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Fare scuola in un mondo che cambia

Presentazione del libro

Fare scuola in un mondo che cambia
Riflessioni e strumenti per chi dirige e per chi insegna
di Rita Bortone

interventi di:

Venerdì 5 giugno, ore 17.00
Polo Professionale L. Scarambone
via Dalmazio Birago, 89 – Lecce

locandina DEFINITIVA







G. Sapienza, L’arte della gioia

Goliarda Sapienza, L’arte della gioia
Einaudi, Torino 2008

di Mario Coviello

 

artedellagioiaMi ha fatto compagnia dall’inizio di quest’anno il romanzo “L’arte della gioia” di Goliarda Sapienza. In 511 pagine l’autrice ci fa vivere con Modesta “una carusa tosta”, che attraversa la storia del Novecento fino agli anni della ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale, in una Sicilia, viva, vitale, sanguigna, umorale come lei. Modesta è sempre affamata di vita, d’amore. Impara a diventare amica generosa,madre affettuosa,amante sensuale, da povera sa diventare ricca,da ignorante sapiente. E non rinuncia mai alla sua essenza di donna, combatte per rimanere se stessa, contro gli uomini e le donne che incontra e la società che la vogliono limitare,costringere. Ama profondamente e con passione uomini e donne ed è sempre capace di ricominciare, coltivando l’arte della gioia, in corsa per il mondo, che la ostacola, ma non la vince, e dal quale spreme ogni possibilità di piacere, senza sottrarsi al dolore e alla perdita. Modesta: una donna vitale e scomoda, potentemente immorale secondo la morale comune.

L’arte della gioia è un romanzo sfrontato, profondo, vitale, pulsante, vero. È un corpo contundente con il quale Goliarda Sapienza intendeva colpire e scuotere dal torpore la società letteraria e intellettuale italiana.

L’arte della gioia è un libro postumo: giaceva da vent’anni abbandonato in una cassapanca e, dopo essere stato rifiutato dai principali editori italiani, venne stampato in pochi esemplari da Stampa Alternativa nel 1998. Ma soltanto quando uscì all’estero – in Francia, Germania e Spagna – ricevette il giusto riconoscimento.

goliarda_sapienzaGoliarda Sapienza è insieme a Sibilla Aleramo la più trasgressiva scrittrice del ‘900. Racconta di lei Dacia Maraini  “Sempre senza soldi, aveva un rapporto col mondo da zingara girovaga e festosa. Continuava a dividersi fra la disperazione e l’entusiasmo. I suoi libri portano l’impronta di una straziata e tenera sicilianità: il suo linguaggio ricco, fastoso, tende ad un lirismo barocco tutto sensualità e dolore”.

Nella vita “scandalosa” di Goliarda non manca il carcere per un furto di gioielli; attrice prima che scrittrice, Goliarda ha lavorato anche per il cinema, da Blasetti a Comencini, da una piccola parte in “Senso” di Visconti ai film di Citto Maselli, di cui è stata compagna per 18 anni, abbandonando poi il mestiere per dedicarsi al romanzo della sua vita.

Una volta diventa ricca, Modesta dice a se stessa: «no, non sarei diventata l’impiegata del mio patrimonio». Durante un dialogo tra uno dei suoi amanti e Modesta si ha l’opportunità di leggere queste battute: «- Tu sei ancora innamorata di quell’uomo! – Non di quell’uomo, Carlo, ma dell’accordo fisico che c’era tra di noi quando facevamo all’amore. – Diventi volgare, Modesta. – Per te tutto quello che è vero è volgare»

«C’è un limite preciso nell’aiutare gli altri. Oltre quel limite, a molti invisibile, non c’è che la volontà di imporre il proprio modo d’essere».

“Ci sono dei libri che ti restano appiccicati addosso. Che penetrano nella tua vita, fin dentro la trama dei pensieri, nelle letture che farai in seguito e filtrano nella tua scrittura, anche contro il tuo volere. “L’arte della Gioia” di Goliarda Sapienza è uno di questi libri”, ha scritto Chiara Mezzaluna. Con lei vi consiglio vivamente di non perdere questa occasione di vita.

J. Nash, I giochi linguistici e matematici

“I giochi linguistici e matematici” di John Nash

Nota essenziale di Gianfranco Purpi

E’ morto tragicamente e fortuitamente il matematico John Nash, che ispirò il film sublime ed epocale: ‘A Beautiful Mind’ –
…Aveva 86 anni ed è scomparso a causa di un incidente stradale in New Jersey, in cui è morta congiuntamente la sua carissima moglie di una vita.
…E “i giochi linguistici e matematici” di John Nash…saranno sempre ,…in prospettiva di originalissimo strutturalismo e di teoria problematicistica dei sistemi diacronici/sincronici …,l’emblema delle epistemologie teoretiche e dialettiche di ogni Logoi e Topoi da “storicismo simbiotico alle essenze tutte di ogni ontologia dell’Essere e…,allo stesso tempo,in quanto gnoseologia dell’esistenza”,…per lo stesso motivo…impregnate di monismo immanentistico e di terapia schizoide…”da vera euristica linguistica e di sintassi esistenziale della salute mentale semiologica deduttivistico/induttivistica,…da esorcizzazione di ogni delirio sublimante in prospettiva di creatività logicizzante e di cibernetica della Ragione operazionale/rappresentativa in orizzonte di ulteriorità d’eccedenza metaculturale”!
…Di razionalizzazione scientifica fondata sulla prospettiva dell’equilibrio delle visioni economicistiche/matematizzanti e fisiche,… e della fondazione olistica del concetto di persona in orizzonte di integralità di paideia dell’essenza e dell’esistenza antropologicamente simbolizzanti e schematizzanti in geniali processi di accomodamento/assimilazione di dinamiche progressive della relazionalità di ogni variabile universalizzante terrestre;…ancorchè,assieme,…di un umanesimo della compossibilità delle ipotesi antropocentriche/socioloche/psicologiche…di ispirazione da “ésprit gestaltico pascaliano e cartesiano”…(id est,…IN CHIAVE di sperimentalità e gestaltica rappresentazione interdisciplinare/transdisciplinare,…speculativamente  logica e intuizionista , nello stesso tempo e per lo stesso motivo,…entro una dignitante neokantiana filosofia cristiana e criticistica dell’amore sempre focalizzato e ricercato/bramato in quanto prassi oblativa e intimistica trascendentale onnilateralità di  Pubblico e di Privato ,…”erga omnes”!)…
…Il film incarnante e sceneggiante la vita del Nostro e i suoi affetti…e la sua storicità sempre irriducibile e trascendentale,…si dovrebbe far vedere in tutte le scuole …ed a chiunque partecipa da Politico dell’educazione …alle razionalizzazioni statuali di ogni Ratio di Vita Pubblica e Privatistica…legiferante e governante!

R. Bortone, Fare scuola in un mondo che cambia

Rita Bortone, Fare scuola in un mondo che cambia
Riflessioni e strumenti per chi dirige e per chi insegna
ISBN 9788894043242, 432 pagine, Nike, 2015

rita

Prefazione

Parte prima
La scuola in una società che cambia: contesti e responsabilità, problemi e prospettive

Dirigere la scuola in una società che cambia
Esiti e processi formativi: responsabilità e azioni del dirigente scolastico
Condividere un’idea di scuola
La scuola contemporanea: conservazione della modernità o annuncio della barbarie?
Per una funzione termostatica della dirigenza
Le responsabilità del primo ciclo
Un’etica per l’autonomia
Una scuola lenta in un mondo che corre
Educare alla ricerca ai tempi di Internet
Lettera di una Preside ai nuovi Dirigenti

Parte seconda
Indicazioni e Riordino, curricolo e competenze: formazione per una cittadinanza attiva

Attraversando le Indicazioni per il primo ciclo: quel che resta degli scontri
La scuola del Riordino: competenze e dintorni nei nuovi Istituti Tecnici e Professionali
La scuola del Riordino: la domanda dei Licei
Il curricolo fra verticalità e trasversalità
Curricolo e cittadinanza
Un curricolo situato
Questioni di competenze, di disciplinarità, di interdisciplinarità
Competenze e prestazioni di realtà
Sviluppare competenze o preparare agli esami di stato?
E se ricominciassimo a parlare delle conoscenze?

Parte terza
La progettazione e la valutazione

La progettualità, condizione di esercizio dell’autonomia
Progettare: questioni di forma e di sostanza
Progettare il curricolo d’Istituto: trasversale e disciplinare insieme
Riordino: come cominciare
E adesso, il recupero!
La valutazione: Indicazioni e problemi
In uscita dall’obbligo: come certificheremo?
Un modello di certificazione delle competenze per la scuola del primo ciclo
Appunti e noterelle sul miglioramento degli esiti formativi

Parte quarta
La professione docente

La centralità della didattica
Per ‘governare l’esperienza’, pensiero critico
Didattica per le competenze: ma la competenza didattica?
Intellettuali o manovali?
Leggere non è più di moda?
Quando progettare è una gioia
Un piano triennale di formazione


 

Prefazione

Molte volte mi è stato chiesto di raccogliere le mie mille carte e chiacchiere formative e di delineare in maniera organica la mia idea di scuola, maturata negli anni attraverso la riflessione e l’esperienza di preside e di formatrice.
La scuola pubblica ha rappresentato, e rappresenta tuttora, non solo una mia grande passione, ma anche lo spazio attraverso il quale ho espresso il mio impegno sociale e politico: il più delle volte dunque ho vissuto le scelte professionali come strumenti della mia caparbia e forse ingenua (o arrogante?) determinazione a contribuire, in accordo o in disaccordo con le riforme via via intercorse, al miglioramento del sistema d’istruzione.
A raccogliere le mie mille carte e chiacchiere formative e a dare ad esse una organicità di pensiero non sono ancora riuscita. Ma con pretese molto più modeste mi limito, in questo volume, a raccogliere gli articoli da me scritti in circa quindici anni di collaborazione con la rivista Scuola e Amministrazione.
Anche questa è una vecchia idea, accarezzata molte volte con l’intento di regalare ai miei figli (qualora mai lo dovessero desiderare!) la possibilità di leggere gli scritti di una mamma disordinata, che per decenni ha confusamente distribuito i suoi pensieri tra riviste ed appunti.
Mi sono imposta di concretizzarla quando si è cominciato a parlare del concorso per la dirigenza e del concorso a cattedra, e quando ho considerato che i miei articoli potevano forse costituire un utile patrimonio di stimoli, di riflessioni e di strumenti anche per aspiranti dirigenti e docenti.
Gli articoli raccolti non sono tutti quelli che ho scritto. Alcuni li ho eliminati perché troppo legati al contesto in cui erano nati, altri li ho accorpati perché trattavano tematiche affini, pur se affrontate in tempi diversi. Le quattro parti del volume raggruppano comunque gli scritti secondo chiavi di lettura adottate oggi.
In molti articoli ho conservato, oltre agli argomenti di interesse attuale, che sono la gran parte, alcuni brevi elementi riferiti al contesto politico in cui sono nati: mi sembra che possano costituire per il lettore interessanti richiami alla storia recente e possano arricchire di significato la lettura.
A prima vista apparirà che alcuni degli articoli si rivolgano privilegiatamente ai dirigenti, e altri privilegiatamente agli insegnanti. In realtà si muovono tutti nello spazio culturale e professionale che a mio avviso dovrebbe costituire oggetto della comune ricerca didattica e organizzativa di dirigenti e insegnanti.
Si tratta comunque, pur sempre, di scritti nati volta per volta su argomenti dettati dagli eventi o da bisogni segnalati dalle scuole in fase di interpretazione e attuazione di norme e riforme. Il volume, nonostante il lavoro di accorpamento e di connessione, presenta pertanto i caratteri della non esaustività, della discontinuità, a volte della ripetitività di concetti e formule linguistiche.
Poiché gli articoli hanno carattere illustrativo, tecnico o politico, più che scientifico, anche i riferimenti bibliografici restano episodici e non sistematici.
Questa raccolta viene dunque alla luce. E viene alla luce in un momento di particolare drammaticità per la scuola italiana. Oggi, 5 maggio 2015, mentre scrivo questa prefazione, le piazze d’Italia sono piene di insegnanti che manifestano il proprio dissenso nei confronti di una idea di scuola (la cosiddetta buona scuola del governo in carica) che a molti sembra minare le fondamenta di una scuola pubblica democratica.
Non è certo questo lo spazio per analizzare il precario stato di salute della scuola italiana o le ragioni che si scontrano nella crescente complessità del sistema. Certo arrivano al pettine nodi problematici antichi e non facili da sciogliere, che rendono sempre più urgente una riforma generale e profonda del sistema ed esigono politiche sapienti e consensi forti.
Non so cosa accadrà nella scuola italiana nell’immediato futuro, come saranno distribuiti i poteri e le responsabilità, come e se saranno riconosciuti meriti e premi, quali organici utilizzerà l’offerta formativa degli Istituti e con quali obiettivi: purtroppo i problemi della formazione dei giovani resteranno comunque, e continueranno ad esigere, in dirigenti e docenti, comuni strumenti professionali e comuni atteggiamenti culturali ed etici, senza i quali nessuna buona scuola potrà mai realizzarsi.


Rita Bortone dal 1971 ha insegnato Lettere e dal 1985 è stata Preside nelle Scuole Medie. Ha presieduto il Cidi Lecce. Collabora con riviste professionali su temi di carattere culturale, organizzativo e didattico. Ha svolto e continua a svolgere attività di consulenza, formazione e aggiornamento nelle scuole di varie regioni italiane.

Karzan Kader, Bekas

“Bekas” di Karzan Kader

di Mario Coviello

bekasE’ uscito in Italia il 19 marzo di quest’anno un film che i docenti dovrebbero far vedere in classe ai loro alunni Bekas di Karzan Kader.E’ un film scorrevole e commovente, con una fotografia dai toni caldi e allo stesso tempo tenui. La trama gira delicatamente intorno alla vicenda del potere e dei soprusi di Saddam Hussein, che il regista stesso ha vissuto in prima persona. Kader porta sul grande schermo la sua fuga dall’Iraq avvenuta nel 1991, raccontando tutte le paure e la stanchezza provate con la sua famiglia.

Allo stesso tempo, però, affronta in modo più intimistico il rapporto tra due fratelli Zana di sette anni e Dana di 10, che sperimentano sulla loro pelle come essere uniti li renda più forti.

Primi anni ’90. Il regime di Saddam Hussein esercita una violenta pressione sulla regione curda dell’Iraq. Due fratelli curdi orfani e senzatetto vedono il film Superman attraverso un buco nel muro del cinema locale, e decidono di andare in America. Quando saranno lì, Superman potrà risolvere i loro problemi, e punire quelli che sono stati cattivi con loro. Ma, per arrivarci, hanno bisogno di denaro, passaporti, un mezzo di trasporto, un modo per passare la frontiera. Non hanno nulla ma decidono comunque di intraprendere il viaggio verso il loro sogno. Uno dei tratti più adorabili del film è di certo l’ingenuità con cui affrontano il viaggio, convinti che si possa arrivare in America in sella a Michael Jackson, un asino, con soltanto uno o due giorni di cammino, o che basti scrivere il proprio nome su un quadernino per avere un passaporto. L’unica cosa che lascia un po’ spiazzati è che sempre, davanti ad ogni difficoltà e imprevisto, i due riescono a scamparla e a ricongiungersi, non c’è mina o deserto che tenga in questo continuo altalenarsi tra guaio e lieto fine.

E se alcuni spettatori saranno irremovibili davanti all’impossibilità di un tale fortunato susseguirsi di eventi, dall’altra questo è forse il modo giusto per presentare una storia del genere ai più piccoli: mettendoli cioè di fronte ad una storia in cui i protagonisti sconfiggono i cattivi, superano tutte le prove e si scoprono invincibili supereroi. Questo è anche il modo migliore per riportare un po’ di fiducia e ottimismo nelle vite dei più grandi.

Karzan Kader,il giovanissimo cineasta curdo che dopo la fuga con la famiglia è diventato cittadino svedese ha detto “ Nel1991, avevo sei anni. Vedo me stesso e mio fratello prepararci per passare la frontiera irachena. Stanchi, affamati e spaventati. Questa è la mia storia, la storia di come ho lasciato il Kurdistan. Quando ho iniziato a scrivere BEKAS, volevo raccontare questa storia, perché mi ero innamorato del sogno di metter piede sulle strade americane e di vivere in pace, lontano dalla guerra di Saddam. E amo l’idea di due ragazzi che si mettono in pericolo per raggiungere il loro eroe, Superman, dalle strade irachene agli Stati Uniti, sul dorso di un asino. In nessun’altro posto al mondo si potrebbe raccontare una storia di questo tipo. In questa parte del mondo la guerra è durata così a lungo da diventare una condizione normale. Voglio che questa storia faccia sentire la voce del popolo curdo al resto del mondo. Non esistono altri film che mostrino al mondo questo lato del Kurdistan, non è mai stata fatta prima una cosa del genere”.

J. Cortázar, Bestiario

Oltre i limiti della materia

di Antonio Stanca

cortazarL’anno scorso nella serie “ET Scrittori” della casa editrice Einaudi di Torino è comparsa la raccolta di racconti Bestiario (pp.144, € 10,00) dello scrittore argentino in lingua spagnola Julio Cortázar. La traduzione è di Flaviarosa Nicoletti Rossini e Vittoria Martinetto. Introduce il libro un intervento critico di Ernesto Franco circa il Cortázar dei racconti e in appendice sono riportati due saggi dello scrittore relativi al genere letterario del racconto, alla sua storia, ai suoi autori, ai suoi contenuti, alla sua forma. Il testo originale di Bestiario risale al 1951 ed altre volte è stato tradotto e pubblicato in Italia e in altri paesi. E’ la prima raccolta di racconti di questo scrittore e contiene alcuni scritti in precedenza e comparsi isolati su giornali, riviste o rimasti inediti. Cortázar aveva cominciato a scrivere precocemente, quando ancora andava a scuola, a riprova di un impegno senza limiti. Di narrativa e poesia erano stati i primi scritti ed in seguito la sua scrittura aveva assunto direzioni tra le più diverse. Oltre che raccolte di racconti e di poesie avrebbe egli scritto romanzi, sarebbe stato giornalista, saggista, critico letterario, drammaturgo e avrebbe compiuto anche una vasta opera di traduzione.

Era nato nel 1914 a Bruxelles dove la famiglia si trovava allora perché il padre, diplomatico di carriera, era in missione. Quando aveva quattro anni erano rientrati in Argentina, a Buenos Aires, e qui il padre aveva abbandonato la moglie e il bambino. Julio crescerà con la madre e da lei deriverà l’amore per la lettura, la conoscenza, lo studio dei grandi scrittori del passato e del loro tempo. Sono gli anni della scuola magistrale, comincia a suonare il piano e s’innamora della musica jazz che ascolta alla radio. All’Università di Buenos Aires frequenta Lettere e Filosofia ma dopo i primi esami abbandona gli studi e si dedica all’insegnamento, poi alla traduzione, diventa traduttore pubblico, autore di articoli per giornali, di narrativa, di teatro. Cresce e s’intensifica la sua attività, conduce una vita molto riservata, cura quasi esclusivamente i suoi interessi fin quando nel 1951, insoddisfatto dell’ambiente culturale argentino, si trasferisce a Parigi rimanendo, però, legato a Buenos Aires, ai luoghi, ai tempi della sua infanzia e adolescenza e facendovi sistematicamente ritorno. A Parigi lavora come traduttore indipendente per l’Unesco, s’impegna in ampie opere di traduzione di autori di ogni paese e queste vengono regolarmente pubblicate. Intanto procede nella sua produzione letteraria che fa aumentare sempre più la sua notorietà. Nel 1963 il lungo romanzo Il gioco del mondo che narra delle sue esperienze tra Buenos Aires e Parigi e che si divide tra la rappresentazione della vita quotidiana e la ricerca di profondi significati interiori, diventa un caso letterario di livello internazionale. Cortázar viene invitato in Università straniere dove conferisce sulla propria opera, partecipa a Convegni di studio, a dibattiti pubblici in Francia e altrove, riceve molti riconoscimenti, è molto tradotto, è apprezzato da Borges, nel 1981 Mitterand gli concede la nazionalità francese, è presente in paesi quali Cuba e Nicaragua dove sono in corso rivoluzioni e si colloca dalla parte degli insorti a difesa dei principi di libertà, giustizia, uguaglianza, diventa un personaggio pubblico altamente qualificato e stimato. Ha continuato, intanto, a scrivere mostrando un impegno senza soste. Scriverà anche dopo il 1981 quando gli sarà diagnosticata la leucemia. Morirà a Parigi nel 1984, all’età di settant’anni.

Una generale ventata di rinnovamento hanno rappresentato la figura e l’opera di Cortázar. Egli non negherà di aver avuto dei maestri nella cultura e letteratura argentine e straniere ma si sentirà animato da un fervore che non limiterà la sua azione ad una produzione letteraria diversa da quella del contesto contemporaneo e la estenderà al sistema, al costume, alla vita, alla storia della sua epoca. Cortázar non è stato soltanto un autore d’eccezione ma anche un uomo che dei principi, dei valori, delle conquiste della sua opera ha voluto fare un patrimonio comune. La ricerca della dimensione spirituale della vita, la rappresentazione della vita come esperienza non finita, non limitata dalla realtà esterna, tutto ciò che lo scrittore si proponeva nelle sue opere l’uomo sosteneva negli interventi pubblici ai quali veniva invitato ed ai quali non si sottrasse mai. I lettori per l’uno, gli spettatori per l’altro costituivano il completamento delle sue aspirazioni.

Nei racconti questa ricerca dell’altro della vita assumerà aspetti fantastici, misteriosi, a volte sinistri ma rientrerà sempre nella concezione del Cortázar, nella sua convinzione che estesa è la vita, che altro c’è oltre quello che normalmente si vede, oltre la semplicità, la quotidianità degli ambienti e delle persone. Quest’altro lo scrittore s’impegna a scoprire, a mostrare anche nei racconti di Bestiario, l’altra vita che hanno i loro protagonisti pur essendo persone comuni. E’ un fenomeno che riguarda tutti vuol dire il Cortázar di ogni racconto: in Casa occupata due fratelli, in età matura, lasciano la casa paterna dove sono sempre vissuti perché l’aspetto di rumori sconosciuti, di presenze misteriose hanno assunto le inquietudini, le apprensioni portate loro dall’età; in Lettera a una signorina a Parigi un giovane innamorato scrive alla sua donna andata a Parigi per dirle che non riesce più a sopportare la vita nell’appartamento di Buenos Aires che lei gli ha lasciato poiché lo priva della condizione libera, naturale che sente propria, gli provoca un disgusto tale da fargli vomitare piccoli conigli; in Omnibus il desiderio di stare soli nutrito da due giovani ragazzi che si sono conosciuti e innamorati su un autobus fa loro assistere alla fuga di tutti gli altri passeggeri; in Circe l’avversione, l’odio della bella Delia verso il genere maschile la porta ad uccidere sistematicamente tre giovani che di lei si sono innamorati; in Le porte del cielo il bisogno che hanno della giovane Celina morta prematuramente il marito e un suo amico, fa credere loro di rivederla, riconoscerla in un’altra donna.

Sono i pensieri segreti, i problemi nascosti di queste persone e lo scrittore dà loro una forma, costruisce delle situazioni che li rappresentano. Sono situazioni particolari, assurde come appunto quei pensieri, quei problemi ma entrambi sono prodotti interiori, sono la prova di come finita è la materia ed estesa oltre ogni misura la vita dello spirito.

G. Solimine, Senza Sapere

Giovanni Solimine, Senza Sapere. Il costo dell’ignoranza in Italia, Saggi Tascabile, Laterza, 2014.

di Mario Coviello

00fronte scholia ind 1_4Ho letto con attenzione in questi giorni il saggio di Giovanni Solimine,” senza Sapere Il costo dell’ignoranza in Italia”edito nel 2014 nei saggi tascabili dalla Laterza.Il libro, con la presenza dell’autore, viene presentato il 20 maggio2015, alle 17,30, nella biblioteca provinciale di Potenza.

Giovanni Solimine insegna presso l’Università di Roma La Sapienza,dove è Senior Research Fellow della Scuola superiore di studi avanzati. Presso il MiBACT fa parte del Consiglio superiore dei beni culturali. Si occupa di progettazione e gestione di servizi bibliotecari, di biblioteche digitali, di cultura editoriale e promozione della lettura, di information literacy. Ha presieduto l’Associazione Italiana Biblioteche ed è attualmente presidente del Forum del libro.

“ senza Sapere…” offre in questi mesi di dibattito sulla “Buona scuola” una mole impressionante di dati aggiornati che ci ricordano il basso livello di competenze degli studenti e della popolazione adulta, lo scarso numero di laureati e diplomati che il nostro invecchiato e gracile sistema produttivo non è capace di assorbire, la debole partecipazione dei nostri concittadini alla vita culturale. Siamo ultimi in Europa per numero di laureati (il 30 per cento dei quali emigra), per competenze alfabetiche, per vendite online; trecentomila under 18 non hanno mai fatto sport, né aperto un libro, acceso un computer o visto un film al cinema; laureati e diplomati hanno uguali probabilità di trovare lavoro; otto italiani su dieci non hanno mai praticato attività culturali o artistiche.

Un paese povero di risorse materiali e in ritardo dovrebbe investire in formazione più degli altri paesi. Invece continua a non avere una politica della conoscenza, fondamentale per la costruzione del nostro futuro: gli investimenti in istruzione e ricerca ci costerebbero meno di quanto ci costa l’ignoranza. Questo è il paradosso di un’Italia senza sapere.

Come diminuire l’ignoranza accertata degli italiani? Attraverso un cambio di paradigma intellettuale: ridefinire i concetti di benessere e ricchezza( illuminanti i riferimenti a Richard Layard), applicare alla conoscenza il concetto di “bene comune”(Hess-Ostrom) , garantire una reale uguaglianza nelle opportunità di accesso alla conoscenza e favorire la possibilità di un uso, autonomo e responsabile, delle informazioni (Jenkins), combattendo infine la frammentazione dei saperi ( Morin).

E con tante azioni concrete: innovare la forma libro riavvicinando l’attività dello scrivere a quella del leggere; potenziare e migliorare l’offerta pubblica di didattica online (dalle biblioteche ai programmi educativi della Rai); creare nelle regioni più degradate “aree ad alta densità educativa” nelle quali scuole, biblioteche, istituzioni e associazioni culturali realizzino “una didattica a contatto con le fonti e gli strumenti dell’apprendimento”; introdurre la “lettura libera” nei programmi scolastici; favorire la trasformazione delle 5.000 biblioteche pubbliche in social network fisici, “crocevia di stimoli e di interessi, luogo di relazioni e condivisioni”.

Solimine affronta anche il problema di cosa sia oggi la conoscenza, di quali siano i mutamenti che la rivoluzione digitale ha comportato in tale ambito, di come si configurino oggi la comunicazione, il saper leggere e scrivere, le competenze digitali. Il saggio si fa leggere perchè utilizza un linguaggio e una chiarezza espositiva che consentono all’autore di esaminare problematiche complesse in modo comprensibile, semplice ma senza alcuna banalizzazione del contenuto.

Nell’’ultima pagina di “ senza Sapere…” Giovanni Solimine scrive: “In Italia, i diversi attori che operano nel campo della conoscenza (…) dovrebbero imparare a cooperare di più, proponendosi tutti insieme come un’unica grande fabbrica della conoscenza, perché il raggiungimento degli scopi specifici di ciascuno di loro potrà avvenire solo all’interno di un obiettivo comune, che è quello di ampliare il bacino di chi accede alla conoscenza, su qualsiasi supporto, analogico o digitale che sia”.

In queste settimane si discute in Parlamento la legge di riforma della scuola italiana , “senza Sapere….” ci aiuta riflettere sulla politica educativa del nostro paese e sulle nuove esigenze che gli attuali sviluppi delle tecnologie e dei linguaggi pongono alla formazione.

T. Breakwater, Canto di Natale 2020

Tom Breakwater, Canto di Natale 2020, fuori|onda, collana Reverie, novembre 2013, Lavis-TN

di Marta Fanfano

“Che botta ragazzi, davvero vecchio mio, è un peccato che tu non ci fossi, sai”.

breakwaterA Jack capitava spesso di parlare al suo vecchio amico Tom. Solo che Tom, era solo un ricordo.

Pochi anni prima era morto affogato durante un weekend ad Amsterdam, proprio dopo una delle sue solite serate con “ilvalidoJack” (tutto attaccato, così Jack era solito chiamarsi).

Siamo alla vigilia di Natale e, Jack, si trova, come ogni anno, a combattere con i fantasmi del passato. Riaffiora il ricordo della sua amata e, ormai perduta, Emily, che non gli dà tregua.

È la storia di un uomo circondato dal potere, dai soldi e dal sesso. Quello stesso uomo, si ritrova, alla vigilia di Natale, ad acquistare giocattoli per bambini a lui sconosciuti; subito dopo dentro ad una gioielleria per conto di un ragazzo appena conosciuto; e, inaspettatamente, si mette, “a nudo”, dietro il bancone di un bar, con il suo nuovo “amico” Stan. La sua, sarebbe stata, una condizione invidiabile se, non fosse stato, per quei maledetti fantasmi che tornavano ogni volta. Ma Jack sapeva, che, quando alzava un po’ troppo il gomito, succedeva sempre così. Quella stessa sera, però, in lui, cambia qualcosa, e decide di liberarsi dal tormentato passato e di iniziare a vivere.

Tom Breakwater propone una fantastica rivisitazione del noto romanzo di Charles Dickens, rinominato “Canto di Natale 2020”( pubblicato dalla casa editrice fuori|onda per la collana Reverie, novembre 2013, Lavis-TN). Un racconto che si sviluppa in 122 pagine e non fa perdere l’interesse, del lettore, fino all’ ultima frase. L’ autore, inoltre, ci regala un sorprendente finale.

Una storia capace di coinvolgere dagli adolescenti agli adulti; che mette in primo piano l’importanza degli errori del passato per poter migliorare il presente ed espone il tema della paura, sostenendo che il modo migliore per affrontarla è combatterla.

Don Gino Corallo: salesiano, educatore e pedagogista

DON GINO CORALLO: SALESIANO, EDUCATORE E PEDAGOGISTA

di CARLO DE NITTI

corallo

Per chi, come l’autore delle righe che seguono, opera da circa trenta anni nella scuola, è un vero piacere intellettuale ripensare a significativi momenti della pedagogia e della storia della scuola italiane del secondo dopoguerra (1950 – 1970), leggendo il recente agile volume di Luigi Lafranceschina, La Pedagogia Italiana del Secondo Dopoguerra e la Proposta Pedagogica di Don Gino Corallo (Bitonto Arti Grafiche Cortese 2014, pp. 89), presentato da Vittoriano Caporale e prefato da Daniele Giancane.

Attraverso i tre capitoli che lo compongono, l’Autore rivolge la sua attenzione ad educatori ‘rivoluzionari’ nel loro tempo di ispirazione ideale diversa: da don Lorenzo Milani a Mario Lodi, da Alberto Manzi al Movimento Cooperazione Educativa.

In tutte le loro esperienze, tanto quelle ispirate dallo spiritualismo e dal personalismo cristiano, quanto quelle ispirate dalla pedagogia materialista marxista, faceva premio: a) la ricerca di nuovi compiti e nuove frontiere per l’educazione che consentissero al Paese di superare gli anni della pedagogia gentiliana, idealista ed, in ultimo, fascista; b) un’incisiva lotta al persistente analfabetismo che interessava il Paese soprattutto al Sud e nelle zone rurali (cfr. p. 12).

Nell’ambito del quadro di riferimento testé brevemente tracciato, si staglia, la figura di don Gino Corallo, nel capitolo a lui dedicato, che occupa circa metà del volume, dal titolo “Don Gino Corallo (1910 – 2003) e la ‘poesia’ dell’educazione alla libertà morale”. E’ in esso che l’Autore effonde se stesso e la sua storia intellettuale e professionale: infatti, egli, studente universitario presso l’allora facoltà di Magistero dell’Università degli studi di Bari, è stato un discepolo diretto del Professore dal 1965 in poi. Lafranceschina, con un approccio deferente e rispettoso, ricostruisce la bio – bibliografia del Pedagogista, delineando le intuizioni principali ed il lascito culturale migliore

Don Gino Corallo, siciliano di Randazzo (CT), divenne sacerdote salesiano nel 1936; nel 1938 si laureò in lettere ed insegnò lettere classiche per circa un decennio nei Seminari salesiani: “La sua formazione intellettuale e culturale molto ampia nel campo teologico, linguistico-letterario (dimestichezza con il mondo classico e conoscenza di molte lingue) e filosofico trovò completamento oin quello pedagogico, quando ‘in obbedienza’ a una precisa richiesta dei superiori, dal 1957 al 1953, si dedicò allo studio della Pedagogia, pubblicando nel 1950 il suo primo volume pedagogico di oltre 500 pagine” (p. 48). Si trattava del volume La pedagogia di Giovanni Dewey, edito a Torino dalla SEI: la prima monografia su John Dewey, che fece conoscere il pensatore americano in Italia dopo l’ostracismo fascista ed idealistico.

Tra il 1952 ed il 1953, don Gino Corallo ebbe l’opportunità di verificare il pensiero di Dewey nelle pratiche delle scuole statunitensi, soggiornando per nove mesi negli Stati Uniti d’America. “Ebbe così la possibilità di visitarne le scuole e di studiare l’attivismo, la didattica, il metodo educativo e i risultati conseguiti” (Ibidem).

Anni di ricerche fondamentali e di lavoro, i primissimi anni ’50, che consentono a don Gino Corallo di mettere a punto il nucleo fondamentale del suo originale pensiero pedagogico. Partendo dall’idea che la pedagogia è scienza – e come tale non può non utilizzare il metodo scientifico nell’approccio ai suoi problemi teoretici – ed in particolare scienza filosofica, il suo oggetto di studio non è l’uomo ma la sua educazione (cfr. p. 57), ovvero l’acquisizione da parte dell’uomo di un ‘abito mentale’: “La pedagogia riceve il contributo di quasi tutte le scienze umane […] senza, però, integrarsi o sostituirsi agli altri saperi scientifici” (p. 58). Il fulcro intorno al quale deve ruotare la pedagogia è la libertà dell’uomo quale acme della formazione dell’uomo attraverso le cinque educazioni – fisica, intellettuale, morale, sociale e religiosa – che don Gino Corallo individua quali articolazioni dell’educazione intesa come “processo unitario, armonico, integrale e il cui fine ultimo è l’agire rettamente e liberamente” (p. 65).

La libertà, insieme al principio di valorizzazione, è la cifra profonda della pedagogia corallina, attenta alla metodologia dell’educazione. Non vi è chi non vede in essa “la tradizione e l’esperienza salesiana, tesa alla pratica e ricca di indicazioni e suggestioni” (p. 67): il principio della valorizzazione fa sì che l’uomo conosca ed interiorizzi i valori, riconoscendoli come tali. Il veicolo dei valori non può che essere, in concreto, l’educatore: il vero e proprio archetipo dell’educando attraverso il principio della “causalità esemplare della testimonianza dell’educatore, che deve motivare e sostenere la volontà dell’educando, avere il carisma di direzionare la sua ‘crescita’ al meglio, lasciandolo libero” (p. 69).

In questa prospettiva, si situa anche la concezione coralliana della Didattica come scienza autonoma, con una sua epistemologia di riferimento: per don Gino Corallo, non vi può essere didattica che non consideri “l’alunno soggetto attivo nel processo di apprendimento, protagonista nella costruzione e nell’acquisizione delle sue conoscenze da socializzare e condividere con gli altri” (p. 79). E’ la grande lezione innovativa e di libertà dell’attivismo pedagogico perché esprime “le tre esigenze fondamentali di ogni iter didattico ed educativo, ossia la conoscenza dell’alunno, l’individualizzazione del trattamento, l’interesse” (p. 80): l’educazione – ‘scienza della vita’ – non può non formare uomini liberi, nella migliore realizzazione della pedagogia salesiana.

Una lettura euristica, quella del volume qui recensito, per tutti gli educatori – come postula, nella sua Presentazione, Vittoriano Caporale – affinchè essi possano “alimentare il loro entusiasmo nell’affrontare la difficile ’arte di educare’ le nuove generazioni in un tempo di ‘crisi globale’” (p. 6). E di entusiasmo ce ne vuole proprio tanto!

Leggere le pagine che, da Discepolo a Maestro, Luigi Lafranceschina ha dedicato al pensiero di don Gino Corallo è stato un piacere: particolare per chi, come chi scrive, ha ritrovato in esse uno spaccato della propria storia di vita familiare, perché le lezioni del prof. Corallo le frequentava – quando poteva, essendo uno studente lavoratore – anche mio padre.

Incontro con Luigi Ballerini

Incontro con Luigi Ballerini autore di “IO SONO ZERO”, editore il Castoro, 2015

di Mario Coviello

ballerini1Ho incontrato Luigi Ballerini per parlare della “Signorina Euforbia”che partecipa al Torneo di lettura tra dieci scuole in rete della provincia di Potenza, coordinate dalla bibliomediateca “ A. Malanga” dell’Istituto Comprensivo di Bella( Potenza). Ho ascoltato subito dopo lo scrittore a Farheneit nella presentazione del suo ultimo libro “ Io sono zero” e dopo aver letto il libro che mi ha appassionato gli ho rivolto alcune domande.

Zero sta per compiere quattordici anni. Non ha mai toccato un altro essere vivente, non ha mai patito il freddo o il caldo, non sa cosa siano il vento o la neve. Zero è vissuto nel Mondo, un ambiente protetto, dove è stato educato, allenato e addestrato a combattere attraverso droni e a raggiungere obiettivi.
Quando un giorno il Mondo si spegne e diventa tutto buio, Zero involontariamente esce ed entra nel mondo, quello reale, dove nevica e fa freddo, non si comunica attraverso schermi, non c’è nulla che lui sappia riconoscere.
Inizia da qui la seconda storia di Zero che, in una fuga sempre più pericolosa da chi l’ha cresciuto, dovrà capire la ragione della sua esistenza e dovrà trovare un modo per vivere nel mondo reale, quello complicato dove dentro e fuori, sapori e odori, amore e ribellione esplodono.

Qui di seguito la nostra conversazione.

Dopo il grande successo della “ Signorina Euforbia” premio Andersen 2014, hai completamente (o forse no) cambiato genere.Dall’atmosfera ovattata della cucina di una pasticceria siamo passati ad un alloggio supersegreto nel quale le padelle sono state sostituite dai touch screen. Hai raccontato di “Zero” un ragazzo che compie quattordici anni ed è stato allevato da una organizzazione super segreta per diventare una “macchina di guerra” . Perché questa scelta ?

I miei libri nascono dalle occasioni che mi si presentano, non sono mai pianificati a tavolino per tematiche. Tempo fa, era un domenica sera in cui avevo lavorato tutto il giorno su un tablet, mi sono recato a Messa e siccome ero in fondo alla chiesa e non sentivo né vedevo bene ho letteralmente “zoomato” il prete davanti a me. Ossia ho provato a ingrandirlo aprendo il pollice e l’indice della mano destra nell’aria come avessi a che fare con un touch screen. Un istante dopo lo sconcerto per il mio gesto e per come mi ero ridotto è subito sorta in me una domanda: “ma se un ragazzo avesse vissuto quattordici anni solo a contatto con touch-screen e di colpo si trovasse nella realtà, come reagirebbe?”. Ecco “Io sono Zero” è iniziato proprio in quel momento.

In tutto il romanzo Zero, vissuto per 14 anni solo con lo schermo di un computer, deve fare i conti con la realtà in cui piomba. La realtà è fatta di freddo, caldo, neve, dolore…emozioni.La realtà è fatta di libri che pesano, di carezze e abbracci che fanno paura.Hai voluto forse lanciare un grido d’allarme per chiedere ai genitori, alla scuola,alla società che i nostri adolescenti vivano il reale, il sudore,gli odori, i sapori, il cielo e non il soffitto?

Il rischio che i nostri ragazzi riducano considerevolmente la possibilità di esperienza nel reale esiste davvero. Non dobbiamo demonizzare la tecnologia, che anzi ci aiuta, supporta e facilita. Dobbiamo tuttavia riconoscere che per fare esperienza occorre che il corpo, nella sua interezza, si applichi, si coinvolga e si comprometta col reale. Noi siamo motricità, sensibilità e pensiero. È un di meno operare una riduzione di questa unità. Rischia di iniziare molto presto. Pensiamo al “colorare” su un tablet. Questo tipo di attività che può arrecare un certo grado di soddisfazione, tuttavia non ha tutta la portata del colorare con carta e matite o tempere o pastelli a cera. La pressione sul foglio che può anche bucarlo, le dita che si sporcano, l’oggetto da stringere, l’odore del colore, il suono della matita sulla carta, sono insostituibili. Certo, alle mamme l’uso del tablet può risultare più pulito e comodo, ma si taglia via qualchecosa. E una partita di calcetto giocata sul campo con gli amici non è la stessa cosa di una partita giocata su una consolle.

È a tema anche la questione della conoscenza. Si conosce via esperienza e l’esperienza riguarda tutto il corpo. Non si impara solo nella Rete e con la Rete.

Zero viene accolto da una giovane coppia che non può avere figli. Stefania e Luca si scoprono diversi, capaci di lottare in una situazione eccezionale per difendere e salvare Zero, anzi 2.0, (quanta ironia)la “ loro creatura”. Attraverso loro cosa hai voluto suggerire ai giovani genitori di figli adolescenti toppo immersi nel virtuale

Una delle attenzioni che possiamo avere oggi nei confronti dei bambini e dei ragazzi è permettere loro di vivere un reale convincente e soddisfacente. Non è detto che sia scontato. I genitori del 2015 sono spesso preoccupati e spaventati per le sorti dei loro figli e possono essere tentati dall’idea che averli in casa, sotto gli occhi, magari connessi a un dispositivo, rappresenti una situazione di sicurezza. In realtà con la rete può entrare in casa di tutto, anche ciò che è più contrario all’uomo, magari proprio ciò che si teme di più dal “fuori”. Favorire il reale significa aprire le case, permettere di invitare gli amici, fare rete fra genitori in modo da lasciarli andare anche a casa di altri, far frequentare luoghi di socialità come possono essere gli oratori, i centri sportivi, le scuole… Uno slogan che ho coniato è che la sfida col virtuale si vince nel reale. Con un reale affascinante la tecnologia non sarà alternativa, ma supplementare e i giovani ne sapranno fare buon uso.

Mi sembra che tu voglia lanciare anche un generale monito per l’uso consapevole della rete e delle tecnologie. Quando scappano per nascondere Zero Stefania e Luca buttano via il cellulare, usano solo denaro contante, si nascondono in una baita isolata per sfuggire al “grande fratello” che ci controlla. E’ così ?

In realtà credo che una persona che sta bene possa vivere persino in una situazione da “grande fratello”, ossia non ha nulla da nascondere. Tuttavia credo valga la pena di lanciare il monito di non essere ingenui, soprattutto nell’uso della Rete. Troppo spesso noi, ma soprattutto i ragazzi, sottovalutiamo l’effetto del postare foto, video e frasi. La cosiddetta “internet reputation” è qualcosa che ci riguarda da vicino e che può avere effetti sul presente e sul futuro. Un uso consapevole e non ingenuo dei Sociale Network, ad esempio, è qualcosa per cui dobbiamo lavorare: se ne deve parlare coi ragazzi, non lasciarli soli allo sbaraglio.

Anche in “ Io sono zero” come nella “ Signorina Euforbia” c’è un nonno, un nonno generale. Perché Luigi Ballerini non può fare a meno di raccontare i nonni ?

Quando presenti in una famiglia. i nonni rappresentano una grande risorsa. Non solo in termini di aiuto concreto (spesso lo forniscono), ma anche di continuità col passato con la propria storia. Un nonno e una nonna attenti, più liberi dalla preoccupazione educativa dei genitori che talora li rendono un po’ soffocanti, possono essere ambiti di respiro per i bambini e i ragazzi. Con loro si possono fare cose che altrimenti non sarebbero possibili, la loro maggior disponibilità di tempo li rende più pazienti e tranquilli facilitando il dialogo e lo star bene insieme. L’importante è che da parte loro non siano invadenti, che non vogliano sostituirsi ai genitori, che favoriscano sempre il rapporto dei figli con mamma e papà.

-Ed infine una notazione sul tuo modo di raccontare. Ancora una volta il discorso diretto. Luigi Ballerini è Zero e il suo alter ego, sempre scritto con un altro carattere,è Luca, Stefania, il generale e il suo amico Antonio. Il libro si legge d’un fiato perché ti prende subito. Come scrivi ?, dove ?, come nascono le tue idee?,chi legge per primo i tuoi romanzi?. Questa volta hai fatto leggere prima il romanzo ai tuoi figli ? E chi tu o loro ama i Beatles, i western e l’Uomo Ragno che ci avvolge nella sua tela appena apriamo “ Io sono zero”?.

Come molti scrittori italiani faccio un altro lavoro oltre a scrivere. Io sono uno psicoanalista. Quindi scrivo appena ne ho l’occasione e ovunque posso. La scrittura è un’attività certo piacevole e di soddisfazione, ma anche impegnativa, un’attività a cui dedico tutto il tempo che posso. Non credo al mito romantico dello scrittore ispirato che scriverebbe in una specie di stato di “trance”, credo piuttosto che scrivere sia un’attività artigianale, metodica, dove il prodotto del lavoro è qualcosa che va continuamente limato, ripulito, sistemato. Scrivere è in realtà sempre riscrivere, almeno per me.

I miei libri li faccio spesso leggere a qualche giovane prima di inviarli all’editore, possono certo essere i miei figli, in particolare penso ad Anna e Chiara con la sensibilità delle loro diversa età, ma anche a figli di amici e lettori che mi seguono. Il loro parere è sempre prezioso per me.

Nelle storie, nei personaggi casca sempre qualcosa di me. Non tanto come identificazione totale con un protagonista, quanto con diversi aspetti di me che vanno a intridere il tessuto dei personaggi. Così la mia parte antipatica finisce nell’antipatico, la cattiva nel cattivo, la generosa nel generoso, l’angosciata nell’angosciato. E poi si insinuano anche i tratti delle persone che incontro. Così in Zero ritroviamo i Beatles che piacevano a me da giovane, il Western che entusiasmava mio padre e l’Uomo Ragno che occupa troppo la testa di un ragazzo che conosco.

Scrivere è raccontare l’uomo e il mondo, partendo sempre da sé.

Classenemy

“Classenemy”
Un film per riflettere sulla scuola, sui giovani e sull’Europa

di Mario Coviello

classenemyLa scuola italiana è alle prese in queste settimane con l’ennesima riforma della scuola. “ La buona scuola “ di Renzi inizia il dibattito in Parlamento tra lo sciopero del 25 aprile dei Cobas e quello proclamato per il cinque maggio dai maggiori sindacati della scuola.

Ho visto in questi giorni “Classenemy”, piccolo film sloveno di un debuttante dell’85, Rok Bicek, che sa comporre allo stesso tempo una disamina semiautobiografica sull’educazione, un racconto metaforico del suo giovane paese, indipendente dal 1991, e una sofisticata lettura dell’Europa politica contemporanea, spaccata tra le sue componenti e nell’atteggiamento verso il rigore imposto dalla Germania, che da dietro la cattedra in tedesco dispone di “fare i compiti a casa”

Questo film, in lizza per il Leone d’oro alla 70ma Mostra del cinema di Venezia del 2014, può aiutarci a riflettere sulle questioni nodali che la riforma vuole affrontare.

In un liceo di Lubiana arriva un nuovo professore di tedesco, Robert. L’uomo imprime subito un cambiamento nell’insegnamento: non ha atteggiamenti violenti né volontà di sottomettere, ma impone una severità ai suoi studenti, al loro modo di rapportarsi verso lo studio e la vita. E’ una scuola superiore, quindi non dell’obbligo, loro hanno scelto di iscriversi e devono agire di conseguenza: “Essere studenti non è un diritto, ma un gran privilegio”, è una sua battuta fulminante. Nelle sue lezioni fa studiare ai ragazzi il “Tonio Kröger” di Thomas Mann, un capolavoro sulla difficile età della crescita, di cui la pellicola recupera molti spunti, specie nei rapporti tra alcuni personaggi. Basta parlare tedesco ed essere severi per essere considerato una specie di nazista? Ed esiste autorevolezza senza l’autorità di far rispettare le regole? Dove si ferma la comprensione e comincia l’indulgenza? E come si corregge l’errore, ignorando o punendo? Il professore, a priori privo di emozioni è in realtà animato da una passione per l’educazione scolastica che gli fa prendere il suo lavoro molto sul serio, lasciando poco spazio ai compromessi.  Nel film c’è una frase ricorrente di Mann che dice: “La morte di un uomo conta meno per se stesso che per chi gli sopravvive”. E’ una frase che il professore usa per indurre gli studenti a costruirsi una forte personalità nel difficile percorso che li aspetta, ma è una frase che suona drammatica quando succede la tragedia: una delle studentesse si uccide. L’evento sconvolge i ragazzi, travolgendoli nelle loro già delicate psicologie segnate da vari problemi più o meno dichiarati, e induce parte di loro a riversare la colpa sul professore. Il capro espiatorio. La situazione diventerà sempre più problematica, dividendo lo stesso fronte dei ragazzi. Ed evolverà verso una soluzione che non distribuirà i torti e le ragioni, ma lascerà aperta la domanda più dura: dove sta la colpa?

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Esplorando le zone d’ombra che separano i torti dalle ragioni, i buoni dai cattivi, i vincitori dai vinti, la partitura di Classenemy segue implacabile l’evolversi di quella piccola comunità che è la classe, chiusa claustrofobicamente tra le pareti dell’aula e i corridoi: non vediamo mai le case di studenti e professori, la loro vita fuori, anzi non vediamo nemmeno oltre i vetri delle finestre perché la luce è sempre troppo bianca. Il mondo è tutto quella classe ed è rivelato tra le altezze di Mann e l’eco struggente di un preludio di Chopin, mentre assistiamo allo svolgersi della quotidianità scolastica soffocata ed esplosiva degli studenti. Classenemy smonta gelidamente le certezze più categoriche e invita a riflettere.   Il giovane regista nel suo film, mette anche un po’ di sé, con il ricordo della radio scolastica e l’episodio cardine del suicidio di una ragazza.
Soprattutto, mette in gioco una riflessione tra la modernità educativa, intesa come deresponsabilizzazione e protezione ad oltranza dei giovani dai dolori della vita, e vecchia scuola, più formativa ma meno empatica. Nel mondo odierno del “Al lupo! Al lupo!”, la serietà di Zupan lo porta a venir accusato niente meno che di nazismo e ad essere identificato con un sistema -questo sì inflessibile e immutabile- rispetto al quale la sua cultura è invece probabilmente l’unico antidoto possibile.

J. Barnes, Metroland

I giovani di Barnes

di Antonio Stanca

barnesHa sessantanove anni e vive a Londra, si chiama Julian Barnes ed è scrittore noto in ambito internazionale. Noti sono soprattutto i suoi romanzi e racconti anche se in altre direzioni si è egli impegnato ed ancora s’impegna. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti. Tra gli altri nel 2011, quando aveva sessantacinque anni, gli è stato assegnato il prestigioso Booker Prize per il romanzo Il senso di una fine.

Barnes è nato a Leicester nel 1946 ma è cresciuto, è vissuto, ha studiato a Londra e qui ha cominciato a lavorare come lessicografo e poi come giornalista. Agli anni ’80 risale l’inizio della sua attività di narratore ma non cesserà di essere giornalista e saggista. Nel 1980 Metroland sarà il suo primo romanzo. Con questo vincerà, l’anno successivo, il Premio Somerset Maugham Award. L’opera verrà pubblicata in Italia nel 1981 e a Febbraio del 2015 la casa editrice Einaudi di Torino l’ha ristampata nella serie “L’Arcipelago Einaudi”, pp. 224, € 15,00. La traduzione è di Daniela Fargione.

Già in questo primo romanzo compaiono quelli che saranno gli aspetti ricorrenti nella narrativa di Barnes, cioè l’attenzione alla psicologia dei suoi personaggi, ai loro problemi interiori, ai difficili contrasti che sono chiamati a vivere, e la cura della forma, dell’esposizione che risulterà sempre chiara, facile pur se riguarderà segreti così complicati come quelli dell’anima. Scriverà sempre in questo modo e di questi problemi Barnes, lo farà fino ad oggi quando è diventato famoso oltre i confini della sua nazione. Di postmodernismo in letteratura ha fatto parlare la sua vasta produzione narrativa poiché è stata inserita in quel movimento culturale ed artistico che a partire dalla metà degli anni Settanta ha mostrato di voler rifiutare la certezza, la razionalità, la funzionalità della precedente età moderna, del suo progresso, delle sue tecnologie, ed ha accolto una visione della vita, della storia più ampia, più varia anche dal punto di vista espressivo. C’è, in effetti, in Barnes quest’apertura, questa disposizione verso quanto non rientra nelle regole ma più che all’adesione ad un particolare movimento d’idee essa è da attribuire alla tendenza propria dell’autore, alla sua naturale inclinazione a voler dire della vita dell’anima, di come sia difficile conciliarla con la realtà, di quanti problemi vi possano trovar posto. Non di quanto avviene all’esterno intende scrivere Barnes ma di quel che si muove nelle profondità dello spirito. I giovani spesso fa egli interpreti delle sue opere perché gli esempi migliori gli sembrano di una condizione spirituale, di un problema che è sempre stato dell’uomo, quello del passaggio dalla prima vita alla vita matura, del contrasto tra le idee nutrite da ragazzi e le realtà incontrate dopo. Con Barnes i giovani diventano il simbolo di tale contrasto, la figura che meglio lo rappresenta. Si spiega, così, come quello dei giovani che sono stati compagni di scuola, che hanno sognato una vita fatta di grandi cose e poi si sono arresi ad una realtà completamente diversa, dopo essere stato il motivo centrale di Metroland, primo romanzo del Barnes, ritorni nel suo capolavoro, Il senso di una fine, scritto ventuno anni dopo. Entrambe le opere sono ambientate nel Sessantotto, durante la contestazione giovanile, ma questi sono avvenimenti che rimangono sullo sfondo della narrazione poiché allo scrittore interessa soprattutto osservare la vita interiore dei suoi giovani protagonisti, i risvolti pur minimi dei loro pensieri, le mosse del loro spirito, la maniera con la quale queste si riflettono nelle loro azioni, cosa li inducono a fare, come li fanno vivere. Un intero romanzo riesce a ricavare Barnes da tali osservazioni, una costruzione articolata e ben costruita.

In Metroland i giovani saranno Chris e Toni. Essi vivono la loro adolescenza all’insegna di un futuro luminoso, splendente, col pensiero di come riusciranno bene nella vita, delle conquiste che saranno capaci di compiere. Invasi sono i loro discorsi dall’idea di un avvenire pieno di successi. Avverrà, invece, che diventati adulti debbano accorgersi dell’impossibilità di realizzare quanto sognato a causa di urgenze, situazioni che sono insorte e che sono state ben diverse dalle vecchie aspirazioni. Una serie di sconfitte sarà la vita per loro. Si erano innamorati della grandezza degli autori, poeti, scrittori, filosofi, pittori, scultori studiati a scuola, li nominano, li citano in continuazione, come loro avrebbero voluto diventare ma non così è stato né capiscono come sarebbe potuto essere diversamente.

E’ questa la vita che Barnes accoglie nei suoi romanzi perché è la vita intesa come esperienza aperta ad ogni soluzione, perché così è la vita.

M. Messina, Diario di una Kemionauta

messina1KEMIONAUTA NAVIGATRICE DEI MARI E DEI CIELI DELLA LOTTA PER LA VITA di Umberto Tenuta

CANTO 453 MAURA MESSINA, Diario di una Kemionauta, HOMO SCRIVENS Editore

Una giovane artista utilizza la parola e le immagini per descrivere la sua ulisseide, la sua lotta contro gli extraterrestri che, nascondendosi in un limone di Sorrento, attentano alla sua giovane vita.

Maura Messina è una giovane ragazza che ama la bellezza della vita, perchè della bellezza si è nutrita sin dalla nascita, in una famiglia bella, in una casa bella, in un giardino bello, che i fuochi della sua terra sempre hanno imperlato.

Non per nulla, l’amore per la vita Ella ha coltivato curando i fiori delle sue aiuole, l’arte della pittura, della scultura, del disegno.

Una giovane maestra, sin dal primo battito del suo cuoricino nel grembo materno, l’ha ispirata e con saggia discrezione l’ha guidata.

La prima scuola poi qualcosa avrà pur fatto per non distruggere questo natio desiderio di bellezza che ha sempre rinforzato l’innato elan vitale che ogni giovane figlio di donna porta in sé sin dal suo concepimento.

Che altro è la vita se una lotta contro i suoi nemici?

Avete mai rivolto il vostro sguardo al filo d’erba schiacciato sotto la pietra?

Avrete visto questa impari lotta di un minerale contro un essere vivente, seppure ancora nella forma della vita vegetale?

Fermiamoci un po’!

Che fa la tenera pianticella?

Il peso della pietra la schiaccia.

Ed essa si piega. Ma non accetta la morte.

Porta in sé una forza che la spinge a cercare la luce del sole.

Quella luce bella, luminosa, splendente che la vivere, la fa crescere, la fa esplodere nelle meravigliose forme dei suoi rami, delle sue foglie, dei suoi fiori.

messina2E avete visto voi, come nella mia fanciullezza osservavo io, l’umile lombrico tagliato in due, che si riproduce in due nuovi esseri viventi?

In fondo, già a livello vegetale ed animale, esiste una forza di sopravvivenza alla morte che si esprime nella lotta per la vita.

Tema fascinoso, questo, che lo studio della biologia vegetale ed animale dovrebbe evidenziare sin dalla scuola dell’infanzia.

Tema fascinoso che la Pedagogia ed i Maestri dovrebbero ben tenere presente.

Élan vital!

Slancio vitale. Bisogno di sopravvivere, bisogno di vivere, bisogno di affermarsi.

O, se volete, amore della vita. Lotta contro la morte.

Tranquilla, o madre amorosa!

Non cadrà il tuo neonato posto sul fasciatoio. Non affogherà sotto l’azzurro lenzuolino di lino

L’istinto di vita lo proteggerà.

Non si attacca al tuo amoroso seno?

Nessuna preoccupazione!

Sentirà il richiamo del suo latte materno e lo succhierà avidamente.

E poi?

E poi, la vita è bella!

E nessun bimbo la rifiuta.

La BELLEZZA SALVERà IL MONDO.

Lo scrive Granfranco Ravasi.

La BELLEZZA EDUCHERà IL MONDO.

Lo scrive il più grande dei papi, PAPA FRANCESCO.

L’amore della BELLEZZA ha rinforzato l’innato amore della vita di MAURA MESSINA.

Presumo di non abusare della pazienza di nessuno se sottolineo la grande responsabilità dell’educazione alla bellezza che solo le mamme avvertono istintivamente.

Ci siamo mai domandati perchè ogni gestazione è accompagnata dalla preparazione del corredino del nascituro?

messina3La più povera delle mamme accoglierà il suo bimbo in un nido bello.

Oddio!

Ma non fanno la stessa cosa gli uccelli?

Quanta bellezza nell’intreccio di un nido di uccello tessitore!

E nella plastica di un nido di rondine!

E poi il Canto e la Musica.

O Rosalia, chissà quali melodiosi canti avrai intonato alla meravigliosa bimba, per nove mesi in seno portata!

E tu, Angelo, certamente un flauto dolce avrai suonato quando Maura è nata!

E voi, Maestre della Scuola dell’infanzia e della Scuola primaria, certamente l’educazione al suono ed all’immagine di Maura avete coltivato.

Il resto taccio!

Dico solo che Maura Messina, figlia di Angelo e di Rosalia, anche nelle scuole frequentate, comprese quelle universitarie, l’Amore della BELLEZZA DELLA VITA ha imparato.

Maura ha coltivato l’innato amore della vita.

Questo amore, unito alla KEMIOTERAPIA, l’ha aiutata a gettar via dal suo corpo l’ingombrante, pesante, acido limone di Sorrento.

 

Tutti i miei Canti −ed altro− sono pubblicati in:

http://www.edscuola.it/dida.html

Altri saggi sono pubblicati in

www.rivistadidattica.com

E chi volesse approfondire questa o altra tematica

basta che ricerchi su Internet:

“Umberto Tenuta” − voce da cercare

F. Jaeggy, Sono il fratello di XX

L’altro della vita

di Antonio Stanca

jaeggyFleur Jaeggy è una scrittrice svizzera. E’ nata a Zurigo nel 1940 e fin dall’infanzia è stata in collegio. Molti collegi ha conosciuto ed in essi ha studiato, è diventata giovane. Intorno agli anni Sessanta si è trasferita a Roma dove ha frequentato gli ambienti culturali ed artistici dell’epoca. Nel 1968 si è stabilita a Milano dove ora vive sposata con Roberto Calasso, scrittore ed editore. Ha sempre scritto in lingua italiana e nel 1989, quando aveva quarantanove anni ed aveva già pubblicato altre opere, conoscerà il successo con il romanzo I beati anni del castigo. Per questo nel 1990 le sarà assegnato il Premio Bagutta.

Oltre che scrittrice la Jaeggy si rivelerà saggista e traduttrice. Scriverà testi teatrali. Nel 2003 il “ Times Literary Supplement” dichiarerà libro dell’anno il suo romanzo Proleterka pubblicato nel 2001 e vincitore del Premio Viareggio 2002.

Una figura importante è la Jaeggy nel contesto della letteratura contemporanea. Da molti anni collabora con la casa editrice Adelphi di Milano e a Luglio del 2014 per i tipi dell’Adelphi, nella serie “ Fabula”, è comparsa una sua nuova opera, Sono il fratello di XX, pp.129, € 15,00. E’ una raccolta di racconti, alcuni brevi, altri brevissimi, altri ampi, nei quali la Jaeggy si mostra con lo stile che ormai la distingue perché fatto di piccole frasi, a volte ridotte ad una sola parola, d’improvvisi cambiamenti di scena, di persona e tempo dei verbi, d’insoliti accostamenti, di bruschi passaggi, di gravi contrasti. Anche i contenuti sono i suoi soliti dal momento che dicono di situazioni oscure, tenebrose vissute da persone diverse in tempi e luoghi diversi. Sono soprattutto donne, donne bambine, ragazze, giovani, i personaggi della scrittrice. I loro sono esempi di una vita rimasta esclusa perché altra da quella che generalmente scorre, di una condizione umana, sociale che è stata impedita nella sua crescita, ostacolata nella sua formazione, di un’umanità della quale non si sa, non si parla. Una scoperta diventa quella compiuta dalla Jaeggy, una rivelazione delle sofferenze, dei drammi che avvengono, che esistono oltre quel che si vede, si sente, si dice. Di dolori sconosciuti, rimasti nascosti narrano i suoi racconti, di danni provocati dalle famiglie, dalle case, dalla società. Di questi parla la scrittrice perché vuole che si conoscano, si sappiano.

C’è un’altra dimensione, vuol dire la Jaeggy, oltre quella che appare, è la dimensione di chi è rimasto imprigionato tra i suoi pensieri, di chi non è riuscito a liberarsi da paure, terrori che lo assillavano, di chi è stato privato dei suoi primi bisogni, di chi si è costruito un universo d’immagini, di figure ed in esso si è rifugiato, di chi è convinto di comunicare, di scambiare con i defunti, con i loro oggetti e a questi attribuisce un’anima, questi ama. Sono persone che non hanno avuto accesso nella vita, non sono entrate a far parte di essa, ne sono rimaste fuori, isolate. Sono deviate e questa condizione sentono come l’unica, in questa fanno rientrare regole, norme a volte assurde, cruente.

Turbano certe situazioni di questi racconti anche perché giungono improvvise come voluto dallo stile lapidario della Jaeggy, dal suo procedere per enunciati e con una velocità che attira ma che pure inquieta. E’ la tecnica di quel cinema che fa vedere solo immagini brevi e veloci quasi fossero scatti fotografici volti a sorprendere, abbagliare. Questo sembra l’intento della scrittrice, enunciare, proclamare, dire ad alta voce di quant’altra vita c’è oltre quella conosciuta. Un grido d’allarme può essere inteso il suo, una richiesta d’aiuto rivolta ad un mondo, ad un tempo completamente ignari di chi è rimasto solo e ad ogni male esposto.

F. Batini, Drop-out

Federico Batini, Drop-out
2014, Fuorionda (collana AltrEducazione. Voci)

di Vanessa Benedetti

batini“Drop-out” è un termine attraverso cui si fa riferimento a tutti quei giovani che hanno lasciato un percorso di studi o formativo senza aver acquisito una certificazione formale.

E’ proprio a questi ragazzi/e che Federico Batini, ricercatore e docente di Pedagogia sperimentale, Metodologia della ricerca educativa, dell’ osservazione e della valutazione e di Pedagogia sperimentale e consulenza pedagogica presso il Dipartimento di Scienze Umane e della Formazione dell’ Università degli Studi di Perugia, autore di questo testo (pubblicato dalla casa editrice “fuori|onda” per la collana AltrEducazione, maggio 2014 – Lavis, TN) ha rivolto la sua attenzione, ed è su di loro e sul loro mondo che ha deciso di aprire una finestra per permettere ai lettori di “guardare” più da vicino una realtà, quale quella dei drop-out, che si sta facendo sempre più imponente.

Il volume si compone di 179 pagine ed è articolato in due parti, la prima delle quali, intitolata “Perché ascoltare i drop-out?”, ci offre una panoramica teorico-concettuale dell’ argomento trattato e una generica ma chiara presentazione di alcune ricerche fatte nell’ ambito dell’ apprendimento. In questa parte prima è inoltre presente la descrizione dettagliata della ricerca che Batini ha svolto in relazione al fenomeno in questione.

Tale ricerca è stata realizzata su un campione di 67 soggetti drop-out (diviso in una componente perugina, costituita da un campione a valanga di 40 soggetti, e da una componente aretina, composta da 27 soggetti, al tempo frequentanti tre percorsi formativi dell’ Amministrazione Provinciale di Arezzo ) di età compresa tra i 16 e i 18 anni ad ognuno dei quali è stata somministrata un’ intervista narrativa semi-strutturata che ha permesso di ottenere un materiale di ricerca adeguatamente rispondente alla finalità stessa di quest’ ultima, ovvero quella di “lasciar emergere una voce, anzi una pluralità di voci”.

Dal metodo di analisi delle interviste adottato, che è stato affidato ad un processo ermeneutico e alla costruzione di categorie ex post, si evince ciò che “sta dietro” e, soprattutto, “dentro” al singolo ragazzo/a che decide di abbandonare la scuola; appaiono chiare le motivazioni che lo hanno condotto/a a tale scelta.

Nella seconda parte, che non a caso si intitola proprio “Voci”, si possono riscontrare i risultati della ricerca, vengono infatti riportate nero su bianco tutte le interviste raccolte nell’ area di Arezzo e, per motivi di spazio, solo alcune di quelle raccolte nell’ area di Perugia.

Sono gli stessi ragazzi quindi che, raccontando le loro esperienze scolastiche e non solo, ci permettono di comprendere come e perché si diventa un drop-out ed è leggendo le risposte che molti di loro hanno dato in particolar modo alla domanda “come mai hai deciso di abbandonare il percorso scolastico?” (una risposta ad esempio è stata “..a scuola non mi piaceva come facevano lezione e non mi permettevano di apprendere..”) che ben si comprende quanto questi ragazzi si siano sentiti poco, o per niente, parte integrante e attiva del loro stesso processo di formazione ed istruzione all’ interno del proprio contesto scolastico che, primo fra tutti, avrebbe invece dovuto saper rispondere ai loro bisogni formativi.

Leggere questo testo sarebbe e dovrebbe essere un’ esperienza interessante non solo per insegnanti, studenti o per gli stessi drop-out, ma per chiunque abbia a cuore il futuro delle nuove generazioni, quella attuale e quelle che verranno.

Desta forte preoccupazione sapere che secondo i dati Eurostat (2013), riportati anche in questo volume, in Italia, il tasso di abbandono scolastico (relativo all’ anno scolastico 2012-2013) è del 17,6 %, mentre sono molti i Paesi europei che hanno già superato, o sono vicini a farlo, il 10% che è il tasso posto dall’ Unione Europea come obiettivo da raggiungere entro il 2020.

Questi dati dovrebbero farci profondamente riflettere e dovrebbero rappresentare per noi uno stimolo ulteriore nella lotta ad un fenomeno come quello dei drop-out.

Questo è un testo che può essere considerato come un punto di partenza per il raggiungimento di un così nobile obiettivo perché alla sua base c’ è esattamente la convinzione che è proprio a partire dall’ ascolto, da un vero, attento e profondo ascolto, dei ragazzi stessi che si può veramente dare inizio ad un processo di autentica e positiva trasformazione tanto dell’ istituzione scolastica, quanto della società in generale.