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Critica della ragion MIUR

Critica della ragion Miur

di Gabriele Boselli

 

La conoscenza “modo maxima rerum, tot generis natisque potens, nunc trahor exul, inops”.

Citazione da Ovidio , ripresa da Kant, pref. KRW 1781

 

Nella frase a margine, Kant si riferisce alla metafisica ma oggi lo stesso può dirsi oggi della conoscenza stessa, almeno quella che (non) compare nei documenti ufficiali del Miur. Documenti alieni dallo state of the art della ricerca, da una cultura ormai divenuta pluriassiale e incrementata dalla globalizzazione: la letteratura generale, le scienze umane e quelle del mondo fisico procedono a passi giganteschi, dentro a una rivoluzione del pensiero di potenza analoga a quella che si ebbe nei primi vent’anni del secolo scorso.

Poco di questi progressi arriverebbe nelle scuole, non fosse per la personale consuetudine di studio e di ricerca di tanti insegnanti, dirigenti e ispettori divenuti tali per concorso e che continuano a studiare. Dal MIUR, segnali di contatti culturali significativi con il Novum non sono pervenuti e quelli con il classico si vanno dissolvendo, ormai da molto tempo a questa parte. Penso alle clamorose inconsistenze e i ritardi su cui si muove la cultura ministeriale degli ultimi venti anni; alle prediche seriose e noiose, certo per nulla appassionanti dei corsi di aggiornamento che costituiscono sostrato e a volte alibi di non-pratiche (pratiche avulse da ogni pensare l’Intero). Penso all’ Analitica del Vuoto delle Indicazioni, alla programmazione per competenze, alla valutazione di docenti e dirigenti, a una del tutto sproporzionata e fuori dal contesto alternanza scuola-lavoro; creature meramente casuali, frutti generati da infausti connubi avvenuti negli asfittici circoli di viale Transtevere. Constato anche la quasi totale assenza di studiosi di chiara fama in quei paraggi e lo scarso impegno di quelli che hanno concesso il nome.

Ma forse il vento del nulla che spira da quei luoghi come pure tutto quel che compare sulla plancia di comando, sullo snapchat o si attiva dal chip endocranico dei DS-manager (ancor minoranza nella categoria ma in rapida diffusione) non sono del tutto casuali. Costituiscono Indicazioni nascoste e inducono in non pochi operatori scolastici incapacità di pensiero critico e creativo, inibiscono la produzione di innovazione non asservita. Cercherò in questo scritto di delinearne i tratti.

 

Non conoscenza ma competenze

I giovani dovrebbero essere indotti a consumare (e a mostrare con i testi INVALSI di avere ben digerito) hamburger di pensieri precotti, appena passati al forno a microonde degli apparati d’inculturazione destinati alle masse. Il sapere promosso non è quello che abita nel circuito tra la ricerca e quanto avviene in interiore homine ma quello che imperversa sulla superficie delle reti tecniche di comunicazione dell’apparato economico. Poco spazio va lasciato in ogni disciplina al pensiero autentico (personale, critico, creativo) e allora si tenta di appesantire la generalità dei soggetti sotto il peso dei prodotti verificabili e dunque controllabili fabbricati per le masse. Quel che chiamano “valutazione di sistema”.

Le circolari ministeriali ci chiamano agli obiettivi, micro-fini privi di prospettive e di ulteriorità, più insensati degli atomi di Lucrezio (quelli almeno avevano un clinamen originario), I DS-manager incitano a correr dietro a questi senza sosta, come cagnolini addestrati a inseguire gli oggetti lanciati dal padrone. Ci si vorrebbe de-realizzati dal “Pensiero unico dominante” (Enzo Tiezzi “Fermare il tempo, Raffaello Cortina) della Grande Macchina virtuale delle informazioni, controllata da un potere anonimamente oligarchico che tende solo a ingrandirsi e intensificarsi con gli strumenti della tecnica senza sapere neanche lui a qual fine. La macchina MIUR apprezza e alimenta non le conoscenze (difficilmente dominabili dal potere) ma le competenze, ovvero conoscenze servili, capacità pratiche utili in quanto rigorosamente definalizzate.

Non succede solo nelle scuole MIUR o non-MIUR: ai margini della galassia nascente della grande letteratura e della nuova scienza ignorate dalle pagine ufficiali, un buco nero tenta ovunque di divorare il pensiero antico e quello nuovo. Tra la fine del Novecento e l’inizio di questo secolo il gorgo ha introiettato la forza della tecnica e dunque aumentato ogni anno la sua potenza di annichilamento; costellazioni di stelle ricche di luce rischiano di spegnersi nel suo fondo. Ma non sarà così.

 

Tradizione rinnegata, chiusura dello spettro d’innovazione

Socrate ci aveva insegnato la priorità della domanda sulla costituzione del sapere, dell’apertura sulla scena, della finestra sulla luce; Heidegger a interrogare le domande, aprire e mobilizzare le fessure, rifrangere le luci ad ampio spettro traendone infinite e mutevoli sfumature; Foucault ci chiama a evadere dal carcere del politicamente corretto, a giocarci, con le parole stantie dell’ufficialità. Certa cultura ministeriale e particolarmente quella INVALSI è invece la cristallizzazione sporca dell’ufficialità del fenomeno, delle risposte prevedibili che comprende solo quelle attese e condanna quelle imprevedibili, che non consolidano ma trasformano. I sistemi precostituiti di verifica delle competenze sono i nuovi cimiteri della conoscenza.

La forma di non-pensiero meglio individuabile nei testi trasteverini è quella che seleziona, incasella, archivia e tratta le idee come puri oggetti in sé, indipendenti dal loro essere-ad-altro e dal contesto, semplificati e perfettamente amministrabili e verificabili da qualunque collaboratore amministrativo.

I dirigenti scolastici rischiano con il nuovo sistema di valutazione; non più dirigenti (dirige chi ha autonoma intelligenza del fine e individua gli obiettivi) ma di fatto collaboratori amministrativi. Anche per gli insegnanti che continuassero a nutrire idee maturate in un personale confronto con la cultura e la scienza è stato introdotto il deterrente del bonus, strumento di controllo della libertà di insegnamento, finora protetta da una Costituzione presto forse liquidata.

 

Scuola luogo di pensieri liberi

Certo, constatiamo con Severino la progressiva dominazione della tecnica sulle altre forme del pensiero. Ma la scuola non dovrebbe esserne dominata. j

Non è invero tutta colpa della Minerva romana: la macchina mondiale del non pensiero è ovunque diretta contro le strutture di pensiero complesso, autonomamente ordinato, distinto tra piani soggettivi e intersoggettivi, articolato su grandi costellazioni di idee. Produce pertanto (la grande quantità determina impressioni di qualità) enormi flussi di pensiero semplice, reso in un linguaggio costituito da frasi correlate da meri rapporti di successione, impone gerarchie estrinseche e “passanti” solo per forza di ripetizione. S’imprigionerà la progettualità del soggetto in visioni ristrette e schiacciate sul presente e sulla funzionalità economica. E niente atti ma “Fatti”, atti depotenziati e pesanti sul soggetto con tutta la loro gravità aliena.

Il pensiero unico dell’economia combinata con la tecnica, le gravità intellettuali del sistema informativo-formativo globale, lo psicologismo da fabbrica e le impostazioni settoriali della questione pedagogica (didatticismo etc.), i saperi aziendali come saperi egemoni del mondo dell’istruzione: questi i nostri avversari.

 

Fuoriuscire

Nella scuola italiana e nell’università italiane sono partiti o stanno partendo apparati di valutazione finalizzati a sottoporre a verifica attraverso test la capacità di queste istituzioni di modellare il pensiero secondo le esigenze dell’economia finanziaria e di neutralizzare le anime irriducibili. Le rilevazioni condotte dagli inquisitori istituzionali (quali comunque non si ridurranno a essere gli ispettori provenienti da veri concorsi per titoli ed esami) serviranno poi ai dirigenti (pardon, managers) eterodiretti per individuare meglio chi “rema contro”, colpire le teste pensanti e premiare con la serie A o B e congrui premi di qualità quelle piene solo di “pensiero unico”.

 

Ho raccontato di alcune delle tante forme della trionfante “pedagogia” ministeriale, aliena dalla complessità e dalla ricchezza di infinite storie di vita e di pensiero.

Ci sarebbero molti motivi di pessimismo, ma forse non è proprio così. Forse il sapere costituente –aiutato da una pedagogia che non conduca ma introduca- potrebbe rifarsi. Credo che la maggioranza pensante che lavora nella scuola meriti e saprà conquistarsi di meglio. Dobbiamo cominciare a svegliarci e a parlare, ridestando chi ci è vicino. Credo nella possibilità di restare (e di educare a divenire) soggetti non situati nella cronaca ma nella storia; soggetti intellettualmente, eticamente e perfino politicamente consapevoli, critici e impegnati, cioè attivamente soggetti. Non sarà possibile eliminare per catalogazione e valutazione “meritocratica” tutte le forme di pensiero pensante; né mortificare tutti i maestri autentici, quelli capaci di pensieri culturalmente fondati e originali. Tremila anni di pensiero occidentale, la recente ripresa della ricerca scientifica di base, l’entrata nel circuito mondiale della conoscenza di culture antichissime come quella indiana e cinese non possono essere cancellati e l’ipersistema della tarda modernità non è onnipotente; nemmeno il Palazzo.

Per fortuna del mondo, la scuola –dal nido all’università- c’è.


 

Bibliografia

 

Severino Il destino della tecnica Rizzoli, Milano, 1998

Schutz Don Chisciotte e il problema della realtà, Roma, Armando

Erbetta, Educazione ed esistenza, Torino, Il Segnalibro 1998

G.Boselli Non-pensiero e oltre, Erickson, Trento, 2007

Sassen Territorio, autorità, diritti. Assemblaggi dal Medioevo all’età globale, B. Mondadori, 2008

Melucci Scuola e mutamenti antropologici nel tempo della singolarità e della pluralità: appunti per una pedagogia della trans-formazione in Studi e documentazione, riv. USRER dicembre 2013

A. Rovatti Una società di sonnambuli da Il Piccolo del 20 giugno 2014

Lavorare manca

Lavorare manca

di Giovanni Fioravanti

 

Siamo una repubblica fondata sul lavoro, ma pare che proprio questo sia il nostro anello più debole. Nella nostra cultura si mescolano ancora contraddizioni che finisco per impaniarci. Non abbiamo mai considerato il lavoro come nobile; molto più nobili gli “otia studiorum”.

Del resto ci siamo formati all’interno di un sistema di istruzione che anche nominalmente relega il lavoro agli ultimi gradini della scala scolastica. Perché, per retaggio gentiliano e non solo, le scuole che con il lavoro si sporcano le mani da noi sono “tecniche” o “professionali”, le altre che si occupano delle superiori funzioni della mente sono “licei”: luce della scienza e delle arti.

Neppure la sinistra, che storicamente del lavoro ha fatto la sua forza, è riuscita a liberarsi dall’idea del lavoro come condanna biblica da cui affrancarsi. In compenso a liberarci del lavoro sarà la progressiva finanziarizzazione dell’economia, non come conquista sociale, ma come condanna a un’esistenza sempre più triste ed inutile.

In tempi di istruzione permanente, di istruzione per l’intero arco della vita, sarebbe giunta l’ora di rivedere radicalmente il nostro sistema formativo e di ricondurre ad unità, in nome dell’istruzione e del lavoro per tutti, licei, istituti tecnici, istituti professionali e sistema di istruzione e formazione professionale, che resta un ibrido, una sorta di figliastro nelle mani di regioni e enti professionali. Ma guai rivoluzionare il sistema formativo nel nostro paese, perché subito si leverebbero le voci di protesta dei fautori della superiorità dell’istruzione classica da un lato e dall’altro coloro che, di fronte alla contaminazione tra scuola e lavoro, griderebbero contro la precoce professionalizzazione e contro lo sfruttamento dei giovani.

Così nel nostro paese appena il 4% degli studenti studia e lavora, contro l’oltre il 20% della Germania. Il sistema tedesco di alternanza studio-lavoro si chiama Practicum. Scuola e mondo delle imprese si incontrano e s’intrecciano. Gli studenti sono tenuti a svolgere un’attività pratica retribuita durante il liceo o l’università, di conseguenza la disoccupazione giovanile è di poco superiore al 6% contro il nostro 40 e passa.

In genere il Practicum dura otto settimane scaglionate durante l’anno scolastico, al termine viene sostenuto un esame e rilasciato un patentino. L’aver seguito un corso da infermiere durante il liceo fa guadagnare punti e rende possibile l’accesso alla facoltà di medicina anche se a numero chiuso. Altra cosa è la sperimentazione dell’alternanza scuola-lavoro avviata nel nostro paese in attuazione del Jobs act. Sotto questo aspetto ben venga la Buona scuola che ha reso la formazione on the job obbligatoria, anche se con sole 200 ore per i licei contro le 400 per istituti tecnici e professionali.

Far incontrare l’apprendimento d’aula con quello di bottega pare però incontrare degli ostacoli secondo le ultime dichiarazioni del ministro Poletti che accusa alcune scuole e professori di boicottare ciò che con la riforma è divenuto legge. Secondo il ministro i docenti farebbero resistenza, mettendo il compito in classe il giorno dopo le ore di alternanza. È vero che il ministro Poletti sui giovani e la scuola finora ci ha sempre azzeccato poco. Come è altrettanto vero che nelle nostre scuole non manca chi non vede di buon occhio stage ed alternanza scuola-lavoro.

Il progetto a regime coinvolgerà oltre un milione e mezzo di studenti, un impatto notevole su un sistema caratterizzato soprattutto da un tessuto di piccole e medie imprese dove è più difficile accogliere gli studenti e dalle aree del Sud dove le aziende non sono numerose, a questo si deve aggiungere l’organizzazione e la preparazione degli insegnanti tutor, la stipula delle assicurazioni e il registro delle aziende disponibili che ancora non è pronto.

Per il momento i dati a disposizione non sono per nulla promettenti, secondo i numeri forniti dal sondaggio del portale “skuola.net”, solo il 25% degli studenti coinvolti fa esperienza in azienda, mentre oltre il 50% lo stage lo fa per finta a scuola, attraverso la simulazione d’impresa.

Può essere che la nostra scuola non brilli per la capacità di preparare al meglio gli studenti ad entrare nel mondo del lavoro, anche se non è così dappertutto e non mancano progetti di eccellenza.

Il problema vero, considerati i dati che indicano quanto sia faticosa da noi la ripresa economica, è che il nostro sistema di imprese nella maggioranza dei casi non è in grado di aggiornarsi né di aumentare le competenze dei lavoratori. Da un’indagine di AstraRicerche risulta che solo il 33% delle nostre imprese monitora regolarmente le necessità del proprio mercato di riferimento in termini di competenze, mentre il 36% lo fa in modo saltuario.

Già questo rende difficile la diffusione del dialogo tra scuole e aziende che è la condizione preliminare perché l’alternanza tra scuola e lavoro garantisca poi ai nostri giovani un concreto sbocco occupazionale e alle aziende il vantaggio di poter contare su una manodopera qualificata.

L’impressione è che dobbiamo ancora fare i compiti a casa e che li debbano fare soprattutto il sistema scolastico e il sistema dell’imprese.

Intanto è necessario acquisire culturalmente l’importanza dell’intreccio tra formazione scolastica e formazione sul lavoro, coniugare sapere e lavoro come condizione necessaria alla piena espressione e realizzazione di se stessi.

Fare sì che il dialogo tra istituzioni scolastiche e imprese divenga un fatto normale, finisca d’essere guardato con sospetto o per interesse di bottega, ma come imprescindibile nella preparazione dei nostri ragazzi e per lo sviluppo del paese. Che non è cosa di poco conto.

Dall’adultità dei genitori all’adolescenza dei figli

Dall’adultità dei genitori all’adolescenza dei figli

di Margherita Marzario

Abstract: L’Autrice ci racconta la ricchezza del rapporto tra genitori e figli, illustrandone le implicazioni e le dinamiche nel momento assai particolare in cui la maturità dei genitori si sperimenta e si confronta con l’adolescenza dei figli

 

Negli anni ’60 la psicologa Angiola Massucco Costa scriveva sull’adolescenza: “Fase di sviluppo che si estende fra i 13 e i 21 anni in media per le ragazze, e i 15 e i 21 per i ragazzi. Ha inizio con la pubertà o maturazione sessuale, ma continua parecchi anni dopo. È caratterizzata da comportamenti emotivi, sociali, intellettuali, quali irrequietezza, interessi eterosessuali, crisi religiose e morali, vivo sentimento personale, affermazione delle proprie tendenze, distacco dalla famiglia, ambizioni, spirito di riforma sociale, interesse per la cultura, scelta della professione, ecc. Può essere più o meno complicata e prolungata da pressioni familiari e sociali”. Negli anni duemila, invece, l’adolescenza è diventata sfumata e indefinibile anche perché tale è diventata la genitorialità. Sostenendo la genitorialità in questa particolare fase della vita dei figli si sostiene anche l’adolescenza affinché sia tale.

Innanzitutto bisogna evitare le prese di posizione, gli atteggiamenti bruschi. Lo psicologo e psicoterapeuta Fabrizio Fantoni scrive: “Spesso gli interventi contenitivi peggiorano la situazione. Occorre pensare ad atteggiamenti condivisi con il ragazzo, oltre che con il papà. Chiedendo all’adolescente di prendere le distanze, anche fisiche, magari uscendo di casa per far sbollire la rabbia. Oppure può essere l’adulto ad allontanarsi, in modo che l’adolescente sia messo di fronte alla propria responsabilità verso sé stesso e verso le cose. E se l’adolescente manca di rispetto al genitore, è necessario mostrare il nostro dispiacere con distacco, magari per qualche giorno, anche quando si siano accettate le scuse. Quando poi il ragazzo è tranquillo, è bene aiutarlo a riflettere sulle sue emozioni, perché capisca quale di esse è così intollerabile da provocare reazioni simili”. L’art. 1 della L. 4 maggio 1983 n. 184 “Diritto del minore ad una famiglia” è una delle prime disposizioni dell’ordinamento giuridico italiano in cui si parla di “diritto di crescere” e l’adolescenza è proprio il momento della crescita, il taglio definitivo del cordone ombelicale in cui gioca un ruolo rilevante il padre. La legge 184/1983 offre spunti alla genitorialità in generale, a cominciare dal dover considerare i figli dati in affidamento o adozione dalla vita e ciò emerge in maniera preponderante durante la loro adolescenza. I figli non vanno contenuti, ma abbracciati perché, prima o poi, l’abbraccio si apre per lasciare libera la persona di andare lungo la propria strada. I bambini non hanno bisogno tanto di educazione all’affettività quanto di esempio e coerenza. Essi hanno chiaro il linguaggio dell’amore, sono gli adulti che glielo rendono confusionario e torbido. La concordanza tra labbra, coscienza e cuore fanno dell’uomo la sua coerenza, la sua bellezza, la sua grandezza: in primis i genitori. I giovani di oggi, come quelli di ogni tempo, hanno tutti delle capacità (da “contenere”): qualità, quantità e modalità di sviluppo ed espressione dipendono in gran parte dagli adulti.

Il dott. Fantoni aggiunge: “Così il ragazzo scarica queste emozioni che non riesce più a pensare, trasformandole in azioni aggressive verso gli oggetti. Il suo nuovo corpo, più prestante, amplifica la portata di questi tsunami emotivi. Come se mettesse in guardia gli altri, e sé stesso, nei confronti del suo potenziale distruttivo. Occorre armarsi di molta pazienza. L’intervento educativo del genitore, anche se non ha risultati immediati, favorisce l’instaurarsi di modalità più controllate, meno agite e più pensate. Si può cercare di prevenire queste eruzioni, aiutando il ragazzo a riconoscerle in anticipo ed evitando che si raggiunga il livello di esplosione. Quando invece ciò avviene, non credo serva a molto frenarlo a ogni costo”. Prima di arrivare all’esplosione o all’implosione dell’età adolescenziale, all’isolamento e allo smarrimento di questa fase, sarebbe bene fornire al bambino tutti i mezzi adeguati (e non qualsiasi) di espressione ed espressività (una sorta di arteterapia preventiva). “Gli Stati parti devono rispettare e promuovere il diritto del fanciullo a partecipare pienamente alla vita culturale ed artistica ed incoraggiano l’organizzazione di adeguate attività di natura ricreativa artistica e culturale in condizioni di uguaglianza” (art. 31 par. 2 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Gli Stati e, pertanto, tutti quelli che hanno ruoli di responsabilità devono riprendere coscienza di ciò per evitare i costi economici e sociali delle tante perdite esistenziali o fisiche di adolescenti.

Il dott. Fantoni soggiunge: “Che cosa possono fare i genitori? Prima di tutto considerare i videogiochi come forme di espressione della vita interiore del ragazzo. Ci si lamenta che molti parlano poco o per niente, ma per conoscere un adolescente bisogna guardarlo in azione nelle sue attività. Osservare le sembianze che egli assume nella finzione del gioco, per capire quali volti dell’adolescente esso incarna, per coglierne aspettative, desideri, timori, mancanze. Aprire una comunicazione partecipe sulle avventure, sulle prodezze, sulle vittorie o sulle sconfitte che incontra. Solo così si possono stabilire regoli comuni e condivise di utilizzo”. Condividere, conversare, comunicare e non comandare, per entrare in sintonia con i figli, soprattutto nell’età adolescenziale. Orientare e consigliare (anche nell’uso dei videogiochi o altre tecnologie), come si legge nell’art. 5 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

Il dott. Fantoni precisa: “Occorre che le relazioni affettive siano lasciate all’iniziativa dei ragazzi, e non alle nostre, che confondono le acque e diventano intrusioni in cui forse proiettiamo sull’adolescenza dei figli desideri e mancate soddisfazioni di quando avevamo la loro età. Stiamone fuori, osserviamo senza facilitare troppo, evitiamo giudizi, sia positivi sia negativi verso le persone che i nostri figli scelgono. Interveniamo piuttosto solo per segnalare che ogni relazione implica un’assunzione di responsabilità verso sé stessi e verso gli altri e quando pensiamo che questo atteggiamento responsabile venga meno”. “Nessuno potrà essere sottoposto a interferenze arbitrarie nella vita privata, la famiglia, il domicilio, la corrispondenza, né a lesioni dell’onore e della reputazione” (art. 12 Dichiarazione Universale dei Diritti Umani). Si ha diritto alla propria vita privata indipendentemente dall’età, anzi si deve essere educati sin da piccoli a viverla bene nel rispetto di sé e degli altri.

Anche lo psicoterapeuta danese Jesper Juul afferma: “L’adolescenza di un figlio destabilizza, inquieta, provoca. E spesso trova i genitori impreparati. L’adolescenza non è una malattia e anziché sfuriate, minacce, pretese di obbedienza e punizioni si può – anzi si deve – usare sempre e comunque l’arte del dialogo con i propri figli. La chiarezza e la sincerità, insieme al tentativo di comprendere il punto di vista dell’altro, servono più di mille sgridate”[1]. Nel dialogo si trova sempre la soluzione e gli adolescenti, anche se inesperti di vita, sono traboccanti di vitalità che bisogna consentire loro di esprimere con l’esplosione tipica di quest’età e non reprimerla nell’implosione cui si assiste sempre più tristemente. Il legislatore della riforma del diritto di famiglia del 1975 era stato lungimirante prevedendo il coinvolgimento dei figli adolescenti nelle questioni di famiglia, ma purtroppo ciò è rimasto disatteso: “In caso di disaccordo ciascuno dei coniugi può chiedere, senza formalità, l’intervento del giudice il quale, sentite le opinioni espresse dai coniugi e, per quanto opportuno, dai figli conviventi che abbiano compiuto il sedicesimo anno, tenta di raggiungere una soluzione concordata” (art. 145 comma 1 cod. civ.). Il dialogo è un’arte rilevante da praticare con i propri figli, indipendentemente dall’età. L’arte è qualcosa che si coltiva, si affina nel tempo e che non si può improvvisare solo quando necessario.

Con gli adolescenti si può e si deve dialogare su tutto e con un linguaggio opportuno affinché quelle che sono le criticità adolescenziali non diventino patologia o altro. “Non aver mai vegliato un cadavere è una metafora di come la società del narcisismo abbia relegato nella rimozione educativa e culturale la malattia e la morte, rendendo osceno e inaccessibile il discorso sulla morte e sulle fantasie suicidali” (dal libro “Uccidersi. Il tentativo di suicidio in adolescenza” di Gustavo Pietropolli Charmet e Antonio Piotti). È necessario ed urgente preparare le nuove generazioni alla morte, come parte della vita e non come negazione della vita. “[…] occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società, ed allevarlo nello spirito degli ideali” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). “Appieno” comprende tutti gli aspetti della vita: gli adulti, quindi, coltivino la biofilia (amore per la vita) e non la necrofilia (amore per la morte, per cose morte come soldi, case, vestiti o altro).

Come ricorda lo scrittore Erri De Luca: “Ho lasciato da ragazzo la casa dei genitori. Mi staccai dalla città di origine, dall’avvenire apparecchiato. Partii a mosca cieca, biglietto di semplice andata. Scesi dal treno in un’altra città, cercai di dormire presso affittacamere intorno alla stazione, feci per campare il fattorino. Sperimentai la libertà, che non è un elenco di diritti da godere, ma uno sbaraglio. Se non è spesso un deserto, non è libertà”[2]. Ogni ragazzo va edotto e condotto, non indotto, a intraprendere la propria strada in cui sperimentare la sua vita (e non quella designata o disegnata da altri) e la libertà, che è ciò che piace, aggrada, si vuole (è questo il significato etimologico), ma fa provare anche quello che non piace, frustrazioni, fallimenti, scossoni, comunque emozioni attraverso cui si conosce e ci si conosce.

A proposito del lasciar cercare, trovare e provare la strada tra la libertà (ciò che si vuole fare) e la liceità (ciò che è permesso fare), bisogna tener conto della presenza assorbente della tecnologia nella vita dei ragazzi, nativi digitali: “I nuovi media fanno parte del nostro ambiente quotidiano di vita e, soprattutto, di quello dei bambini e dei ragazzi: fare come se le nuove tecnologie non esistessero non rispetta la loro essenza sociale ed è sbagliato. Tra l’altro sappiamo che ciò che è proibito o vietato rischia di attirare ancora di più l’attenzione, favorendo, in questo caso, un uso nascosto e senza regole. Vanno piuttosto integrati nell’educazione famigliare e gestiti con responsabilità, non sottovalutandone i rischi ma anche valorizzando le potenzialità” (Marco Deriu, esperto di media education). Si parla di “domestication”, cioè quell’insieme di processi attraverso cui la famiglia può “addomesticare” i nuovi media, un po’ come si fa con gli animali. Tramite questa attività le tecnologie vengono integrate nelle abitudini quotidiane del nucleo familiare, con un processo che avviene soprattutto a livello simbolico fra le mura di casa ma che è un ponte con la dimensione pubblica della famiglia (l’esperta di dinamiche familiari e media Maria Filomia). In famiglia i media non devono divenire oggetto di delega educativa, isolamento o dipendenza, ma mezzo di condivisione, emozione, comunicazione, anche per consentire ai genitori di conoscere meglio i figli, le loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni (mutuando le espressioni dell’art. 147 cod. civ.). Esemplare il caso, a Lecce (inizi 2016), di un padre che, da lavoratore dipendente, si è rinnovato professionalmente diventando imprenditore e dando vita ad una startup informatica col figlio adolescente studente liceale coniugando la sua esperienza e competenza di analisi e programmazione con la duttilità e la dimestichezza dei social network e dei più innovativi sistemi di comunicazione del ragazzo. L’adolescenza stessa è una startup, letteralmente “avvio, lancio”, tecnicamente “fase iniziale di avvio delle attività di una nuova impresa” e, per questo, ha bisogno del credito, della fiducia, dell’investimento da parte degli adulti.

Si possono desumere indicazioni per i genitori da un’attenta lettura degli articoli novellati del codice civile (per mezzo della legge 10 dicembre 2012 n. 219 “Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali” e successivo decreto legislativo 28 dicembre 2013 n. 154), precisamente dagli artt. 147 “Doveri verso i figli” e 315 bis comma 1 “Diritti e doveri del figlio”, in cui i verbi “mantenere, istruire, educare e assistere” tracciano le tappe del percorso della relazione genitori-figli e in particolare l’assistenza morale è il supporto da dare agli adolescenti: assistere (letteralmente “stare presso, avanti”) significa anche ascoltare il silenzio e in silenzio e intervenire quando necessario. Ancor più emblematico è il contenuto dell’art. 315 bis comma 2 cod. civ. (che richiama l’art. 1 della legge 184/1983): “Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti”. Disposizione che non si riferisce solo ai diritti relazionali del figlio in caso di separazione/divorzio dei genitori, ma anche all’esigenza di costruire, lungo la sua infanzia, relazioni che rappresentino segni, pietre miliari durante la sua crescita, cui far riferimento, cui far ritorno. Necessità e obbligo dell’essere esempio da parte dei genitori e delle altre figure adulte che hanno responsabilità e cura dei bambini affinché siano, poi, veramente adolescenti vivendo la “loro” adolescenza (che non rilevi e non si riveli, invece, l’adultescenza degli apparenti adulti, la cosiddetta “sindrome di Peter Pan”).

Per i genitori di figli adolescenti non occorre un manuale, ma la capacità di discernere quando aprire o chiudere la mano, protendere o ritirare la mano.


 

[1] J. Juul, “Sono grande abbastanza! Stare accanto a un figlio adolescente”, Urra Edizioni 2011

[2] E. De Luca in “Variante di parabola” da “Il più e il meno”, Feltrinelli Editore, Milano, 2015, p. 12

I primi passi nel SNV

La valutazione delle scuole vista da vicino
I primi passi nel SNV

di Mavina Pietraforte
ispettrice tecnica Miur

 

Il lato umano

Esperienza interessante, umana, prima di tutto, questa del coordinamento dei Nev[1], nell’ambito del SNV.[2]

L’incontro con le persone di scuola, ognuna con un approccio diverso secondo la propria indole, il proprio temperamento, i loro sguardi, le loro trepidazioni, i loro affanni e dedizione, è l’esperienza più toccante e formativa di questa primo giro conoscitivo all’interno della scuola italiana

I luoghi e le persone bastano a suggestionare: talora incantati paesini di montagna, con figure di presidi che si stagliano nella loro coerenza e fermezza, con vene malinconiche di intellettuali prestati alla dirigenza scolastica, oppure zone di pianura contigue ai grandi centri eppure isolate, con donne dotate di pragmatismo che cercano di dominare e dirigere l’ineffabile qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento.

Con docenti volenterosi e capaci che sanno presto smontare quanto di poco convincente ci può essere in teorie didattiche calate dall’alto, o che invece si affannano a stringere certezze sempre uguali.

Ecco, tutto questo è misurabile? E’ misurabile la percezione che si può avere della scuola, di quella scuola? E’ esprimibile con un giudizio?

Forse sì, se necessario, e certamente lo si può e lo si deve ricondurre entro binari di una valutazione il più possibile oggettiva, ma la mente se ne appropria diversamente, inoltrandosi in sentieri di riflessione che non possono non andare oltre il rigido format Invalsi che si ha in dotazione.

La soluzione più immediata non può che essere quella di snellire le procedure, ridurre il carico formale di documenti che sta accompagnando questa prima fase di valutazione, e questo nel rispetto delle persone che lavorano dentro le istituzioni scolastiche, ma anche per una migliore riuscita del lavoro che si va a condurre.

Spesso ci si accorge che non sono le domande previste nella griglia a dare voce e corpo alle ansie e al desiderio di far bene dei presidi, dei docenti, ma semplicemente il loro bisogno di raccontarsi, di trovare conferma e soprattutto di non sentirsi soli.

Questo è l’orizzonte di senso della valutazione: raccogliere e ascoltare le testimonianze di chi ogni giorno è in classe, è in presidenza, è negli uffici, di chi come collaboratore scolastico coadiuva i ragazzi anche fuori le aule scolastiche in attività di socializzazione varie progettate dalla scuola.

O semplicemente accoglie il ragazzo con grave disabilità fisica, con la gioia di un inizio giornata a contatto con i suoi coetanei.

Si può dare un valutazione intesa come risultato a tutto questo questo? Non possiamo che essere consapevoli che ogni valutazione potrebbe non restituire tutta questa ricchezza umana.

 

Il lato documentale

Si potrebbe suggerire all’Invalsi di alleggerire il carico di documenti prima, dopo, durante, individuali e condivisi che ogni team deve ordinatamente compilare?

Si può far presente questo, come terza gamba del SNV? Terza gamba anzitempo definita corpo ispettivo autonomo ed indipendente , nella legge del 2011[3], ed era bello e buono crederci, e poi ridimensionata in un ridotto “contingente ispettivo”[4] nel dpr 80/13, ovvero quasi tutti quelli usciti dal concorso ispettivo bandito nel lontano 2008, ma anche qualcuno della vecchia guardia, al limitare della quiescenza, o se già in quiescenza come profilo A del team.Quasi tutti stiamo comunque dando vita al SNV.

Soffiandoci dentro un alito di capitale umano di conoscenza e competenza, di approccio empatico, tutti adottando lo sguardo dell’”amico critico”, come ama definirsi il nostro decano dirigente tecnico, G. Cerini, componente della Conferenza per il coordinamento funzionale del sistema nazionale di valutazione, e certamente non poteva che essere cosi.

Ma non basta: occorre che della nostra esperienza di valutatori si tenga conto e siano possibili e che trovino accoglienza i nostri suggerimenti.

Uno per tutti: ridurre lo spettro di indagine che la laboriosa Invalsi, sulla scorta delle sperimentazioni precedenti,[5] ha elaborato e ritenuto ineludibili, almeno in questa prima fase.

Nella complessa architettura del percorso di autovalutazione, sfociato nella proposizione del RAV alle scuole, sono state previste 5 sezioni,[6] corrispondenti a 4 parti, [7] e per ogni sezione vi è una dettagliata declinazione in area, sottoaree, indicatori (per un totale di 49) e descrittori.

Esempio: per la terza sezione del Rav, “processi, pratiche educative e didattiche”, l’area 3.2 ambiente di apprendimento, viene suddivisa in 3 sottoaree, la dimensione metodologica, organizzativa e relazionale, ciascuna con due indicatori.

Non è solo l’eccesso di analisi, che distoglie dal quadro d’insieme e sottrae tempo e risorse, ma disturba anche una certa sovrapposizione di concetti, che fa sì che vi sia una sorta di duplicazione di aree da indagare.

A mero titolo di esempio, basti considerare che aspetti inerenti sostanzialmente il ivello di rispetto delle regole di convivenza civile, ricadono nell’area dell’ambiente di apprendimento, dove appunto si trovano indicatori quali“azioni per contrastare episodi problematici”, e “ percentuale di studenti sospesi,” anziché in quella delle competenze chiave e di cittadinanza, che parrebbe più appropriata.

Ora, seppure l’area competenze chiave e di cittadinanza, inclusa nella sezione degli esiti, risponde alla logica di considerare i risultati di apprendimento in termini di competenze, è pur vero che lasciare quell’area senza indicatori ha consentito una lettura da parte delle scuole prevalentemente orientata verso l’analisi del rispetto delle regole e quindi del comportamento degli alunni. Così, per chi si trova a leggere il RAV, in vista del REV,[8] risulta di primo acchito una sovrapposizione che allontana dalla necessità di far chiarezza, nei limiti del possibile, nell’uso dei concetti pedagogici e didattici.

Meglio sarebbe stato,forse, considerare l’ambiente di apprendimento solo in termini di setting d’aula e di metodologia didattiche utilizzate, così come sarebbe stato più coerente inserire le competenze chiave nell’area del curricolo, della progettazione e della valutazione.

 

Per i futuri passi del SNV

Forse si potrebbe avviare, dopo questo primo step, un confronto produttivo tra le tre gambe del SNV, anche se una di queste non è proprio una gamba, ma piuttosto un piolo, che però ha la sua importanza per far presa e salire verso un sentiero di senso e di significato per il sistema di valutazione in todo, ma soprattutto per le scuole che hanno diritto alla valutazione, così come lo studente ha diritto ad un voto che attesti il suo livello di apprendimento, affinché sappia autovalutarsi e migliorare.

 


[1] Nucleo esterno di valutazione

[2] Sistema Nazionale di valutazione.

[3]Legge 26 febbraio 2011, n. 10

Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225:

4-noviesdecies. Con regolamento da emanare, ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è individuato il sistema nazionale di valutazione definendone l’apparato che si articola:

  1. a) nell’Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa, con compiti di sostegno ai processi di miglioramento e innovazione educativa, di formazione in servizio del personale della scuola e di documentazione e ricerca didattica;
    b) nell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema di istruzione e formazione, con compiti di predisposizione di prove di valutazione degli apprendimenti per le scuole di ogni ordine e grado, di partecipazione alle indagini internazionali, oltre alla prosecuzione delle indagini nazionali periodiche sugli standard nazionali;
    c) nel corpo ispettivo, autonomo e indipendente, con il compito di valutare le scuole e i dirigenti scolastici secondo quanto previsto dal decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150.

[4] DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 28 marzo 2013, n. 80

Regolamento sul sistema nazionale di valutazione in materia di istruzione e formazione1. Ai fini del presente regolamento si applicano le seguenti definizioni:

  1. a) S.N.V.: Sistema nazionale di valutazione del sistema educativo di istruzione e formazione, di cui all’articolo 2, comma4-undevicies, del decreto-legge 29 dicembre

2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10; b) Ministero: Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca;

  1. c) Ministro: Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca.
  2. L’S.N.V. è costituito dai seguenti soggetti:
  3. a) Invalsi: Istituto nazionale per la valutazione del sistema di istruzione e formazione, di cui al decreto legislativo 19 novembre 2004, n. 286;
  4. b) Indire: Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa, di cui all’articolo 19, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111;
  5. c) contingente ispettivo: contingente di dirigenti di seconda fascia con funzione tecnico-ispettiva, appartenenti alla dotazione organica dirigenziale del Ministero, che svolgono l’attività di valutazione nei nuclei di cui all’articolo 6 del presente decreto.

[5] VALES e VM

[6]

1) Contesto e risorse;

2) Esiti;

3) Processi pratiche educative e didattiche;

4) Processi pratiche gestionali ed organizzative;

5) Priorità;

[7] descrittiva, valutativa, metodologica-riflessiva, proattiva.

[8] Rapporto esterno di valutazione

Questo PTTI s’ha da fare o non s’ha da fare?

Questo PTTI s’ha da fare o non s’ha da fare?

 

di Agata Scarafilo

da Scuola e Amministrazione, n. 6, Giugno 2016

Monta la polemica in questi giorni dopo che le scuole, in procinto di adottare il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità (PTTI), hanno appreso di un nuovo Decreto Legislativo approvato, il 16 maggio scorso, dal Consiglio dei Ministri che, apportando numerose modifiche al D.Lgs 33/2013, abolisce il PTTI per le P.A..

Si tratta di un Decreto Legislativo che introduce il meccanismo dell’accesso civico sullo stampo del “Freedom of Information Act” (FOIA).

Tra le novità, dunque, vi è la modifica che la nuova norma apporta all’articolo 10 del D.Lgs n. 33/2013, che sarà rubricato: “Coordinamento con il Piano triennale per la prevenzione della corruzione”.

Così, con l’art.10 comma 1, del nuovo testo novellato, vengono abrogati i commi 2 e 7, a cui si aggiungono le modifiche sostanziali dei commi 3 e 8 dell’art. 10 del D.Lgs 33/2013. Per dirla in parole povere: eliminazione dell’obbligo di adottare il PTTI.

Detto ciò, riservandoci di approfondire le novità del nuovo Decreto Legislativo con un contributo mirato, ci preme in questa fase capire se le scuole dovranno o non dovranno procedere ad adottare i PTTI nei termini e nei modi previsti dalla Delibera ANAC n. 430 del 13/04/2016, che ha fornito indicazioni volte ad orientare le Istituzioni Scolastiche nell’applicazione della normativa afferente l’anticorruzione e la trasparenza.

In attesa, si spera, di una nota di chiarimenti da parte del MIUR, precisiamo che sia pur con modalità diverse permangono all’interno del nuovo testo legislativo gli obblighi di Trasparenza ed in particolare quelli previsti dall’Allegato 2.

Dal testo si evince, inoltre, che l’organo di indirizzo individuerà, di norma tra i dirigenti di ruolo in servizio, il “Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza”, disponendo le eventuali modifiche organizzative necessarie per assicurare funzioni e poteri idonei per lo svolgimento dell’incarico con piena autonomia ed effettività.

Sappiamo bene che questa unione di responsabilità, “anticorruzione e trasparenza”, nella figura dell’unico Dirigente Scolastico della scuola non è possibile ancor più perché le motivazioni sono state abbondantemente esplicitate dalle linee guida ANAC citate in premessa e di cui si è avuto modo già di parlare con il contributo dal titolo “Anticorruzione e scuola”,  pubblicato nel n. 5  di “ Scuola e Amministrazione”.

Il provvedimento, dunque, farà venir meno una parte delle disposizioni previste dalla citata Delibera Anac, ma da quando?

Alla data in cui si scrive, 23/05/2016, ritengo che non sia possibile paradossalmente prendere decisioni che vadano nella direzione della non adozione per le scuole del PTTI, la cui deroga al 30 di maggio 2016 è stata riservata, come risaputo, solo alle scuole.

L’obbligo, infatti, permarrà finché la nuova norma non produrrà di fatto i suoi effetti.

Questo perché il testo, a far data, è definitivo, ma ancora non ufficiale, in quanto bisognerà attendere la formalizzazione e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, che dovrebbe avvenire in questi giorni.

Inoltre, tranne che per diversa previsione, i decreti legislativi di solito entrano in vigore dopo 15 giorni dalla pubblicazione.

Si capisce bene che, se così fosse, l’entrata in vigore supererebbe il 30 maggio, data entro cui le scuole sono comunque obbligate ad adottare il PTTI.

Inoltre, si evince dalle prime informazioni che, dopo la pubblicazione del Decreto Legislativo, le amministrazioni avranno circa sei mesi di tempo per adeguarsi, salvo eccezioni che saranno circostanziate.

Tralasciando in questa sede le polemiche del caso, si spera che le scuole, per le motivazioni già esplicitate, non rimangano nel “limbo”, come spesso accade, in attesa di nuove linee guida sposate sulla loro specificità ampiamente riconosciuta.

Intanto, una cosa è certa: quando il Decreto Legislativo, definito sinteticamente FOIA, entrerà effettivamente in vigore,  il PTTI non s’ha da fare più!

La valutazione della dirigenza scolastica allo stato degli atti

La valutazione della dirigenza scolastica allo stato degli atti

di Francesco G. Nuzzaci

da Scuola e Amministrazione, n. 5, Maggio 2016

1.Le disposizioni originarie

 

Il Decreto Legislativo 59/98, di attuazione della Legge delega 59/97 (c.d. Bassanini 1), in parte qua confluito nell’articolo 25 del D. Lgs. 165/01, statuisce che I dirigenti scolasticirispondono, agli effetti dell’art. 21, in ordine ai risultati, che sono valutati tenuto conto della specificità delle funzioni e sulla base delle verifiche effettuate da un nucleo di valutazione istituito presso l’amministrazione scolastica regionale, presieduto da un dirigente e composto da esperti anche non appartenenti all’amministrazione stessa.

A seguire, l’articolo 27 del CCNL 01.03.02, comma 10, richiamato nel vigente CCNL 15.07.10, ad integrazione della norma primaria, prevede che La valutazione ha carattere pluriennale legata alla durata dell’incarico conferito. Si articola altresì in fasi annuali in funzione della retribuzione di risultato, privilegiando, in tale fase, l’aspetto auto valutativo. Entrambe le tipologie di valutazione sono espresse in forma descrittiva, evidentemente allo scopo di differenziarle dal modello in uso per la dirigenza, sia amministrativa che tecnica, del medesimo datore di lavoro (infra).

 

  1. Delle reiterate, e sterili, sperimentazioni

In ragione di questo principio di specialità, dopo qualche estemporaneo tentativo di corrispondere alle previsioni legali e contrattuali, è stato prodotto dall’INVALSI un primo, organico Sistema sperimentale di valutazione della dirigenza scolastica, in sigla SIVADIS, sempre a base volontaria e articolato in un triennio (dall’a.s. 2003-04 all’a.s. 2005-06), ma rimasto privo di effettività; per essere poi rilevato dall’asserito meno concettoso e più maneggevole dispositivo denominato Guida alla progettazione del servizio scolastico (GPSS): nei fatti, un mostruoso documento di 21 pagine di tabelle, raggruppate in 5 aree – Offerta formativa, Progettazione, Organizzazione, Controllo dell’erogazione, Valutazione –, comprendenti ben 229 indicatori da integrare e comprovare con una corrispondente montagna di carte, da cui estrapolare la valutazione del dirigente scolastico, per attribuirgli, al termine del triennio e se positiva, non più di euro 1.500, a fronte di un costo annuo di euro 3000 per ogni dirigente valutato! E con simili premesse, non poteva che naufragare, come puntualmente avvenuto e ancor prima di essere messo alla prova.

Ciò nonostante, ancora sperimentazioni, questa volta sulla scia del D. Lgs. 150/09, improntato alla valutazione della performance e al riconoscimento selettivo del merito. Sono state tre e a più ampio spettro, in parte intersecate tra loro: la Valutazione per lo sviluppo della qualità delle scuole, in sigla VQS (2010-2013) e la subentrante Valutazione e sviluppo della scuola, in sigla VALeS (2012-2015), con in mezzo l’inglobato Progetto Valorizza.

All’interno di VALeS, un capitolo è destinato alla valutazione dell’azione del dirigente scolastico, con un protocollo strutturato in indicatori individuati all’interno di 6 macro-aree (Direzione, coordinamento, valorizzazione delle risorse umane; Organizzazione e gestione delle risorse finanziarie e strumentali; Promozione della qualità dei processi interni della comunità professionale; Sviluppo delle innovazioni; Attenzione alle famiglie e alla comunità sociale; Collaborazione con i soggetti istituzionali, culturali, professionali, sociali ed economici del territorio).

VALeS è il fondamento del Sistema Nazionale di Valutazione, di cui al D.P.R. 80/13, seguito dalla direttiva del ministro, n. 11 del 18 settembre 2014 e dalla circolare esplicativa n. 47 del 21 ottobre 2014.

Nell’afferente articolo 6, commi 4 e 5, il nuovo formalizzato dispositivo si struttura nella sequenza Autovalutazione, Valutazione esterna (temporalmente ristretta ad un numero predeterminato di istituzioni scolastiche), Azioni di miglioramento, Rendicontazione sociale; ed è altresì preordinato a evidenziare le aree di miglioramento organizzativo e gestionale delle istituzioni scolastiche direttamente riconducibile al dirigente scolastico, al fine della valutazione dei risultati della sua azione dirigenziale, secondo quanto già previsto dall’art. 25 del D. Lgs. 165/01 e CCNL (ante), ma da raccordarsi con i vincoli del cennato D. Lgs. 150/09, in particolare, nel punto in cui restringe lo spazio della contrattazione collettiva, ora entro gli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge nella valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio (art. 55, confluito nell’art. 40, comma 1, del D. Lgs. 165/01).

I piani di miglioramento, con i risultati conseguiti dalle singole istituzioni scolastiche, sono comunicati al direttore generale del competente USR, che ne tiene conto ai fini dell’individuazione degli obiettivi da assegnare al dirigente scolastico in sede di conferimento del successivo incarico e della valutazione.

 

  1. La Legge 107/15

In tema di valutazione dei dirigenti scolastici, l’ultimo intervento normativo – in una linea di chiara continuità – è l’articolo 1, comma 93, della Legge 107/15, che indica con maggior dettaglio i criteri generali che devono fondarla:

  1. competenze gestionali e organizzative finalizzate al raggiungimento dei risultati, correttezza, trasparenza, efficienza ed efficacia dell’azione dirigenziale, in relazione agli obiettivi assegnati nell’incarico triennale;
  2. valorizzazione dell’impegno e dei meriti professionali del personale d’istituto, sotto il profilo individuale e negli ambiti collegiali;
  3. apprezzamento del proprio operato all’interno della comunità professionale e sociale;
  4. contributo al miglioramento del successo formativo e scolastico degli studenti e dei processi organizzativi e didattici, nell’ambito dei sistemi di autovalutazione, valutazione e rendicontazione sociale;
  5. direzione unitaria della scuola, promozione della partecipazione e della collaborazione tra le diverse componenti della comunità scolastica, dei rapporti con il contesto sociale e nella rete di scuole.

Il comma 94 consente poi che il nucleo di valutazione di cui all’art. 25 del D. Lgs. 165/01 possa avere una diversa composizione in relazione al procedimento e agli oggetti di valutazione, in cui è parte attiva e integrante quel nucleo dei dirigenti tecnici ad tempus assunti per il triennio 2016-2018 ai sensi dell’art. 19, commi 5-bis e 6, del D. Lgs. 165, cit.

Sulla scorta di tale canovaccio, entro il 31 dicembre 2014 l’INVALSI avrebbe dovuto definire gli indicatori su cui declinare la valutazione dirigenziale in coerenza con i criteri legali sub a)-e) e all’interno di una proposta organica, poi oggetto di un confronto con le associazioni sindacali e professionali della dirigenza scolastica.

 

  1. Gli interventi in corso dell’Amministrazione

Il 6 maggio 2016 il ministro Giannini ha illustrato alle associazioni sindacali rappresentative una bozza di valutazione a maglie larghe, come base della direttiva all’INVALSI e dopo l’acquisizione del parere del Consiglio superiore della pubblica istruzione.

In sintesi, la valutazione dovrebbe essere effettuata in prima istanza dal nucleo di cui all’art. 25 del D. Lgs. 165/01 e seguire i criteri generali figuranti nella Legge 107, per essere: coerente con l’incarico triennale e con il profilo professionale; connessa alla retribuzione di risultato; in grado di rilevare il contributo del dirigente al perseguimento dei risultati per il miglioramento del servizio scolastico previsti nel RAV (D.P.R. 80/13) e in coerenza con le disposizioni contenute nel D. Lgs. 150/09.

L’art. 19, comma 2, del D. Lgs. 150/09 (collocato nel Titolo III, Capo I – Meriti e Premi) prescrive, a fini premiali, la costituzione di tre fasce per distribuire le risorse destinate al trattamento economico accessorio collegato alla performance individuale secondo la seguente ripartizione: il 50% del budget al 25% della platea e l’altro 50% al 50% della platea, nel mentre il restante 25% non prende nulla perché non meritevole per definizione. Per i dirigenti, il suddetto trattamento economico accessorio si intende retribuzione di risultato. Alla contrattazione è consentita una deroga per la seconda e terza fascia, con reciproche compensazioni non oscillanti, in più e in meno, oltre il 5%.

Queste disposizioni non risultano inserite nel preesistente D. Lgs. 165/01, Testo unico sul pubblico impiego, a differenza di quelle dell’art. 54 (collocato nel Titolo IV, Capo IV – Contrattazione collettiva nazionale e integrativa), confluite nell’art. 40, comma 3-bis, che, per assicurare adeguati livelli di efficienza e di produttività dei servizi pubblici, incentivando l’impegno e la qualità della performance, impone alla contrattazione integrativa di destinare al trattamento economico accessorio collegato alla performance individuale una quota prevalente del trattamento accessorio comunque denominato.

Sicché è da verificare se – per la norma di chiusura di cui all’art. 73 del D. Lgs. 165/01, Norma di rinvio – il contenuto dell’art. 19 sia abrogato o meno per incompatibilità con la più elastica seconda formula.

A partire dell’anno scolastico 2016-2017, i provvedimenti d’incarico dei dirigenti scolastici sono integrati da una triplice tipologia di obiettivi di miglioramento: obiettivi generali individuati dal Ministero, obiettivi legati alla specificità del territorio individuati dall’USR, obiettivi specifici dell’istituzione scolastica derivanti dal RAV.

Il nucleo di esperti compilerà la valutazione dei dirigenti, il cui esito potrà andare dal mancato raggiungimento degli obiettivi al loro completo conseguimento, che corrisponderà ad una valutazione eccellente. Alla loro attività istruttoria seguirà l’adozione del provvedimento di valutazione del direttore generale regionale, impugnabile se negativa.

La valutazione si svolgerà con cadenza annuale per essere correlata alla retribuzione di risultato. Se non positiva, sarà supportata dall’USR per il miglioramento del proprio lavoro. E solo in caso di responsabilità dirigenziali gravi è previsto il non rinnovo del contratto nella scuola già affidata.

Fondamentalmente, per il ministro, la valutazione dei dirigenti ha come obiettivo principale la loro crescita professionale e, di conseguenza, il miglioramento della comunità scolastica in cui operano.

 

  1. Le reazioni

Pur a fronte di una (provvisoria) versione ministeriale ictu oculi meno cruenta rispetto a quanto deducibile dalla legge, FLC CGIL, CISL Scuola, UIL Scuola e SNALS Confsal hanno reclamato, a firma congiunta, una profonda modifica di un testo che rende di fatto il dirigente scolastico funzionale e dipendente dal potere esecutivo, siccome inciso da una valutazione ingiusta e offensiva ad opera di una burocrazia esterna e in violazione della vigente normativa contrattuale.

Trattasi, con ogni evidenza, di un approccio puramente ideologico, privo del minimo ancoraggio al diritto positivo; che fa di una dirigenza specifica l’unica a non essere valutata. Che ciò produca la naturale – e pesante, per la categoria – conseguenza di continuare a non percepire la remunerazione di risultato, e così avere la possibilità di accorciare significativamente il differenziale retributivo con la dirigenza generica, non pare avere importanza per i sostenitori dell’ennesimo niet alla valutazione. Perché – è questo che sembra veramente contare – un dirigente scolastico non valutato non è legittimato a valutare il proprio personale e – a cascata – a individuare i docenti dagli ambiti territoriali e stipulare i relativi atti d’incarico, ad attribuire il bonus premiale. Il che è a dire che, al di là del nudo nomen iuris, il dirigente scolastico non è – non dev’essere – un dirigente! E così tout se tient.

Il quinto dei sindacati di area attualmente rappresentativi, l’ANP, ha assunto invece una posizione di attesa, riservandosi di valutare con attenzione tutti i passaggi della costruzione del nuovo sistema di valutazione e tenerne costantemente informati i dirigenti.

Per quanto riguarda le due principali associazioni professionali dei dirigenti scolastici, ANDiS e DiSAL, per ora si è espressa, con una lettera aperta, solo quest’ultima, riproponendo alcune riflessioni pur non prive di pregio, ma collocate in un complessivo disegno preordinato alla costruzione, per i presidi, di un modello di valutazione…che valorizzi la dimensione educativa…di una professione direttiva che, in luogo di fondarsi sulle caratteristiche di managerialità gestionale, si indirizzi ai bisogni formativi e culturali delle nostre scuole e del paese: laddove l’esito è, ancora, quello – e a dispetto della legge – di dismettere le prerogative, consustanziali e indefettibili, di ogni dirigente pubblico, che dovrebbe rivestire i panni di un coordinatore della didattica, tipico della scuola pre-autonomistica dipendente dal Signor Provveditore agli Studi, ovvero odierna figura nelle scuole paritarie e/o libere – prevalentemente cattoliche –, cui del resto si fa esplicito riferimento ideologico.

 

  1. Alla ricerca di soluzioni sensate

6.1.Emanata la direttiva ministeriale, si vorrebbe chiedere all’INVALSI, e agli esperti di complemento, di far tesoro della pregressa esperienza di inconferenti pretese palingenetiche per planare su dimensioni più terrestri. E, pur dovendosi vincolare all’ambizioso – o pretenzioso? – schema legale, lo interpretino con intelligenza e azionando il buon senso, provando a costruire modelli che funzionino, magari sulla falsariga di quello che, collaudato da due lustri di sua applicazione, valuta regolarmente – e remunera generosamente – la dirigenza amministrativa e tecnica del MIUR, sino ai direttori generali e ai capidipartimento.

Il protocollo è codificato nella direttiva MIUR n. 4072 del 12.05.05. e si compendia in una sola scheda SOR (Scheda di programmazione degli obiettivi e dei risultati), eventualmente integrabile da una seconda scheda denominata EDE (Elementi di difficoltà evidenziati).

L’intero costrutto è essenziale, chiaro, maneggevole e trasparente: con pochi obiettivi concordati e con un solo valutatore, senza che altri soggetti entrino in scena, se non in via eventuale.

Pochi obiettivi prioritari e qualificanti; soprattutto operazionalizzati e assistiti dall’assegnazione di inerenti e specifiche risorse finanziarie, umane e strumentali per poterli conseguire: quindi riassunti in un punteggio complessivamente pari a 100, con ulteriori 10 punti assegnabili dal valutatore per premiare il comportamento organizzativo (esplicitato in sole tre righe sulla scheda SOR: Analisi e programmazione, Gestione e realizzazione, Relazioni e coordinamento), ovvero per compensare, a mo’ di paracadute, le difficoltà evidenziate dal valutato nella scheda EDE.

 

6.2.Certamente, questo modello andrebbe adattato – ma non stravolto e/o inutilmente appesantito – alla peculiarità delle istituzioni scolastiche, non assimilabili ad un ufficio amministrativo, siccome strutturalmente contrassegnato da procedure in larga prevalenza standardizzate per la produzione di atti giuridici esenti dai canonici vizi di legittimità (incompetenza, eccesso di potere, violazione di legge). Essendo esse piuttosto, e propriamente, organi-enti dotati di autonomia funzionale alla produzione di un servizio tecnico, d’indole immateriale (istruire, educare, formare), mediato da organi collegiali con poteri deliberanti, idonei a esprimere determinazioni volitive finali, ed erogato da soggetti professionali la cui azione, connotata da ampi margini di discrezionalità, va parimenti coordinata e condotta a sistema dal dirigente preposto alla conduzione di queste, molto particolari, strutture organizzative, caratterizzate dai c.d. legami deboli, in cui l’interpretazione prevale sull’ordinata esecuzione, con la conseguenza della non prevedibilità-omogeneità degli esiti, secondo un rigido nesso di causalità meccanica.

Sicché le priorità del modello ministeriale poc’anzi sunteggiato andrebbero invertite, nel senso che il peso predominante non dovrebbe essere quello dei risultati, attingibili con strumenti quantitativi (valutazione di prodotto), bensì dei comportamenti organizzativi, essenzialmente rilevabili con un sistema di indicatori e descrittori, la cui frequenza e la cui intensità siano, convenzionalmente, ritenuti significativi, in termini di causalità adeguata, salvo verifica e loro consequenziale rimessa a punto (valutazione di processo).

 

6.3.L’INVALSI dovrà dunque costruire – sull’intelaiatura della Legge 107 – questo sistema di indicatori e descrittori, con parametri quanti-qualitativi, differenziandoli nei pesi ad essi attribuiti; purché siano nella diretta disponibilità del dirigente scolastico, anche riguardo ad ambiti che – pur fatti oggetto di rilievi critici un po’ da tutte le parti e talvolta con toni aspri – non possono di certo stimarsi impropri.

Il riferimento è alla lettera c) del comma 93, relativo all’apprezzamento del proprio operato all’interno della comunità professionale e sociale, i cui ruoli non sono stati affatto svuotati dalla legge sulla Buona Scuola, in forza di espliciti e rimarcati richiami disseminati nel testo. Tra i tanti, e a scopo esemplificativo, oltre alla successiva lettera e), si vedano:

-comma 2, sulla garanzia della partecipazione alle decisioni degli organi collegiali;

-comma 3, sulla valorizzazione…della comunità professionale scolastica con lo sviluppo del metodo cooperativo, nel rispetto della libertà d’insegnamento, la collaborazione e…l’interazione con le famiglie e il territorio;

-comma 7, ancora sulla valorizzazione della scuola intesa come comunità attiva, aperta al territorio e in grado di sviluppare e aumentare l’interazione con le famiglie e con la comunità locale, comprese le organizzazioni del terzo settore e le imprese;

-comma 14, in virtù del quale la predisposizione del PTOF deve assicurare, in ogni istituzione scolastica, la partecipazione di tutte le sue componenti…e riflette le esigenze del contesto culturale, sociale ed economico della realtà locale, tenendo conto della programmazione dell’offerta formativa. E in ragione di ciò, prima che sia elaborato dal collegio dei docenti e poi approvato dal consiglio d’istituto, il dirigente scolastico avrà promosso i necessari rapporti con gli enti locali e con le diverse realtà istituzionali, culturali, sociali ed economiche operanti sul territorio e avrà altresì tenuto conto delle proposte e dei pareri formulati dagli organismi e dalle associazioni dei genitori e, per le scuole secondarie di secondo grado, degli studenti;

-comma 78, che impone, ancora una volta, al dirigente scolastico il rispetto delle competenze degli organi collegiali, ovviamente fermi restando i livelli unitari e nazionali di fruizione del diritto allo studio;

-comma 127, che vincola il dirigente scolastico ad una motivata valutazione nell’assegnazione del bonus premiale, rispettosa dei criteri individuati dal comitato per la valutazione dei docenti.

Potrebbe allora ben affermarsi che l’apprezzamento dell’operato del dirigente scolastico da parte della comunità professionale e sociale è il contraltare dei suoi potenziati poteri e funge da bilanciamento del sistema. E’ dunque legittimo elemento della sua valutazione, beninteso avendosi cura di definirne il peso e di predisporre idonei accorgimenti allo scopo di tenere il più possibile sotto controllo effetti distorsivi.

 

6.4.Dall’INVALSI, organo tecnico, è lecito pretendere una rigorosa definizione di obiettivi, enunciati in forma chiara ed univoca, suscettibili di cadere sotto il dominio dei sensi, vale a dire operazionalizzati; senza inutili e devianti aggettivazioni, e che dovranno poi essere formalizzati in ogni provvedimento d’incarico e/o integrati, e concordati, anche nel corso del rapporto. Obiettivi, non declaratorie di profilo, giustamente stigmatizzate dagli organi di controllo (cfr., da ultimo, Corte dei conti per la regione Sicilia, 04.03.14), che, fotocopiate, ridondino nei predetti provvedimenti.

Sottolinea infatti la Magistratura isolana che ogni declaratoria di profilo semplicemente delinea il perimetro dell’oggetto dell’incarico annuale anziché gli obiettivi da perseguire…, sicché viene a mancare il presupposto della retribuzione di risultato che, costituendo parte della complessiva remunerazione dell’incarico, non è rinunciabile e costituisce elemento essenziale del contratto stesso.

E, quanto alla controdedotta impossibilità, in concreto, di definire obiettivi specifici per l’esorbitante numero della platea coinvolta, è stato replicato che l’Amministrazione può adoperarsi per tempo elaborando una mappatura degli obiettivi delle varie istituzioni scolastiche, analizzate e classificate per fasce di complessità secondo le esigenze di ciascuna, sulla scorta di indicatori e variabili (numero degli alunni, territori a rischio, ubicazione disagiata, popolazione scolastica multietnica…) in grado di individuare un sistema di pesatura degli incarichi equanime, di modo che, all’atto del conferimento dell’incarico, quest’ultimo risulti assistito da una contestuale definizione di obiettivi concreti, che in ogni caso potranno essere meglio specificati e/o variati nel corso del triennio d’incarico dirigenziale, in relazione alle esigenze emergenti dal Piano dell’offerta formativa di ciascuna istituzione scolastica.

Analogamente, la Corte dei conti nazionale, Sezioni riunite di controllo, nelle adunanze del 07.04.06 e del 14.07.10, per la certificazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro del 2002-2005 e del 2006-2010, ha ricordato il – disatteso – obbligo del datore di lavoro di rendere in concreto esigibile la retribuzione del risultato della prestazione sulla base dell’effettivo conseguimento degli obiettivi e delle capacità dimostrate nella gestione degli obiettivi concordati.

Ma il giudice contabile romano va oltre. Riprendendo una pronuncia del Consiglio di Stato (Comm. Spec. P I, n. 529 del 16.06.03), di essere quella scolastica a tutti gli effetti una dirigenza statale, parimenti regolata dal comune D. Lgs. 165/01, già nel certificare il CCNL 2002-2005, ne sollecita una retribuzione adeguata alla complessità dei compiti affidati ed, in ogni caso, non inferiore, come invece risulta attualmente, alla misura riconosciuta alle qualifiche dirigenziali statali appartenenti ad altre aree di contrattazione.

In sede di esame del contratto successivo, l’esigita equiparazione è un po’ sfumata in tendenziale, forse nella consapevolezza della difficile congiuntura economica. E tuttavia, nel reiterarsi l’invito al riallineamento delle retribuzioni del personale dell’area V con quelle del restante personale dirigenziale, si accentua soprattutto la non più eludibile necessità di un corretto e agibile dispositivo di valutazione per acquisire quella parte – tuttora mancante e decorsi infruttuosamente tre lustri – che è elemento essenziale del contratto e non rinunciabile. Non rinunciabile perché, senza valutazione, non c’è dirigenza!

Scuola: due rapide riflessioni

Scuola: due rapide riflessioni sullo sciopero e sulla “fiducia” da ritrovare

di Domenico Sarracino

 

1)Qualche giorno fa lo sciopero delle scuole non è andato affatto bene. Anche se me l’aspettavo, me ne dolgo. E non solo perché vedo ancora più indebolito il ruolo dei sindacati per una loro intrinseca difficoltà (le loro forme di lotta appaiono sempre più stanche e da ripensare, e la capacità di orientarsi, orientare e di elaborare scontano incertezze e disorientamento); ma soprattutto perché vedo ulteriormente indebolirsi la presenza complessiva dei presidi della democrazia e perché questo non esprime niente di buono, neppure per la controparte ministeriale-governativa. Significando tristemente che lo scontento e la sfiducia non sono scomparsi né scompariranno, ma che non hanno un canale per esprimersi ed in qualche modo organizzarsi e proporsi positivamente.

Resteranno lì, ad accumularsi ed irrancidire.

Non farà bene a nessuno avere una categoria di lavoratori così vasta e significativa sempre più atomizzata, illividita, “liquida”, che è e si sente sempre più trascurata ed inascoltata. Sento sempre più dire da parte di tanti, forse i migliori, i più impegnati, “mi chiuderò in classe e cercherò di fare quello che posso nelle quattro mura dell’aula e vaffà…ai progetti, ai colleghi, alla collegialità, ai Ds, alle “riforme”, ai sindacati, al Rav, al Ptof, al Pdm…”, etcc. Temo molto che i tempi che verranno saranno caratterizzati dall’essere in balia di una bonaccia lunga e piatta, che giorno dopo giorno prosciughi ulteriormente forze e buona volontà, assottigliando speranza e fiducia.

Forse la nave galleggerà ancora a lungo, ma temo fortemente che continuerà ad essere sospinta ora di qua ora di là; quest’anno dietro il bonus premiale dei docenti, l’anno scorso dietro la questione dei Bes, il prossimo anno dietro la “chiamata diretta” dei docenti da parte dei Ds, spinta ad inseguire ora questo miraggio ora quell’altro, in una peregrinazione inconcludente che si trascina da anni.

Eppure tutti (tutti?) vorremmo vederla solcare le acque alacremente seguendo una rotta nuova ma precisa, avendo chiari davanti a sè il percorso e le insidie; e che , non occultandoseli, puntasse a far leva sull’equipaggio e a risuscitare energie e motivazione.

 

2)In tanti ci si chiede “Come uscirne”. Me lo domando anch’io, e da tempo. Bisognerebbe guardare in faccia la realtà della situazione e metterla al centro dell’attenzione: le sofferenze, l’acqua alla gola, la difficile “sopravvivenza” quotidiana; e partire da qui, consentendo alle scuole di prendere fiato, di avere quel minimo di serenità e di condizioni che permetterebbe di alzare lo sguardo dalle mille contingenze che ti inseguono e ti schiacciano, e di pensare e riflettere, e di disegnare prospettive e miglioramenti. Non riesco a vedere un nuovo e diverso cammino, se prima non si mette un po’ d’ordine in questa situazione, su cui pesano e sono incombenti altri oscuri e minacciosi nembi, che si aggiungono a quelli del bonus premiale, e che riguardano, tra i vari,  l’imminente fase della “chiamata diretta” dei docenti, che si annuncia come la prossima bufera.

E’ banale, ma se voglio ristrutturare o rivedere un fabbricato – che è vecchio, cadente, trascurato, poco funzionale – e renderlo più moderno, più efficiente, più gradevole ed efficace, più adeguato ai nuovi bisogni, devo innanzitutto assicurarmi che la sua struttura reggerà e, nel contempo, creare i presupposti per poter apportare le migliorie e i cambiamenti che mi interessano.

E dunque la domanda “come uscirne” si trasforma in questa: qual è la manutenzione basilare che prima di ogni altra cosa, occorre? E quali caratteristiche questa deve avere affinchè su di essa si possano inserire i miglioramenti, gli sviluppi, il futuro che vogliamo?

Alle forze ed ai soggetti – associazioni professionali, singole personalità, riviste scolastiche, siti web – che si interessano di scuola, avendone a cuore le sue buone sorti, chiamati[1] recentemente a scendere in campo, io mi permetterei di segnalare queste domande.

[1] Cfr. A. Valentino, “Una questione sottovalutata e una domanda retorica”, in http:// www.ScuolaOggi.com

Disagio e devianza: il ruolo della scuola e della famiglia

Disagio e devianza: il ruolo della scuola e della famiglia

di Davide A. Leccese

 

La mia riflessione ha, come focus, il disagio; disagio che è causato anche da fenomeni di bullismo e, in alcuni casi, è origine di bullismo.

La condizione di “disagio” richiama immediatamente uno stato che è l’opposto di “agio”, di condizione positiva del proprio “stare nella vita”.

Ma non riusciremo a definire il disagio se prima non stabiliamo i parametri dell’agio.

Attenti, quindi, a non considerare l’agio come lo star bene secondo parametri di felicità voluttuaria e non di un campo di valori.

L’infelicità giovanile può anche essere uno stato d’insoddisfazione per la richiesta di soddisfacimento di disvalori, assunti a bisogni.

Non è detto che ogni condizione di “sofferenza” sia negativa se produce la consapevolezza di cosa sia giusto pretendere e cosa non sia giusto volere a tutti i costi.

Alcune premesse sono necessarie, per chiarire la riflessione che mi è stata proposta come tema in questo convegno.

È saggio parlare con cautela e prudenza delle nuove generazioni che, nell’accelerazione dei tempi del vissuto, ci sfuggono di mano con un ritmo talmente vorticoso che, paradossalmente, si vuole restare più giovani a lungo con una voglia pazza di tutti – non solo dei giovani anagraficamente definiti – di essere considerati tali.

Eppure noi, che giovani non siamo più, ci trinceriamo nel gruppo dei “laudatores temporis acti”, celebratori del passato, spesso fittizio e bugiardo, per distinguerci da un presente di cui siamo parte in causa, sia nel bene che nel male.

Fatta questa premessa, trattare di disagio e bullismo e del ruolo della scuola e della famiglia, significa andare alla radice del ruolo formativo, educativo e istruttivo delle due comunità educanti principali.

Ruolo che chiama in causa il rapporto stretto non solo tra scuola e famiglia ma anche il contesto sociale.

È sempre più vero che la scuola ha la società che si merita come la società ha la scuola che si merita.

È sempre più vero che o scuola e famiglia stabiliscono un patto leale per la “cura” delle nuove generazioni o il rimpallo delle responsabilità finirà per incancrenire non solo le identità dei singoli giovani ma anche, pericolosamente, l’identità sociale nella quale esercitiamo la nostra condizione umana e politica.

È anche vero e doloroso che la scuola registra disagio e fenomeni di bullismo, com’è vero, purtroppo, che la scuola alcune volte genera disagio.

Solo se accettiamo, con onestà intellettuale, questo circuito di responsabilità – tra scuola/famiglia/società – è possibile mettere in atto una terapia di recupero dei propri limiti a tutto vantaggio di un’azione serena e seria della condizione di disagio di tanti giovani; condizione di disagio che può sfociare o nell’essere vittime del bullismo o nell’essere attori del bullismo.

Altra premessa, proprio per evitare lo scadimento in un comodo alibi del “fuori mi tiro dal peggio”: la gran parte, la maggior parte dei nostri giovani sono giovani per bene, sono soggetti positivi. E lo affermiamo contro i catastrofismi delle “notizie del giorno” che si nutrono prevalentemente di cronaca nera e tacciono il vissuto valoriale di tanti ragazzi e tante ragazze che sono la testimonianza di quel volere il mondo migliore, nonostante i guasti, le tragedie, le ingiustizie, le nefandezze di una società disvaloriata nella quale noi adulti viviamo e facciamo vivere le nuove generazioni.

Le condizioni del disagio esistenziale dei nostri giovani?

Si alzano al mattino, i nostri giovani, e si trovano davanti orizzonti inquinati da guerre, da violenze, da egoismi, da furbizie; eppure continueremo a dire loro che val la pena vivere onesti perché l’unico peso che fa volare è il peso delle idee buone che emozionano la mente e il cuore.

Ma come si fa a dire ai giovani di puntare sui valori, sugli ideali quando la logica corrente, predicata a gran voce o sussurrata all’orecchio dei figli è “fatti furbo, fatti valere, vedi di cavartela comunque, occhio per occhio dente per dente”?

Alcuni di questi ragazzi prendono alla lettera questi messaggi e si esercitano nell’arroganza, nel farsi valere sui più deboli; credono di cavarsela nella vita affermandosi come piccoli boss di quartiere, piccoli ras di strada.

***

Tra le condizioni che generano disagio in testa poniamo la paura di essere perdenti.

In un lungo percorso si può anche cadere ma bisogna insegnare a rialzarsi, a mirare al traguardo senza aspettarsi che qualcuno faccia per te il cammino, senza nemmeno pretendere che ci sia chi ti porta lo zaino per alleggerire le responsabilità del necessario bagaglio, anche pesante, da consegnare alla meta.

Ci sono genitori, invece, che hanno più paura dei figli delle sconfitte di percorso e mettono in atto un iperprotezionismo che gioca a togliere gli ostacoli davanti ai loro passi, preoccupati che cadano e non sappiano più rialzarsi.

Machiavelli diceva che “Dove c’è una grande volontà non possono esserci grandi difficoltà”.

Alcuni educatori – soprattutto alcuni genitori – sono incapaci di vivere assieme ai giovani e ai figli le condizioni di dolore e di gioia; avvertono una sorta di blocco psicologico che in fondo è la consapevolezza – a posteriori – che la fonte di questi stati d’animo è diversa dalle fonti generatrici degli stati d’animo degli adulti perché profondamente diverso è il vissuto delle diverse generazioni.

Ci sono alcuni genitori che fanno della riuscita scolastica dei figli uno status symbol di cui vantarsi nelle riunioni di amici o sui social network.

Con i giovani bisogna essere prudenti e coraggiosi, esigenti e comprensivi.

Quando ero docente insegnavo ai miei studenti quel passo straordinario dei “Sepolcri” di Ugo Foscolo, che chiude quell’intramontabile ode all’umanità.

Si vince e si perde nella vita ma bisogna saper perdere con dignità; il che è una magnifica vittoria. Foscolo ci parla di Ettore, l’eroe troiano che, pur consapevole che gli Dei avessero deciso la caduta della città di Troia, non rinunciò a combattere fino alla fine, fino alla morte, per affermare il principio che il pericolo lo si guarda in faccia, nonostante la paura. “E tu onore di pianti, Ettore, avrai, ove fia santo e lagrimato il sangue per la patria versato, e finché il Sole risplenderà su le sciagure umane”.

La paura di non riuscire: Una delle condizioni che genera disagio che permane come stato di ansia o, peggio ancora, di blocco psicologico nei giovani, è l’avvertire di avere dei limiti (niente di più normale nella vita); limiti che – sentiti come insormontabili – creano l’errato convincimento di non poter assumere alcun posizionamento nella vita. Il “che farò un domani?” rischia di diventare un blocco nefasto e una patologia dai pericolosi risvolti esistenziali.

Altro pericolo è nel non trovare adeguate risposte alla domanda di accettazione, nella famiglia, nella scuola, nel gruppo di amici.

Latente, allora, è il rischio di cercare rifugio nel “branco”, quello stare insieme spesso dei “rifiutati”, dei “non compresi”, degli “emarginati” che si fanno forti nell’esasperato affermarsi anche contro la legalità dei comportamenti.

Attenti, però, a non giocare con la pelle dei giovani. Se vanno avanti solo i “figli di…” e tutti gli altri saranno trattati come “figli di nessuno”, il disagio può esplodere in definitiva sfiducia verso il sistema sociale e, perché no, in rabbia e protesta.

***

Un invito ancora a noi adulti, educatori: meditare sull’assenza. Molti credono che l’assenza sia la lontananza fisica; sì, anche quella. Ma la vera lontananza che crea disagio, angoscia, tristezza, rigurgito verso il rifiuto di ogni idea di serenità, è l’abbandono fatto di presenza fisica e di assenza psicologica e affettiva. Genitori e docenti che pensano ai loro problemi che talvolta scaricano come pressione relazionale sui figli e sugli alunni.

Un altro invito ad alcuni genitori: non illudetevi che sia facile e comodo, oltre che costituisca sanatoria delle proprie responsabilità, sostituire la propria presenza, nella vita dei figli, con le “cose” che assicuriamo: vestiti alla moda, cellulari di ultima generazione. Non dite “non ti faccio mancare niente”, se fate mancare voi stessi.

Una riflessione di Don Milani da riferire ai nostri giovani, a proposito della ricerca spasmodica delle “cose”, merce al posto delle persone, feticci al posto dei valori: “Le cose meno belle, purtroppo, vengono da sé, invece le cose belle bisogna imporsele con la volontà, perché c’è stato chi ha pensato a fare in modo che la società vi offrisse tutto quello che occorre perché alle cose belle e utili non ci pensaste e teneste la vostra vita a un basso livello”.

Stiamo passando dal disagio del non avere al disagio del volere sempre di più.

I nostri giovani hanno bisogno, hanno diritto di credere nella vita e la vita si nutre di entusiasmo.

Bruce Barton ha detto: “Se non puoi dare a tuo figlio nient’altro che una sola cosa, lascia allora che sia l’entusiasmo”.

Per questo io mi ostino a guardare il positivo. Nella mia lunga esperienza nel mondo della scuola ho potuto bearmi degli sguardi limpidi di tantissimi giovani, dediti al volontariato, abituati al sacrificio, disponibili agli altri, generosi senza attendere ricompensa, desiderosi di un avvenire fatto di orizzonti non posticci.

Ma siamo proprio sicuri, noi adulti, di essere approdati all’oasi tranquilla dell’equilibrio, della saggezza permanente che possa fungere da parametro incontrovertibile di fronte all’inquietudine giovanile?

Citerò, a questo punto, quel che dice Alfredo Carlo Moro: “La condizione giovanile di oggi non è il “buco nero” della nostra società ma piuttosto “la finestra spalancata” su una realtà sociale spesso camuffata sotto valori solo declamati: per superare la “devianza” giovanile e il disagio dei giovani è indispensabile prima di tutto eliminare la “devianza” adulta e la situazione di profondo disagio, anche se non avvertito, che attanaglia il mondo degli adulti oggi”.

Per cogliere il senso profondo di questa delicata condizione di disagio, sia degli adulti sia dei giovani, non è sufficiente affidarsi alle buone intenzioni; occorre avere l’umiltà di chiedere lumi agli esperti, affidarsi a chi, professionalmente, studia il fenomeno, per evitare paccottiglie d’interventi che rischiano di essere pseudo-cure peggiori del male.

***

Un inciso di riflessione o – se volete – di denuncia – su disagio, devianza, bullismo e società.

Vogliamo togliere il terreno di coltura a questi bulli-vigliacchi? Puntiamo su una Città educativa, un contesto urbano severamente controllato e testimonianza del lecito e del consentito praticato.

Una città è educativa se è viva, vissuta e vivibile. Il problema allora è politico nel senso etimologico del termine: polis, politikòs che ha nel suo seme il “tutto ciò che appartiene al cittadino nell’alveo dei suoi diritti e dei suoi doveri”.

Se un quartiere è degradato, genera degrado e il degrado genera disagio e il disagio genera inappartenenza. E ciò che non è di nessuno fa sì che qualcuno se ne appropri come spazio della violenza, dove tutto è permesso ai violenti contro i deboli.

Puntiamo su una città che chiarisca definitivamente a se stessa come possano convivere – nella patologia sociale diffusa – l’intolleranza e il permissivismo; esasperati contro, possibilisti quando conviene.

Come possiamo dire a questi teppistelli: “Stai agendo male, stai sporcando i muri, rompendo le panchine”, se la nostra è una comunità dove vale ciò che disse Dante: ”Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?”.

I bambini non nascono bulli, ma viene insegnato loro a esserlo” (Matt Bomer).

Nessun giovane nasce bullo, vigliacco contro se stesso e verso gli altri, specie se più deboli o più sensibili.

Alcuni di questi diventati bulli sono ex soggetti disagiati che hanno costruito un identikit aggressivo perché hanno subito aggressione, si sono convinti che ci si afferma come “personaggi” solo se gli altri diventano sgabelli della loro presunta superiorità.

Altri sono diventati bulli per affermarsi in un branco solo se dimostri di essere capace di “dominare” e non vivere da gregario.

Altri sono diventati bulli perché, nel confrontarsi con il proprio io privato, si sono sentiti falliti, deboli, non considerati.

Ecco, allora, il ruolo della scuola e il compito della famiglia: dare ai giovani il coraggio e la consapevolezza della loro dignità di persona, il saper inculcare il coraggio dell’altruismo e la voglia del positivo, il creare il convincimento che – come ha detto Eleonor Roosvelt – “nessuno può farti sentire inferiore senza il tuo consenso”.

Soprattutto dobbiamo dimostrare ai giovani – noi educatori – che sentiamo la loro storia come la nostra storia, che la loro riuscita ci interessa come se fosse la nostra riuscita.

Ascoltare i giovani, parlare ai giovani, essere credibili nei propri messaggi, dimostrando che, se chiediamo loro la lealtà e il rispetto degli altri, noi adulti siamo rispettosi e leali con gli altri e soprattutto con loro.

***

Solo per inciso accenno al cyber bullismo e al bullismo telefonico; le forme sicuramente più aggressive in questi tempi.

Questi benedetti-maledetti cellulari che allontanano dalle persone fisiche e avvicinano a fantasmi colloquiali tra un io isterico che digita e altri, altrettanto isterici, che coltivano il brodo delle relazioni falsate.

La cronaca recente sta registrando uno spaventoso esito nefasto di questo male, con suicidi, patologie relazionali che sicuramente richiedono un intervento drastico, da parte delle comunità educanti, famiglia e scuola in testa.

Gli esperti di psicologia dell’età evolutiva ci avvertono che i giovani di oggi sono più “liberi” e meno “autonomi”, schiavi delle mode, incatenati all’apparire, privati – a volte – della capacità di decidere perché “così si usa”, “così si è accettati dal gruppo o, peggio ancora, dal branco”.

***

Un ruolo fondamentale la scuola lo svolge con le armi a sua disposizione; prima fra tutte la cultura.

La cultura che noi chiamiamo all’appello per la maturazione della coscienza individuale e la consapevolezza delle nostre responsabilità sociali è una cultura graffiante le croste delle bugie e dei perbenismi, è una cultura che fa dire, in ogni attimo della vita, “che ci sto a fare io, qui?”

Sembra invece che la cultura stia diventando una parola usurata, fuori moda nell’annaspare nel mare magnum delle improvvisazioni di questi tempi, distruttrici d’idee, di sentimenti, di azioni significative e ingolfati di luoghi comuni, di emozioni provvisorie e di gesti eclatanti.

La cultura come riflessione, come nutrimento selezionato contro l’abbuffata delle appariscenze verbali e visive.

La cultura nostra e della scuola deve essere a tutti i costi pensiero forte che attinge a messaggi da scolpire nell’anima, non da tatuare in un’estetica dell’apparire secondo l’idea che tutto passa, ogni idea è fantasma dell’identità.

Non ho mai dimenticato una lezione del mio professore di filosofia che un giorno ci disse: “Non siate mai estranei a voi stessi nel tentativo di piacere agli altri”.

La nostra presenza: quando i nostri ragazzi e le nostre ragazze sono in fase di piena crescita ci trovano ingombranti, anche quando cerchiamo di non occupare gli spazi dei loro pensieri e delle loro emozioni.

Chi sono gli educatori ingombranti? Quelli che trasferiscono i loro dubbi o, all’opposto, le loro certezze come se fossero l’interpretazione assoluta e incontrovertibile dell’esistenza del genere umano.

Chiudo questa mia riflessione con un invito a noi adulti a non essere distratti, a guardare il mondo dalla porta del cuore dei nostri giovani e dalla finestra della loro menti.

E un invito ai giovani da Alice, quattordici anni, che ha scritto questa lettera a un giornale: “È inutile nascondersi perché nel bene e nel male le cose si vengono a sapere lo stesso! Bisogna parlare soprattutto se è una situazione come la mia o come quella di tante altre persone, ma alle vittime dico: è bene farvi aiutare perché mi sembra inutile che gli altri vi rovinino la vita per niente, sono persone che non si meritano né la vostra attenzione né la vostra fiducia, ma soprattutto non si meritano il vostro rispetto e la vostra amicizia”.

Un invito, in conclusione, ai nostri giovani: siate coraggiosi, siate leali, siate solidali. Io, per parte mia, vi auguro una buona sorte.

A Scuola di Scuola

A Scuola di Scuola

di Davide Leccese

 

Questa riflessione vuole offrire un contributo per un’analisi approfondita sulla condizione della scuola italiana nell’ottica dell’identità della funzione docente e nella prospettiva della migliore relazione possibile tra docente e alunni.

La prima considerazione che proponiamo prende a prestito una logica del gioco d’azzardo secondo la quale non abbiamo a disposizione che due condizioni contrapposte: o il banco vince o perde. In effetti anche per la scuola dobbiamo cominciare a riflettere senza comode mediazioni di giudizio: l’educazione, la formazione e l’istruzione o vincono o perdono; o mettiamo in atto sistemi coraggiosi di recupero delle migliori condizioni strutturali, ambientali, personali e professionali o la sconfitta dei fini e degli obiettivi diventa pericolosa possibilità.

La prima condizione di analisi della situazione è assicurata dall’accettazione della CRISI DELLA SCUOLA. Solo il riconoscere che la scuola è in crisi possiamo pensare che tale consapevolezza:

  • Genera il bisogno d’interrogarsi sulla natura della crisi
  • Genera il bisogno d’interrogarsi sulle cause della crisi
  • Genera il bisogno d’individuare i colpevoli
  • Genera soprattutto il bisogno d’individuare le vittime
  • Deve generare il bisogno d’individuare le soluzioni

A titolo di provocazione, per sollecitare l’attenzione dei docenti, poniamo una domanda sul filo dell’impossibile: Se avessimo in classe – come alunni – un Leopardi o un Einstein, sarebbe più facile fare scuola?

Capovolgiamo la provocazione, a favore degli alunni: Se avessero in classe – come docenti – un Leopardi, un Einstein, sarebbe per loro più facile e più attraente vivere l’esperienza scolastica?

Ultima domanda provocatoria: Se tutti gli alunni fossero come il migliore dei nostri alunni o, all’opposto, se fossero come il peggiore dei nostri alunni, come si determinerebbe realmente la relazione formativa?

Sic stantibus rebus, con questi docenti e con questi alunni la scuola è in crisi. A voler dar fiato alle critiche dovremmo dire che docenti e alunni sono protagonisti diretti della crisi. Ma abbiamo anche il dovere di dar fiato ad altre valutazioni: docenti e alunni vivono una crisi che viene da lontano e di cui risultano più vittime che artefici.

Sarà necessario, allora, affermare – per evitare interpretazioni lontane dalla concretezza – che chi vuole cambiare la scuola senza tener conto della crisi dei docenti e dei giovani, non ha capito niente della scuola.

Ma affrontare la crisi non ci consente solo l’accertamento della stessa, senza ipotizzare subito le soluzioni; e le soluzioni sono il risultato solo della ricerca rigorosa e delle scelte coraggiose.

Dobbiamo subito sconfiggere due nemici che, se pur contrapposti, combattono per lo stesso risultato dell’inefficacia delle soluzioni: i propugnatori della tesi che in fondo tutto va bene e quello che sostengono che, invece, tutto va male.

***

Entriamo nella questione individuando i PROTAGONISTI della vita scolastica:

  • Gli alunni
  • I docenti
  • Le famiglie
  • Il contesto scolastico
  • Il contesto sociale

Alcune di queste voci sono necessariamente sintetiche e racchiudono più sottosistemi che successivamente analizzeremo dettagliatamente.

Gli alunni e i docenti sono facilmente individuabili come i protagonisti principali; solo che si contrappongono, nell’analisi del rapporto formativo – due scuole di pensiero.

La prima propende per una scuola alunno-centrica, cioè con il focus centrato sulla figura di chi apprende e con attorno un sistema satellitare che dipende da questa identità principale.

La seconda propende, invece, per una scuola che pone il focus sulla figura del docente che insegna – la scuola docento-centrica – e gli alunni incardinati, in diretta dipendenza, alla funzione docente.

Sarà facile concludere che senza alunni e senza docenti non c’è scuola; ma non trattasi di presenza meramente fisica quanto di funzione in relazione al rapporto formativo. Senza alunni disposti ad apprendere e senza docenti, capaci e disposti ad insegnare, la scuola rimane un mero artificio istituzionale, privo di quell’anima che caratterizza il rapporto generazionale.

Tale rapporto, in ogni caso, presuppone comunque una imprescindibile “divaricazione” di vedute e di esperienze. Guai ad impostarlo pigramente sulla “collusione” perché questa finirà inevitabilmente in collisione, in contrasto e in conflitto insanabile tra due che si rinfacceranno gli esiti negativi di un’azione didattica perdente.

Perché invece l’azione didattica sia vincente è necessario impostarla sulla MOTIVAZIONE. Le ragioni dell’insegnare e dell’apprendere costituiscono lo sfondo necessario dei contenuti.

I contenuti, a loro volta, devono molto ai “modi” di insegnare e di apprendere.

Insegnamento e apprendimento si giustificano a vicenda in un rapporto di rafforzamento reciproco di partecipazione convinta e consapevole.

E’ la motivazione che, inoltre, ci salva dall’affidare ai “contenuti” il ruolo dominante nell’azione formativa: Il pericolo di fraintendere i CONTENUTI (= programma da svolgere) diventa l’alibi – in alcuni casi – per sottomettere le motivazioni di studio alla quantità delle “cose” da fare.

I contenuti – è bene chiarirlo – sono quantità inderogabile e necessaria per la trasmissione di conoscenze, competenze, abilità destinate a costituire una persona colta e capace di interagire, nella società, con le attese della stessa, grazie ad una personalità completa e consapevole che destina se stessa alla sua crescita e al “vantaggio” degli altri.

E, sempre nell’ottica della motivazione, una forte reciprocità è affidata ai docenti e agli alunni: agli alunni si chiede di realizzare il senso dell’insegnamento dei docenti con la loro partecipazione attiva e responsabile; ai docenti si chiede di esaltare il senso dell’apprendimento con la stessa partecipazione attiva e responsabile.

Che questo partenariato motivazionale e di azione educativa non sia così semplice, come lo si descrive, è dato da differenze forti di valutazione del tempo e dello spazio e del sistema relazionale, legate proprio alle specificità generazionali.

Il tempo, espresso da presente – passato – futuro – tempo interiore; lo spazio, espresso da qui – attorno – altrove – utopia – il mio corpo; la relazione, espressa dall’idea dei vicini – dei lontani – dei pro e dei contro – degli indifferenti e degli sconosciuti. Queste dimensioni esistenziali ci danno la netta visione di come sia arduo dare per scontata, e non ragionata, la relazione tra l’insegnamento e l’apprendimento, tra il mondo degli adulti e quelli delle nuove generazioni, tra gli orizzonti diversi.

Analizziamo, in maniera dettagliata, la dimensione temporale, lì dove si consumano le più significative contraddizioni tra la generazione degli adulti e quella dei giovani.

Se il passato appartiene di più agli adulti, va detto che sovente vuole essere parametro assoluto – non solo di riferimento – del presente e del futuro. Il presente, a sua volta, non vuole condizionamenti dal passato e giudica il futuro aleatorio e imprevedibile. Il futuro, di contro, vuole fare a meno dell’esperienza del passato e della responsabilità del presente.

Ma quel che deve preoccupare gli educatori è il relativismo morale che inquina tutti gli approcci temporali: ogni epoca vuole giustificare o mistificare i suoi errori, non ha il coraggio di confrontarsi con la responsabilità di essere giudicata, non tanto per condanne, quanto per lealtà relazionale.

Ma i giovani, nello specifico, dove rischiano di non captare la positività del tempo:

  • quando giudicano il passato come non esistente, senza senso, non interessante;
  • quando accentuano l’incertezza del futuro, se lo trovano angosciante, pericoloso e lontano dall’ipotesi di appartenenza;
  • quando persino il presente – il più prossimo all’identità giovanile – è colto solo nella sua angoscia oppure nella ristrettezza del viverlo in esclusiva, in fretta e così come capita.

Nel rapporto adulti-giovani – nell’ottica relazionale e temporale – vede gli adulti preoccupati del diritto o del desiderio delle nuove generazioni di ancorarsi al futuro, avvertiti come non disponibilità a rispettare il bisogno degli adulti di tenersi stretti il passato, pur nell’esigenza di incontrarsi nel presente.

Lo spazio: anche lo spazio è potenzialmente conflittuale:

  • Il mio corpo – prima ed essenziale dimensione spaziale – sembrano dirci i giovani, è l’unico luogo della nostra esistenza;
  • Lo spazio che viviamo è solo quello che sentiamo;
  • Ogni altro spazio lo sentiamo come estraneo
  • Eppure non rinunciamo alla fantasia o alla eventuale “fuga”, a vivere sempre “altrove”.

Quali le accuse agli spazi avvertiti come “non propri”?

  • La scuola, in primis, non avvertita come un luogo proprio;
  • Ma dovunque i giovani avvertono una sorta di “esclusione” o il bisogno di “autoesclusione” perché a tratti sono costretti a scegliere tra la propria identità e lo spazio in cui necessariamente o occasionalmente si situano.
  • Ma, tornando alla scuola, tante le frecce nell’arco dei giovani; la più avvelenata è motivata dal convincimento – forse un po’ ingeneroso – che a scuola non serve portare tutto il “me stesso” perché alla scuola interessa solo la parte cerebrale.

E’ inutile nasconderlo: i giovani hanno bisogno di personalizzare lo spazio e persino la casa a volte viene avvertita più come luogo di altri che come luogo proprio. Questo capita quando manca un vero clima di vissuto famigliare.

Ecco che allora si accentua il bisogno di privacy, non tanto di segretezza quanto di accentuazione di appartenenza del proprio sé; insieme – se i luoghi istituzionali – sono avvertiti come estranei, esplode il bisogno di “fuga” verso il dove si respira la vera o presunta libertà.

La famiglia: sfatiamo l’idea che sia sufficiente considerare fondante un rapporto biologico-affettivo per garantire i rapporti genitori-figli: La famiglia, i genitori devono avvertire nuove o rinnovate consapevolezze:

  • La famiglia – la casa non possono essere il luogo in cui il giovane “abita” ma “vive”.
  • I genitori non devono sentirsi solo padre e madre ma anche educatori del figlio.
  • Non si deve comodamente affidare alla scuola una delega in bianco e totale dell’educazione del figlio.
  • La famiglia non può preoccuparsi prevalentemente della riuscita formale degli studi (promozione – titolo di studio).

Poniamo, a questo punto della nostra riflessione sulla condizione giovanile, di cui la scuola e la famiglia deve tener conto, la condizione che definiamo di “slittamento”, quasi uno scivolamento pericoloso verso una condizione di patologia emotiva che condiziona la relazione formativa:

Citiamo lo slittamento:

  • Verso l’INAPPARTENENZA
  • Verso lo SRADICAMENTO
  • Verso l’OMOLOGAZIONE
  • Verso il desiderio di fuga verso il TUTTO e il NIENTE
  • Verso un tempo frammentato e non misurato
  • Verso la PROVVISORIETA’
  • Verso l’ASSOLUTO che diventa RELATIVO e il RELATIVO che diventa ASSOLUTO
  • Verso un EGOISMO che spinge a NON AMARSI

La scuola, che attraverso l’istruzione dovrebbe innanzitutto puntare alla formazione e all’educazione, come risponde al bisogno intenso dei giovani ad “appartenersi”, a sentirsi soggetti di un’identità matura e forte, oltre che positivamente “vissuta”?

  1. La scuola attuale è dai giovani vissuta, a volte, come estranea alla condivisione intima della propria identità di persona e di cittadino.
  2. La fissità del sistema risulta comoda per chi voglia essere ripetitivo e scontato.
  3. Ogni appello al cambiamento viene visto come un attentato alla stabilità del proprio ruolo e della propria condizione.

Si fa sempre più strada la voglia di SRADICAMENTO da parte dei giovani perché le radici sono viste non tanto come nutrimento della pianta di appartenenza quanto come legame eccessivamente vincolante ad un terreno che njon consente altri e personali approdi.

Allora, se radici si devono mettere, le si colloca altrove, in un proprio terreno privato e protetto, contro chiunque voglia invaderlo, attaccandone l’identità.

Questa condizione porta a temere il confronto fino a non accettare l’idea della diversità, pur volendo per sé la specificità, e si finisce nel gorgo dell’omologazione generazionale per cui si creano solidarietà passive con tutti quelli che vivono la stessa esperienza “esclusiva”.

Siamo in pieno terreno del DISAGIO GIOVANILE e, per quel che ci riguarda, abbiamo un compito esclusivo: affrontarlo sul piano dell’insegnamento e dell’apprendimento nell’alveo significativo e forte della RELAZIONE FORMATIVA.

Per prendere coscienza del nostro ruolo – nel contesto della relazione formativa – dobbiamo coraggiosamente e lealmente analizzare le condizioni di DISAGIO e di AGIO che possono connaturarsi alla stessa relazione:

  1. La scuola crea disagio quando propone regole e modelli non coincidenti con i comportamenti dei proponenti;
  2. La scuola crea disagio quando gli adulti non si accorgono di essere costantemente “indagati” dai giovani;
  3. La scuola crea disagio quando si preoccupa di agire sul “cervello” e non sulla “persona” degli alunni;
  4. La scuola crea disagio quando è statica e ripetitiva in una società dinamica e costruttiva;
  5. La scuola crea disagio quando esclude dalla sua azione educativa il “vissuto” dei giovani;
  6. La scuola crea disagio quando esclude dalla sua azione educativa la soddisfazione della riuscita;
  7. La scuola crea disagio quando mette l’asticella del salto in alto solo in relazione al cielo e non alla terra;

 

Quando, invece, la scuola crea agio?

  1. La scuola crea agio quando chi insegna ad imparare, impara continuamente ad insegnare;
  2. La scuola crea agio quando alunni e docenti non si fanno reciprocamente male.

***

C’è un disagio di fondo, nella scuola italiana, di cui sono vittime i protagonisti; disagio derivante dalla vera mancata RIFORMA.

La riforma, di cui parliamo, non è il riassetto organizzativo del sistema scolastico ma l’entrare coraggiosamente nel nucleo vitale e culturale dello stesso.

La mancata riforma dipende:

  1. Dalla mancanza di volontà politica
  2. Dalla mancanza di un serio progetto culturale sulla scuola da parte della società in genere
  3. Dalla mancanza di definizione di un ruolo significativo dell’educazione e della formazione
  4. Dalla paura di un ruolo “rivoluzionario” dell’istruzione e della conseguente capacità di decidere in proprio
  5. Dai residui della contrapposizione ideologica

Non è detto che “qualcosa” non sia cambiato ma i cambiamenti non sembrano incidere nella sostanza dell’identità della scuola.

  1. Cambiano forse i programmi ma non l’impianto sostanziale dell’insegnamento/apprendimento
  2. Non ci si preoccupa seriamente della formazione e della ri-formazione del personale scolastico
  3. Non si adegua la scuola alla vera innovazione tecnologico-didattico-scientifica
  4. E’ancora dominante la rigidità del sistema
  5. Si avverte un appiattimento verso il basso delle identità, sia degli alunni che dei docenti
  6. E’ forte la rinuncia alla vera meritocrazia e alla verifica delle prestazioni
  7. E’ forte la tentazione a uno stile routinario della vita scolastica.

 

La scuola può cambiare ma dobbiamo essere convinti che:

  1. La scuola non è l’azienda della trasmissione della conoscenza con il sistema della catena di montaggio;
  2. La scuola non è l’impresa del risultato e non della riuscita della persona;
  3. La scuola non è l’esecuzione di procedure per progetti senza processo e senza progresso della persona
  4. La scuola non è il luogo di tanti posti disposti, giustapposti e spesso “contrapposti”
  5. La scuola non è il tempo del mio tempo contro il tuo tempo, in una scuola fuori del tempo e senza tempo
  6. Soprattutto la scuola non è il tempo e il luogo dove – se potessero – non andrebbero a scuola né i docenti né gli alunni.

Ma non è giusto parlare dei limiti e delle difficoltà della scuola se non mandiamo segnali convinti sulla possibilità di cambiamento.

La scuola coincide con la VITA – quindi è vitale – solo se assieme alla famiglia e alla società manifesta la volontà e la capacità di credere al cambiamento.

E il bagaglio del cambiamento passa innanzitutto nell’onestà di ricredersi, mettendo in discussione le troppe e vacue certezze di un tempo che cristallizzano ogni decisione nell’illusione che tutto sia sempre uguale a se stesso.

Ogni progetto di cambiamento della scuola deve riscoprire le sue radici nei VALORI, ossia nelle idee forti della cultura che la civiltà ci ha tramandato come ricchezza e come impegno.

Ancora, determinante per il cambiamento è il leale atteggiamento nella relazione con i giovani, rischiando fino in fondo con le loro attese, le loto potenzialità e persino con i loro limiti.

Sicuramente c’imbatteremo, allora, con il primo dilemma: puntare tutto sul pensiero “convergente”, sul modo comodo e facile del pensare consolidato, o non puntare anche sul pensiero “divergente”, fatto del rischio del nuovo, del confronto, della ricerca alternativa e faticosa, rispondente ad orizzonti più ampi rispetto alle visuali abitudinarie del nostro modo di leggere il mondo?

 

Accettare il pensiero divergente comporterà:

  1. Introdurre anche il principio di casualità nel processo di creazione;
  2. Incoraggiare la curiosità e mettere in opera il principio dell’imparare sperimentando;
  3. Utilizzare molteplici prospettive per facilitare il passaggio da una posizione all’altra all’interno della molteplicità del reale;
  4. Percepire l’errore come feedback naturale e necessario nel processo di costruzione della conoscenza.

Non è facile entrare in quest’ottica, così come non è agevole mettere d’accordo, per concretizzare stili nuovi di apprendimento, elementi come:

  1. Processi cognitivi
  2. Percezione
  3. Condizioni di personalità
  4. Atteggiamento socio-relazionale
  5. Rapporto con il Sapere

***

Gli stili di apprendimento richiamano direttamente gli stili d’insegnamento; tale correlazione non è occasionale, tantomeno superflua. L’insegnamento ha, quindi, l’obbligo di rispondere ad alcune caratteristiche che ne qualificano l’identità:

Sicuramente si chiede dal docente la competenza professionale, la completezza dell’informazione, la consapevolezza di ruolo, la comprensione delle dinamiche psicologiche e umane, in genere, degli alunni, e, infine, la compitezza, intesa come il sapersi porgere con stile personale e professionale adeguato al compito.

Aggiungiamo altre caratteristiche del docente che ci convince nell’esercizio del suo compito: un docente disponibile, costante, con spirito di condivisione, con continua curiosità.

Da questo quadro d’identità – che ci auguriamo non sia ideale e astratto – scaturisce un apprendimento con le identiche caratteristiche dell’insegnamento: caratterizzato, quindi da

  1. Disponibilità
  2. Costanza
  3. Consapevolezza
  4. Condivisione
  5. Compitezza e
  6. Curiosità.

Ci avviamo alla conclusione della nostra analisi, convinti di aver solo accennato a una molteplicità e delicatezze delle questioni di una scuola che ci sta a cuore.

Concludiamo con delle domande, lasciando a ciascuno dei docenti le risposte?

  1. E’ possibile un domani senza scuola?
  2. E’ auspicabile un domani senza “questa” scuola?
  3. E’ possibile una scuola senza scuola?
  4. La “mia” scuola – quella del docente o quella degli alunni – è anche la “tua” scuola?
  5. La “tua” scuola fino a che punto è anche la “mia” scuola?
  6. La mia scuola e la tua scuola fino a che punto sono la “nostra” scuola?

Questi urgenti interrogativi sono posti sul terreno della precisa volontà di salvare la scuola dal declino in cui rischia di perdersi senza la consapevolezza delle proprie responsabilità.

La scuola si salva non con la “materia” – sia essa caratterizzata dall’intelligenza astratta, dalle azioni non motivate e dalle emozioni non controllate; quella materia separata dalla sua forza educativa che dà senso e vigore all’intelligenza, alle azioni e alle emozioni.

La scuola si danna

  • credendo troppo a quel che si dice – di bene e/o di male – della scuola
  • non avendo alcuna curiosità su cosa debba/possa essere la scuola
  • quando la scuola non crede ai “grandi” che hanno candidamente dichiarato che a volte hanno trovato la scuola o inutile o noiosa.

Se parliamo di scuola, parliamo di passato, di presente e soprattutto del futuro. Di chi parlerà il futuro: più dei primi uomini o solo degli ultimi, dimenticando il lungo e faticosa percorso di tutta l’umanità?

La scuola sarà solo la narrazione delle “cose” o non anche l’ingenua, straordinaria fantasia – ad esempio – di un bambino che colora il mondo. Vale, in conclusione, questa idea: Chi non abita almeno una volta nel castello di sabbia di un bambino, non sarà mai RE (di se stesso).

Il Bonus premiale ai Docenti

IL BONUS PREMIALE AI DOCENTI E LA PROPOSTA DI “CAPOVOLGIMENTO” DI A. VALENTINO

di Domenico Sarracino

Il recente intervento di A. Valentino (E se la ripensassimo “capovolta”?, in “ScuolaOggi” del 7 u.s.) ha aperto una qualche crepa nel muro di scetticismo indotto in me dal meccanismo premiale previsto dalla legge 107/15. Che, ribadisco, è concepita per affermare nettamente anche nella scuola modelli organizzativi e gestionali dettati da una logica che, facendo leva sulla concorrenza , su un assetto gerarchico “forte”e su una meritocrazia scolastica   che al momento nessuno è riuscito a definire in maniera convincente, produce in tutta evidenza effetti divisivi e di ulteriore destabilizzazione del sistema scolastico. Lo dimostrano le discussioni – infinite, estenuanti, spesso laceranti – che hanno sostanzialmente caratterizzato quest’anno scolastico senza portare ad approdi né unitari né convincenti.

Nello scritto in questione l’autore introduce stimolanti elementi di novità ed un approccio più circostanziato e perciò più verificabile: egli “capovolge” la prospettiva (e forse la cambia), e nel fare ciò mette bene in linea le varie fasi ed elementi della questione in una concatenazione di punti di riferimento e di azioni ben sostenuta, che dà senso e fondatezza alla sua proposta; e questo approccio appare importante e proficuo potendo configurarsi come il bandolo che può forse aiutare a mettere un po’ d’ordine in una matassa particolarmente intricata…

Provo a sintetizzarne gli elementi caratterizzanti, ( aggiungendo da parte mia qualche passaggio che in qualche modo può essere inferito dal ragionamento dell’autore), e successivamente a mettere in luce , pur nel solco tracciato, punti che restano aperti.

Il primo elemento è l’esplicito ancoraggio di tutta l’operazione ai pilastri identificativi delle scuole, e cioè al Ptof,al Rav, al Pdm, e dunque al progetto che dà identità alle scuole che , valutando e autovalutandosi, individuano bisogni e punti critici in rapporto ai quali organizzare e sperimentare ipotesi di miglioramento. In questo modo il sistema scolastico, le comunità professionali ed educative sono chiamate necessariamente a guardarsi dentro, a mettere a fuoco situazioni e bisogni, a cercare insieme le vie nuove da tentare, a sollecitare il contributo , l’impegno e la qualità professionale di tutti, senza esclusioni aprioristiche, che non siano quelle di chi sceglie di non sentirsela di caricarsi di nuovi impegni sia qualitativi che quantitativi, ma che pure sta ed è stato dentro la discussione, l’ elaborazione   e lo sforzo collettivo per i comuni avanzamenti.

A me pare che per questa strada la questione della valorizzazione del merito e dell’impegno possa trovare un riconoscimento ed un percorso più chiari e condivisibili legati ai bisogni ed agli interventi e iniziative ad essi conseguenti, in un cimento professionale che sarà evidente, discusso e verificato.

E per l’ufficializzazione e gli adempimenti, gli organismi ad essi preposti – Ds, Collegio dei Docenti, Consiglio di Istituto, Comitato di valutazione ed altri soggetti di supporto, specificamente individuati dalle scuole – sono chiamati a fare ciascuno la sua parte in rapporto alle rispettive competenze, indicando priorità, mezzi e risorse, criteri di valutazione, e mirando a far sì che i risultati siano rilevabili e caratterizzati da durabilità e propagabilità.

Ho ritenuto questa proposta capace di aprire un varco perchè l’ho ripensata collocandola mentalmente nel concreto di situazioni scolastiche vissute e/o conosciute, e dunque negli umori, nelle tensioni, nelle dinamiche che in esse si vivono, e l’ho trovata meno lacerante e più praticabile perché più chiara ed obbiettiva, più aperta, più appartenente a “tutti”, e perciò più vicina all’idea di comunità, collaborazione e condivisione,che in un clima di fiducia, positivo e stimolante, crea le migliori condizioni per rendere proficue e convergenti le azioni educative.

E mi sembra di poter dire che essa vada a riconoscere e premiare un qualcosa che così diventa più oggettivo e accettabile: impegni nell’innovazione e nella ricerca, di qualità, aggiuntivi e riconoscibili, aperti a tutti quelli che vogliono cimentarsi e che hanno esperienze e risorse professionali da mettere in campo; e più accettabili anche perché le innovazioni e i loro risultati – circoscritti e sottoposti al vaglio della comunità educativa – andranno esaminati e valutati in rapporto alla rendicontazione dei risultati.

Elemento di forza è il fatto che tali innovazioni così prefigurate, discendono da un lavoro di tutta la comunità educativa, animata e guidata, dal ruolo di stimolo, equilibratore, unitario e di alto profilo del dirigente scolastico, (a condizione che quanto prima questi sia restituito alle funzioni pedagogiche, didattiche, educative e culturali oggi a forte rischio di marginalità), e , come si accennava, sono pensate strettamente connesse al progetto di Istituto (il Ptof) ed ai documenti ad esso strettamente conseguenti . Con l’avvertenza però, che questi importanti documenti siano costruiti non tanto per “apparire”, ma per disporre di una oggettiva conoscenza di ciò che ciascuna scuola effettivamente è, e di ciò a cui vuole e deve tendere in un’ottica di sviluppo e miglioramento, intendendoli come bussole da tenere presenti nella quotidianità del lavoro scolastico e liberandoli da quell’alone di atti burocratici da tenere nel cassetto e esibire solo in questa o quella occasione.

Dunque la questione del “bonus premiale”, così intesa, con affinamenti ed altri necessari aggiustamenti, potrebbe permettere di aprire una fase nuova ed interrompere la triste sequela di mortificazioni che da tempo sono ricadute sulla scuola e sui suoi operatori.

Prima di concludere credo che possa essere utile segnalare qualche aspetto non privo di problematicità, intorno a cui continuare a lavorare.

La prima osservazione riguarda il fatto che progetti così pensati e tali da incidere nella struttura delle scuole difficilmente possono risolversi nel tempo di un anno scolastico, per cui le “durate” da considerare sono certamente più estese (biennali, triennali?) e tali da permettere che essi possano adeguatamente dispiegarsi e basarsi su dati e risultati più stabilizzati e solidi.

La seconda è che resta ancora aperta una migliore definizione dei soggetti che opereranno la valutazione delle innovazioni e degli insegnanti interessati, e gli strumenti e i criteri che si adotteranno , non nascondendoci che dietro l’angolo resta la solita, dura domanda che ci fa tornare a bomba e che è questa. All’interno del gruppo che ha sperimentato – mettiamo- con successo un certo progetto, gli insegnanti avranno dato tutti il medesimo contributo? O, come è pensabile, ci sarà stato sempre qualcuno che ha tirato di più, che più si è fatto carico, che era meglio attrezzato o che si è più responsabilizzato?

In conclusione richiamo un punto su cui mi discosto da Valentino. Questi – con l’azzardo del “capovolgimento” – si propone di salvare i punti di forza della norma e “dannare” il meccanismo premiale al quale, da solo, sarebbero da imputare i rischi di conflittualità che egli pure tanto paventa, e che minacciano concretamente di destabilizzare ulteriormente la scuola. A mio avviso le cose stanno diversamente perché sembra evidente che il meccanismo premiale e i principi ispiratori della legge sono fortemente complementari: si rincorrono reciprocamente e si tengono strettamente insieme. Considerare deleterio il meccanismo del bonus deve voler dire innanzitutto opporsi alla norma da cui discende, che prevedendo una scuola organizzata intorno alle leve della concorrenza e della competitività confligge apertamente con l’idea di scuola intesa come comunità educativa che nelle sue articolazioni, e intorno al leader educativo, si unisce per costruire e progredire: la qual cosa è certo difficile, ma non per questo può essere elusa.

E’ apprezzabile l’impegno dei tanti che , qui ed oggi, si sforzano di trovare rimedi a situazioni prodotte da raccapriccianti improvvisazioni e schematismi ideologici, ma ancor più resto convinto che bisogna battersi affinchè si apra quanto prima una nuova stagione nel modo di governare la scuola italiana, per “liberarla” e dinamizzarla. E non ci sono soluzioni miracolistiche né colpi di ingegno, ma c’è bisogno di un lavoro duro e quotidiano, di buon governo, che leghi il contingente a visioni e prospettive di lunga durata che riguardano il tipo di futuro al quale vogliamo che siano preparate le nuove generazioni.

L’egemonia della cultura pubblicitaria sull’educazione e il suo auspicabile declino

L’egemonia della cultura pubblicitaria sull’educazione e il suo auspicabile declino

di Federico Repetto

 

È molto tempo che è stato abbandonato il dibattito sul presunto potere, da parte dei media, di manipolare il pubblico. Tra le altre, la scuola (marxista) di Birmingham ha mostrato decenni fa come il pubblico sappia ricodificare (reinterpretare) i messaggi secondo le sue esigenze. Ma si parla in genere di un pubblico adulto e unito in comunità culturali coerenti (come i giamaicani neri in Inghilterra, o la classe operaia di una volta). Non del pubblico dei bambini e ragazzi degli anni ottanta, dopo una sconfitta operaia epocale e in un contesto di crisi culturale e politica della sinistra.

Ma neanche in questo caso (che ora affronteremo) il termine “manipolare” è pertinente. Il termine pertinente per i minori è “educare”: quando le ore di tv sono superiori alle ore di lezione, è ovvio che la tv diventi un’importante agenzia educativa, aiutata dalla sua capacità di fornire una gratificazione immediata, mentre la scuola promette solo una gratificazione differita – una promozione sociale, l’accesso a un livello più alto del mondo del lavoro. Promesse che già negli anni ottanta sembravano poco credibili, e poi sempre meno. Ma essere un’agenzia educativa (in questo caso la principale, in competizione anche con famiglia e Chiesa) non rende onnipotenti: l’educazione è sempre un’impresa a rischio, minacciata dalle circostanze più imprevedibili, e in particolare dalla coeducazione tra pari.

Parleremo ora prima dell’apogeo della vincibile egemonia della tv commerciale e poi del suo già iniziato declino.

 

Negli anni della neotelevisione aumenta fortemente la propensione al consumo e l’attenzione alla pubblicità

Il tema del consumismo e della pubblicità soprattutto televisiva come suo fattore propulsivo è stato al centro di grandi polemiche nelle scienze sociali fino alla fine degli anni 70. A partire dagli anni 80, con la diffusione pervasiva del pensiero unico neoliberale, la discussione sui temi di questo tipo è stata praticamente messa da parte.

Contemporaneamente in Italia la “propensione al consumo” aumenta progressivamente e velocemente. L’agenzia Eurisko (oggi Gkf) l’ha monitorata a beneficio degli inserzionisti. Un suo sondaggio del 1993 ci mostra che vari indici di consumismo (impulsività negli acquisti, ricerca dell’ostentazione, piacere nel guardare le vetrine, tendenza ad acquistare cose inutili, o a comprare prodotti nuovi, amore per lo shopping, ecc.) decrescono sensibilmente con l’età: nel confronto tra i ragazzi di 14-17 anni (cresciuti con la neotelevisione) e gli anziani di oltre 64 anni, alcuni indici si riducono ad un terzo o ad un quarto, e tutti hanno una variazione collegata all’età per tutto l’arco demografico considerato: più si è giovani più si è consumisti (Giovani, consumi e consumismo, «Social Trends», 1993, n° 62; per tutti gli altri dati citati in questo articolo cfr. la nota finale).

Se invece guardiamo il primo sondaggio nazionale Eurisko del 1976 troviamo nelle risposte una forte diffidenza verso la pubblicità, le grandi marche, i prodotti industriali, ecc. Gabriele Calvi, il fondatore dell’agenzia, più tardi ha ricordato gli anni ’70 come un’oscura parentesi dopo l’età dell’oro consumistica del periodo pre-’68, tuttavia nella diffidenza del 1976 c’è non solo l’influenza del clima anticapitalistico sessantottino, ma probabilmente anche tracce di una sospettosità contadina o piccolo borghese nei confronti dei grandi oligopoli industriali. Sospettosità che il precedente boom economico forse non aveva eliminato del tutto.

Commenta Calvi nel 1976 (Valori e stili di vita degli italiani. Indagine psicografica nazionale 1976, Isedi, Milano, 1977):

[…] In definitiva, è oggi il 45% degli italiani che preferisce il supermercato al piccolo negozio…

Il grande magazzino ha un’immagine e una desiderabilità più scialbe… due terzi sono netti nell’affermare che non si fiderebbero ad acquistare cose importanti nei grandi magazzini (70%).

Rilevante negli anni ’80-’90 è anche il fenomeno della crescita dell’“attenzione per la pubblicità”: secondo gli indicatori di Eurisko, essa è aumentata quasi ininterrottamente dal 1986 almeno fino al 1995, per un totale del 30% di aumento. Naturalmente, per quanto riguarda la tv, ciò non esclude che molti spettatori che guardavano gli spot lo facessero soprattutto per ragioni estetiche, visto che in questo periodo la pubblicità inventa nuovi linguaggi – e i giovani, destinatari privilegiati, riuscivano meglio degli altri a decifrarli e ad apprezzarli. E non esclude nemmeno che qualcuno di questi giovani esteti andasse alle gigantesche manifestazioni per la pace e l’ambiente. Gli anni ottanta sono un periodo di straordinaria mobilitazione ecopacifista e l’egemonia non è un dato statico e non copre come un tappeto l’intera società.

È interessante la coincidenza tra la crescita parallela dell’“attenzione per la pubblicità” e la propensione al consumo delle giovani generazioni. La cosa è tanto più significativa se si ricorda che l’Italia negli anni ottanta ha avuto il più rapido incremento delle spese pubblicitarie del mondo occidentale avanzato (partendo da un livello molto basso della percentuale di tali spese sul Pil) e, insieme, la crescita più rapida e sregolata delle televisioni commerciali. E tale crescita ha portato alla percentuale di spot più elevata dell’occidente e all’invasione dei programmi da parte delle sponsorizzazioni.

Per concludere citiamo l’opinione trionfalistica del berlusconiano Pilati, nel 1987 (Il nuovo sistema dei media, p. 26):

L’evasione degli spot resta limitata, secondo ricerche specializzate, a quote minoritarie (circa il 30%). Gli atteggiamenti di rifiuto della pubblicità, vivi durante gli anni ’70 in sintonia con il clima ideologico, si dissolvono progressivamente proprio in coincidenza con l’incremento della comunicazione d’impresa e cedono il posto ad un diffuso e partecipe interesse (in alcune fasce, soprattutto giovani, la pubblicità ormai fa moda).

 

La cultura pubblicitaria neotelevisiva e l’educazione

Ma è possibile affermare che gli spot pubblicitari, di breve durata, spesso apprezzati solo per ragioni estetiche, e fissati su di un singolo prodotto, siano portatori di una cultura egemonica? In effetti è solo l’insieme dei palinsesti che può essere considerato una cultura, per quanto abbia contorni articolati e aperti. Tuttavia questo insieme, e in particolare i programmi-contenitore, è progettato per poter ospitare al meglio il messaggio degli inserzionisti.

È forse possibile farsi un’idea di quale sia il centro simbolico della cultura neotelevisiva leggendo le analisi pionieristiche di Francesco Casetti (Tra me e te, ed. Rai, 1988) sui riti neotelevisivi e sui programmi-contenitore. Secondo lui, la neotelevisione commerciale, di cui i “conduttori” sono i rappresentanti e i cerimonieri, entra nella nostra intimità domestica e nella nostra routine abituale, imita i rituali della vita quotidiana e li trasforma in modelli. Il “rituale del commercio” accosta dunque le immagini quotidiane del piccolo commercio al negozio all’angolo, o degli scambi di doni con gli amici, con quelle dello sponsor e della marca, e fa della comparsa dello sponsor un rito quotidiano. Si può aggiungere che questo procedimento serve a rendere accette la grande marca e la grande impresa per associazione (uno dei meccanismi psicologici più usati in pubblicità), associandole appunto con il piccolo commercio della nostra quotidianità: la neo-televisione è stata, si direbbe, il luogo della seduzione soprattutto dei ceti medi produttivi, e anche dei lavoratori con ambizioni di imprenditorialità o di autonomia, da parte dei grandi oligopoli capitalistici.

Quello del commercio è secondo Casetti il rituale dominante (insieme a quello dell’“incontro” e dell’”ospitalità”). Ovviamente tutti i rituali e i patti comunicativi della neotelevisione trattano lo spettatore assolutamente alla pari, come autonomo nelle sue scelte. Ma poiché i piccoli spettatori seguono anche i programmi per adulti, anche loro sono trattati come se fossero realmente autonomi e responsabili.

La tv dunque forma attraverso il suo linguaggio e il suo simbolismo, e costruisce, come direbbe Lakoff, i frame del suo pubblico. La sua azione naturalmente non è affatto irresistibile, se altri formatori alternativi propongono altri linguaggi e messaggi credibili. La sua efficacia è in relazione con la presenza educativa dei genitori o la loro assenza (per scelta di vita o per costrizione economica) e con la loro competenza mediatica, con l’influenza della scuola, del gruppo dei pari, della Chiesa, ecc.

 

Il nuovo millennio: calo della fiducia nella pubblicità e nella televisione

Già il Quinto Rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione in Italia, che paragona i dati del 2005 con quelli del 2001, individua un trend negativo per quanto riguarda la fiducia nella pubblicità da parte dei cittadini. Le opinioni negative sulla pubblicità (è invadente, alimenta una concezione consumistica della vita nei bambini, è diseducativa) aumentano per quasi tutti quanti i media nel periodo 2001-2006, mentre quelle positive (è una fonte insostituibile di finanziamento, aiuta nelle scelte di acquisto) per lo più diminuiscono. Il record negativo è detenuto nel complesso dalla tv. Nel caso specifico del fastidio per la sua invadenza, questo nel 2001 era al 47,2% per quanto riguarda la tv, e sale fino al 52,3% nel 2005, ma è proprio Internet che la batte, passando dal 42,5% al 57,8%.

Nel 2005 si ammette che la tv “aiuti nelle scelte d’acquisto” solo per il 14,1%, (contro il 17,8% del 2001): un livello simile a quello del sondaggio Eurisko del 1976 (il 14,4% tra i giovani). Gli altri media considerati (radio, quotidiani ed Internet) hanno addirittura un punteggio inferiore.

È poi singolare che la convinzione chela pubblicità sia indispensabile per il finanziamento della tv” (la domanda non distingue tra private e Rai) scenda dal già basso 29,9% al 21,8%. Negare questa necessità economica non sembra proprio logico parlando delle tv private, e questo assomiglia tutto sommato ad una protesta contro la troppa pubblicità – in nome della gratuità della Rete?

La tendenza ostile nei confronti della pubblicità in tv sembra in parallelo con il calo continuo di fiducia nelle televisioni in quanto istituzioni, che risulta dai rapporti Iard sui giovani: la televisione pubblica nel 1996 arriva a qualche punto oltre il 50%, mentre nel 2004 scende al 36% circa; la televisione privata dal 45% scende al 32% circa. Ciò avvalora l’idea di chi – come Enrico Menduni – pensa che la partecipazione diretta di Berlusconi alla politica abbia fatto diminuire la fiducia nella sua tv. E la Rai evidentemente è vista sempre più come espressione diretta dei partiti. Già in questo periodo ci sono poi i sintomi di un appannamento dello “splendore” passato della tv generalista e di una disaffezione del pubblico nei confronti dei suoi programmi, che anche secondo gli analisti tendevano a peggiorare.

Il rapporto osserva anche che il notevole aumento dell’insofferenza per la funzione diseducativa della tv, particolarmente diffuso tra le madri e tra le persone adulte e più istruite, sia una reazione alla “strategia delle agenzie pubblicitarie, che mai come in questi anni hanno indirizzato i loro messaggi ai bambini, individuati come persone in grado di incidere notevolmente sulle scelte d’acquisto familiare”. Tuttavia probabilmente c’è una tendenza alla reazione contro la saturazione pubblicitaria dei media di tutti i tipi, che si manifesta particolarmente contro la tv, la cui qualità a partire dalla fine degli anni 90, come si è detto, è andata diminuendo. Anche prima che Sky e Internet insidino direttamente la sua centralità, si avvertono gli scricchiolii del sistema della tv generalista.

Per gli anni successivi, l’undicesimo rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione, pubblicato nel 2013, ci fornisce dati interessanti. Internet prima di tutto ha costretto le aziende a ripensare il tradizionale rapporto unidirezionale dall’alto in basso con il potenziale cliente, e a tentare di instaurare un rapporto diretto e personalizzato. Naturalmente non bisogna dimenticare che, se questo da un lato può aiutare le aziende radicate sul territorio, dall’altro aumenta ulteriormente le spese pubblicitarie, in ultima analisi avvantaggiando a livello nazionale (e globale) le grandi marche, che, con la loro disponibilità di capitali, possono comprare i dati necessari dai diversi database e praticare su grande scala il marketing personalizzato. In tutti i casi, «il 36,6% degli italiani che hanno accesso a Internet dichiarano di essere entrati in contatto con un’azienda che commercializza prodotti o servizi di loro interesse negli ultimi due mesi». In realtà in vari casi si è trattato di un rapporto in gran parte verticale: di essi il 19,9% è entrato nel sito aziendale (in questo caso, se l’iniziativa è dell’utente, non bisogna dimenticare che essa nasce dalla pubblicità e dalla fama dell’azienda stessa), l’11,7% ha ricevuto delle e-mail commerciali ed ha risposto, l’8,2% è andato sulla pagina Facebook dell’azienda e l’1,2% sul suo canale YouTube, il 6,6% è stato contattato dal call center dell’azienda. Esistono anche risposte che configurano iniziative dell’utente di tipo più apertamente critico, come le discussioni sui prodotti svolte in blog e forum tematici, ma si tratta solo del 3,4%. Un altro 7,7% ha visitato pagine Facebook e Youtube sui prodotti create dagli utenti.

Agli intervistati viene poi chiesto quali tipi di aziende sentano più vicine a loro. Naturalmente in tempi di crisi è prima in classifica la risposta «quelle che offrono prodotti a buon mercato» (55,5%), seguita da «quelle i cui prodotti vengono acquistati da sempre nella mia famiglia» (40,2%); viene dopo ancora «quelle che utilizzano parte degli utili per attività sociali» (29,8%). Queste risposte austere richiamano un po’ il sondaggio Eurisko del 1976. Alla passione per il web resta comunque qualche briciola: «quelle che mi danno la possibilità di interagire attraverso Internet» ha il 14,3%, «quelle che ottengono apprezzamenti degli utenti su Internet» il 10% e «quelle molto attive su Internet (sito Web, pagina Facebook, ecc.)» l’8,7%.

Veniamo ora a un punto importante. Quando si chiede: «al momento di procedere ad un acquisto, quali dei seguenti fattori risultano decisivi nell’orientare la sua scelta?», la risposta «l’affidabilità del marchio aziendale» è scelta solo dal 43,1% dei 14/29enni, e la percentuale aumenta per ogni scaglione d’età fino ad arrivare al 59% tra i 65-80enni. Se confrontiamo questi dati con i dati Eurisko dei primi anni ’90 troviamo che adesso i più fiduciosi nel mondo dei consumi capitalistici sono i più vecchi, mentre allora erano i più giovani. Anche la risposta “il consiglio degli amici”, che fa riferimento in modo forte al mondo della vita, è scelta dal 41,3% dei 14/29enni contro il 21-22% di tutti gli altri. Il 19,6% dei giovani risponde “i pareri dei consumatori trovati su Internet” (dato medio: 14,7%). Ciò non significa che i giovani siano dogmaticamente dipendenti da Internet: solo il 6,7% (un po’ meno della media già bassa del 9,3%) è propenso a ispirarsi per i suoi acquisti alle “informazioni aziendali trovate su Internet”; inoltre solo il 6,1 sceglie basandosi sulle “informazioni ricavate dalla pubblicità” (in generale): anche questo dato ci ricorda piuttosto il sondaggio del 1976 che quelli degli anni ’80-’90.

Per i fattori di scelta dell’acquisto, la riposta più frequente è: “il prezzo conveniente”, con il 71,8%, un dato impensabile negli anni ’80-’90. E anche qui i più giovani sono di qualche punto sopra la media. Questa risposta ci ricorda però che, per quanto l’evoluzione del sistema formativo mediale abbia un peso importante, ci sono fatti strutturali, come la crisi globale finanziaria e la mancanza di denaro e di prospettive di lavoro, che incidono ancor di più.

Passiamo ora ad esaminare l’atteggiamento dei preadolescenti, che mostra dei cambiamenti ancora più interessanti in termini di distacco emotivo dal mondo dello spot e della tv. Anche i preadolescenti (studenti di scuola media) molto presto si sono collegati con Internet, senza grandi differenze rispetto agli adolescenti. Nel 2003, secondo un’indagine nazionale svolta annualmente per conto della Società Italiana di Pediatria con la consulenza di Carlo Buzzi, già il 63,7% degli studenti delle medie dichiarava di navigare su Internet. Secondo gli intervistati del 2011-2012, il 69,6% si connetteva tutti i giorni, mentre nel 2013-2014 si trattava dell’80%. La percentuale di chi dichiarava di non farlo mai passava dall’1,4 allo 0,8. Nel 2011-2012 il 79,8% affermava di avere un profilo su Facebook, percentuale lievemente scesa nella successiva rilevazione, probabilmente per la saturazione del social medium e la diffusione di nuove app.

Quanto ai dati sull’ascolto televisivo, dopo un periodo di ondeggiamenti, i ragazzi che dichiaravano di guardare la tv più di tre ore al giorno scendono dal 31% nel 2005, al 24,6% nel 2007, al 22,9% nel 2010, al 17,3% nel 2011-2012, al 13,6% del 2013-2014 (tuttavia certi programmi tv sono seguitissimi via Internet e commentati in gruppo).

In tutti i casi quella che sembra proprio diminuita è la capacità della pubblicità di risvegliare il desiderio della merce. Gli intervistatori dal 2004 hanno chiesto ai ragazzi se “capita loro di desiderare cose viste nella pubblicità in tv”. Mentre in quell’anno le risposte positive erano il 95,2%, e “desidero spesso” raggiungeva il 58,7%, nel 2006 le risposte positive scendevano al 90,8%, nel 2008 all’89,2%, nel 2010 all’88,6, mentre la risposta “spesso” si riduceva allora addirittura all’11,6%.

Parliamo ora dei modelli di consumo delle diverse età giovanili, dai preadolescenti in su. Se ovviamente la crisi economica ha aumentato la tendenza al risparmio, in realtà già da diversi anni il loro stile di acquisto è orientato verso i costi bassi. Come osserva un’esperta del marketing giovanile (Marzia Istria, Marketing dei teen agers, Lupetti 2010), sono loro «i protagonisti di quella rivoluzione low cost dei consumi, oggi prepotentemente alla ribalta». Essi, attraverso la Rete possono «accedere a un intero universo low cost: dai viaggi ai consumi culturali, dalla telefonia alle nuove tecnologie». Per non parlare della musica e della moda “indie”, cioè indipendente, non legate alle grandi star o ai grandi brand, o anche del baratto (swap, per il quale esistono appositi servizi on line), del riciclo e dei servizi Internet gratuiti. In questo target, propenso alla sperimentazione, la fidelizzazione alla marca è più difficile. È molto diffusa nell’abbigliamento e nell’oggettistica anche la mescolanza abituale di prodotti di lusso e non di lusso, di marca e non di marca.

 

Qualche conclusione politica

Si potrebbe ipotizzare che la stessa diffidenza che riguarda la pubblicità, amplificata, riguardi anche la politica spettacolo, che ne è per così dire un’applicazione, e la politica in generale. Essa ha certo origine in un atteggiamento antipolitico che è da tempo nel nostro costume, ed è anche una naturale reazione al comportamento poco credibile dei nostri ceti politici – sia di quelli che hanno un effettivo potere, sia di quelli che non ce l’hanno. Oltre a queste circostanze, la diffidenza verso la politica e le istituzioni deriva certo dalla situazione oggettiva: la politica nazionale è impotente rispetto alla crisi, nonché alle decisioni prese dalle varie istituzioni sovranazionali.

In questo quadro, quanto conta il declino della tv generalista e l’avvento di Internet e dei social media nel mutamento dell’atteggiamento verso la politica?

Indubbiamente questo avvento ha significato un aumento del senso di indipendenza e un rafforzamento dei processi di coeducazione delle nuove generazioni.

Ma forse in qualche modo si sta anche sbriciolando – contro gli scogli della competizione globale e della crisi – il paradigma dell’educazione e della costruzione di se stessi come opera d’arte incoraggiato dal consumismo estetizzante degli anni ’80 e ’90. La cultura pubblicitaria (i palinsesti televisivi – ma anche i testi dei periodici – costruiti in funzione della pubblicità) educava per sua natura al consumo, anche se veicolava insieme i miti attivi del successo (possibilmente grazie all’aspetto e alla seduzione), dell’uomo che “si fa da sé”, del “capitalista di se stesso”. Questi due tipi di messaggio, edonista e produttivista, già tra loro contraddittori, non potevano reggere di fronte alle dure repliche della crisi. E la risposta alla crisi del vecchio sistema dei media, di cui la politica spettacolo è parte, appare sempre meno credibile e sempre più ridicola: ce lo chiede l’Europa, lo vogliono i mercati.

Le nuove generazioni sono state ben presenti nella nuova stagione di movimenti verso il 2007-2011. Ma i movimenti non hanno trovato un’adeguata risposta a sinistra in una soggettività politica strutturata. Il clima attuale sembra così stagnante e depresso e la fiducia nella politica attiva a qualunque livello e con qualunque soggetto è di nuovo scesa fortemente, mentre si diffonde sempre più in modo strisciante un sentimento di protesta anti-istituzionale e antipolitica.

L’impressione che se ne ricava è che la diffidenza verso la pubblicità e verso la politica spettacolo sia estesa anche alla maggior parte delle forze politiche, anche a quelle che condividono gli obiettivi dei movimenti.

Dopo il suo momento di massimo successo nel 2013 perfino il M5S perde voti in termini assoluti a causa dell’aumento dell’astensionismo, e chiunque vinca le elezioni politiche rischia di trovarsi di fronte ad una cittadinanza disgustata e assolutamente diffidente verso le istituzioni, una parte della quale è sensibile ai richiami di forze radicali che propongono politiche nazionaliste e xenofobe, mentre la prospettiva di una guerra è incombente.

Il problema dell’educazione e delle trasformazioni culturali in una situazione del genere rischia di essere messo all’ultimo posto. Dobbiamo cercare di reagire comunque a una nuova strategia educativa che si va disegnando nella legge sulla Buona Scuola. Di fronte all’insensatezza attuale del modello del consumo come costruzione estetica del Sé, Renzi propone la subordinazione culturale della scuola all’offerta capitalistica di lavoro e alla cultura aziendale. In particolare l’alternanza scuola-lavoro, come osserva Acciarini in questo stesso n°, è spesso vuota di contenuti di apprendimento tecnico, ma buona per imparare ad adeguarsi alla gerarchia aziendale (lo studente addetto alle fotocopie), legata com’è a ciò che offre qui ed ora il mercato locale del lavoro. Laddove la risposta più plausibile alla competizione globale sembrerebbe essere invece una formazione generale e flessibile, ad alto contenuto di conoscenza.

 

NOTA SULLE FONTI

I dati e le analisi Eurisko cui alludo non sono facilmente reperibili. Ampie citazioni e precisi riferimenti si trovano nella tesi on line http://tel.archives-ouvertes.fr/tel-00690917 e nel mio Cultura pubblicitaria e berlusconismo, Aracne 2015, a cui rimando anche per gli altri dati e analisi sommariamente presentati in questo articolo.