applicarlo. Diminuendo le materie di competenza regionale non è detto che si elimini il contenzioso sul piano qualitativo.

La legislazione concorrente dunque non c’è più (quella che cioè diceva che l’ultima parola nel governo del sistema era delle regioni), resta la leale collaborazione, che c’era anche prima, ma a giudicare dai fatti di leale c’è stato ben poco. Per leale le Regioni timidamente intendono le intese, ma in sede di riforma costituzionale si prevede quasi esclusivamente i pareri. E il senato cosa farà ? Farà l’eco alla Camera e questa a sua volta esaminerà perlopiù provvedimenti governativi, compresa l’eventuale attribuzione di maggiori poteri alle regioni stesse.

Auspicabile che le Regioni nel loro documento parlino di governance condivisa, anche per evitare duplicazioni e sovrapposizioni, ma queste situazioni si risolvono se ogni livello avesse un proprio compito e vi fossero adeguati strumenti di coordinamento e di sussidiarietà, compreso il così detto finanziamento “multilivello”; se invece si gestisce tutto dal centro le diversità dei territori diventano elementi di sperequazione e di inefficienza.

Ci sono due pezzi di governance che devono essere rifondati e collegati: quello top down del decentramento delle competenze fino ad arrivare alle scuole e quello bottom up che vede la riforma dei così detti organi collegiali, fino ad arrivare ad un consiglio nazionale per la rappresentanza dell’autonomia scolastica. Qui le idee non sono chiare, o meglio, ancora una volta prevale un atteggiamento gattopardesco; staremo a vedere cosa ci suggerirà la consultazione in atto, se e quando al di la dei titoli e dei twitt si potranno esaminare rapporti e concrete proposte.

Com’è noto l’enfasi in questo momento è posta sulla valutazione; è il miur che predispone tutto tranne quello che serve e cioè i “livelli essenziali delle prestazioni” e gli standard (che non sono le indicazioni nazionali) che definiscono il range di trasparenza e di efficacia del sistema. Che vi sia l’individuazione condivisa di tali obiettivi le Regioni lo chiedono, ma anche qui bisognerà vedere se verrà loro attribuito un ruolo di rappresentanza del territorio o semplicemente di organizzazione della rete scolastica. E’ interessante il lavoro predisposto sul riparto degli organici, che però non ha trovato alcun riscontro in sede ministeriale: non si passa per ora con gli organici di istituto, di rete e sulla flessibilità nell’uso del personale sulla base delle reali esigenze territoriali.

Una maggior corrispondenza di amorosi sensi parrebbe esserci sul versante del rapporto tra studio e lavoro nella riaffermazione degli istituti superiori e delle relative fondazioni, nell’apprendistato, anche se non sappiamo bene ancora che fine farà la formazione nel decreto governativo sul job act, nelle esperienze regionali di istruzione e formazione professionale (IeFP). Ci si sarebbe aspettato anche per queste ultime una proposta di riorganizzazione dell’intero settore che comprendesse anche gli istituti professionali di stato, una novità, istruzione e formazione, che la costituzione assegna esclusivamente alle regioni.

La situazione è confusa se pensiamo agli intrecci tra gli istituti statali e i centri formativi regionali. E’ l’occasione per costruire anche in Italia il doppio canale alla tedesca, al quale tanto si guarda con invidia, ed invece finirà che ci si limiterà ad un angusto percorso di seconda scelta le cui criticità, compreso l’abbandono, finiranno per non soddisfare nemmeno la sola occupabilità, mettendo a rischio il successo formativo. Qui ad esempio ci sarebbe un gran bisogno di politiche per l’orientamento, per il quale non esiste una normativa ad hoc e che per tradizione costituisce un obiettivo pedagogico delle scuole.

C’è bisogno più che mai di un sistema “integrato” stato-regioni, anzi di un nuovo contenuto su base regionale che identifichi non attraverso intese burocratiche e difficili convergenze di diversi strumenti di governo, il nuovo contenitore costituzionale: istruzione e formazione professionale. Si sa che in questo settore esistono finanziamenti europei in particolare per le regioni della così detta convergenza, ma anche qui i progetti languono.

Questa breve carrellata per evidenziare lo stato del regionalismo nel nostro Paese; forse la mala politica di questi tempi consiglia di abbassare i toni, ma si vuol sapere a chi interessa ancora il tanto declamato federalismo.

“In Italia si può parlare di regioni non come una burocratica divisione del territorio, ma come di una ragione geografica, storica e morale, come una realtà esistente e vivente nell’unità nazionale….Il compito degli organi centrali dello stato sia soltanto di direzione, coordinamento e vigilanza….Le regioni siano un organo di decentramento amministrativo e di rappresentanza politica di interessi locali”. Lugi Sturzo in un discorso del 1921.

Un regionalista (meridionalista, ma non assistenzialista) convinto sosteneva che il “decentramento amministrativo rafforza l’unità nazionale, invece nel centralismo si trovano difficoltà maggiori di funzionalità e di rispondenza ai bisogni….L’attività delle amministrazioni locali non è semplicemente soggetta e attribuita, ma libera e responsabile”.

C’è forse più bisogno di maturazione che di rottamazione !

L’abolizione delle Province per una maggiore autonomia nel governo dei territori?

L’abolizione delle Province per una maggiore autonomia nel governo dei territori?

di Gian Carlo Sacchi

Il processo di riforma costituzionale è ripreso in Parlamento, ma la strada per l’approvazione definitiva si sa è ancora lunga. Il dibattito fin qui ha riguardato la riforma del Senato, trasformato nella camera delle autonomie, al quale gli attuali senatori hanno recitato il “de profundis”, rinunciando all’elettività diretta.

Il quadro costituzionale cambia con la revisione del “titolo quinto” sulla governance del nostro sistema istituzionale, soprattutto per quanto riguarda il ruolo delle Regioni, per arrivare all’abolizione delle Province ed alla riorganizzazione (unioni/fusioni) dei Comuni.

Del superamento delle province si parla da tempo; fin dall’entrata in vigore delle regioni a statuto ordinario si era posto il problema di come rendere più funzionali certi servizi secondo modalità di programmazione territoriale che si scontravano con strutture amministrative imposte dallo stato-nazione, a fronte di poteri legislativi attribuiti alle regioni stesse.

Non erano dunque le province il sindacato dei piccoli comuni, che attraverso le unioni/fusioni debbono diventare grandi, per essere in grado di adempiere alle loro funzioni secondo parametri di efficienza organizzativa ed economica, fino ad arrivare alle “città metropolitane”. Così i confini provinciali potevano essere di intralcio all’efficacia di azioni amministrative che richiedono di potersi aprire a territori di “area vasta”. Vi sono state iniziative addirittura interregionali su emergenze naturali, come ad esempio la rete degli enti locali sul fiume Po, oppure la formazione professionale proiettata ad uno scambio di qualifiche addirittura a livello europeo; tematiche che oggi vanno trattate in modo più ampio e rendono inutile la presenza della provincia come ente autonomo.

La Repubblica è strutturata in Comuni, con una dimensione adeguata, Regioni per le competenze legislative legate al territorio, ma anche qui qualche ritocco alla geografia andrebbe fatto, e lo Stato non più visto in un’ottica di gestione centralistica ma di “norme generali”, livelli di prestazioni a garanzia dei diritti sociali, valutazione dei risultati, in un’ottica di scambio internazionale, con una Camera nzionale che si preoccupa dell’equilibrio dei poteri locali. Delle province come presidio non si sente davvero la mancanza. Un risparmio che non è tanto originato dall’abbattimento dei costi della politica, ma dallo svecchiamento del nostro impianto istituzionale.

Nelle grandi aree urbane le strutture delle attuali province andranno ad irrobustire le nuove città metropolitane, nelle piccole realtà esse replicano con risorse diverse e altro personale le stesse funzioni che potrebbero essere svolte da una buona organizzazione dei Comuni. La maggior parte delle competenze sono delegate dalle regioni; queste stesse potrebbero mantenere le medesime funzioni sul territorio con uffici regionali o comunali, sempre intendendo unioni significative per numeri e rappresentatività locali. Non c’è bisogno di un altro ente per elargire contributi che i comuni stessi potrebbero già trattenere sul piano fiscale o per coordinare iniziative finalizzate alla ottimizzazione dei servizi.

In attesa che la riforma costituzionale vada in porto, siamo in una fase di transizione con una legge che deve accompagnare soprattutto i Comuni nei loro processi di riorganizzazione, che si sa non sono facili, soprattutto per questioni identitarie e manageriali, e non continuare ad amministrare al posto degli stessi, come se si trattasse di scelte politiche autonome derivanti da un mandato degli elettori.

La legge Del Rio ha cercato la dolce morte per le province, probabilmente complicando la vita ai sindaci: un bel commissario prefettizio forse sarebbe stato più sbrigativo, ma questo governo di secondo livello dovrebbe proprio essere un laboratorio per arrivare a consolidare l’assetto definitivo delle unioni/fusioni dei Comuni, in rapporto con le Regioni . Non si tratta infatti di un mandato politico e di una nuova forma di governo, ma di un servizio soprattutto in quelle realtà dove questa riorganizzazione ha bisogno di aggiustamenti o di interventi di rinforzo, cosa che magari le province prese da istinto conservativo non hanno supportato a sufficienza.

In questo periodo di elezioni delle rappresentanze comunali l’attenzione è concentrata su come si formeranno le diverse maggioranze sui territori, e si nota positivamente il prevalere di schieramenti atti a sostenere tale passaggio; quello che però rimane in dubbio è se, come ci si attenderebbe dallo spirito della revisione costituzionale, l’abolizione delle province procedesse ad un maggiore decentramento dei poteri dello Stato verso Regioni e Comuni, tolti i vincoli geografici e amministrativi intermedi. Qui occorre una verifica di coerenza di tutto il percorso, perché l’eliminazione della “legislazione concorrente” tra lo Stato e le Regioni stesse sembra riportare più competenze verso il centralismo statalista.

Non si vorrebbe che le province fossero soltanto un sacrificio sull’altare del risparmio e della semplificazione, quando invece la posta in gioco è che i territori possano contare di più.

Meno autonomia con il nuovo Titolo quinto

Meno autonomia con il nuovo Titolo quinto

di Gian Carlo Sacchi

 

Calmata la bagarre che ha portato alla prima approvazione della riforma del Senato e dell’ulteriore revisione del Titolo Quinto della Costituzione, occorre vedere nel dettaglio quali siano le acquisizioni reali rispetto ai tanti proclami che ne hanno accompagnato la discussione parlamentare. Chi ha seguito tutto l’iter dal varo della prima riforma costituzionale del 2001, sostenuta da un referendum popolare, e lo ha fatto confidando che fosse realizzato in Italia un vero “sistema” di autonomie, si sarebbe aspettato finalmente un impegno del governo per l’applicazione di quelle norme, mentre si è trovato di fronte ad una nuova revisione, e ciò ha suscitato non poche perplessità.

Il cammino è lungo e se si riuscirà ad arrivare in fondo forse ci attende un altro referendum; c’è dunque tempo, nei successivi passaggi parlamentari, per apportare ancora qualche modifica, ma soprattutto perché ci venga spiegato come può la stessa maggioranza politica del 2001 e del 2014 varare due testi molto diversi tra di loro, e sostanzialmente in contrasto, prima di chiamare di nuovo la consultazione popolare. A maggior ragione se quest’ultimo provvedimento è collegato con la riforma del Senato, che diventerà la camera delle autonomie, se queste ultime, come in altri Paesi, avranno poteri reali nel governo del territorio. Non interessa qui riprendere il conflitto sulla natura e la composizione del Senato stesso, quanto collegare i due versanti della riforma, per stabilirne la direzione di marcia, e cioè quella della reale autonomia dei governi locali e delle istituzioni scolastiche, altrimenti il Senato potrebbe essere abolito o mantenuto così com’è a seconda dei punti di vista. Insomma se c’è autonomia ha senso una camera delle autonomie, se non c’è allora il tema del mono o bicameralismo va posto su altri piani, magari anche su quello della riduzione dei costi della politica.

Nei lunghi anni di governo di centro destra non si è minimamente posto attenzione al problema se si eccettua la legge sul “federalismo fiscale”, voluta dalla Lega Nord, con il contributo, nei suoi decreti attuativi, del Partito Democratico; possiamo dire che le maggioranze politiche in campo sono altre e cioè quella del centralismo statale e quella dei poteri regionali e territoriali.

E’ vero che in questi ultimi anni si è scatenata una vera e propria tangentopoli sulle regioni, una sola è passata indenne fino ad ora dalle attenzioni della magistratura. Fortunatamente i consiglieri regionali non hanno l’immunità e quindi si possono condurre indagini più rapide, perché la corruzione nei parlamentari non è diminuita, ma è più difficile colpire, tanto è vero che molti indagati a livello regionale si sono messi al riparo facendosi eleggere, con il porcellum, alla Camera o al Senato. Se questa è la ragione che spinge le riforme, non c’è dubbio che riscuota una certa popolarità, come anche l’abolizione dei consigli di quartiere, ma bisogna vedere se il risultato è semplicemente uno specchietto per le allodole oppure c’è un effettivo miglioramento nell’efficienza e nella democrazia di questo Paese.

Per il settore istruzione sembra che non ci siano grosse novità, ma non si può dirlo fino in fondo, in quanto la legge costituzionale del 2003 non è stata applicata ed anche il contenzioso davanti alla Corte Costituzionale pur riandando in linea di principio a questioni fondamentali per un radicale cambiamento di prospettiva governativa del settore, di fatto ha riguardato aspetti abbastanza marginali. Di questa giurisprudenza tuttavia i politici avrebbero potuto servirsi per dare avvio alla precedente riforma, ma non lo hanno fatto, ed oggi ci troviamo a discutere ancora in linea teorica, mancando a monte una chiara manifestazione di volontà politica e a valle l’esperienza concreta ed una casistica utile non solo sul piano giuridico ma come scambio di esperienze per approfondimenti e sviluppi.

Tornando all’aspetto politico la valutazione che se ne trae è che nel centrosinistra sia naufragata l’idea autonomista, che forse era più tipica della sinistra e del nord, dove gli enti locali sono stati anche laboratori per il governo delle autonomie. E’ sorprendente come il “partito dei sindaci” oggi al governo nazionale sia disponibile senza neppure un ripensamento a varare una modifica costituzionale che torni al centralismo. Forse che Bassanini e Berlinguer, sostenitori del decentramento dello stato e dell’autonomia scolastica, forzarono la mano rispetto ad un Paese non maturo per l’autogoverno e ad una burocrazia che in termini di funzionamento della macchina statale sovrasta la politica.

Questa riorganizzazione dei poteri e dei livelli di governo non fu mai completamente realizzata, e la “legislazione concorrente” tra stato e regioni, mantenendo inalterate le competenze del primo e rinunciando al coordinamento delle iniziative regionali, ha generato conflitti e sovrapposizioni normative, anche se in tale regime l’ultima parola spettava alle regioni.

Nel settore dell’istruzione questa diatriba, come si è detto, si è sentita meno, perché lo Stato non ha regolamentato le sue prerogative (norme generali, principi fondamentali, livelli essenziali delle prestazioni), ma ha continuato a gestire direttamente tutto il servizio, lasciando interventi marginali alle Regioni; ed anche sul fronte dell’autonomia scolastica, che la Costituzione voleva “fare salva”, non c’è stato nessun sostanziale passo avanti. Non si è riusciti nemmeno con una legge sul governo degli istituti.

Il nuovo testo al posto della predetta legislazione concorrente, che era già operativa per effetto della revisione costituzionale in tutte le regioni, parla del “regionalismo differenziato”, cioè di poteri decentrati ad alcune di esse, ma con legge nazionale, mentre lo stato riporta sotto le sue competenze esclusive, oltre ai livelli essenziali delle prestazioni, già previsti nell’ordinamento del 2001 e sui quali avrebbe potuto esercitarsi in questi anni, come è stato fatto nella sanità e nel welfare, le disposizioni generali e comuni sull’istruzione e come novità l’ordinamento scolastico e l’istruzione universitaria. Attualmente detto ordinamento ingloba anche le suddette disposizioni generali: in futuro ? Potrebbe trattarsi di un’operazione gattopardesca che lascia alle regioni potestà legislativa solo sulla cornice, la pianificazione del territorio, mentre il quadro, l’ordinamento, rimane saldamente statale.

Per l’istruzione universitaria questo vorrebbe dire come minimo aumentare la burocrazia, come è già avvenuto con la riforma Gelmini, con buona pace della competizione che viene sempre invocata.

L’autonomia delle scuole è ormai nella logica della loro azione sul territorio, è in sintonia con le sempre più ampie relazioni europee, con il mondo del lavoro; essa richiede però una maggiore flessibilità curricolare e organizzativa, nonché nella gestione del personale.

Tornare su un modello unico nazionale significa arretrare anche sul piano dei risultati, rinforzare la logica dei programmi e degli esami, avere meno spazi di manovra per intervenire sul successo formativo, ecc. I dati che continuamente registriamo ci spronano a migliorare le nostre performances e questo non può essere solo un’azione didattica, ma deve poter lasciare aperta la possibilità di interventi sul piano strutturale da parte delle scuole stesse e delle politiche locali. A meno che non si tratti di un ordinamento essenziale, snello, di riferimento comune: indicazioni nazionali, linee guida. Bisogna che lo stato lavori sui risultati attesi, gli standard, da tenere monitorati non tanto con l’ordinamento quanto con la valutazione. Queste sono preoccupazioni più da leggi applicative, ma certe ricomparse a distanza di anni, senza un’esperienza concreta dietro le spalle, destano ancora non poche perplessità.

Facciamo un paio di esempi tanto per capirci meglio. Il primo riguarda “l’istruzione e formazione professionale”, espressione ripetuta dal precedente titolo quinto. Sembra un nuovo canale ordinamentale, di esclusiva competenza delle regioni. Da un lato ci sono i centri di formazione accreditati dalle regioni e dall’altra gli istituti professionali di stato. Gli ordinamenti regionali spesso provocano una frammentazione nei risultati anche in termini di qualifiche che mettono in difficoltà la circolazione delle professionalità, nelle diverse parti d’Italia, ma sempre più anche a livello europeo, mentre gli istituti professionali con norme nazionali mal si adattano alle realtà dei territori. Si può andare avanti ancora con la conferenza stato- regioni, nella quale si sanciscono le intese, ma non si sa come vada a finire, o con la camera delle autonomie entrambi i segmenti possono confluire in un unico canale nazionale, più simile al tanto acclamato modello tedesco, che favorisce la comunicazione, anche con la realtà europea, mantenendo però le sue specificità di indirizzo e territorio. Si tratta di conservare l’unità della Repubblica e di tutelare l’interesse nazionale, ma anche favorire la capacità ed il livello di sviluppo presenti nelle varie realtà locali.

L’altro esempio riguarda l’apprendimento permanente di cui l’Italia soffre terribilmente nelle statistiche europee. Lo stato con i CPIA pur ammodernati si limita di fatto ad agire nelle competenze formali e nel conseguimento da parte degli adulti di titoli di studio, mentre oggi sappiamo che le competenze non formali, adeguatamente certificate, possono costituire un incremento dei saperi in età adulta, favorendo l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita. Formale, non formale, informale, sono modalità di crescita delle persone e di superamento dell’analfabetismo di ritorno che possono elevare la qualità formativa di un popolo (ed i nostri tassi europei), anche in riferimento alla coesione ed al progresso sociale. Questo è un altro aspetto che deve collegare le strutture dello stato con altre realtà associative o lavorative nell’ambito di una programmazione nazionale e territoriale, sotto l’egida del nuovo Senato.

E’ stato abolito il principio che vedeva una sostanziale parità legislativa tra stato e regioni (legislazione concorrente), con una diversificazione delle materie sulle quali legiferare: norme generali da un lato e pianificazione territoriale e gestione dei servizi dall’altro, mentre qui discutiamo di una ricentralizzazione di tutte le questioni ordinamentali, relegando ai poteri locali azioni amministrative. L’eventuale differenziazione dovrà essere approvata con legge nazionale e non si è ben capito se ad opera del nuovo Senato, o forse no, occorre andare alla Camera. Se nel precedente titolo quinto per cercare una sintesi ci si doveva limitare ad una debole conferenza tato-regioni, ora che si è costituita la struttura nazionale che regolamenta il funzionamento delle autonomie queste ultime vengono indebolite e dunque viene da chiedersi a cosa può servire un Senato di questo tipo: costerà poco, ma non varrà nulla.

Riorganizzare la Pubblica Istruzione

Riorganizzare la Pubblica Istruzione

di Gian Carlo Sacchi

Nell’ultima uscita del governo sulla pubblica amministrazione nulla si dice sulla “pubblica” istruzione. In mezzo a questo annunciato diluvio l’amministrazione scolastica è un po’ come l’arca di Noè, così come fin qui è stato anche nelle dichiarazioni del commissario Gottarelli sulla spending review: la scuola ha già subito tagli, ed è vero, ma quello che resta da capire è se viene identifica con l’amministrazione centrale e periferica dello stato.

Guardando le cose da un altro punto di vista, quello della riforma del titolo quinto della Costituzione, proposta sempre dall’attuale esecutivo, sembra invece che a fronte dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, l’amministrazione debba subire un importante processo di riorganizzazione con una conseguente cura dimagrante.

Se poi si seguono le dichiarazioni dell’attuale ministro, spesso dedicate alla valorizzazione del sistema paritario, allora di tutto l’apparato ministeriale si potrebbe fare anche senza.

Non si tratta di far venir meno l’istituzione pubblica, ma di come gestire una struttura che dal nido all’università garantisce parità di diritti ai cittadini e validità dei titoli di studio pur agendo in un’ottica di integrazione tra realtà statali e paritarie.

E’ noto il cambiamento che ha subito il concetto di pubblico, in un’ottica di emancipazione dei servizi sui territori, da quelli per l’infanzia, alla formazione professionale e superiore; non si capisce perché anche il così detto obbligo scolastico non possa essere gestito in questo modo, così come lo è l’obbligo formativo, già presente in un’unica legge sull’obbligo di istruzione, nel quale tra l’altro è compreso anche l’apprendistato, che i recenti provvedimenti sullo job act dovrebbero far riflettere.

Nelle modifiche al citato titolo quinto si parla di uno stato che deve tutelare i “livelli essenziali delle prestazioni”, emanando norme generali sull’istruzione, sull’ordinamento scolastico, lasciando la gestione ad altri livelli territoriali, soprattutto le regioni, fino ad arrivare alle autonomie scolastiche. E’ la legge che deve regolare il servizio e non l’amministrazione statale a gestirlo; le scuole autonome, singole o in rete, pur avendo risorse economiche statali e personale con garanzie indicate dallo stato stesso, hanno autonomia finanziaria e nell’organizzazione dei docenti, a loro volta dotati di autonomia professionale e di libertà di insegnamento, come già ampiamente indicato da una normativa in vigore ma silente. Qui bisognerebbe tornare a parlare degli organici di istituto, come tante volte evocati e già anche sperimentati alcuni anni fa e di altre funzioni sulle quali si può discutere (si pensi ad esempio a mansioni tecniche o amministrative di fronte al potenziamento delle nuove tecnologie).

Come si deve interpretare questo silenzio di fronte al più grande numero di dipendenti statali ? Vuol dire che si ha intenzione, come sostengono alcuni, di separare questo personale da quello in servizio presso altri rami della pubblica amministrazione ? Ma ciò avrebbe senso se davvero il processo di autonomia andasse in porto definitivamente, stabilendo da parte dello stato le suddette norme generali, controllandone i risultati (c’è l’INVAlSI) e garantendo le rappresentanze delle scuole autonome, fino a costituirne un organo nazionale.

Se le assunzioni per le scuole, come nella sanità, potranno avvenire a livello regionale, con requisiti richiesti dalla norma nazionale e attuati dalle università, sarebbe possibile una programmazione davvero rispondente alle esigenze del territorio.

Un altro fronte è quello dei dirigenti scolastici, ai quali potrebbe essere destinato un ruolo apposito, da più parti ritenuto più incline alla leadership educativa che ad una funzione amministrativa, ma per questo ci sarebbe bisogno di un percorso formativo non da scuola superiore della pubblica amministrazione. Ne andrebbe altresì rivisto il reclutamento attraverso forme di corso-concorso, così da evitare anche la girandola degli annullamenti.

L’abolizione delle province dovrà portare al superamento degli uffici statali periferici, riferendoci per controlli di legittimità a “prefetture” regionali; allora la riorganizzazione avrà un significato ed i risparmi saranno notevoli e non si abbatteranno direttamente sul servizio per tenere in piedi burocrazie obsolete; tali economie si potrebbero reinvestire sulle stesse scuole che ne hanno tanto bisogno.

Da questo punto di vista scuola e amministrazione scolastica non sono la stessa cosa; la prima ha bisogno di essere sostenuta, con finanziamenti e personale, a svolgere il proprio ruolo nel contesto in cui si trova ad operare, guardando intorno a sé, per contribuire con altre realtà allo sviluppo del territorio, e, contemporaneamente, come istituzione della Repubblica, a perseguire risultati in termini di crescita e apprendimento per le persone. Un curricolo nazionale con standard definiti ed uno locale per far fronte alla domanda specifica. Personale con requisiti stabiliti per tutto il Paese al quale si possono aggiungere altre figure professionali richieste. Il tutto a costituire un vero e proprio sistema che gode di autonomia e di un’organizzazione complessivamente flessibile, sulla base dei “piani dell’offerta formativa”, come prevede il DPR 275/’99.

La seconda non ha più il compito di costituire in senso stretto il riferimento ad un profilo culturale nazionale, ma ancor prima deve essere la politica ad indicare gli obiettivi e monitorarne l’andamento, attraverso un apparato con competenze più tecniche che amministrative che tuteli i diritti dei cittadini e mantenga l’efficienza del sistema stesso.

L’attuale situazione potrebbe essere propizia per arrivare a definire una nuova governance; lo dice il documento Renzi-Madia che bisogna avere chiara la direzione di marcia per indirizzare efficacemente la pubblica amministrazione. Sarebbe interessante che il triangolo Presidenza del Consiglio, Ministero della Funzione Pubblica, Ministero dell’Istruzione producesse appunto un indirizzo chiaro per il sistema istruzione nel nostro Paese, altrimenti si rischia di cadere in una nuova normativa Brunetta che aveva cercato di assimilare i docenti agli impiegati dello stato, come nei tempi andati, come se non si fosse abbastanza dimostrato che una classe o un ufficio non sono la stessa cosa.

Siamo consapevoli che questa innovazione è più complicata della disciplina di mansioni che si vogliono fortemente unificate, proprio per evitare al cittadino inutili complicazioni burocratiche, ma non ci sono alternative: o la si chiarisce fino in fondo e ci si comporta di conseguenza, anche per quanto riguarda i risvolti amministrativi, o ci si resta impantanati continuando a lamentarci per l’inadeguatezza di norme uguali applicate a contesti diversi.

Sappiamo bene che gli ostacoli che hanno in precedenza impedito di raggiungere simili risultati sono legati al rapporto tra poteri centrali e competenze locali; il punto dolente che ha reso inefficace un quadro normativo che negli anni è andato progressivamente arricchendosi senza però arrivare a chiudere il cerchio è stata soprattutto l’incertezza politica. La partenza del presidente del consiglio è promettente, speriamo non si fermi all’annuncio e soprattutto sappia entrare nel merito, andando oltre a quello che lui stesso vuole escludere e cioè ai tagli lineari, che in passato hanno tagliato i servizi e non gli sprechi.

La scuola tra autonomia e semplificazione

LA SCUOLA TRA AUTONOMIA E SEMPLIFICAZIONE

di Gian Carlo Sacchi

Secondo appuntamento parlamentare del ministro Giannini ed ancora per dichiarazioni programmatiche. L’elenco delle buone intenzioni è pressappoco uguale a quello precedente; è la premessa a proporre alcune parole chiave che preludono ad un certo cambiamento, anche se poi in concreto non ci sono indicazioni precise su come darvi attuazione e si riprende a toccare fugacemente tutte le emergenze non da oggi presenti nel nostro sistema.

SEMPLIFICAZIONE è il primo termine introdotto. Già perché il corpo normativo sull’istruzione è enorme tanto che da più parti si chiede di riorganizzarlo in un testo unico: quello del 1994 infatti è superato. A ciò aggiungasi la legislazione regionale e quanto regolamentato dagli enti locali nell’esercizio ormai consolidato delle loro prerogative in materia di servizi all’infanzia. Ma dare organicità alle disposizioni è semplificare ? Nel portato programmatico nulla si dice infatti di una semplificazione che sta nel superamento del centralismo ministeriale, anche adesso che il governo di cui fa parte si sta impegnando per la revisione del titolo quinto della Costituzione e che sarebbe interessante sapere come il ministro dell’istruzione intende contribuirvi. Norme generali e livelli essenziali delle prestazioni potrebbero bastare, se poi la gestione venisse demandata alla periferia ed alle autonomie delle scuole. L’ordinamento scolastico, quello che garantisce la parità dei diritti di tutti i cittadini sul territorio nazionale potrebbe essere una parte del ruolo delle scuole (curricolo nazionale), le quali a loro volta possono assumere compiti e risorse che la comunità sociale può chiamare a svolgere (curricolo locale) . Come si fa a pensare a scuole aperte, come vuole il ministro, quando ogni loro azione deve essere regolamentata dalla “circolare” ? Per il welfare non ci vuole una normativa nazionale, basta l’ISEE e per la sanità dopo la legge quadro servono le intese stato- regioni sui finanziamenti. Smettiamo dunque di parlare di semplificazione quando dobbiamo ancora effettuare il decentramento previsto nel 1998 e che nemmeno questa volta compare nelle dichiarazioni del ministro.

Il secondo termine è PROGRAMMAZIONE. Interessante sarebbe poter esercitare da parte del governo centrale la programmazione, se fossero chiari e fluidi gli altri livelli di governance. Così non è e dunque il ministero sarà permanentemente quello delle emergenze perché tutti i problemi vanno risolti erga omnes e le situazioni più carenti vanno a detrimento di quelle più efficienti. La programmazione è già in piccola parte decentrata alla regioni, ma riguarda solo la rete scolastica e non le persone che la devono mettere in pratica. Non si può infatti programmare con una gestione centralizzata del personale: un conto è il contatto nazionale, altro sono le esigenze e le risposte che vanno data ai singoli territori. Non c’è bisogno di tanti esempi, ma la dispersione, i rapporti con il mondo del lavoro richiedono maggiore flessibilità; i problemi della montagna e delle isole non possono essere affrontati con il rinato modello delle pluriclassi, che si pensavano definitivamente superate all’insegna di una corretta istruzione per tutti e che oggi vengono mercanteggiate per peer education. I territori, dice il ministro, devono avere la scuola come “presidio pedagogico” e non solo la caserma dei carabinieri, ma come si fa, non solo per carenza di risorse (gli standard introdotti da Gelmini-Tremonti sono ancora in vigore), ma soprattutto per mancanza di spazio alle decisioni locali.

Si parla di organico funzionale e lo si limita ai docenti di sostegno, ma forse il ministro non ricorda che sulla fine del 1990 fu lo stesso ministero ad introdurlo nelle sperimentazioni del tempo lungo nelle scuole medie e dell’autonomia nelle superiori. Per la scuola primaria ci sono stati i “moduli” che andavano in quella direzione. Cose definitivamente scomparse dalla scena ? Anche il doppio organico nella scuola dell’infanzia si fa fatica a mantenere. Forse proprio queste modalità di gestione del personale stesso possono essere funzionali alla programmazione e già all’epoca del governo Monti qualcosa era riemerso, anche se riferito quasi esclusivamente alle reti di scuole.

Per gli Istituti Tecnici Superiori, un altro passaggio della relazione programmatica, trasformati da molte regioni in “poli tecnici” sarebbe preferibile una buona sinergia con le regioni stesse piuttosto che rimpiangere una direzione generale al ministero. Insomma si parla di programmazione con un occhio alla gestione, che proprio non riusciamo a separare nella nostra cultura di governo.

Il terzo tema toccato è quello della VALUTAZIONE; è questa la nuova moda che non si può fare a meno di introdurre stabilmente nella nostra politica. Nessun problema; si trovino la risorse per mettere in atto il regolamento recentemente emanato, ma si sa che ogni buona valutazione produce una retroazione capace di miglioramento e di innovazione. Ma come si può migliorare se non c’è autonomia progettuale e gestionale da parte delle scuole ? I miglioramenti infatti sono personalizzati. Il rischio della valutazione in un sistema centralistico, dove tutto è adempimento, non è la stimolazione, ma un colpo letale, che va a danno proprio le realtà già più deboli.

Senza nulla togliere al sempre più preciso e prezioso lavoro dell’INVAlSI resta tutto il problema degli standard, in relazione ai livelli essenziali delle prestazioni, di una valutazione per competenze, di un incremento della prospettiva dei “crediti” e di una opportuna discussione sul valore dei “titoli”.

Se si vuole veramente andare verso l’INTERNAZIONALIZZAZIONE del nostro sistema, altra parola magica, da protagonisti e non subendo, come avviene adesso, gli strascichi dell’Unione Europea e le brutte figure delle indagini internazionali, occorre che sia il sistema stesso a portarsi verso l’organizzazione in atto un po’ in tutti gli altri Paesi specialmente europei. Allora la parola che nel discorso del ministro è ancora troppo tra le righe e che andrebbe esplicitata nell’incipit è AUTONOMIA, che corrisponde o a governi locali o a forte decentramento sul territorio. Di tutto ciò esistono per gran parte i presupposti giuridici ed esempi virtuosi in diverse parti d’Italia. Manca la volontà politica, e per ora i programmi di questo ministero non sembrano avere tra le priorità la ridiscussione del vero tappo che blocca lo sviluppo del nostro sistema: i rapporti tra i poteri centrali e quelli locali ed il ruolo delle relative burocrazie, fino ad arrivare ai dirigenti scolastici. Qui si può intervenire subito anche per assecondare la spending review che anziché gli sprechi rischia di tagliare i servizi.

Dopo aver sorvolato l’autonomia il ministro compie uno scivolone sulla libertà della scuola; una scuola libera che deve assecondare la libertà di educazione, e con ciò una promessa a realizzare la “parità”. Una legge, la n. 62/2000, è stata fatta da chi aveva a cuore l’autonomia e non la privatizzazione, ma è caduta per tanta parte nella deriva dei diplomifici. Un sistema integrato pubblico-privato è già presente in Italia nelle politiche per l’infanzia e nella formazione professionale; non dovrebbe essere difficile applicarlo in via definitiva anche nella scuola, ma attenzione che per superare il fuoco di sbarramento ideologico ci vuole onestà intellettuale e politica, quella cioè di pensare ad un sistema dell’education autonomo che non deve ricevere legittimazione da questa o quella parte, ma dal suo ruolo nella società che qualunque politica deve impegnarsi a sostenere.

Insistere sulla riforma degli organi collegiali e del governo delle scuole autonome

INSISTERE SULLA RIFORMA DEGLI ORGANI COLLEGIALI E DEL GOVERNO DELLE SCUOLE AUTONOME

di Gian Carlo Sacchi

Se da un lato riprende la revisione costituzionale del titolo quinto, con tutto quello che ne consegue sul piano del governo del “sistema educativo nazionale di istruzione e formazione”, dall’altro deve avere compimento la riforma degli organi collegiali della scuola: due facce della stessa medaglia. Ad una riorganizzazione di poteri e competenze che valorizza l’autonomia scolastica deve corrispondere una visione territoriale dei servizi che fanno riferimento all’education, in cui la comunità è coinvolta e che attraverso la partecipazione arrivi a conseguire gli obiettivi dati a livello nazionale e ad ampliare lo sguardo verso l’Europa e le altre culture.

La scuola infatti non è più l’unica struttura tesa a garantire il diritto dei minori alla crescita personale e culturale, ma rimane il presidio pedagogico della Repubblica. Il suo riferimento è lo Stato-Regioni-Comuni per quanto riguarda gli standard da raggiungere e la programmazione dei servizi e la comunità in cui opera per l’offerta formativa ed il contributo da dare allo sviluppo del territorio, integrandosi con gli altri servizi formativi.

Parlare di riforma degli organi collegiali vuol dire andare oltre la dicotomia che si è creata negli anni tra partecipazione e gestione; garantire cioè la presenza dei vari componenti della comunità scolastica non solo sul versante della proposta, ma anche su quello della decisione e della verifica. Autonomia significa autodeterminazione ed anche valutazione sociale, impegno a raggiungere i traguardi comuni di tutto il sistema e maggiore flessibilità per interpretare i bisogni educativi del territorio.

Si potrebbe aprire una parentesi per evidenziare quanto un sistema rigido oggi sia causa di insuccesso e di abbandono, mentre uno flessibile sia più in linea anche con quanto avviene in altri Paesi e più in generale con il contesto europeo. Tale riflessione offre ulteriori spunti perché l’autonomia abbia una solida base costituzionale ed all’autogoverno della scuola, inserita nel suo territorio, una maggiore efficienza e qualità dell’azione educativa.

Tutto ciò se si va oltre la partecipazione e la pura rappresentatività negli organi collegiali e ci si spinge verso una maggiore funzionalità in relazione alle richieste dell’utenza e del territorio stesso. E’ sull’autogoverno delle istituzioni scolastiche autonome che ormai si concorda, ma sul modo di realizzarlo esistono ancora diversi punti di vista, dettati più dalle difese corporative delle singole componenti che dalla disponibilità ad uno sforzo comune.  Non c’è dubbio però che tale azione comune debba essere fatta su basi di chiarezza e senza ideologie più o meno manifeste, la cui contrapposizione mantiene il sistema sostanzialmente fermo. Ed è quello che è successo nel dibattito sul disegno di legge n. 953 approvato dalla VII Commissione della Camera.

E’ interessante riprendere questa discussione in quanto l’allora Senatrice Giannini, oggi ministro dell’istruzione, aveva recuperato quella proposta per darle gambe nell’altro ramo del Parlamento (atto del Senato 3542), anche se con alcune e non secondarie modifiche.

Il ddl 953 voleva cercare di andare appunto verso l’autogoverno e configurare progressivamente il sistema dell’education, ma da più parti è stato richiamato ad un’impostazione che potremmo definire statalista; l’atto 3542 al contrario ha inteso l’autogoverno in un’ottica neoliberista, per  garantire il “diritto alla libertà di scelta educativa delle famiglie” prevedendo anche la riallocazione delle risorse tra scuole statali e paritarie. Queste due impostazioni prevedono sostanzialmente gli stessi organismi che vengono indicati per le sole scuole statali.

E’ forse l’occasione buona perché si provi a conciliare le posizioni in maniera efficace all’interno della stessa maggioranza politica, in modo da far progredire parallelamente le due questioni sulla governance: quella esterna e quella interna, all’insegna della funzione pubblica di tutto il sistema, facendo maggior ricorso alla sussidiarietà nella gestione.

Iniziamo col dire che questa legge fa parte delle “norme generali sull’istruzione”, che devono cioè indicare gli obiettivi e i principi ispiratori, lasciando poi alle singole scuole autonome, con tanto di statuto, di stabilire le  modalità per metterli in pratica, in base al contesto in cui operano, e verificarne l’efficacia in base agli standard nazionali/europei ed ai “livelli essenziali delle prestazioni”.

Bisogna uscire dalla logica che ha fin qui imbrigliato gli organi collegiali e cioè quella della partecipazione sociale alla gestione statale. Con l’approvazione della legge sull’autonomia e del conseguente regolamento per le scuole riconosciute autonome viene conferita alle stesse la possibilità di iniziativa in materia di offerta formativa e di autonomia didattica, organizzativa, finanziaria e di ricerca e sviluppo; la possibilità di associarsi, di costituire reti e consorzi, ecc. Tale configurazione pone le scuole più verso le autonomie territoriali, ma in proposito si aspetta ancora il decentramento delle competenze previsto dal DL 112/1998. La garanzia di far parte di un sistema pubblico è riposta nelle suddette norme generali  e più che nell’ordinamento negli standard da conseguire, lasciando alla comunità scolastica ed alle sue esigenze la liberta di organizzare la risposta, attraverso appunto organismi formati in modo partecipato.

A questo punto c’è il salto rispetto a prima ed un conseguente rischio che va evitato dimostrando maturità proprio nella partecipazione-governo di qualcosa che rimane sempre un’istituzione della Repubblica e non si trasforma in una “scuola di tendenza” o peggio ancora in un’agenzia privata.

La nuova legge sull’autogoverno dovrebbe tenere in equilibrio queste dimensioni, favorendo l’implementazione di un sistema autonomo, quello educativo-scolastico-formativo, in dialogo con gli altri sistemi del territorio, avente una riconosciuta rappresentanza ai diversi livelli di governo fino a quello nazionale. Saranno le scuole autonome, singole o in rete, ad essere rappresentate e non altri organi collegiali territoriali scuolacentrici, vissuti in passato secondo l’ottica ministeriale.

In questa prospettiva ci sta il diritto della famiglia alla scelta educativa e la valutazione sociale dell’attività; molte di queste cose esistono già e l’introduzione dei nuclei di autovalutazione e di un sistema nazionale di misurazione dei risultati ne sono una conferma. Ciò che manca è un maggior grado di libertà tra i risultati e le decisioni conseguenti, sia sul piano didattico, sia su quello del controllo di qualità complessiva dell’offerta. Si è già detto in precedenza che la rigidità delle strutture aumenta la disuguaglianza e impedisce il recupero e addirittura il prevalere degli indirizzi mantiene la percezione sociale della gerarchizzazione dei saperi.

Sono quindi gli statuti a creare la cerniera tra le norme generali e la realtà locale, ad essi l’indicazione delle modalità di partecipazione della comunità e di migliore organizzazione delle professionalità. Un’autorità governativa, da stabilire a quale livello, approverà gli statuti stessi e commissarierà gli inadempienti .

Le due proposte di legge concordano nel distinguere  funzioni di indirizzo, gestionali e didattiche, ma differiscono sull’attribuire la presidenza del “consiglio dell’autonomia”, l’organo appunto politico: la 953 prevede di mantenere la presidenza ad un rappresentante delle famiglie, mentre la 3542 la affida al dirigente scolastico. Con la prima soluzione si darebbe maggiore equilibrio alle diverse componenti: scuola e famiglia dovrebbero essere le principali responsabili dell’azione educativa e si vedrebbe il dirigente scolastico oltre che come garante per lo Stato anche più vicino a quella che usa chiamarsi la leadership educativa, mentre nel secondo caso si darebbe a questa figura più un valore manageriale, di organizzazione delle diverse risorse presenti nella scuola. E’ sicuramente preferibile una visione di scuola-comunità piuttosto che quella di scuola-organizzazione.

E’ l’autonomia che deve saper analizzare i bisogni del territorio, la qualità che deve promuoverne lo sviluppo, il pubblico, in un’ottica di sussidiarietà, che deve garantire i diritti dei cittadini; organismi di partecipazione costituiscono un atto di trasparenza da estendere progressivamente anche ad altre agenzie educative e formative: statali, regionali, comunali, paritarie o autorizzate. Tale “sistema pedagogico” deve avere, come si è detto, una sua rappresentanza e potere di interlocuzione con altri sistema territoriali e più in generale con il sistema politico, economico, ecc. Qui le due proposte convergono e questo potrebbe aprire la strada ad una rapida approvazione.

Un Consiglio Nazionale delle Autonomie Scolastiche e non solo, come organo di partecipazione e corresponsabilità tra Stato, Regioni, EELL e autonomie scolastiche nel governo del sistema nazionale di istruzione e non un consiglio della corona, con compiti meramente consultivi, di cui i ministri si sono serviti o che hanno anche in buona parte disatteso. Organo di tutela della libertà di insegnamento, di analisi della qualità del sistema e di garanzia della sua piena autonomia.

Ogni Regione può mettere in atto analoghi strumenti di partecipazione, attraverso l’istituzione di Conferenze regionali che tra gli altri compiti abbiano anche quello di trattare con lo Stato sulla definizione degli organici, che si auspica possano essere assegnati a livello di istituto o di rete, proprio al fine di conferire stabilità e continuità al servizio locale. Da qui possono derivare la costituzione degli ambiti territoriali (unioni di Comuni) con compiti di programmazione della rete dei servizi e delle relative Conferenze di ambito.

Un’ultima osservazione riguarda la presenza degli studenti degli istituti del secondo ciclo. Pur con toni diversi tutti riconoscono la loro rappresentanza nel consiglio dell’autonomia in misura paritetica a quello dei genitori; è lo statuto, che deve essere approvato del consiglio medesimo, che deve disciplinare le modalità della necessaria partecipazione degli alunni e genitori, comprese le assemblee, in base ai diversi organismi istituiti. E per quanto riguarda la loro presenza in decisioni che comportano movimenti finanziari, il loro voto non può essere consultivo (3542) se maggiorenni; essi infatti devono essere coinvolti nelle scelte gestionali, anche per ragioni educative, cioè di responsabilizzazione nell’uso del denaro pubblico o per pubblica utilità.

E’ singolare che la sen.Giannini, una volta diventata ministro, tra i tanti argomenti anticipati sui media non si sia soffermata su un provvedimento presentato proprio da lei, anche perché questa apertura offerta alla legge 953 avrebbe bisogno di un percorso accelerato proprio come quello che si intende far seguire al rieccolo titolo quinto.

La controriforma del Titolo quinto?

LA CONTRORIFORMA DEL TITOLO QUINTO?

di Gian Carlo Sacchi

Tra i provvedimenti ad alta velocità del governo Renzi c’è la revisione del titolo quinto della seconda parte della Costituzione, già avvenuta una prima volta nel 2001 e suggellata da un referendum popolare confermativo, ma condotta con estrema lentezza dai governi di tutte le maggioranze politiche che praticamente può dirsi in gran parte inattuata. Una tale situazione di incertezza ha permesso alle burocrazie ministeriali di far finta di nulla, con evidenti proteste delle Regioni, viceversa ad alcune regioni di permettersi fughe in avanti con altrettante proteste statali. Questo da un lato ha intasato di ricorsi la Corte Costituzionale e dall’altro ogni tentativo della Conferenza delle Regioni veniva stoppato dal centralismo burocratico, con la politica che sui problemi della governance ha sempre manifestato estrema debolezza.

E’ andata così un po’ in tutti i settori compreso quello scolastico, il quale non avendo ancora adempiuto al decentramento delle competenze previsto dal decreto Bassanini del 1998, aveva bisogno di una più ampia azione di revisione organizzativa del sistema, cosa che la suddetta Corte ha ricordato in più occasioni, a cui però non è mai stato dato seguito.

Uno per la verità intricato capitolo della nuova legge costituzionale prevedeva le “competenze concorrenti” tra Stato e Regioni , che in diverse parti ha voluto dire conflitti di attribuzione e sovrapposizioni di interventi, mentre nella scuola si è limitata ad un puro esercizio giuridico anche per la carenza di legislazione regionale che non ha occupato, tranne in pochi casi, quello spazio prioritario che il nuovo assetto costituzionale consentiva. Ma prima del passaggio incriminato venivano altri obblighi per lo Stato: le norme generali sull’istruzione (già previste nella Costituzione del 1948 e mai realizzate), cioè provvedimenti quadro, con standard e verifiche, per consentire poi alle regioni di “concorrere” con lo Stato alla realizzazione di obiettivi unitari a livello nazionale. Diversamente, nella manovra legislativa lo Stato ha occupato tutti gli spazi. C’erano poi i “livelli essenziali delle prestazioni” che sono stati visti tra il diritto allo studio e la valutazione del sistema. Che dire ancora dell’autonomia scolastica, che era fatta salva, ma ancora monca dalle predette normative decentralizzatrici mai effettivamente realizzate.

La bozza di riforma Renzi-Boschi abolisce tutto quanto era indicato sotto la voce delle competenze concorrenti e ridistribuisce in modo diverso le materie . Viene da chiedersi se è davvero meglio rispetto a prima, pur dovendo ragionare su qualcosa di scritto e mai compiutamente realizzato e con qualcosa di nuovo e di vecchio diversamente organizzati che rimane sempre a livello di provvedimento generale-costituzionale, ancora tutto da capire nella pratica. E qui occorre confidare nella velocità del nostro premier e nella volontà politica di arrivare finalmente in fondo alla strada.

Potrebbe sembra un po’ bizantino ma la prima novità compare quando si indica che lo Stato ha legislazione esclusiva sulle seguenti materie e funzioni, mantenendo il compito delle nome generali  sull’istruzione, ma introducendo l’ordinamento scolastico tra le competenze esclusive. Qui c’è da porre una prima domanda: il collegamento delle funzioni con l’ordinamento scolastico nelle mani dello Stato potrà consentire, come è stato per la riforma Gelmini, di praticare un riordino senza tenere conto che compito dello Stato stesso è quello delle norme generali sull’istruzione ? Norme generali poi significa solo obiettivi, valutazioni, e fino a che punto l’indicazione di una struttura scolastica unica per tutto il Paese e obbligatoria per tutti gli alunni ?

Ad un primo colpo d’occhio sembrava più aperta la formulazione del 2001; si rischia di tornare indietro quando il cambiamento avvenuto in questi anni, anche per effetto di una maggiore internazionalizzazione, è andato nella direzione dell’ampliamento delle opportunità e della flessibilità dei percorsi formativi, fino a mettere in discussione il valore legale dei titoli di studio; una visione sempre più integrata dell’education, che va dall’educazione dell’infanzia fino alla longlifelearning, dovendo relazionare sistemi di governo oggi molto diversi tra di loro e legati al territorio, cosa che l’inserimento dell’ordinamento nella Costituzione sembra volersene distaccare.

Le questioni locali, nel bene e nel male, legate soprattutto al rapporto nord-sud d’Italia, devono essere sintetizzate non tanto nell’ordinamento quanto nei “livelli essenziali delle prestazioni” (LEP), che devono integrare anche per l’istruzione con quelli della sanità e dei servizi sociali. Su questo si potrebbe lavorare da subito, proprio perché ci sono già esperienze in detti  settori (1).

Per quanto riguarda le competenze delle regioni c’è un nuovo testo, dal quale emergono innanzitutto le competenze sulla pianificazione e l’organizzazione del servizio. Anche qui, come nel precedente, si fa salva l’autonomia scolastica. Nel 2001 tale affermazione veniva a suggellare “costituzionalmente” quanto introdotto nel 1997 con la predetta legge Bassanini e nel 1999 con il regolamento sull’autonomia funzionale delle unità scolastiche. Ora che anche questi sono rimasti in gran parte lettera morta, il ripeterne l’incipit sembra quasi una presa in giro, e proprio a questo proposito  che deve subentrare la volontà politica per arrivare al completamento dell’autonomia delle scuole vista più nell’ottica dell’autonomia dei sistemi di governo locale che del decentramento statale. Ed allora occorre tenere presente gli effetti sul sistema dell’education territoriale conseguenti all’abolizione delle province, alla costituzione delle unioni/fusioni dei comuni e della distribuzione delle deleghe che all’interno degli organi di governo devono  assicurare una coerente visione ed una efficace azione del sistema nel suo complesso.

Rimane un’altra affermazione sibillina che è tempo però di vedere chiarita e attuata con ciò che ne consegue in termini di assetti istituzionali e di innovazione pedagogico-didattica: la questione dell’istruzione e formazione professionale. Le ricerche sugli apprendimenti e sulla dispersione, il rapporto tra competenze generali e tecniche, gli stage e tirocini, l’assolvimento dell’obbligo di istruzione nell’apprendistato, ecc., mettono in evidenza la necessità di una politica che riunisca gli attuali segmenti: statali, regionali, aziendali, ecc., per realizzare un processo formativo ad hoc, in uno dei passaggi più delicati e decisivi per l’orientamento dei giovani in rapporto con la loro motivazione, i progetti di vita e di lavoro.

Dentro l’autonomia scolastica e la rappresentanza delle scuole autonome (statali e paritarie) e per un proficuo dialogo con il sistema delle autonomie locali occorre riprendere in mano la legge di riforma degli organi collegiali, nell’ottica delle predette norme generali e quindi valide sia per il sistema statale che per quello paritario. Non si tratta più soltanto della partecipazione, come previsto dai decreti del 1974, ma dell’autogoverno. In quest’ottica andrà affrontato il problema della valutazione delle scuole stesse e quello delle risorse finanziarie secondo una prospettiva “multilivello”. Una proposta di legge approvata alla Camera c’è già: si può ripartire di lì.

Il rapporto tra Stato, Regioni ed Enti Locali vive attualmente una sorta di confronto/scontro tra poteri che spesso, come si è detto, si intralciano ritardando o addirittura bloccando provvedimenti, non riuscendo a trovare le necessarie intese, cosa che in primis ha riguardato la stessa applicazione del vigente titolo quinto. Questa riforma propone l’attribuzione di dette funzioni alla neonata “assemblea delle autonomie”, che dovrebbe essere in grado di elaborare dal basso le norme e gli indirizzi creando così una maggiore coerenza e capacità risolutiva.

Un passaggio degno di nota è che la funzione legislativa di esclusiva competenza statale può essere delegata alle regioni o ad alcune di esse, con legge nazionale, anche per un tempo limitato.

Un’ultima considerazione, che pur non potendo essere prevista nella bozza di riforma costituzionale,  costituirà l’asse portante dell’organizzazione istituzionale e operativa, riguarda il rapporto tra decentramento e fisco.  I processi di autonomia territoriale vivono sulla connessione  con la base fiscale, che deve dare responsabilità politica a chi viene eletto localmente.

Si dovrebbe andare oltre la logica dei trasferimenti finanziari verso la periferia, ma regioni e i comuni devono esercitare poteri chiari e ben supportati da un prelievo obbligatorio, che insieme alla fiscalità generale contribuisce a finanziare il servizio; ciascuno per la propria parte pur nella gestione di poteri locali integrati.

In sostanza la riforma costituzionale ribadisce molto di ciò che già si sapeva, anche nei poteri da trasferirsi alla nuova Camera; un passo decisivo in avanti sarà fatto se si metterà mano alla governance: questa è la vera riforma che ancora dobbiamo attendere nel sistema dell’education, che forse non costa tanto e potrebbe far risparmiare, altrimenti la spending review anziché tagliare gli sprechi rischia di tagliare i servizi.

(1)   Gian Carlo Sacchi: Livelli essenziali delle prestazioni nel settore dell’istruzione; in Scienze dell’Amministrazione Scolastica,n.1/2013
Forum delle Politiche dell’Istruzione del Partito Democratico: Idee ricostruttive per la scuola 2010-2012

Per far ripartire la scuola ci vogliono le “larghe intese”?

Per far ripartire la scuola ci vogliono le “larghe intese”?

di Gian Carlo Sacchi

Anche se nel momento in cui scriviamo le larghe intese si sono già ristrette, e chissà quali altri stravolgimenti ci saranno in questo periodo di concitata azione politica, vale comunque la pena soffermarci su quanto è accaduto nel Governo ed in Parlamento a proposito del così detto decreto Carrozza, approvato in tempi brevissimi, se si considerano le lungaggini legislative e senza l’ormai di prammatica voto di fiducia.

Non è che al momento della conversione in legge ci fossero tanti parlamentari presenti, ma tant’è, di questi tempi….; non è che si tratti di una grande innovazione, anzi non c’è proprio niente di nuovo, ma forse tappare i buchi storici è l’unico modo per far approvare la legge senza turbare sindacati e altre realtà sempre pronte ad alzare steccati; non è che ci siano in ballo tante risorse, ma quanto basta per aver fatto dire al ministro che è il primo provvedimento che esce dalla logica dei tagli, prendendo i voti anche di chi ha contribuito a tagliare per troppi anni.

Certo si è trattato di rispettare accordi a monte, ma seguendo il dibattito nelle commissioni parlamentari, viene  da fare qualche altra considerazione di merito, rilevando come deputati e senatori, ieri contrapposti  in modo da sembrare insanabile, abbiano smussato più di un angolo per favorire l’approvazione del provvedimento.

Non si tratta soltanto di un pannicello caldo, ma della condivisione di una linea di fondo, che, come hanno fatto notare alcuni osservatori, conferma un impianto centralista e dirigista del governo nazionale sul sistema scolastico, tornando ad occupare, con quei pochi soldi, tutti gli spazi che timidamente si era in passato cercato di decentrare ai territori ed affidare alle responsabilità professionali.

Una tale impostazione con una mano da e con l’altra (la spending review) toglie, deprimendo i servizi e non contribuendo a smantellare le cariatidi burocratiche. Di piani triennali di assorbimento del precariato poi ne abbiamo sentiti troppi senza esito e quindi anche questa volta si può esprime un certo scetticismo.

Quindi si è capito chiaramente che il problema non sta più nel conflitto tra destra e sinistra, ma tra centro e periferia, con buona pace del nuovo, si fa per dire, titolo quinto della Costituzione e delle politiche liberali, pur con qualche fuga nel privato.

Ancora una volta si conferma che il sistema scolastico non riesce ad emanciparsi dalla politica; con l’autonomia ci eravamo illusi che fosse il sistema stesso a diventare autonomo e non le singole scuole schiacciate tra l’amministrazione statale e gli enti locali e che fossero le professionalità a costituire un punto di riferimento non solo per le prove INVAlSI, ma per la loro capacità di sostenere, mediante la dimensione educativa, la  crescita della società locale e così via fino al livello nazionale, passando per l’assunzione di responsabilità diretta da parte di altri ambiti territoriali. Una nuova governance in tal senso non è infatti solo un problema amministrativo, evoca quella “società educante” di cui si sono perse le tracce, che sembra essere stata delegata ai social network, che non riesce nemmeno a raggiungere per quanto riguarda il nostro Paese l’obiettivo europeo della longlifelearning.  Di questo fa parte una nuova politica del personale, non solo del precariato o di una mobilità rallentata, un passo indietro è il reclutamento dei dirigenti scolastici mediante la scuola della pubblica amministrazione ed uno avanti è l’aver sancito l’obbligo della formazione in servizio dei docenti, ma a rischio risorse.

Di fronte a nuove condizioni, crearle non sempre costa all’erario, anzi forse ottimizza quello che c’è, si potrà spingere sulla leva dell’innovazione dall’interno, che è l’unico modo per realizzare il miglioramento continuo e porre in essere la capacità di elaborazione e di innovazione.

Entrando più in profondità negli emendamenti proposti dalle varie parti politiche, soprattutto alla Camera, dove si è avuto il più ampio confronto, si intravvedono due linee, una più concentrata sul ruolo della scuola istituzione come garanzia di cittadinanza e di uguaglianza delle opportunità e l’altra più diluita su diversi ambiti riconducibili a strategie di tipo formativo, compreso il lavoro. L’alternanza scuola-lavoro, arenatasi ai tempi della Moratti e ridotta a tirocini, ritorna  con la previsione di un regolamento per la definizione dello status giuridico degli studenti impegnati in tali percorsi. Nel sistema di istruzione e formazione si possono acquisire competenze anche mediante attività realizzate in ambito lavorativo con la possibilità di ricavare utili economici per la scuola. Si pensi a quanto già introdotto circa la possibilità di assolvere all’obbligo di istruzione mediante contratti di apprendistato. Alcuni emendamenti avrebbero voluto istituzionalizzarli già dal primo biennio del secondo ciclo.

Abbastanza fuori da una riflessione appropriata sui curricoli appare l’introduzione della geografia negli istituti tecnici e professionali e le solite esortazioni, anche se socialmente rilevanti, sull’educazione all’affettività e la lotta alle discriminazioni. Bene per il ritorno delle compresenza nella scuola primaria e il generale consenso sugli istituti comprensivi, mentre le complicate questioni sui libri i testo e gli e-book, danno come al solito un colpo al cerchio dell’editoria ed uno alla botte della didattica.

Anche la lotta alla dispersione, come l’orientamento dimostrano che le scuole non possono farcela da sole e non con soli controlli o ritornando ad operazioni legate alla compatibilità occupazionale. Si tratta di un grosso investimento pedagogico prima che strutturale e finanziario, che inevitabilmente coinvolge con precise responsabilità attori sociali e politiche territoriali.

Non tutto quanto proposto in sede di emendamenti è diventato legge, anche perché un tale provvedimento non poteva trasformarsi, come capita per quelle rare volte sulla scuola, in un assalto alla diligenza, ma si è potuto verificare che la nuova maggioranza ha fatto registrare un qualche passo in avanti. Si tratta solo di convenienza o qualcosa è cambiato nella cultura politica, almeno per quanto riguarda la possibilità di instaurare un confronto costruttivo. Qualcos’altro a portata di mano per il ministro Carrozza ci sarebbe: l’organico di istituto e di rete, legge del governo Monti e la proposta già approvata dalla settima commissione della Camera, sulla riforma degli organi collegiali, che speriamo sia stata l’ultima occasione per fare le barricate.

Istruzione e Formazione Professionale: Emilia Romagna e Lombardia

Istruzione e Formazione Professionale
Emilia Romagna e Lombardia per Il riordino del sistema nazionale

di Gian Carlo Sacchi

Si è iniziato a porre il problema dell’ istruzione e formazione professionale in termini di riordino istituzionale agli inizi egli anni settanta del secolo scorso con l’entrata in vigore delle Regioni a statuto ordinario alle quali veniva attribuita la competenza prevista dall’art. 117 della Costituzione sulla “istruzione artigiana e professionale”. Fin da allora l’assessore regionale lombardo Filippo Hazon chiese il trasferimento  degli istituti professionali di stato. Fu in quel periodo infatti che per la prima volta si era cercato di portare a sistema mille percorsi formativi organizzati da singoli ministeri e da enti ed associazioni. La politica però non consentì la fusione disquisendo perfino sui termini: istruzione= stato, cittadinanza, ed alle regioni la  formazione, che prendeva cioè la forma dal mondo del lavoro.

Per cercare di dare organicità a quest’ultimo settore fu redatta una legge quadro e su quella base intervenne una miriade di leggi regionali che cercavano di dare risposte alle rispettive realtà territoriali, ma mancavano di un coordinamento e del riconoscimento reciproco  delle qualifiche professionali.

Tale dualismo è in atto tutt’ora sebbene molte cose siano cambiate, a cominciare da una nutrita legislazione europea che noi fatichiamo a fare nostra al di la dei riconoscimenti formali.

Alla base della contesa, aggravata dal lato statale da una difesa dei posti di lavoro dei docenti e da quello regionale dalle corporazioni degli enti di formazione, resta però una diversa interpretazione delle finalità di questo settore, che un po’ radicalizzando si potrebbero individuare nei due ”modelli” regionali, quello lombardo, più incline a corrispondere alle esigenze del mercato del lavoro, e quello emiliano più incentrato sulla formazione generale dei lavoratori. In entrambi i casi tuttavia le Regioni avrebbero preferito il passaggio completo delle competenze statali.

I due canali nel tempo si sono consolidati e ogni tentativo di riforma da una parte trovava sempre la resistenza dell’altra, all’insegna della “pari dignità”, fino ad arrivare al traguardo quinquennale per entrambe, per consentire l’accesso agli studi superiori, accademici e professionalizzanti, ad imitazione dl sistema tedesco.

Una svolta politica  a tutto il settore è stata impressa nel 2000 con il “patto per il lavoro”  che pose in evidenza l’esigenza di una “professionalità arricchita” dalle così dette “competenze trasversali” e di “un’istruzione integrata” con l’attività lavorativa e aziendale. Questa spinta in Lombardia ha visto l’integrazione tutta interna ai curricoli del sistema regionale, mentre in Emilia si è iniziata la collaborazione ra i percorsi formativi degli istituti scolastici e centri i formazione. Le due modalità si diffusero tra le altre regioni, fino ad arrivare in casi in cui erano compresenti.

I modelli rimanevano distinti ma i problemi tendevano ad essere comuni riguardo all’efficacia dei percorsi medesimi al punto che nella regione emiliana aumentarono le “passerelle” tra la scuola e la formazione professionale regionale, mentre in quella lombarda si voleva far adottare  agli istituti statali i curricoli regionali, oltre a ciò vennero rilanciati gli stage aziendali come veri e propri percorsi di “alternanza” tra studio e lavoro e conferita agli istituti tecnici e professionali la competenza di agenzia di collocamento per i propri studenti.

La situazione si è ulteriormente complicata per effetto dell’innalzamento dell’obbligo di istruzione fino a tutto il primo biennio delle superiori, al quale ha corrisposto un nuovo obbligo formativo, chiamato in seguito “diritto-dovere”, fino al conseguimento di una qualifica professionale almeno triennale. A livello statale è seguito lo sviluppo quinquennale degli istituti professionali (2+2+1) e nei percorsi formativi regionali si vuole arrivare al diploma professionale quadriennale e si sta sperimentando un quinto anno per poter accedere agli istituti tecnici superiori.

L’avvio di questa complessa macchina non poteva che avvenire in maniera sperimentale recuperando i percorsi integrati, ma in modo diverso: nel caso emiliano in maniera più stretta interessando i curricoli formativi, mentre nel caso lombardo si parlava di collaborazione tra i due sottosistemi. Da qui sembrava sancito in via definitiva il “doppio canale” all’italiana, ma gli “organici raccordi” tra i due segmenti conferirono di nuovo agli istituti professionali la possibilità di far conseguire la qualifica triennale pur attribuita in via esclusiva delle regioni dalla riforma dell’art. 117 della Costituzione.

Due percorsi che con enormi complicazioni burocratiche e dispendio di risorse comunicano con grande fatica pur avendo, come si è detto,  gli stessi problemi in termini di tipologia di utenza e di esiti di apprendimento. Nel tempo è stato aperto un terzo canale: l’assolvimento dell’obblio di istruzione anche all’interno dell’apprendistato.

Un punto in comune finalmente è stato acquisito a livello nazionale: gli standard per le qualifiche, che ormai rieccheggiano le competenze europee, in modo da favorire la circolazione delle qualifiche medesime.

UN PROBLEMA PEDAGOGICO

Pur in presenza di un raddoppio delle risorse ed un dimezzamento dei risultati il problema politico delle “convergenze parallele” sembra insuperabile. In Italia tale doppio canale proprio non assomiglia a quello tedesco, sia in termini di investimenti pubblici e privati, sia quanto a considerazione sociale. Il nostro è un canalino marginale, poco utile anche alle imprese quanto ai risultati formativi, che non valorizza adeguatamente i crediti,  è certamente benemerito sul piano dell’inclusione, ma ghettizzato rispetto agli altri indirizzi scolastici.

A differenza della Germania manca una tradizione culturale e pedagogica rispetto al valore del lavoro come momento formativo prima ancora che utilizzo lavorativo. Dalla riforma della scuola media unica, che aveva unificato quella del latino con quella del lavoro, l’avviamento professionale, attraverso una nuova disciplina, le Applicazioni Tecniche, ci si sarebbe aspettato una generalizzazione di questo aspetto, in modo da incidere anche sull’orientamento. La nostra tradizione culturale tuttavia ha trasformato tale insegnamento, fino a chiamarlo tecnologia, in un’analisi teorica del mondo del costruito ed in una progressiva capacità di adattamento alla nuove tecnologie, mentre le scelte degli indirizzi di studio avvenivano sia da parte dei docenti che dei genitori sulla base delle condizioni sociali e di una gerarchia di valori formativi che consideravano la nostra tradizione culturale, fino ad indirizzare, cosa che avviene tuttora, gli italiani verso i licei e gli immigrati verso l’istruzione professionale.

Anche i tirocini in azienda sono diretti soprattutto a verificare quanto di teorico appreso a scuola, rispetto soprattutto all’attività produttiva, mancano altri importanti aspetti legati all’ambiente, ad una capacità riflessiva ed imprenditoriale. I rapporti tra curricolo scolastico e policentricità dei luoghi formativi sono ancora molto distanti dall’essere compresi e valutati in modo complessivo nel percorso formativo.

Le linee guida degli istituti professionali prevedono una certa flessibilità nella gestione del curricolo, ma poi non vengono forniti i docenti per metterla in atto; si dice di collaborazione tra i due segmenti ma poi le due burocrazie sono inconciliabili e tutto questo rende ancora più difficile le condizioni di agibilità per un utente già problematico e spesso a rischio di dispersione.

Anche le diverse modalità di valutazione in atto certo non aiutano un’analisi degli apprendimenti che hanno bisogno di essere traferiti in maniera a volte diretta nel mondo del lavoro, rappresentando cosa sa fare l’individuo più che accumulare punteggi in vista del titolo di fine percorso.

In questo settore dunque, tra istruzione-formazione e lavoro, c’è il massimo delle opportunità, la base per una vera formazione permanente, ma anche il massimo del rischio per l’intero sistema Paese.

PROPOSTE

Si ha l’impressione che il complicato meccanismo istituzionale debba garantire di più chi eroga il servizio in entrambi i canali che non l’utente; la già ricordata pari dignità fa si che venga ogni volta rafforzata l’autonomia di entrambi, piuttosto che favorire la collaborazione e perché no la riorganizzazione dell’intero comparto alla luce della riforma del titolo quinto della Costituzione che introduce un nuovo concetto: “istruzione e formazione professionale”, che si sa essere di competenza esclusiva delle regioni, ma non si sa cosa contenga, o meglio ognuno ci mette quello che vuole.

Vista sempre di più dal versante lavoro, che in un periodo di crisi quale quella in cui viviamo sembra l’ottica prevalente, le risorse vengono spostate dal sistema al soggetto; le istituzioni che dovrebbero garantire i diritti dei cittadini rischiano di passare per inutili sovrastrutture e ciò che è in atto con la spending review sembra dar ragione ad una visione piuttosto individualista di fruizione del servizio aderente  alla logica più flessibile dei voucer e dei crediti piuttosto che all’impianto rigido dei corsi e dei titoli.

Il momento di crisi può essere tuttavia propizio per superare, con risorse inalterate, la separatezza e la rigidità di questi due pezzi del sistema che per la loro posizione strategica sia del rischio che delle opportunità possono imprimere una vera svolta per la qualificazione del sistema stesso.

Una serie di azioni politiche e pedagogiche coordinate, con strumenti già presenti nel nostro ordinamento, aiuteranno un cambiamento che risiede i particolar modo nella governance.

Innanzitutto si tratta di dare consistenza a questo contenitore dell’istruzione e formazione professionale attraverso una nuova grande area che accomuni i due settori, di competenza esclusiva delle regioni, con un governo  che a livello nazionale vede un’intesa con lo Stato, il quale, secondo il predetto titolo quinto della Costituzione, che deve essere ancora applicato, dovrebbe definire i “livelli essenziali elle prestazioni” per garantire i diritti dei cittadini e valutare i risultati.

Una grande area parte da quello che c’è, istituti professionali statali e enti di formazione, con una programmazione regionale ed una gestione sotto forma di “fondazioni”, secondo un sano principio di sussidiarietà, come previsto per gli Istituti Tecnici Superiori ai quali ci si viene a collegare per la formazione terziaria. Ciò consentirà tra l’altro di mantenere l’obbligo di istruzione e il diritto-dovere, attraverso curricoli che abbiano  un’intesa a monte: Stato-Regioni-Unione Europea sugli standard per le qualifiche ed una alternanza tra suola e impresa con crediti utili anche per il raggiungimento dei traguardi finali.

Riprendere il discorso sulla pedagogia del lavoro a livello di formazione generale nel primo ciclo, non solo per i potenziali drop out, ma per tutti, utilizzando gli spazi previsti dalle apposite recenti indicazioni nazionali, in modo da sostenere l’orientamento verso questo tipo di indirizzi, ma soprattutto il mix di competenze generali e professionali sempre più necessarie per il lavoro stesso di cui i nostri alunni risultano sprovvisti.

Tutto questo ha bisogno di una profonda riflessione sulla didattica e la formazione dei docenti. Si tratta infatti di mettere al centro del processo di apprendimento l’operatività, in un’ottica di laboratorio interno alla scuola e di valorizzazione di diversi luoghi che concorrono alla formazione, secondo quanto la letteratura ci indica sulla “pluralità delle intelligenze”, l’analisi della complessità, gli elementi di relazione ed organizzazione. Una didattica “per competenze” per la costruzione di curricoli flessibili, modulari, adattabili e personalizzati ed una valutazione secondo la logica dei crediti, importante per impostare la long life learning.

Una governance del personale, concordata anch’essa tra stato e regioni e gestita a livello di queste ultime, con organici di istituto/fondazione/rete, per un curricolo così detto di base, con la possibilità di assumere direttamente per quelle attività che sono tipiche del piano dell’offerta formativa.

Sarà quindi giunto il momento di mettere fine alla guerra fredda dei due modelli che ormai sono più sulla carta che nella realtà, per un reale ammodernamento del sistema scolastico-formativo e del Paese.

Liberiamo la scuola

Liberiamo la scuola

di Gian Carlo Sacchi

Ancora una volta Andrea Ichino, non nuovo a questo tipo di proposte, butta il classico sasso in piccionaia, ma forse si sa già che dopo un movimento d’aria dettato dal battito delle ali tutto tornerà come prima, come è accaduto da quarant’anni a questa parte e per numerose iniziative di questo genere.

Con “liberiamo la scuola” un ebook dei Corsivi del Corriere della Sera il mondo accademico, che magari farebbe bene a dirci se vogliamo liberare l’università prima che venga abbandonata dai figli della crisi, ci suggerisce un doppio canale nel governo del sistema scolastico: quello solito ed uno fatto di scuole autonome che vogliono uscire da questo immobilismo eterodiretto, per mettersi sul mercato, ponendo in relazione le iscrizioni con i risultati degli apprendimenti, passando attraverso la valutazione ed un’assoluta flessibilità nella gestione del personale.

Prima di entrare nel merito delle diverse indicazioni, corre l’obbligo di soffermarci sul valore che deve essere dato alla parola autonomia, leit motiv di oltre un quarantennio, evocata in tutti i provvedimenti, perfino nella revisione della Costituzione e poi affossata immancabilmente nella loro applicazione: com’è noto già si parla di rivedere nuovamente la carta costituzionale, quanto il più recente titolo quinto, convalidato da un referendum popolare, giace e nessuno degli interessati muove un passo concreto, al di là di ricorrenti documenti di intenti, per la sua applicazione. Ma qui si potrebbe andare alla riforma della pubblica amministrazione, degli enti locali, alla Conferenza Nazionale sulla Scuola e su su fino ai decreti delegati, ai distretti scolastici, che potevano essere definiti gli antesignani di quello che poi si sarebbe  chiamato federalismo.

Insomma prima di arrivare ad Ichino ci sarebbe da mettere a posto il quadro di riferimento, cioè le garanzie costituzionali per tutti i cittadini, che oggi si potrebbero chiamare “livelli essenziali delle prestazioni”, sui quali poi innestare quella che è la vera riforma della scuola, cioè quella della governance, alla quale chiaramente anche Ichino fa riferimento, ma che in sostanza nessuno vuole: non l’apparato statale che vuole mantenere la gestione diretta del sistema, non i sindacati che così mantengono un potere contrattuale nei confronti del governo centrale, nemmeno le regioni che temono che il federalismo venga fatto a loro spese, come dimostra l’annuale e annosa trattativa sulla ripartizione del fondo per la sanità.

Dell’autonomia questa rubrica ha registrato anche i sospiri in questi ultimi anni, cerando di cogliere gli auspici delle diverse parti politiche, che poi anche per effetto del loro alternarsi al governo non sono mai stati pienamente realizzati. Cosa ci riservano le larghe intese ? Per ora nulla: questo ministro è nelle stesse ristrettezze di quello precedente, create da quello ancora precedente, che oggi è di nuovo al potere e chiede maggiori risorse per la scuola. Potrebbero essere questi “corsivi” a consigliare il ministro Carrozza ? In fondo Ichino non chiede tanti soldi, ma pone degli obiettivi già noti e mai condivisi in passato in modo tale da arrivare ad una maggioranza.

L’ultimo test lo si è avuto con l’approvazione alla Camera, in modo bipartisan, del disegno di legge sulla governance degli istituti scolastici, che tutti ritengono indispensabile, proprio a sostegno dell’autonomia, ma che nessuno voleva a quel modo. Alla destra è stata sottratta la scuola “fondazione” ed alla sinistra la  rappresentanza sociale, alla ricerca di un’autonomia di “sistema” ma più efficiente ed efficace.

Insomma in Italia abbiamo sempre voluto tenere un sistema a due velocità, che non mettesse mai in pericolo completamente il centralismo burocratico-sindacale, e che cercasse comunque di non lasciarsi sfuggire gli stimoli del cambiamento, soprattutto per ciò che riguarda le ricadute sul sistema scolastico e formativo del mutare delle condizioni socio-economico-culturali.

Ed anche questa nuova proposta vuole liberare la scuola, ma non del tutto, solo una parte, attraverso una sperimentazione pluriennale, che potrebbe anche concludersi con un ritorno all’antico. Sperimentare dunque, in corpore vili, del resto è l’unica strada per innovare di fronte ad un totale immobilismo politico; è la sperimentazione la norma più azzeccata del nostro ordinamento, che consente a chi vuole andare avanti di farlo per un po’ e a chi vuole tornare indietro di considerare gli sperimentatori visionari, revocando le autorizzazioni. Si perché per sperimentare un sistema che deve garantire il valore legale del titolo di studio richiede un provvedimento ministeriale. E chissà perché nella storia della sperimentazione in Italia non se ne sono avute di quelle legate appunto alla governance ?

Qui vorremmo riprendere le indicazioni di Ichino quando parla di un “sistema di scuole autonome”. Perché il problema non sono le fughe in avanti, ma le condizioni generali, quelle indicate dal nuovo art. 117 della Costituzione; del sistema dove tutte le scuole possono essere autonome ed avere adeguata rappresentanza negli organismi politici nazionali, regionali e locali.  Un tale sistema non va riempito solo di burocrazia ministeriale o sindacale, ma prima di tutto di cultura dell’autonomia, quindi si tratta di far avanzare contemporaneamente sia il versante organizzativo, sia quello pedagogico.

E’ il file rouge dell’autonomia che passa dall’istituzionale al curricolare ed al professionale: responsabilità ai docenti nelle scelte didattiche, curricoli più flessibili e personalizzati per gli allievi. Mentre è dunque indispensabile l’organico funzionale di istituto, è proprio utile mettere sulle spalle delle scuole l’assunzione del personale, quando i requisiti grosso modo sono gli stessi? Avendo sotto gli occhi certe conclamate inadeguatezze si crede davvero che il decentramento del reclutamento vi possa ovviare, stante la preparazione fornita da queste università ? O  forse non sarebbe meglio dare luogo a tirocini che possono trasformarsi in contratti a tempo indeterminato ?

Ancora è con l’autonomia che si può arrivare ai risultati, da valutare, confrontare, sui quali riflettere ed  intervenire per migliorare. Interessante la partenza del progetto VALES, anche se nel suo procedere lo si vede sempre più ristretto sul versante burocratico che non aperto su quello del bilancio sociale.

Si è sperimentato che “una scuola uguale per tutti non è equa”, ma qui bisogna intendersi: non è con una scuola del minimo, di cui si parla nel testo, ed una del più che si migliora la situazione. Il minimo riguarderà semmai le competenze generali che tutti gli alunni della Repubblica dovrebbero raggiungere; da qui nasce il di più che prima che al mercato è legato al territorio: la scuola deve poter pensare globalmente ed agire localmente. Ed è ancora nella governance che si annida la mancanza di equità e che poi si esprime in termini di successo formativo. E qui arriva il problema del finanziamento, che deve essere messo in relazione al federalismo fiscale, in un’ottica di multilivello. Le scuole a loro volta hanno autonomia finanziaria e si può potenziare la defiscalizzazione della contribuzione privata. Forse sarà meglio porre in relazione le risorse economiche ai suddetti livelli essenziali piuttosto che ai risultati: è fondato ritenere infatti che finanziando il diritto si incida anche sul raggiungimento del risultato.

Sarà ben difficile che il nostro “corsivo”, agendo a valle di un sistema che non vuole cambiare nella testa, possa produrre qualche risultato, ma i problemi della governance hanno bisogno di urgente attenzione, altrimenti la scuola continua nella sua spirale recessiva. I modelli ai quali Ichino si riferisce non hanno una visione ideologica dell’autonomia, diversamente da noi dove ricompaiono sempre i fantasmi delle così dette scuole di tendenza, una sussidiarietà che fa il pari con privatizzazione, fino ad arrivare al recente referendum bolognese, ignaro di una ormai diffusa concezione post-ideologica.

A proposito di sano riformismo si vorrebbe consigliare la lettura del volumetto “idee ricostruttive per la scuola” redatto al termine dei lavori del forum per le politiche dell’istruzione del Partito Democratico. E’ un altro esempio di grida manzoniana, che pur essendo stato prodotto più vicino alle stanze del potere rischia di andare ad abbellire gli scaffali della storia della scuola italiana.

I due volumi, che si occupano principalmente di governance appunto, potranno tornare a dialogare solo se la politica si vorrà assumere il compito di indirizzo superando i condizionamenti del circolo vizioso burocratico-sindacale pronto ad entrare in azione con qualunque maggioranza, figuriamoci quella che non c’è.

Autonomia va cercando

Autonomia va cercando

di Gian Carlo Sacchi

La debolezza della politica scolastica in questo periodo è sotto gli occhi di tutti. La struttura del sistema rimane sempre la stessa ma viene svuotata dall’interno; ci sono i vincoli per tutti ma non le risorse per poterli praticare, mentre sono i territori, per non dire a volte solo le famiglie, che devono sempre di più assicurarsi il diritto allo studio senza poter intervenire per conferire maggiore equilibrio tra le domande del territorio stesso e le risposte sempre più affannose e inadeguate che vengono dal centralismo burocratico.

Alcuni documenti comparsi in questi ultimi tempi che cercano di andare oltre la routine e i soliti slogan che anche nella recente campagna elettorale ci hanno cosparso di tecnologie e di demagogiche promesse ai precari, tornano a parlare seppure in modi diversi di autonomia e flessibilità dell’organizzazione scolastica per poter dialogare efficacemente con la società in trasformazione.  I segnali sono contraddittori, partono dal richiamo ” all’autonomia responsabile”, affermazione adottata dal governo Monti, in cui però si fa prevalere l’aggettivo sul sostantivo, sotto la minaccia della valutazione.

Non viene sostenuta infatti l’autonomia delle scuole e dei sistemi formativi territoriali , a cominciare dall’applicazione del nuovo (2001) titolo quinto della Costituzione, rimasto fin qui lettera morta; è dall’incentivare l’iniziativa locale che si avrebbe come contropartita il rendere conto del raggiungimento dei comuni obiettivi nazionali: una valutazione senza autonomia non migliora il risultato, rischia di portare le già gracili istituzioni scolastiche al collasso. Sembra una contraddizione promuovere l’autonomia con la valutazione come è detto nel recente regolamento approvato dal Consiglio dei Ministri; se non si può agire è difficile sperimentare la responsabilità e poter decidere da ciò che appare come criticità la realizzazione di un piano di miglioramento.

Sia che sia auto, sia che sia etero valutazione il problema è quali margini di manovra ha il soggetto valutato per migliorare. Avere persone esperte che vanno nelle scuole, interagiscono con il personale, consigliano interventi migliorativi, ben vengano se sono guidati dalla competenza, dalla ricerca educativa ed hanno a loro volta autonomia culturale e professionale, cosa che non si può dire fin qui di chi le recluta e fornirà loro gli indirizzi di lavoro.

L’Europa ci bacchetta perché non abbiamo un servizio nazionale di valutazione, ma in molti Paesi esso è indipendente dalla burocrazia ministeriale; quest’ultima da noi governa direttamente il sistema, a cominciare dai dirigenti scolastici, con buona pace di chi teorizza una loro leadership educativa, e non si limita, come invece prevede la Costituzione, ai Livelli Essenziali delle Prestazioni, che sono ancora di la da venire. Siamo passati dal controllo degli adempimenti (ispettori) al controllo dei risultati (INVAlSI), ma la regìa è sempre la stessa, anzi si amplia anche nella direzione del controllo dell’innovazione (INDIRE).

Altro che “rendicontazione sociale”, la comunità dovrà limitarsi a leggere delle statistiche, rimanendo in attesa che qualcosa cambi, ma senza sapere bene per opera di chi;  spendere un ingente patrimonio per fare diagnosi forse non serve, anche se il decreto ne sembra convinto, a superare l’attuale crisi economica.

Se si esce dall’autoreferenzialità si nota che le analisi condotte dal Ministro Giarda su alcuni settori della spesa pubblica, ma non è il primo documento di Pietro Giarda in tal senso, portano alla necessità di allineare i sistemi di governo di sanità e istruzione, decentrando evidentemente quest’ultima, in modo che anche i rapporti finanziari centro-periferia possano essere a loro volta allineati. La maggior parte del gettito dell’IMU, e gli orientamenti del federalismo fiscale, ribadisce il documento del ministero per i rapporti con il parlamento, dovrebbe tendere in modo significativo  all’istituto della compartecipazione, mentre oggi la parte prevalente (oltre il 60% delle spese) è assicurata dal trasferimento statale.

I pronunciamenti dei “saggi”, che dovrebbero costituire una sorta di programma per il nuovo governo, rimarcano il varo da parte della conferenza stato-regioni del decreto sui suddetti Livelli Essenziali, così come confermano per il settore dell’istruzione la formulazione del nuovo art. 117 della Costituzione per quanto riguarda le “competenze concorrenti”, anche se è ben presente il rischio di produrre diseguaglianze nelle divere parti del Paese (ma il centralismo sin qui non ha assicurato l’equità). Giarda parla di “una burocrazia dispersa a governare  un esercito di più di un milione di dipendenti pubblici che operano in strutture tecnologicamente molto arretrate”.

La Costituzione stessa prevede la “sussidiarietà verticale”, ma un conto è il necessario intervento perequativo, un altro è un’autonomia che all’inizio poteva essere anche accompagnata ma che di fatto è stata irretita.

E’ interessante vedere come sempre il gruppo che si è occupato delle riforme istituzionali abbia ripreso la tematica della riforma della finanza locale, con la motivazione che proprio la crisi economica potrebbe “costituire la ragione per esaltare le ragioni del federalismo fiscale . Questa riforma (L. 42/09 e successivi decreti applicativi), infatti, rafforza la responsabilità delle autonomie territoriali nella gestione dei propri bilanci (il contrario di quanto sostenuto nel decreto sulla valutazione) a partire da una ripartizione delle risorse pubbliche tra tutti i livelli di governo  e tra enti decentrati ispirata a criteri di equità  e di efficienza. La riforma, è opinione dei saggi, non va lasciata nel limbo, va invece ripresa come componente essenziale  delle politiche per il rilancio del Paese”.

Un documento del tutto nuovo rispetto alle tradizioni ministeriali è quello relativo alle norme tecniche di funzionalità edilizia e urbanistica. Si parla di superamento della centralità dell’aula e di una scuola come luogo integrato di microambienti per attività differenziate; di un principio di autonomia di movimento per lo studente. Qui il docente non ha un posto fisso, si muove tra vari tavoli per facilitare l’apprendimento; una diversa organizzazione degli spazi dovuto soprattutto all’uso delle tecnologie.  L’adattabilità di detti spazi si estende anche all’esterno, offrendosi alla comunità locale: la scuola si configura come un civic center in grado di fungere da motore del territorio e di valorizzare istanze sociali, formative e culturali.

L’aula moderna non è l’unico spazio e non è centrato sul docente, ma uno dei tani spazi di un percorso di apprendimento centrato sullo studente. Atelier, laboratorio in cui gli studenti possano muoversi in autonomia; diversificazione delle occasioni formative anche con funzioni individualizzanti. Spazi per apprendere in modo informale, relazionale, di ricerca per i docenti, biblioteche, archivi, centri di documentazione; cucine, caffetterie e zone relax.

E’ vero che le Indicazioni Nazionali per il curricolo nei vari gradi scolastici fanno frequente riferimento ai laboratori e ad una didattica attiva, ma definire l’aula un non luogo va ben oltre una questione metodologica interna all’agire didattico; l’autonomia dello studente in un’ottica di personalizzazione dei percorsi formativi richiede autonomia della scuola per poter vivere il suo ruolo, come è definito, di civic center.

Quando ci saranno le condizioni per poter operare una simile riconversione non si venga a dire che bastano le tecnologie per realizzarla. Anzi, queste ultime permetteranno e richiederanno  una organizzazione diversa degli spazi di apprendimento, nell’ambito di una strategia “costruttivista” se verranno abbinate ad una nuova governance degli istituti e ad un loro più deciso ruolo nella realtà territoriale.

Pur muovendo da situazioni e da posizioni diverse si arriva sempre lì, a ridiscutere del problema dell’autonomia; una svolta in tal senso tanto invocata potrebbe sistemare tante cose, di carattere pedagogico, economico, organizzativo e sociale. E’ quello che il nuovo governo può fare a legislazione invariata.