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Un pedagogista e un educatore in ogni scuola

Un pedagogista e un educatore in ogni scuola
Il Ministro conosce la legge?

di Enrico Maranzana

 

L’agenzia Adnkronos riferisce che il ministro Giannini, commentando gli esiti della consultazione on line, ha detto: “La proposta in cima alla ”classifica” attualmente riguarda la possibilità di inserire un pedagogista e un educatore in ogni scuola[i]. Specialisti che assistano studenti e famiglie nelle situazioni difficili. Un supporto anche per i prof, per sostenerli ad affrontare al meglio le problematiche più complesse che incontrano ogni giorno”.

Abissale la distanza tra il modello di scuola sotteso all’asserzione e la struttura decisionale dell’istituzione scolastica.

Sorprendente la disattenzione al significato delle parole.

Uno sfregio alla dignità del lavoro del docente.

 

L’educazione è il fine ultimo del sistema scolastico.

L’educazione è la responsabilità primaria di chi opera nella scuola, il carattere fondante la professionalità docente.

L’educazione è un processo articolato che la legge scandisce:

  • Il Consiglio di Circolo/di Istituto delibera “i criteri generali della programmazione educativa”;
  • Il Collegio dei docenti “Cura la programmazione dell’azione educativa”;
  • Il Consiglio di classe realizza il “coordinamento didattico e i rapporti interdisciplinari” per uniformare gli insegnamenti e orientarli verso i traguardi indicati dal Collegio.

Il comportamento di un ministro, di fronte alla richiesta formulata da alcuni docenti di delegare a terzi l’oggetto del mandato ricevuto, non avrebbe dovuto essere quello della condivisione ma del richiamo al rispetto delle regole.

 

[i] Un pedagogista e un educatore in ogni scuola   – Samuele Amendola 26-09-2014   19.54

Presenza all’interno di ogni scuola di ogni ordine e grado di un Pedagogista ed un Educatore che costituiscano l’Unità di Educativa Scolastica che ricoprano le Funzioni Strumentali attualmente svolte dai docenti svolgendo anche un ruolo di coordinamento e di supporto ai docenti, di consulenza pedagogica alle famiglie e di sostegno agli studenti. Le funzioni strumentali verrebbero stabilizzate ed esperite così da esperti in scienze dell’educazione e della formazione, assunti con concorso su base comunale così da garantire anche una conoscenza del territorio per favorire il lavoro di rete

A proposito de La buona scuola

La Buona Scuola
Seminario
di riflessione e discussione sul documento
governativo
Lecce, 4
novembre 2014
Polo
Professionale “Luigi Scarambone

A proposito de La buona scuola

Una riflessione in premessa, sulla legittimità di punti di vista diversi e sulla auspicabilità di una loro pacifica coesistenza

di Rita Bortone

La vetustà culturale del Miur

La vetustà culturale del Miur

di Enrico Maranzana

Gli indirizzi elaborati dal Parlamento negli ultimi quarant’anni, nonostante la loro nitida e
coerente evoluzione, non sono riusciti ad intaccare la concezione di scuola che il ministero
dell’istruzione possiede e difende.

  • Due modi d’interpretare il mondo contemporaneo;
  • Due modelli di scuola, inconciliabili.

Il diritto all’arte e alla cultura tra letteratura e diritto

Il diritto all’arte e alla cultura tra letteratura e diritto

di Margherita Marzario

Abstract: L’Autrice si propone di indicare la strada attraverso la quale l’insegnamento e la scuola possano essere veramente liberi veicoli di cultura.

“L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”: così recita l’art. 33 comma 1 della Costituzione. Uno dei più begli incisi costituzionali, spesso disatteso. I pilastri della scuola dovrebbero essere: arte (da “muoversi verso qualcosa, compiere”), scienza (da “sapere”), libertà (da “piacere, gradimento”), insegnamento (da “segnare dentro” e, quindi, “imprimere nella mente”). Se la scuola realizzasse ciò non ci sarebbe nemmeno bisogno di continue e contraddittorie riforme legislative.
Per quanto difficile, è ancora possibile credere nella scuola e contribuirvi positivamente come mostra Dario Missaglia, tra l’altro ex-maestro elementare, in una sua raccolta di racconti sulla scuola, tra la realtà e la fantasia, dal titolo emblematico “Educo ergo sum”.
“Non è con la penna rossa che scongiuriamo gli errori; l’errore fa parte del nostro modo di apprendere. Tutti noi impariamo dagli errori; l’importante è individuarli, riflettere su che cosa abbiamo sbagliato e cercare di non ripetere lo stesso errore” (D. Missaglia). “Correggere” non deve essere “bacchettare”, ma “reggere, guidare, dirigere insieme o per mezzo di”: è questo il senso di orientare e consigliare che si dovrebbe applicare tanto a scuola quanto nella scuola della vita. “[…] impartire a quest’ultimo [il fanciullo], in modo consono alle sue capacità evolutive, l’orientamento ed i consigli necessari all’esercizio dei diritti che gli riconosce la presente Convenzione” (art. 5 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).
“Allora, a parte le norme, cominciamo a chiedere alla scuola di guardare al mondo che c’è, al bisogno del bambino di conoscere la realtà in cui vive, non quella finta e ideologica dei libri di testo; chiediamo di uscire qualche volta dall’aula affinché i bambini conoscano il quartiere, le persone, le fabbriche, gli uffici, i musei” (D. Missaglia). La scuola esca da se stessa e faccia uscire da se stessa perché “occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società, ed allevarlo nello spirito degli ideali proclamati nello Statuto delle Nazioni Unite e in particolare nello spirito di pace, di dignità, di tolleranza, di libertà, di eguaglianza e di solidarietà” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Ideali che non si ha modo di acquisire e sperimentare se si rimane solo nel chiuso dell’ambiente scolastico. I bambini hanno diritto “a frequentare musei, teatri, biblioteche, cinema e altri luoghi di cultura e spettacolo, insieme ai propri compagni di scuola” (art. 11 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura).
“I nostri bambini devono imparare a scrivere correttamente perché diversamente rischiamo di non farci capire o di comunicare un’assurdità. Non è difficile, e quello che possiamo a scuola, potete divertirvi anche voi a farlo a casa. Se scrivo: “Ho fame, vorrei un po’ di pane” e sostituiscono la p con la c, viene fuori: “Ho fame, vorrei un po’ di cane”. I bambini ridono, hanno capito che la grammatica può essere un gioco, una sorpresa continua. È la grammatica della fantasia di Gianni Rodari di cui leggiamo insieme le bellissime poesie. Fatelo anche a casa, vi divertirete anche voi” (D. Missaglia). “Gli Stati parti devono rispettare e promuovere il diritto del fanciullo a partecipare pienamente alla vita culturale ed artistica ed incoraggiano l’organizzazione di adeguate attività di natura artistica e culturale in condizioni di uguaglianza” (art. 31 par. 2 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). La grammatica è l’arte delle lettere, della scrittura, ovvero l’arte che insegna a scrivere e quindi a parlare correttamente. Scrivere e parlare sono tra le principali attività della vita, quella vita (etimologicamente “attività, forza, vigore”) cui fa spesso riferimento la Convenzione Internazionale dei Diritti dell’Infanzia – a differenza della Dichiarazione dei Diritti del Bambino del 1959 -, definendola in vari modi da “vita individuale”, nel Preambolo, a “vita culturale ed artistica” (art. 31). Grammatica, pertanto, da intendersi come insieme di strumenti essenziali per la vita e non insieme di sterili regole. Perché, i bambini hanno diritto “a sviluppare, attraverso il rapporto con le arti, l’intelligenza corporea, semantica e iconica” (art. 4 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura).
“Ecco, la scuola fino a oggi è stata come un calendario. Inizia con le foglie d’autunno, prosegue con il freddo dell’inverno, le rondini a primavera, i raccolti dell’estate. Una scuola ferma agli anni cinquanta, all’Italia contadina che non c’è più. Una scuola agreste per nascondere la durezza delle nostre vite, del lavoro, della nostra storia recente. Leggono ai bambini dei romani, degli assiri, dei babilonesi” (D. Missaglia). La scuola non deve essere stereotipata, perché i bambini hanno diritto “ad avere un sistema tra scuola e istituzioni artistiche e culturali, perché solo un’osmosi continua può offrire una cultura viva” (art. 10 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura).
“È vero. La scuola, la scuola vera e non quella dei giornali o delle diverse retoriche è anche il luogo delle crisi esistenziali. Docenti magari un tempo bravissimi, sensibili, preparati che arrivati a un certo punto della loro carriera iniziano ad andare in crisi. Non ce la fanno più. È il «mal di scuola», colpisce i docenti, non gli studenti. L’insegnamento diventa stanco, ripetitivo e allora gli studenti si fanno inquieti, magari disturbano, comunque diventano disattenti. L’insegnante a quel punto, mentre interviene, dovrebbe anche porsi qualche domanda e invece arriva il momento che le domande non esistono più” (D. Missaglia). La scuola dovrebbe essere luogo di crisi esistenziali (nel senso profondo ed etimologico), di competenze emozionali e relazionali, luogo in cui raccontare e raccontarsi. Così si eviterebbe (o si limiterebbe) il burnout degli insegnanti, l’abbandono degli studenti, il dissenso dei genitori. La scuola sia scuola delle crisi, scuola delle domande. Tanti gli esempi, tra cui Danilo Dolci, “educatore della domanda”. La domanda instilla lo spirito di ricerca – in conformità all’art. 9 comma 1 Costituzione “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnologica” – e così la scuola sarebbe più “aperta a tutti” (art. 34 comma 1 Costituzione) e diventerebbe davvero scuola di ciascuno. “[…] ciascuno di voi ha il diritto soggettivo all’istruzione, e nessuno, adulto o coetaneo, può impedirgli con la forza di non fruirne. E allora, anche volendo realizzare iniziative come quelle che avete fatto, dovete tenere conto di questi due principi intoccabili che, tradotto per voi, vuol dire che a nessuno può essere impedito di entrare e che se si vogliono svolgere attività come dibattiti, seminari, ecc. bisogna avere la capacità di convincere i compagni e anche i docenti. È più impegnativo, lo immagino, ma è altrettanto evidente quanto sia molto più efficace e di valore un’iniziativa che sappia costruirsi con il consenso” (D. Missaglia). “Aprire” significa etimologicamente “togliere i serrami, gli impedimenti, gli ostacoli” e quindi “rendere visibile, palese”, pertanto “apertura” fa rima con “cultura” e ne ha la stessa natura. In tal modo si concretizza il diritto dei bambini “a frequentare una scuola che sia reale via d’accesso a una cultura diffusa e pubblica” (art. 17 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura).
“È incredibile […] come i bambini ci manifestino l’immenso bisogno di una guida autorevole, affidabile, comprensiva e severa insieme. Cercano questo, non l’insegnante che ti dà la pacca sulla spalla e tira dritto, o il preside che ti scrive una nota sul registro e poi scompare tra le carte: queste presenze saranno cancellate ben presto dal loro presente e dalla loro vita; cercano un adulto che trovi il tempo per fermarsi un attimo, guardarli negli occhi, parlare con loro con la forza della sua esperienza e della sua saggezza. E seguirli nel loro cammino. Quando incontrano questi adulti, la risposta dei ragazzi è immensa, sorprendente” (D. Missaglia). Educare è promuovere, inculcare, preparare (dall’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).
“[…] che i nostri bambini riescano gradualmente a capire la realtà che li circonda. Una realtà fatta di persone, luoghi, oggetti, storia, fantasia; fatta di lavoro, di vita, di sentimenti, di paure e gioie. Non servono i cartelloni con le lettere e gli esercizi a memoria per imparare a leggere e scrivere. I nostri cartelloni sono intorno a noi, basta cercarli, guardarli, riflettere tutti insieme e poi scrivere il pensiero che abbiamo scelto: allora le lettere diventano un senso, un significato, non se ne scorderanno mai” (D. Missaglia). “Il fanciullo ha diritto alla libertà di espressione. Questo diritto comprende la libertà di ricercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere, a prescinderne dalle frontiere, sia verbalmente che per iscritto o a mezzo stampa o in forma artistica o mediante qualsiasi altro mezzo scelto dal fanciullo” (art. 13 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). I bambini hanno diritto “a partecipare a eventi artistici e culturali con continuità, e non saltuariamente, durante la loro vita scolastica e prescolastica” (art. 8 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura).
“Io ho iniziato a leggere loro delle poesie; le leggevo in classe con il trasporto della recitazione. Improvvisamente si sono fatti muti, seguivano le intonazioni, le emozioni. Io a volte ero trasportata da provare i brividi alla mia stessa lettura; ho alzato gli occhi e ho visto, nel silenzio generale, alcuni di quei ragazzoni con le lacrime agli occhi. E ho provato una grande commozione” (D. Missaglia). Poesia è produzione e la scuola può contribuirvi se torna ad essere così come era sorta, cioè “luogo in cui i maestri e i loro scolari si raccolgono per fine d’istruzione”, perché etimologicamente scuola è “intrattenimento, riposarsi dalla fatica fisica e avere tempo di occuparsi di una cosa per divertimento”, come nella scuola dell’antica Atene. La scuola non ha bisogno di progetti, perché essa stessa è un progetto impiantata su progetti umani. “I bambini hanno diritto ad avvicinarsi all’arte, in tutte le sue forme: teatro, musica, danza, letteratura, poesia, cinema, arti visuali e multimediali” (art. 1 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura).
“[…] non c’è un solo modo di imparare; che l’interesse allo studio, quando non è dato dalle esperienze scolastiche precedenti o dalla vita familiare, può nascere attorno a ciò che concretamente stiamo facendo. Ma allora quell’interesse per la macchina, per l’oggetto, perché non diventa la chiave per un percorso di apprendimento dove ci inseriamo la comunicazione, la lettura, l’interpretazione, l’inglese, la storia? Non è difficile” (D. Missaglia). Le pareti della scuola anziché essere tappezzate di cartelloni si dovrebbero rendere trasparenti all’ambiente circostante perché così si entra in rapporto col territorio (etimologicamente da “possessore della terra”). I bambini hanno diritto “a frequentare le istituzioni artistiche e culturali della città, sia con la famiglia che con la scuola, per scoprire e vivere ciò che il territorio offre” (art. 7 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura).
“[…] perdere un anno nella carriera scolastica non è certo piacevole ma non è neppure un evento drammatico, può far parte dell’esperienza di un adolescente che se vissuta con la giusta attenzione e responsabilità da parte degli adulti può permettere una nuova partenza; ma verso dove, questo è il problema vero” (D. Missaglia). Le esuberanze, le difficoltà degli adolescenti (da “colui che cresce”) sono incontenibili, insormontabili non a causa degli adolescenti ma a causa degli adulti (da “colui è cresciuto”) che non sono tali o non ci sono proprio in famiglia e a scuola. Nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’infanzia si parla di “allevare” il fanciullo che significa “alzare verso”; per alzare il fanciullo occorre che vi sia qualcuno posto in alto e questo implica anche il recupero di una certa autorità (come “autore”, dal verbo latino “augere”, far crescere) da parte della famiglia e della scuola.
“[…] genitori apprensivi, iperprotettivi, incapaci di svolgere un ruolo educativo. Era difficile da spiegare ma era proprio così; come se a un certo punto le figure adulte si fossero ritrovate improvvisamente vuote, scariche. E reagivano a quella loro incapacità con atteggiamenti devastanti: coprivano ogni comportamento del proprio figlio per evitare qualsiasi resa dei conti con i loro fallimenti; giustificavano ogni cosa e reagivano con durezza a qualsiasi provvedimento fosse preso. In fondo delegavano alla scuola ogni loro responsabilità educativa ma non appena la scuola provava a misurarsi con i problemi, esplodeva il conflitto” (D. Missaglia). Dall’art. 5 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si ricava la necessità della coralità e della corresponsabilità educativa.
“Nella scuola si consumava la crisi dei modelli educativi ma nessuno osava porre il problema. Meglio e più facile gridare al bullismo, sanzionare, bocciare, espellere” (D. Missaglia). Gli insegnanti non tanto devono avere modelli educativi quanto esserlo e cogliere nelle crisi le opportunità per creare nuovi modelli educativi. Creare nuovi modelli educativi e relazioni significative è dare senso alla libertà dell’insegnamento e all’insegnamento nella libertà (secondo il motto “educare alla libertà” dell’arte educativa dell’austriaco Rudolf Steiner, 1861-1925).
“Questa è la scuola vera, quella di cui la stampa non vuole o non è in grado parlare. Un luogo dove certo si muovono docenti che a un certo punto della loro anzianità di carriera non ce la fanno più; si trascinano come svuotati e non sono più in grado di animare un rapporto educativo. Una scuola oppressa ancora da circolari e decreti, da tagli e riduzione di risorse che scoraggiano chi vi lavora. E allora incontri il grigiore della routine, l’ossessione «per il programma», la nevrosi del voto e della media aritmetica, delle note scritte sui diari, delle sanzioni disciplinari. Ma anche una scuola dove tanti insegnanti raggiungono esiti imprevedibili, accendono passioni, interessi, smuovono situazioni impensabili. Non rinunciano alla critica verso la politica scolastica, l’abbandono della scuola pubblica, la mortificazione di un lavoro non riconosciuto, senza possibilità di arricchire la propria professionalità. Ma quando questi insegnanti sono di fronte ai loro ragazzi, si accende una straordinaria passione che non guarda né all’orologio né al salario. Questa scuola non fa notizia, resta nel segreto delle aule e delle storie individuali e anonime di tanti insegnanti e presidi. Storie che a volte rinascono, improvvisamente, quando un maestro o un professore incontra un ex alunno, e in quegli abbracci c’è il significato di tanti segreti mai raccontati perché non avrebbero fatto notizia o forse sarebbero stati sepolti da un’inutile retorica” (D. Missaglia). Insegnare non comporta solo l’immissione in ruolo ma l’adempimento di un ruolo (etimologicamente da “rotolo”, manoscritto arrotolato in cui erano scritti i nomi) e il totale coinvolgimento in un ruolo. “Queste poche cose mi piacerebbe vedere in un essenziale stato giuridico dei docenti; e da queste potrebbe nascere anche un codice deontologico che dia valenza etica a una professione che è inscindibile dalla relazione educativa. E la relazione educativa non è regolabile né per via contrattuale né per via legislativa” (D. Missaglia). I bambini hanno diritto “a vivere esperienze artistiche e culturali accompagnati dai propri insegnanti, quali mediatori necessari per sostenere e valorizzare le loro percezioni” (art. 12 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura). Gli insegnanti sono soprattutto mediatori di emozioni e passioni, anche per questo l’insegnamento non è un comune lavoro ma una vera vocazione.
“Una certezza ce l’ho e la riscontro ogni giorno con i miei studenti. È una forza che mi fa dire che ce la faremo perché, vedi, questa società che oggi trionfa ha uno sguardo breve, punta sull’immediatezza dell’utile, mentre quando parlo con i ragazzi vedo che hanno sete di valori duraturi, forti. Certo vivono e subiscono le mode, i richiami del conformismo, ma avvertono che tutto ciò non basta, non li riempie, non li soddisfa. Resta un desiderio, una curiosità e percepiscono il valore delle cose più autentiche e durature. E allora la scuola mi sembra un meraviglioso serbatoio di nuove energie, nuove speranze, di un cambiamento possibile. Ce la faremo” (D. Missaglia). I valori non sono desueti ma è diventata desueta la pratica valoriale da parte degli adulti perché comporta impegno e coerenza. Occorre riprendere l’educazione valoriale quale legame col passato, base del presente e costruzione del futuro. “[…] inculcare al fanciullo il rispetto […] dei suoi valori culturali, nonché il rispetto dei valori nazionali del Paese in cui vive” (art. 29 lettera c Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). I bambini hanno diritto “ad avere un rapporto con l’arte e la cultura senza essere trattati da consumatori ma da soggetti competenti e sensibili” (art. 6 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura). “E allora il maestro deve essere, per quanto può, profeta, scrutare i segni dei tempi, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che oggi noi vediamo solo in confuso” (don Lorenzo Milani). La scuola impari e insegni a coniugare i verbi al futuro, a coniugare un futuro migliore.
“Per essere in grado di comunicare in modo efficace, è necessario sconfiggere l’ignoranza che costituisce la tomba di ogni possibile relazione. I ragazzi italiani leggono pochissimo e usano un lessico piuttosto limitato: circa ottocento parole. Riempiono i loro discorsi di espressioni morte, di inutile intercalare, cercando termini che non affiorano sulle labbra. La parola e il discorso sono immagini dell’anima: se l’anima è vuota, le parole non si formulano. Svaniscono nel nulla. […] il fatto di non comunicare vita e bellezza è già un seminare tristezza e morte” (Valentino Salvoldi, teologo e scrittore). Lo sviluppo di una persona non è completo se non si cura l’aspetto spirituale, come richiamato negli articoli 17, 23, 27 e 32 della Convenzione Internazionale dell’Infanzia: ed è in questa direzione che occorre impegnarsi ed investire coniugando arte e cultura, fantasia e fiducia.
“La fiducia è inseparabile dalla credibilità della persona che ti è di fronte. E i giovani cercano disperatamente adulti in cui avere fiducia perché la fiducia è la risorsa che ti permette di guardare al futuro, di scoprire curiosità ed emozioni, di liberare energie creative. Poi, a volte, se sei fortunato, riesci persino a incontrare dei grandi vecchi rimasti giovani, con una sorprendente nostalgia del futuro” (D. Missaglia). E così la scuola, da quella familiare a quella istituzionale, diviene culla di cultura e civiltà (quest’ultima parola negletta ma espressa nell’art. 29 lettera c della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Bibliografia
“Educo ergo sum” di Dario Missaglia, Ediesse 2010, Roma

L’Indice di Povertà Educativa e il rapporto Save the Children

L’Indice di Povertà Educativa e il rapporto Save the Children: appunti sul ruolo educativo della Scuola

di Alessandro Basso

Il rapporto Save the Children “sulla povertà educativa in Italia non può non chiamare in causa una riflessione a tutto campo che vada ad investire il mondo della scuola.
Le opportunità offerte e soprattutto quelle non offerte da parte delle famiglie provocano una netta discriminazione all’interno della sfera educativa individuale intesa nel senso più globale del termine entro il campo delle scienze non esatte.
La definizione di povertà educativa tracciata come “ privazione da parte dei bambini e degli adolescenti della possibilità di apprendere, sperimentare, sviluppare e far fiorire liberamente capacità, talenti e aspirazioni” investe segnatamente una vasta gamma di operazioni che la scuola volge per preciso mandato istituzionale.
I dati sono eloquenti, un milione di bambini vive in condizioni di povertà economica estrema, favorendo un fenomeno devastante quale il dilagare dell’impossibilità ad apprendere, proprio nel pieno svilupparsi della società della conoscenza.
Il ciclo economico con la sua congiuntura è la causa principale di questi dati, per i quali è necessario avviare un dibattito secondo criteri rivisitati rispetto al passato.
Il questo senso si muove la profilatura di un Indice di Povertà Educativa (IPE) individuato secondo indicatori ben precisi e proveniente da una lettura della realtà ad ampio spettro, coinvolgendo le responsabilità di molteplici soggetti dell’education.
La storia dell’Italia repubblicana è fortemente segnata dal processo di scolarizzazione di massa, indotta dall’introduzione, a più fasi e con esiti non sempre brillanti, dell’obbligo scolastico, costituzionalmente sancito e garantito.
Nel corso degli anni, il concetto di obbligo scolastico si è allargato a “diritto-dovere di istruzione e formazione” ed è proprio entro la sfera dei diritti che è necessario riflettere sulla base del rapporto Save the Children, rivedendo gli indicatori di “povertà culturale” all’interno della nostra società.
In passato, depauperamento culturale era sinonimo di miseria, disoccupazione, specie nelle aree a baso sviluppo economico e con un profilo sociale ancora non in evoluzione.
La conseguenza diretta si manifestava nell’analfabetismo e nell’incapacità a sviluppare un bagaglio di conoscenze scolastiche necessarie alla propria realizzazione personale al di fuori del bacino rurale quale tessuto sociale dominante del nostro paese.
Oggi non è certo l’analfabetismo il dramma sociale più emergente, perlomeno non è oggetto della nostra indagine, bensì la lontananza dall’apprendimento permanente, lo scarso sviluppo delle competenze di base (cd literacy), la dispersione scolastica e i NEET.
Certamente la scuola conserva e conserverà sempre un ruolo di fondamentale erogatore di un servizio di apprendimento, è altrettanto vero, però, che la scuola non è l’unica fonte ad occuparsi del sapere, inteso nella sua accezione formale-informale-non formale.
L’apprendimento, per risultare significativo, dev’essere life long Learning”, deve durare l’intero arco della vita per far sì che le conoscenze-abilità-competenze possano essere tenute al passo di una società che impone il cambiamento costante e la flessibilità come schema base.
Il mondo della scuola ha lanciato una sfida lungimirante con la creazione dei Centri provinciali per gli adulti, ora si tratta di riempire il contenitore e garantirne la reale e fattiva concreta reificazione.
Tornando al mondo dei giovani, l’imperativo donmilaniano “non uno di meno” trova una più complessa realizzazione in quanto lo sforzo istituzionale che si deve compiere deve superare le barriere delle aule scolastiche e addirittura spaccare le pareti delle scuole stesse, in quanto è il territorio la sede privilegiata dell’educazione.
La discriminazione più raffinata non consiste nella forbice studente/non studente ma tra persona e realizzazione dei propri sogni.
Sarebbe bello pensare che tutti i nostri giovani possano sviluppare dei sogni e aver la possibilità di tenerli nel cassetto per la loro realizzazione, non costringendoli ad abbandonarli ancora prima di averli programmati.
La differenza con il secolo passato sta proprio in questo, i giovani trovano difficoltà ad avere dei sogni perché non intravvedono quello spiraglio di luce che i loro coetanei novecenteschi potevano intravvedere nel dinamismo della società d’allora.
L’esperienza dei punti luce, allora, proposta da Save the Children può essere pensata come questa occasione per offrire un luogo dove pensare al futuro grazie al supporto della comunità educante.
È necessario porre un’ulteriore questione di fondo. Tutti i ragazzi possono, da qualsiasi punti di partenza, realizzare un percorso scolastico di qualità?
Il dato della disuguaglianza nelle opportunità è eloquente.
Il percorso scolastico di un alunno è determinato dalla posizione lavorativa dei genitori che, a sua volta, dipende dal loro livello di istruzione. Questo dato deve essere tenuto in debita considerazione per individuare i destinatari delle azioni formative mirate, senza aver paura di compiere delle scelte politiche coraggiose a favore di determinati segmenti della società o di determinate aree del paese.
Sono disponibili numerosi e significativi dati relativi agli esiti scolastici degli alunni, forniti dalle indagini internazionali sulle competenze di lettura-matematica-scienze nei quindicenni, emersi dall’indagine OCSE PISA, oppure dalle rilevazioni interne elaborate dal nostro Sistema Nazionale di Valutazione (INVALSI), attraverso le prove di italiano e matematica somministrate alle classi II-V primaria, III secondaria di I grado e II secondaria di II grado.
Il quadro che ne emerge e che è statisticamente confermato dal susseguirsi delle indagini è eloquente rispetto il divario tra aree diverse del nostro Paese, dal quale non è emerso, però, un dibattito politico e de massa altrettanto dinamico, come sarebbe potuto accadere in altre realtà europee.

Le opportunità da offrire ai ragazzi vanno incentivate mediante la creazione di reti con il territorio, così come bene evidenzia la recente consultazione sulla Buona Scuola licenziata dal Governo Renzi.
Ciò è realizzabile attraverso investimenti adeguati nelle strutture oltre che nel ripensamento dei tempi” e degli “spazi” scolastici, creando zone morbide ove garantire la presenza di un ragazzo a scuola, piuttosto che per strada, per usare le parole del rapporto, creare ambienti in cui “apprendere per vivere assieme” quale arma di contrasto alla povertà educativa.
Uno dei dati eloquenti del rapporto è costituito dal dato del tempo pieno alla scuola primaria, con il primato della Lombardia con il 47% delle classi.
Il dato è inequivocabile, anche se deve essere letto contestualmente ai provvedimenti governativi degli ultimi anni rispetto alla “razionalizzazione” del tempo scuola, che hanno fatto sì che molte scuole rivedessero la propria offerta oraria affinché la stessa risulti sostenibile per effetto della riduzione degli organici dei docenti.
Questi provvedimenti, al di là di un commento squisitamente di merito, sono entrati a regime: qualora si decidesse di rimettere in discussione questa operatività, è basilare farlo attraverso un confronto serio e lungimirante con le risorse disponibili e con l’”idea di scuola” che si vuole costruire. Tradotto in termini operativi, l’indicatore individuato dal Rapporto in merito al tempo scuola merita un approfondimento in termini meno assoluti.

Non si deve fraintendere questo concetto pensando di allocare alla scuola la responsabilità educativa esclusiva delle nuove generazioni anche per quel che riguarda il tempo libero, andando oltre ai già complessi e complicati oneri nel campo istruttivo e formativo.
È necessaria altresì un’attenta riflessione circa il ruolo di delega che le famiglie compiono nei confronti della scuola e delle amministrazioni nella società contemporanea, imponendo questa riflessione una mirata azione di coinvolgimento delle famiglie e allo stesso tempo la sottoscrizione di un chiaro “contratto” tra le parti.
Si devono trovare modalità chiare e trasparenti di comunicazione con le famiglie e percorsi amministrativi semplificati, rendendo maggiormente flessibili e meno onerosi gli adempimenti per le amministrazioni coinvolte in percorsi integrati: ovvero crederci e costruire le precondizioni necessarie affinché le scuole e i comuni possano interfacciarsi apportando ciascuna il proprio contributo.
Una delle strade possibili è costituita proprio dai modelli di scuola integrata, accompagnati dai comitati dei genitori, dal supporto dell’amministrazione comunale, dalla propulsione d’iniziativa che solo la scuola come centro di interesse culturale di una comunità può dispiegare.
Il ripensamento degli spazi deve far sì che inostri giovani possano godere di ambienti “appetibili” anche dal punto di vista funzionale, oltre che estetico, ove bilanciare attività di natura culturale con attività di svago, sport.
Le esperienze positive delle regioni più attive, si pensi ai progetti di alfabetizzazione motoria nelle scuole, devono diventare un’azione strutturale della sinergia politica scuola-territorio-istituzioni, prevedendo percorsi frutto di una seria e pluriennale cadenza, altrimenti la ricaduta in termini educativi è minima e lo sforzo organizzativo supera i risultati sperati.

Un altro percorso mutuabile è ricavabile dall’esperienza dei doposcuola, opportunamente adattati alle esigenze di giovani nativi digitali, che devono trovare in questi contesti anche le tecnologie minime necessarie per affrontare un pomeriggio integrato, sul modello odi alcuni doposcuola digitali che sono nati in alcune realtà, anche italiane.
Solo così si potrà incoraggiare la loro presenza, agganciarli nella costituzione di un contratto formativo adeguato e allo stesso tempo appetibile.
Si pensi, solo a titolo esemplificativo, ai benefici che ne otterrebbero tutti gli studenti con Bisogni Educativi Speciali, un termine coniato per ricomprendere una vastità di ragazzi verso i quali riversare attenzioni individuali che per la loro molteplicità e difficile individualità, spesso, non è sempre agevole trattare durante la mattinata scolastica.

Devono, inoltre, essere messe a disposizione opportune figure di riferimento.
Gli insegnanti, come detto, sono una fonte inesauribile di idee e di progettualità significative, ma gli interventi integrati necessitano anche di esperti in campo educativo e counselors, figure orientanti per affrontare le sfide educative più emergenti, sportelli di ascolto con professionalità adeguate all’ascolto dei ragazzi e delle loro famiglie, facendo uscire questi interventi dall’anonimato, a volte perché non ci sono le risorse per sostenere iniziative lodevoli e necessarie.
L’esperienza dei punti luce chiama in causa forti considerazioni nel campo della disponibilità delle risorse che devono, condicio sine qua non, essere certe, pluriennali, programmate con tempi certi, altrimenti ci troveremmo di fronte ad una catastrofe.

Tornando ai dati concreti, questo potrebbe essere un percorso efficace verso la lotta alla dispersione scolastica che ci trova fortemente impreparati all’obiettivo di Europa 2020 , dopo aver fallito quello precedente di Lisbona 2000.

Organico funzionale

ORGANICO FUNZIONALE non solo risparmio

di Giuseppe Adernò

Tra le novità della “Buona Scuola” e le norme avviate nella Legge di stabilità si comincia il delinearsi un possibile percorso verso l’organico funzionale delle istituzioni scolastiche.
Se n’è parlato da tanto tempo e sono stati svolti a livello provinciale, regionale e nazionale numerosi seminari di studi, convegni, riunioni, progetti, ma tutto è rimasto in aria.
Ora la necessità di risparmiare ha segnalato l’urgenza ed eliminando112.000 supplenti, il Miur risparmierà 350 milioni di euro come scrive Paolo Damanti su Orizzonte Scuola, conteggiando i contratti delle supplenze brevi che assommano a 51mila nella scuola dell’Infanzia e Primaria, 31.500 nella scuola secondaria di primo grado e 35.700 nella scuola secondaria di secondo grado.
L’Organico funzionale abbatterà i costi delle supplenze brevi, che come abbiano più volte segnalato, sono inefficaci sul piano didattico, auspicando il “supplente stabile” specie per la scuola dell’infanzia e primaria.
La chiamata di una supplenza impegna tempo e personale (telefonate, fonogrammi, nomine, contratti…) e poi per poche ore di servizio scolastico, spesso circoscritto alla vigilanza e improduttivo ai fini della didattica e dell’apprendimento.
Ancora oggi l’autonomia scolastica, tanto attesa e celebrata, stenta a decollare, perché priva di risorse economiche e di una reale autonomia amministrativa.
L’organico funzionale costituisce il cuore dell’autonomia perché significa “risorse umane” valide e certe.
L’istituzione scolastica secondo la tipologia di ordine di scuola, d’indirizzo e di organizzazione, elabora un piano di organico indicando il personale necessario per svolgere nel modo migliore la “mission educativa”, interagendo con il contesto territoriale ed elaborando un servizio scolastico efficace ed efficiente.
Il numero delle risorse necessarie diventa indicativo per l’organico funzionale, così da consentire alla scuola di poter essere veramente “autonoma” e certa di conseguire traguardi e obiettivi, sviluppando negli studenti le competenze necessarie.
Ad esempio per gli istituti comprensivi che hanno docenti dei due ordini di scuola, ma spesso con le medesime competenze disciplinari (docenti laureati in lettere) è uno spreco dover ricorrere per due ore ad un docente di Lettere in servizio in più scuole, esterno, che viene a scuola solo per due ora la settimana come un “forestiero” ed estraneo alla vita scolastica, mentre quelle due ore potrebbero essere assegnate ad un docente interno dell’Istituto. (anche se del settore della scuola primaria)
Si eviterebbero così gli spezzoni di ore e l’economia delle risorse costituisce una ricchezza di potenzialità e di didattica efficiente.
L’assegnazione delle cattedre e lo sviluppo organizzativo della scuola costituiscono i capisaldi dell’organico funzionale che proprio nel nome indica efficienza e produttività.
La valorizzazione delle competenze professionali, che nella scuola primaria da anni è stata alimentata dall’organizzazione modulare, ed ha determinato tante spese per la formazione dei docenti nelle singole discipline, ora tende a scomparire e spesso si constata che ci sono docenti, chiamati a svolgere compiti d’insegnamento nei quali non hanno maturato esperienze didattiche significative. In alcune realtà scolastiche, dove anche il dirigente ha creduto nella professionalità dei suoi docenti, assegnando le cattedre per classi parallele è stato possibile, invece, mantenere la specificità delle competenze didattiche.
L’organico funzionale inoltre consente di assicurare la continuità dell’organizzazione delle classi a tempo pieno o prolungato, senza dover ogni anno aspettare autorizzazioni e assegnazioni che risultano provvisorie e prive di continuità.
L’organico funzionale, strumento indispensabile per l’autonomia scolastica, consente di progettare e di mettere in atto tutte le intenzionalità educative, favorendo lo sviluppo delle attività e iniziative didattiche in continuità e in un progressivo miglioramento nella qualità.
Sarà compito del Dirigente e degli Organi collegiali dell’Istituto pianificare la quantificazione delle risorse necessarie, puntando sulle risorse interne già esistenti e valorizzandole al meglio.
Nella logica dell’organico funzionale anche gli spostamenti o trasferimenti dovranno essere finalizzati e motivati da piena conoscenza e condivisione della progettualità dell’Istituto.
Si sono registrati ad esempio casi di trasferimento in scuole a tempo pieno o prolungato di docenti che non possono svolgere attività di servizio in orario pomeridiano e quindi l’efficacia dell’azione didattica ne risulta profondamente compromessa.
L’identità e la specificità della scuola dovrebbe caratterizzare la motivazione della scelta per gli eventuali trasferimenti o passaggi.
Ben venga l’organico funzionale, ma occorre aprire la mente e il cuore ad una visione di scuola che va ben oltre le strette esigenze personali o i diritti sindacali, reclamati quando fanno comodo.
Un organico potrà definirsi “funzionale” se consegue prima e meglio gli standard di qualità e di efficienza nell’ottica del miglioramento e della crescita della scuola.
La partita è avviata, cominiciamo a segnare il primo goal.

Indagine conoscitiva sulle strategie per contrastare la dispersione scolastica

CAMERA DEI DEPUTATI
7a Commissione Cultura, scienza e istruzione

Indagine conoscitiva sulle strategie per contrastare la dispersione scolastica

Indagine conoscitiva sulle strategie per contrastare la dispersione scolastica

DOCUMENTO CONCLUSIVO APPROVATO DALLA COMMISSIONE

Premessa
1. ANALISI DEL PROBLEMA
1.1. Dispersione scolastica: definizione e dimensioni del fenomeno.
1.2. I fattori decisivi del rischio dispersione.
1.3. Le risorse.

2. LIVELLI DI INTERVENTO
3. STRATEGIE DI AZIONE
3.1. Il nodo del primo biennio della scuola secondaria.
3.2. Un’autonomia compiuta.
3.3. L’Istruzione e Formazione Professionale.
3.4 Scuola aperta e partnership con il territorio.
3.5 Formazione dei docenti e qualità dei processi educativi.
3.6 Gli studenti di cittadinanza non italiana.
3.7 Nuovi ambienti di apprendimento.
3.8 Il riordino dei cicli.
3.9. L’anagrafe degli studenti.

4. CONCLUSIONI: UNA STRATEGIA NAZIONALE PER ACCELERARE LA LOTTA ALLA DISPERSIONE
4.1. Obiettivo 10 per cento.
4.2. Azioni prioritarie.
4.2.1. Anagrafe e monitoraggio.
4.2.2. Prevenzione nell’infanzia.
4.2.3. Interventi nella scuola secondaria e IEFP.
4.2.4. La seconda chance.
4.3. Due strumenti per la realizzazione delle azioni.
4.3.1. Una sperimentazione che possa ampliare l’autonomia delle scuole.
4.3.2. Una «unità di crisi».

Premessa

Nell’ambito delle politiche del Governo che pongono la scuola e la formazione al centro dello sviluppo del Paese, la prevenzione e il contrasto alla dispersione scolastica assumono oggi una rilevanza senza precedenti. Non c’è crescita o ripartenza se rimangono irrisolti nodi storici del nostro sistema di istruzione e di formazione, già oggetto, peraltro, nel 2000, di attenzione da parte della Commissione cultura, scienza e istruzione della Camera dei deputati. Eppure, la perdita di un’enorme massa di studenti che abbandona la scuola rimane un luogo comune accettato quasi con rassegnazione, dimenticando che in questa zona d’ombra si nascondono non solo i destini individuali di ragazzi e ragazze ma anche le prospettive di crescita del nostro Paese.
Rispetto al passato non è più tempo di descrizioni e diagnosi. Non c’è alcun bisogno di ripetere ritualmente la litania dell’abbandono scolastico o ricamare il tema con un restauro conservativo dei modi di vedere la questione, dominanti negli ultimi decenni. Ai livelli insostenibili di dispersione e alla perdita di attrazione della scuola occorre contrapporre un approccio strategico e operativo, orientato dal coraggio di una visione rivolta al futuro.
Accanto alle criticità accumulate negli anni dell’edilizia scolastica e alla quota di occupazione precaria nella scuola, la dispersione è uno degli ostacoli storici alla qualità del nostro sistema di istruzione e di formazione. Riconquistare i giovani alla scuola, e ridurre ritardi e uscite precoci, è una sfida decisiva per decisori, amministratori, insegnanti e famiglie, non solo per evitare la dissipazione delle risorse comunque investite ma, anche e soprattutto, per ridare all’educazione e alla formazione il ruolo di spinta per l’avvenire del Paese.
Per un’azione efficace non basta una generica intenzione di miglioramento, ma occorre mettere in campo tutte le energie in una strategia nazionale multi-livello che, attraverso la definizione di precise misure e traguardi da raggiungere, reinventi l’azione didattica, ridisegni gli ambienti di apprendimento, rimotivi gli studenti e riconosca il lavoro dei docenti.
Per migliorare la comprensione del fenomeno e, quindi, definire più efficaci strategie di intervento, la Commissione cultura, scienza e istruzione della Camera dei deputati ha ritenuto opportuno lo svolgimento di un’indagine conoscitiva sull’insieme dei processi che caratterizzano la dispersione scolastica (abbandoni, ritardi, ripetenze, evasione), e sulle strategie per contrastarla, concentrandosi, in particolare, sulla prevenzione del fenomeno e sugli aspetti relativi all’inclusione. Il contrasto alla dispersione, infatti, rappresenta uno dei 5 obiettivi proposti dalla Commissione europea nell’ambito della strategia Europa 2020: una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, richiedendo uno specifico impegno da parte del Parlamento e del Governo.
Gli indirizzi forniti dall’Amministrazione del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca per abbattere la dispersione scolastica (indicati nel corso dell’audizione di Marco Rossi Doria, sottosegretario all’Istruzione del Governo Letta il 22 gennaio 2014) consistono in tre linee di azione: costanza nel tempo delle azioni e coordinamento tra i promotori delle politiche, nonché valutazione dei risultati; approccio basato sulle competenze di base e personalizzazione degli apprendimenti; alleanze tra scuola, territorio, famiglia, agenzie educative.
Scopo dell’indagine conoscitiva è stato verificare se i processi avviati dalle istituzioni e le stesse azioni previste dal decreto-legge n. 104 del 2013, in particolare dall’articolo 7, che ha stanziato complessivi 15 milioni di euro per il biennio 2013-2014 (nonché dal decreto ministeriale di attuazione n. 87 del 2014), corrispondano ai suddetti indirizzi e indicatori di qualità, assumendo, in particolare, la prevenzione e il recupero della dispersione come obiettivo specifico, evitando di dirottare i finanziamenti per azioni mirate alla dispersione per azioni di carattere generale, di finanziamento alle attività ordinarie, nonché estemporanee.
L’indagine si è dunque svolta dal 23 aprile 2014 al 10 giugno 2014 con lo svolgimento di 6 sedute dedicate alle audizioni, durante le quali sono stati sentiti, oltre a soggetti istituzionali competenti in materia (rappresentanti del MIUR, dell’INVALSI e dell’ISFOL), dirigenti scolastici, insegnanti, docenti universitari, rappresentanti di associazioni, fondazioni e testate editoriali attivi nello studio e nel contrasto alla dispersione scolastica e esperti del settore provenienti da diverse esperienze. I rappresentanti di molti Uffici scolastici regionali, su richiesta della Commissione, hanno inoltre trasmesso loro memorie ove, oltre all’effettuazione di analisi concernenti il fenomeno a livello di singola regione, sono state descritte le azioni svolte dai singoli U.S.R. per il contrasto alla dispersione scolastica.
Ciascun soggetto audito – cui va il ringraziamento sentito dei componenti della VII Commissione – ha portato la propria esperienza, spesso integrata dal deposito di documentazione appositamente predisposta: gli esiti di questa indagine e la sintesi delle diverse le indicazioni emerse nel corso delle varie audizioni vengono di seguito riportate.

  1. ANALISI DEL PROBLEMA

1.1. Dispersione scolastica: definizione e dimensioni del fenomeno.

Le diagnosi sulla dispersione scolastica permettono oggi una visione approfondita dei processi, delle dimensioni tradizionali e nuove del fenomeno e delle politiche d’intervento.
Gli indicatori tradizionali (bocciature, ripetenze, abbandoni…) che per anni sono stati oggetto di studio, rimangono importanti, anche se registrano solo una parte del fenomeno, visto il contenimento delle bocciature nel primo ciclo e la grande inflazione nel secondo.
Per anni abbiamo misurato il totale dei dispersi facendo una semplice sottrazione, cioè prendendo il totale della popolazione in età dai 14 ai 17 anni, sottraendo quelli iscritti a scuola, quelli assunti in apprendistato, quelli iscritti alla Istruzione e formazione professionale (IeFP) e, dopo questa sottrazione, quello che rimaneva era probabilmente la quota dei dispersi. Parliamo di un numero assoluto mai variato negli anni. Sempre con questo metodo di stima, quindi con tutte le cautele del caso, circa 110-115.000 ragazzi compresi fra i 14 ed i 17 anni, ogni anno, si trovano fuori dai percorsi formativi e scolastici. Essi sono concentrati al sud per il 42 per cento circa; la quota più grande è attribuibile alla regione Campania, che da sola rappresenta il 20 per cento del fenomeno. Anche la Lombardia ha una quota molto grande, ma semplicemente perché in quel territorio c’è più popolazione in età. In ogni caso, generalmente è un fenomeno caratteristico delle isole e del sud Italia ma si presenta «a macchia di leopardo» in tutto il paese.
Più recentemente, si è puntata l’attenzione sulla differenza tra il numero di iscritti al I anno di scuola superiore e i diplomati al V anno cogliendo indicatori dell’inefficienza del sistema scolastico. Tale differenza, ad oggi del 29,7 per cento con variazioni tra le diverse tipologie di istituto, misura la quota di studenti che, per ragioni varie, denunciano limiti nei processi di orientamento e di scelta del percorso e del perdurare di un modello di espulsione non più compatibile con l’obiettivo di assicurare un percorso completo a ogni studente e a ogni studentessa.
In questa ottica l’indicatore, correntemente utilizzato a livello comunitario, degli Early school leavers – ESL (giovani dai 18 ai 24 anni che non dispongono di titolo di studio o qualifica superiore a quello ottenuto a conclusione del primo ciclo di istruzione e non attualmente in formazione) misura l’inefficienza del sistema formativo. Le indicazioni europee si riferiscono a coloro che non hanno conseguito un titolo di studio superiore alla scuola secondaria di primo grado e che, inoltre, nelle quattro settimane precedenti l’intervista, non abbiano svolto attività di istruzione e di formazione.
La diminuzione al di sotto del 10 per cento della quota degli ESL è il traguardo indicato per il 2020 dall’Unione. Per l’Italia il raggiungimento di tale traguardo è a portata di mano per le regioni del Nord; richiede, invece, una robusta azione mirata per le altre regioni. Il conseguimento di un diploma o di una qualifica, considerati come condizioni per l’ingresso nel mercato del lavoro, sono obiettivi standard nelle politiche dell’istruzione e della formazione, da perseguire specificamente e da monitorare sistematicamente.
Un ulteriore criterio di definizione del fenomeno della dispersione è stato elaborato ed utilizzato in alcune esperienze concrete. In particolare, l’Osservatorio regionale sulla dispersione scolastica, nato in Sicilia nel 1989, utilizza un criterio che affronta il problema conteggiando tutti gli aspetti diversi della dispersione scolastica. Per ognuna delle circa ottocento scuole siciliane vengono raccolti – anno per anno – i dati relativi all’evasione dall’obbligo scolastico, agli abbandoni in corso d’anno e all’istruzione parentale.
Le definizioni di dispersione e di abbandono sono basate sul conseguimento – o meno – di un certo titolo di studio. La disponibilità di informazioni sulle performance degli studenti obbliga tuttavia ad andare oltre il mero dato del conseguimento di un diploma per includere anche una valutazione circa l’acquisizione di competenze adeguate; anzi, i dati OCSE Pisa mostrano che i livelli di competenze variano sensibilmente tra gli studenti della stessa età. Sulla base dei test di apprendimento, sappiamo che, spesso, allo stesso titolo di studio possono corrispondere livelli di competenze molto diversi. Pertanto, si dovrebbe mirare a una definizione basata non tanto sul conseguimento – o meno – della qualifica o del diploma, bensì sul grado di competenze raggiunte a una determinata età.
In questo senso, ci fa da battistrada l’impostazione dell’indagine OCSE-PISA, che dà livelli insufficienti del 30 per cento nelle regioni meridionali, toccando punte del 38 per cento nelle isole. L’obiettivo della Strategia Europa 2020, che pone al 10 per cento – come tetto massimo – il numero di giovani collocabili tra i predetti early school leavers (attualmente l’Italia sta – nel 2013 – al 17 per cento), seppure il dato sia in miglioramento, è un’impresa decisamente impegnativa, soprattutto per alcune aree del Paese. Oggi, nelle quattro regioni convergenza (Calabria, Campania, Puglia e Sicilia), abbiamo infatti un tasso del 21 per cento.
In ogni caso, per una comprensione allargata dei processi di dispersione è indispensabile fare riferimento ai NEET (Not in Education, Employment or Training), la percentuale di giovani tra i 15 e i 29 non occupati e non iscritti a un percorso di formazione precisa. Da questo punto di vista l’Italia è in una situazione molto difficile: secondo Eurostat ha una percentuale di NEET di oltre il 25. Naturalmente nella valutazione di questo dato entrano in gioco altre variabili, che riguardano l’andamento dell’occupazione, le opportunità di lavoro, le opportunità professionali.
Come ulteriore aspetto bisogna valutare l’assenteismo degli studenti, un fenomeno ben più vasto di quello che normalmente si percepisce.
In questa prospettiva non si può dimenticare l’achievement gap, cioè quel divario che separa, spesso e in profondità, i risultati scolastici e le attese relative alle competenze profonde ormai richieste nel XXI secolo.
Allo stesso tempo la necessità di formare gli innovatori di domani denuncia una criticità prospettica che può rallentare i sistemi di istruzione e di formazione. Il divario che preoccupa va oltre i risultati di scuola, riguarda le condizioni di capitale, umano, sociale e professionale, per garantire al nostro Paese un ritorno alla crescita.

1.2. I fattori decisivi del rischio dispersione.
I soggetti che sono più a rischio di abbandono scolastico sono, tipicamente, soggetti maschi, spesso di origine straniera, con un background familiare fragile e, soprattutto, con una storia e un percorso educativo molto frastagliato, che parte dalle scuole medie. Questi sono i ragazzi che hanno la più alta probabilità di non arrivare al completamento della scuola secondaria, ovvero al raggiungimento di un diploma. Lo zoccolo duro della dispersione, quello dovuto ad abbandoni ed evasioni, è di tipo socio-economico, ma, utilizzando i valori che ci forniscono Eurostat o l’Istat, regione per regione, scopriamo che tra dispersione e grado di povertà c’è una correlazione moderata: la povertà influisce sulla dispersione scolastica, ma non è il fattore determinante. Ciò che influisce di più sono le scarse competenze: correlando le competenze che scaturiscono dai test INVALSI e la dispersione, scopriamo che la correlazione è molto forte. Questo significa che, in linea con l’approccio analitico, ciò che occorre combattere è la dispersione dovuta ai fallimenti pregressi nella scuola e alle bocciature.
Dal punto di vista della distribuzione geografica, è importante sottolineare come la media del 17,6 per cento di early school leavers attuale presenti differenze assai significative tra le diverse Regioni. Alcune Regioni registrano percentuali vicino a quella media europea, che è del 12,8 per cento (Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Abruzzo); mentre il Molise presenta un valore del 9,9 per cento. Altre, come la Toscana sono in linea con la media nazionale (17,6 per cento), altre ancora come la Valle D’Aosta, hanno un tasso del 21,5 per cento di giovani tra i 18 e i 24 anni che non riescono a conseguire un diploma o una qualifica di scuola secondaria superiore. La situazione nel Mezzogiorno appare generalmente peggiore rispetto al resto d’Italia, registrandosi un tasso del 25,8 per cento in Sardegna, del 25 per cento in Sicilia, del 21,8 per cento in Campania e del 19,8 per cento in Puglia (dati del MIUR aggiornati al giugno 2013), pur dovendosi ricordare che, in quest’ultima regione, il tasso di early school leavers, nel 2006, era di ben il 27 per cento. È anche vero che la Calabria, con il 17,2 per cento è in linea con la media nazionale, mentre la Basilicata, con il 13,8 per cento, è ben sotto la media nazionale. Le differenze «a macchia di leopardo», inoltre, valgono anche all’interno delle singole Regioni.
Accanto alla collocazione territoriale, un importante fattore di rischio è rappresentato dalla tipologia di scuola. La dispersione è maggiore negli istituti tecnici e negli istituti professionali. Secondo lo studio di Tuttoscuola, la dispersione scolastica negli istituti statali, misurata come differenza tra il numero degli iscritti all’ultimo anno nel 2013-2014 rispetto agli iscritti al primo anno cinque anni prima, cioè nel 2009-2010, è inferiore alle 170.000 unità di studenti dispersi, pari al 27,9 per cento. L’anno scolastico 2012-2013, sempre secondo la comparazione quinquennale, erano stati 10.000 in più, pari al 29,7 per cento. Secondo il medesimo studio la dispersione è risultata concentrata negli istituti professionali, dove raggiunge il 38 per cento, ma, dieci anni, fa arrivava al 50 per cento. Negli istituti tecnici la percentuale di dispersi arriva al 28 per cento Lo sviluppo del sistema di istruzione e formazione è fortemente intrecciato con il tema della dispersione. Nel momento in cui l’offerta formativa non incontra i bisogni di formazione o diverge rispetto ad essi, si crea tale fenomeno. Nella realtà italiana, soprattutto nel settore dell’istruzione tecnica e professionale, vi è una strutturazione dell’offerta formativa che continua a non incrociare i bisogni e, al contrario, la divergenza aumenta.
Gli abbandoni della scuola avvengono prevalentemente nel primo biennio della superiore in genere a seguito di una bocciatura. Questo dato è omogeneo su tutto il territorio nazionale; ciò porta a concentrare l’attenzione sull’orientamento degli studenti che, se mal gestito, porta a scelte a volte irreversibili. Vari esperti osservano che le bocciature all’inizio del corso di studi superiore si rivela spesso decisiva per la scelta di abbandonare la classe. Altrettanto importante è portare l’attenzione sul fenomeno delle assenze saltuarie frequenti, elemento predittivo dell’insuccesso seguente, soprattutto nelle zone ad alto rischio di esclusione sociale.
Il mancato potenziamento delle misure sul diritto allo studio ha un effetto diretto e indiretto sull’abbandono scolastico, specie nelle aree più deprivate; va poi ricordato, tra le ricadute il gravissimo fenomeno dell’analfabetismo di ritorno tra gli adulti.
Accanto a questi fattori di ordine generale, ve ne sono poi alcuni che riguardano alcune specifiche categorie di ragazzi. Qualche anno fa, una ricerca in termini sia previsionali sia longitudinali, pubblicata sul sito lavoce.info, spiegava che l’esperienza di coorti di ragazzi osservati nel loro percorso scolastico longitudinale, a partire dall’asilo nido e dalla scuola dell’infanzia, era ben differente rispetto all’esperienza di ragazzi che non avevano avuto la possibilità di partecipare a un percorso di apprendimento in età prescolare e dai 3 ai 6 anni. Si tratta di un fattore previsivo dei probabili abbandoni, in età da scuola media e nel corso del primo biennio della scuola superiore.
Per affrontare seriamente il tema della dispersione scolastica, non si può non tener conto del dello svantaggio educativo, cioè le difficoltà e il disagio di cui sono carichi questi ragazzi e ragazze (che ovviamente non hanno una certificazione di disabilità, una patologia certificata). Si tratta di alunni e studenti indicati nella terza fattispecie dei BES (Bisogni educativi speciali), che presentano non una certificazione di disturbo di apprendimento o una patologia, ma difficoltà di apprendimento o inserimento. Attribuire la responsabilità del disagio solo all’ambiente o alla famiglia porterebbe fuori strada. È la scuola stessa che può diventare una causa di disagio o – viceversa – una risposta. La sfida educativa per «stare bene a scuola» si gioca nella competenza relazionale degli insegnanti, la capacità di «leggere» e comprendere le singole situazioni, e la necessità di un rapporto strutturato con le agenzie educative. Il rapporto con le famiglie diventa centrale, mentre a volte vengono percepite come «cause» delle difficoltà o elementi di «disturbo» nello svolgimento del lavoro didattico. Lo svantaggio rappresenta un fenomeno multidimensionale e come tale va compreso. La famiglia fa parte del quadro, e deve essere coinvolta attivamente nelle strategie educative della scuola, senza concorrenza o conflitto.
Uno specifico punto di sofferenza riguarda i bambini e ragazzi Rom e Sinti. Il quadro del rapporto tra bambini Rom e scuola, con particolare attenzione ai nodi critici e alle possibili strategie di intervento, si basa su due livelli: quello organizzativo e quello della professionalità dei docenti. In Italia, il 19,2 per cento dei minori Rom è analfabeta. Oltre agli sgomberi dei loro insediamenti che fanno cambiare scuola più volte ai ragazzi Rom, c’è uno svantaggio sociale di base dove i genitori spesso sono analfabeti: c’è una difficoltà, da parte dei genitori, ad affrontare l’iscrizione stessa alle scuole, in assenza di un mediatore che aiuti in questo senso Quasi nessuno dei ragazzi delle baraccopoli frequenta la scuola superiore. In Europa, lo fa il 10 per cento dei ragazzi, mentre in Italia la percentuale è molto più bassa. Pochi di loro terminano la terza media: l’esito drammatico è che non possono accedere ai livelli di istruzione successiva, cioè ai corsi professionalizzanti, alle scuole bottega, perché non ne hanno diritto, pur avendo età da istruzione obbligatoria, non avendo ancora la licenza media. Siamo di fronte a una dispersione molto alta nel passaggio dalla scuola media al biennio delle scuole secondarie superiori e ad un ritardo italiano che va colmato con strategie spcifiche.
Oltre ai fattori socio-economici facilitanti la dispersione, ne esistono varie prodotte dal sistema d’istruzione stesso. In particolare, il focus va posto nella scuola secondaria di secondo grado, particolarmente nel primo biennio, che è d’istruzione obbligatoria, in quanto l’istruzione scolastica obbligatoria è stata innalzata a 16 anni. Occorre in particolare concentrarsi sulla questione della qualità dell’orientamento e il tema della precocità della scelta, cui si aggiunge quello della sua reversibilità: la scelta può anche essere non precoce ma, nel momento in cui per la rigidità del sistema quella scelta risulta irreversibile, è molto facile che, laddove si riveli sbagliata, generi l’abbandono scolastico. Risulta quindi necessario l’orientamento nella scuola secondaria di primo grado e il rafforzamento del collegamento tra scuola e mondo del lavoro. Desta poi preoccupazione il dato di abbandono dei ragazzi al primo anno di istruzione secondaria di secondo grado, omogeneo su tutto il territorio nazionale. Tale fenomeno fa emergere l’esigenza di interventi che riguardino l’orientamento degli studenti, che, probabilmente, nella scelta del ciclo secondario, o per mancanza di conoscenza o per influenze diverse, scelgono un corso di studi sbagliato.
L’abbandono scolastico più che la dispersione, che esplode durante i primi due anni della scuola superiore, ha inoltre le sue profonde radici nelle assenze saltuarie che caratterizzano la frequenza scolastica degli alunni del primo ciclo di istruzione, soprattutto in quelle scuole situate nelle zone ad alto rischio di esclusione sociale. Molti studenti che abbandonano la scuola mostrano segnali di pericolo per mesi, se non per anni, a scuola e al di fuori della scuola. Tali ragazzi si trovano ad affrontare sin da piccoli sfide personali, sociali ed emotive che devono essere colte dalla scuola.
Altro tema fondamentale è quello degli studenti di cittadinanza non italiana, nella scuola secondaria superiore circa il 7 per cento, ossia circa 175.000 studenti. È un tema che funziona come cartina di tornasole per tutte le situazioni di svantaggio sociale, con la differenza che sugli alunni stranieri abbiamo una ricchezza notevole di dati, perché il fenomeno è molto studiato. Sulle infinite varianti dello svantaggio sociale è più complicato avere dati controllabili, ma per approssimazione possiamo dire che alcuni aspetti, caratteristici della popolazione giovanile straniera in età scolare, sono estendibili, per analogia, anche ad altri tipi di svantaggio sociale. I bisogni della popolazione di cittadinanza non italiana in età scolare sono diversi. Per i neo-arrivati è necessario continuare a sostenere misure di insegnamento dell’Italiano L2. Gli stranieri di seconda generazione invece presentano problemi legati all’Italiano-per-lo-studio. L’80 per cento di questi ragazzi frequenta gli istituti tecnici e gli istituti professionali e ciò indica che per loro si va creando una sorta di segregazione formativa nell’istruzione tecnica e professionale.
I fenomeni di dispersione scolastica non riguardano però unicamente i ragazzi che presentano un livello di competenze insufficiente. Vi è anche un fenomeno opposto, forse meno visibile, ma anch’esso importante, quello degli iperdotati. Alcuni degli studenti che abbandonano la scuola, in realtà, andavano benissimo a scuola. Molti di loro, probabilmente, hanno avuto una buona carriera alla scuola elementare, o nei primi anni della scuola media, quindi teoricamente non c’era nessun segnale che potesse far pensare a un possibile fallimento, a un abbandono scolastico. Questi studenti presentano alcune caratteristiche, per quanto riguarda i fattori di rischio, comuni alla popolazione generale, cioè il problema socioeconomico, il basso livello culturale della famiglia, il sesso (l’abbandono è più alto tra i maschi). Nella scuola superiore si trovano senza strategie di studio o sfide cognitive adeguate alle loro capacità e aspettative.
Esistono poi i low achievers, che hanno un basso rendimento scolastico: questo è dovuto alla presenza di quella che viene definita la twice exceptional, che potrebbe essere un DSA (disturbo specifico di apprendimento), come la dislessia, la discalculia e così via: in questa popolazione particolare tali disturbi, molto spesso, sono riconosciuti tardivamente. L’intelligenza, aiutandoli a compensare, li nasconde. La presenza di ADHD (disturbo da deficit di attenzione/iperattività) e una serie di altre situazioni in comorbilità portano ad avere, invece, proprio un abbassamento del rendimento e dell’autostima.

1.3. Le risorse.
Il nodo delle risorse finanziarie è naturalmente una questione di carattere politico, che coinvolge la scelta su quante risorse il Paese vuole dedicare alla scuola. Ma pur non essendo una questione di natura tecnica, presenta un aspetto tecnico relativo ai criteri ed alla modalità di utilizzo. Il precedente Governo ha stanziato 15 milioni di euro – all’articolo 7, comma 3, del decreto-legge cosiddetto «istruzione», n. 104 del 2013, di cui 3,6 milioni di euro per l’anno 2013 e 11,4 milioni di euro per l’anno 2014 – per la lotta alla dispersione scolastica: cifra certamente insufficiente. Queste risorse sono state stanziate operativamente attraverso il decreto ministeriale n. 87 del 7 febbraio 2014. Questi finanziamenti, unitamente anche ad altri, come quelli legati all’articolo 9 del contratto collettivo nazionale di lavoro (Area a rischio e a forte processo immigratorio), non sono riusciti a costruire un sistema consolidato nel tempo di lotta alle assenze saltuarie e al conseguente abbandono scolastico.
Anche per i Piani operativi nazionali (PON), soprattutto per quanto riguarda le regioni dell’Obiettivo Convergenza (Sicilia, Puglia, Calabria e Campania), non si può parlare di successo, perché, misurando lo scarto fra il punto di partenza e il punto di arrivo, ci si accorge che i livelli raggiunti – in termini di incremento di successo formativo – non sono molto rilevanti. Sappiamo che sono state impiegate risorse molto ingenti ma i risultati in termini di contrasto sono stati differenti. Regioni che hanno ricevuto anche molti fondi, ad esempio, non hanno visto migliorare in modo corrispondente le loro percentuali. Si ribadisce quindi la necessità di rendicontare gli esiti dei finanziamenti e dei progetti relativi. Soprattutto, i PON hanno creato progetti a termine anche validi, ma che purtroppo restano estemporanei non avendo modificato la routine scolastica.
Con riferimento alle risorse impiegate, comprese quelle dei PON si rileva che molti progetti non hanno prodotto routine. La questione della dispersione, come altre, si risolve nel momento in cui è la scuola «normale» ad agire in un certo modo. Quindici milioni di euro stanziati per il 2013-2014 possono anche essere risorse interessanti, nel momento in cui riguardano un biennio: succede però che si alimentano dei progetti, probabilmente anche ben fatti, alcune pratiche, effettivamente, producono qualche risultato nel biennio in cui il progetto è in corso, ma tutto questo non è in grado di modificare la routine scolastica. Quello che manca davvero è la capacità di avere uno standard in grado di affrontare il problema. Bisogna piuttosto pensare a progetti integrati, organici, di sistema, capaci di incidere sulla qualità dell’organizzazione della didattica e, quindi, di elevarne la qualità: progetti che diventino dunque stabili e non estemporanei.
Con riferimento alle risorse finanziarie, occorre considerare come sino ad oggi gli interventi siano stati finanziati prevalentemente attraverso risorse comunitarie, in particolare del Fondo sociale, del Fondo europeo di sviluppo regionale e del Fondo di coesione. Naturalmente occorre che le esperienze valide riescano a passare a sistema. È pur vero, però, che in questi anni il MIUR non ha avuto molte risorse di bilancio per poter realizzare questa operazione. Ad esempio nella formazione degli insegnanti, si è intervenuti sulle competenze di base degli stessi con cinque progetti nazionali molto consistenti, anche da un punto di vista della partecipazione degli insegnanti, ma non c’erano risorse sufficienti in bilancio. Ma, evidentemente, per passare a sistema occorre trovare fonti finanziarie ordinarie e stabili.
In merito al nodo risorse occorre però fare uno sforzo per comprendere come la lotta alla dispersione scolastica da un lato comporti adeguati investimenti ma dall’altro possa determinare significativi risparmi, o quantomeno riduzione nello spreco di risorse pubbliche. Circa 472.000 alunni che, ogni anno, vanno incontro all’insuccesso scolastico, perché abbandonano gli studi, vengono bocciati oppure si ritirano senza più dare notizie di sé. Sappiamo benissimo che gli organici della scuola vengono conteggiati anche in base agli studenti ripetenti. Se un ragazzo viene bocciato, la scuola ritiene che rifrequenterà le lezioni. Basta moltiplicare – è un calcolo che serve solo per avere un ordine di grandezza del fenomeno – gli 8.646 dollari che l’OCSE stima siano il costo annuale di uno studente per la scuola media e gli 8.607 dollari per la scuola secondaria superiore e arriviamo a qualcosa come 3,5 miliardi di euro che, ogni anno, siamo costretti a spendere in più per sostenere l’insuccesso scolastico.
Anche la questione degli asili nido rimanda al nodo delle risorse disponibili e, quindi, delle possibilità operative degli enti locali e di altri soggetti. La dispersione si contrasta a partire dai primissimi anni di età, essendo ormai acquisito che coloro che non hanno frequentato la scuola dell’infanzia hanno maggior probabilità di non continuare proficuamente gli studi superiori. La possibilità di frequentare la scuola già dai 3 ai 6 anni diminuisce le percentuali di probabilità dell’abbandono (www.lavoce.info). In realtà abbiamo oggi ancora 40.000 bambini che non frequentano, specie nelle regioni del sud a più alto rischio di dispersione.
È essenziale far frequentare la scuola dell’infanzia a soggetti particolarmente a rischio come i bambini rom. Bisogna che le scuole comincino a segnalare ai servizi sociali o al tribunale dei minori i casi di evasione scolastica, considerato che le frequenti assenze spesso sono tollerate dalle scuole. La scuola è un diritto e mandare i bambini a scuola è un dovere che bisogna far rispettare. Va data quindi, in questo senso, un’attenzione particolare alle famiglie dei minori rom, spesso costretti a frequenti sgomberi che impediscono di frequentare la scuola, per attivare misure di diritto allo studio e attività di integrazione.

  1. LIVELLI DI INTERVENTO

Un’efficace azione di contrasto alla dispersione scolastica richiede una pluralità di azioni collocate su piano diversi e coordinate in una visione di insieme. Nel corso delle audizioni sono state prospettate diverse azioni che potrebbero, se utilmente inserite in una strategia organica, far fare un salto di qualità al nostro sistema scolastico,
Il Thematic Workgroup on early school leaving della Commissione Europea, nel Rapporto finale Reducing early school leaving: key messages and policy support del novembre 2013 sugli abbandoni precoci nella scuola, ha indicato che le azioni contro la dispersione scolastica vanno collocate a tre livelli e cioè azioni di prevenzione, azioni dirette e misure di recupero.
Sulla base di tale documento, è possibile individuare le seguenti cinque priorità che dovrebbero caratterizzare una efficace strategia di lotta alla dispersione scolastica in Italia:
1) l’incremento dell’accesso agli asili nido e alla scuola dell’infanzia, soprattutto nelle regioni del Sud d’Italia e nelle Isole;
2) la qualificazione di percorsi di istruzione e formazione professionale, con l’applicazione rigorosa in ogni regione italiana dell’ordinamento relativo all’ampliamento dell’offerta formativa;
3) la creazione di idonei ambienti di apprendimento, (non solo una questione di allestimenti) con la realizzazione di un piano di formazione dei docenti in servizio e di sperimentazione di princìpi educativi e pratiche didattiche centrati sui fattori d’influenza dell’apprendimento;
4) l’organizzazione e la strutturazione di un sistema di monitoraggio, con un’anagrafe nazionale dello studente basata sui dati delle rilevazioni del Sistema nazionale di valutazione (che si avvale dell’attività dell’INVALSI), per valutare un rischio basso, medio o alto di abbandono precoce degli studi;
5) interventi in molteplici dimensioni nei confronti delle famiglie degli studenti a rischio, potenziandone i compiti e le capacità educative.

Per quanto riguarda i livelli di intervento di carattere generale, vengono individuati a) la prevenzione, b) intervento e c) compensazione.
In ambito europeo, per misure di prevenzione, si intendono azioni o misure o interventi che anticipano l’insorgenza conclamata di segni di abbandono precoce dei percorsi scolastici o formativi. Le misure investono molto sugli ambienti di apprendimento, i curricoli, la formazione dei docenti e i sistemi di connessione anticipata del mondo scolastico con il mondo del lavoro e della produzione: ciò in modo tale che il contatto con il mondo produttivo possa essere, esso stesso, un’opportunità di apprendimento e un modo per organizzare la propria carriera scolastica o le proprie scelte future.
Per quanto riguarda le misure di intervento, queste sono definite come misure a contrasto, non appena i primi segni dell’abbandono scolastico si manifestano. Queste misure sono indirizzate agli studenti, agli insegnanti e ai genitori. Anche in questo caso, l’attenzione è posta sui percorsi e sui curricoli.
L’ultimo livello di questo quadro generale di contrasto degli abbandoni precoci e della dispersione scolastica viene definito di compensazione. L’Unione europea, in questo caso, fa riferimento ai percorsi cosiddetti «formativi di seconda occasione», rivolti sostanzialmente ai ragazzi che hanno perso ogni connessione con la scuola e la formazione professionale, ma possono essere recuperati a seguito di un ripensamento o del sostegno di servizi territoriali, il cui scopo principale sia quello di reintegrare i giovani nei contesti scolastici e formativi.

  1. STRATEGIE DI AZIONE

Le strategie di azione qui di seguito enucleate sulla base delle audizioni non sono presentate in ordine di priorità, bensì compongono un quadro di azioni parallele, da sviluppare in modo convergente.

3.1. Il nodo del primo biennio della scuola secondaria.
Un punto importante per contrastare la dispersione riguarda il potenziamento dell’orientamento nel primo biennio della scuola secondaria. Da tempo la scuola media non è più la fine del percorso dell’obbligo. Abbiamo quindi bisogno di sviluppare l’orientamento di tipo formativo non solo nella scuola media ma soprattutto nel primo biennio della scuola secondaria di secondo grado: ciò sarebbe fondamentale e permetterebbe allo studente i passaggi da un indirizzo all’altro. Il sistema della scuola secondaria di secondo grado è organizzato a canne d’organo –licei, istituti tecnici, istituti professionali e formazione professionale – sistemi che non dialogano tra loro e non sono integrati. Al contrario, gli ultimi provvedimenti normativi approvati hanno irrigidito i modelli e non permettono i passaggi da un indirizzo all’altro. Questo rappresenta una fonte di dispersione.
Importante è anche una decisa azione di contenimento delle bocciature, che sono l’anticamera dell’abbandono scolastico, contrasto da attuare – in particolare – nei primi due anni della scuola secondaria superiore, dove le bocciature sono stimate in circa 185.000, attraverso piani di studio più flessibili e personalizzati.
Si potrebbe considerare la possibilità di passare nel primo biennio delle superiori a una valutazione biennale anziché annuale, ai fini dell’ammissione alla classe successiva. Si potrebbe riprendere questa norma per il biennio iniziale della scuola secondaria superiore, prevedendo la bocciatura nel primo anno di corso solo come evento eccezionale, puntando a garantire una soglia di equivalenza, di abilità e conoscenza a tutti gli studenti, dei licei, dei tecnici, dei professionali, della formazione professionale.

3.2. Un’autonomia compiuta.
Nell’ottica dell’organizzazione della scuola come comunità di apprendimento per superare l’insuccesso scolastico, occorre pensare come coinvolgere nel processo di apprendimento tutti gli agenti che influenzano l’educazione. È importante coniugare strettamente la questione della dispersione scolastica con l’autonomia scolastica compiuta, come era stata inizialmente introdotta e solo teorizzata dal decreto del Presidente della Repubblica n. 275 del 1999, che consentirebbe di disegnare un progetto di scuola adatta al territorio. Pur rispettando i termini generali di un sistema di istruzione nazionale, dovrebbe e potrebbe essere capace di far diventare la scuola come il luogo che sa interpretare le domande delle famiglie di quel territorio, che sa disegnare davvero percorsi personalizzati, può prendersi cura di ciascuno, progettare, utilizzando risorse umane ed economiche per mettere in campo azioni di sistema che innestino processi culturali ed educativi.
L’emanazione del decreto del Presidente della Repubblica n. 275 del 1999, concernente le norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche, nel momento in cui in Italia si parlava dell’autonomia, sembrava dovesse diventare un punto di riferimento per lo sviluppo di tutto il sistema formativo italiano. All’articolo 7 del decreto del Presidente della Repubblica citato si fa riferimento alla possibilità per le scuole di associarsi in reti o consorzi, utile per affrontare il tema della ricerca educativa e della rappresentanza delle istituzioni scolastiche, nonché dell’approfondimento di tutte le questioni relative al rapporto tra scuola e territorio.
Evidentemente, nella tradizione scolastica italiana, all’autonomia hanno creduto in molti, ma rispetto allo sviluppo della stessa hanno operato solo pochissime persone. Al contrario, le scelte sono state prevalentemente orientate ad attenuare tutte le possibilità offerte dal decreto del Presidente della Repubblica n. 275 del 1999. La rappresentanza delle scuole viene percepita in modo non corretto. Le scuole sono rappresentate dall’amministrazione, dall’Ufficio scolastico regionale, ma questo tipo di rappresentanza amministrativa è effettivamente distante dall’idea della scuola autonoma e, quindi, dalla possibilità per le scuole di affrontare in modo complesso e diretto le problematiche. In questa prospettiva è interessante l’esperienza del Consorzio istituti professionali associati toscani (CIPAT) in cui sono presenti i presidi e gli insegnanti che lavorano nelle azioni di ricerca e nei progetti europei.

3.3. L’Istruzione e Formazione Professionale.
Un efficace strumento antidispersione in questi anni è rappresentato dallo sviluppo dei percorsi triennali di Istruzione e Formazione Professionale, percorsi triennali che portano a 22 qualifiche, diplomi quadriennali, anno integrativo per l’esame di Stato e alta formazione tecnico-professionale. Si possono seguire percorsi triennali di questo tipo sia presso le agenzie formative accreditate sia presso gli istituti professionali di Stato in regime di sussidiarietà integrativa o complementare a seconda dei casi. Il sistema di istruzione e formazione professionale in Italia è finanziato dal Ministero del lavoro con 189 milioni di euro l’anno. Questo significa che, siccome l’ultimo monitoraggio indica 300.000 giovani sui percorsi, parliamo di 630 euro all’anno per corso utente, effettivamente molto scarsi. Se il costo medio di un giovane a scuola è circa 7.000 euro l’anno, 630 euro l’anno di investimento da parte del Paese su un percorso professionalizzante antidispersione sono decisamente insufficienti.
Lo sviluppo del sistema di Istruzione e Formazione Professionale è fortemente intrecciato con il tema della dispersione. È evidente che, nel momento in cui l’offerta formativa non incontra i bisogni di formazione o diverge rispetto ad essi, si crea questo fenomeno. Nella realtà italiana, soprattutto nel settore dell’Istruzione tecnica e professionale, vi è una strutturazione dell’offerta formativa che continua a non incrociare i bisogni e, al contrario, la divergenza aumenta.
Risulta imprescindibile l’obiettivo di valorizzare questo sistema, ed in particolare l’apprendistato (anche dagli ultimi due anni delle superiori), le esperienze di scuola-lavoro, gli stage in azienda, i tirocini formativi, ormai parte integrante del sistema di istruzione che costituiscono uno degli strumenti più efficaci nella lotta alla dispersione. Dare pieno diritto alla formazione professionale e all’apprendistato, stabilizzandola e rendendola di uguale qualità nelle diverse Regioni, rappresenta la base di partenza per una strategia articolata.
Un altro tema da affrontare riguarda la professionalità del corpo docente, che deve essere sviluppata in modo specifico per quanto riguarda gli Istituti professionali. Infatti, la personalizzazione degli insegnamenti, che rappresenta in teoria una risposta molto efficace al problema della dispersione, è in concreto assai complessa da realizzare. La strategia migliore per avvicinarsi all’obiettivo è rappresentata dall’articolazione dei profili all’interno della scuola. Il tutor, il mentore, l’insegnante che progetta, l’integrazione della scuola con il territorio rappresentano strumenti per fornire risposte alla personalizzazione.

3.4. Scuola aperta e partnership con il territorio.
Si potrebbero prevenire i rischi di bocciatura anche attraverso corsi di recupero obbligatori pomeridiani ed estivi, che consentano agli studenti un più adeguato recupero delle lacune accumulate e che, al contempo, rendano più facile incontrare e accogliere il disagio che questi ragazzi si trovano spesso a vivere. Sarebbe da seguire l’approccio metodologico, utilizzato con successo nelle esperienze di integrazione, di un’esplicita personalizzazione degli obiettivi formativi, valorizzando le attitudini e le potenzialità individuali e registrando a verbale, senza negarle e occultarle, le limitate performance raggiunte dallo studente in una o più discipline.
Una più ampia apertura delle scuole potrebbe essere sia orizzontale, nel periodo di giugno-luglio, sia verticale, cioè allungando gli orari di funzionamento degli istituti nei giorni di lezione. Ciò non significa però perpetuare la distinzione tra saperi e discipline «ufficiali» di tipo teorici e le attività «pratiche» – in un certo senso «extra-scolastiche – in subordine. Le attività non possono essere messe in gerarchia, ma tutte devono concorrere alla qualità del modello pedagogico-didattico.
La scuola, allungando i suoi tempi, deve rendere ordinario ciò che ora è frutto di esperienze casuali, soprattutto nelle zone ad elevata esclusione sociale. Sul punto, peraltro, vi sono diversità di opinioni fra gli esperti: secondo alcuni, infatti, non è detto che migliori la situazione allungare la giornata scolastica, aumentare le ore di lezione – soprattutto nel caso di insegnanti che contribuiscono ad alimentare il disagio – perché il tempo scolastico è una variabile che influisce nella misura in cui si traduce, poi, in un tempo di apprendimento, di concentrazione e di studio. Occorre però considerare che almeno nelle zone a rischio di emarginazione socio-economica un prolungato orario scolastico permetterebbe ai giovani socialmente svantaggiati di poter far riferimento nella scuola come centro di formazione e aggregazione sociale.
In questo senso non si può immaginare che il contrasto alla dispersione possa essere realizzato unicamente all’interno del sistema scolastico. Bisogna avvalersi di contributi diversi. Non si pensi, infatti, che i recuperi possano essere realizzati soltanto dai docenti di scuola. Se si vuole davvero fronteggiare la dispersione, sia in fase preventiva, sia nel recupero, occorre che vi sia un’alleanza fra la scuola e tutti i soggetti di un sistema formativo veramente integrato. Si tratta dell’associazionismo, del volontariato, delle cooperative e dei soggetti portatori delle altre risorse professionali necessarie, come gli educatori professionali o gli psicologi.
L’educazione alla cittadinanza va potenziata in tutti gli aspetti: formazione alla responsabilità, alla partecipazione, ai diritti/doveri, al volontariato; ciò può essere promosso non solo con un insegnamento dei saperi teorici, ma attraverso una cittadinanza vissuta e aperta, in collaborazione con ciò che è fuori della scuola.
È necessaria la trasformazione della scuola in un centro di riferimento culturale e sociale del territorio: la scuola deve diventare ancor più, nelle zone ad alto rischio di esclusione sociale, una potente macchina di attacco alla disgregazione sociale e anche alla conseguente diffusione della criminalità organizzata. Lo Stato anche e soprattutto attraverso la scuola, può e deve interamente e profondamente riappropriarsi dei territori occupati da qualcun altro. È altresì necessaria la costituzione, presso tutti gli Uffici scolastici regionali, di un gruppo di lavoro, così come è stato fatto in Campania, per la prevenzione e il contrasto all’abbandono scolastico e al disagio giovanile, con il compito, tra gli altri, di ricercare sistemi di allerta che permettano di individuare precocemente gli studenti a rischio di abbandono scolastico. È fondamentale, inoltre, assicurare la stabilità del corpo docente. Il continuo cambio dei docenti è spesso vissuto dagli alunni come un’altra occasione di abbandono. Il rapporto costruito tra docente e bambino, fondamentale nel processo di crescita e di apprendimento, quel legame empatico che si instaura tra gli alunni e gli insegnanti, diventa un patrimonio che viene disperso, a tutto svantaggio del bambino.
Un’esperienza interessante è rappresentata dalle «scuole di seconda occasione»: una rete di sei esperienze che si articolano in molte città italiane. Uno dei limiti fondamentali di queste esperienze è il fatto che sono esperienze che vanno riprodotte di anno in anno, poiché vengono garantite dall’accesso ai fondi europei, quindi bisogna fare nuovi progetti. Un altro tema è quello della seconda opportunità. Oggi, quasi il 20 per cento degli stranieri iscritti ai CTP ha un’età inferiore ai diciannove anni. Questo ci dice chiaramente che l’istruzione pensata per gli adulti ha, in realtà, una domanda forte di seconda opportunità, cioè di ragazzi che sono stati espulsi dal sistema scolastico normale e che tentano di riprendere gli studi.

3.5. Formazione dei docenti e qualità dei processi educativi.
Una delle chiavi della strategia deve essere la formazione degli insegnanti, in direzione di un rinnovamento della didattica auspicato da tutti a parole ma in realtà raramente realizzato. Se si vuole investire urgentemente risorse sui cosiddetti processi educativi un elemento determinante, per farlo, è avere chiari i dieci fattori di influenza che producono alti livelli di apprendimento. A tale proposito elementi interessanti possono essere rintracciati in una ricerca evidence-based, centrata sui dati meta-analitici – pubblicati tra il 2009 e il 2012 – di circa ottocento studi sperimentali curati da un professore australiano dell’Università di Melbourne, John Hattie. Secondo tale ricerca, i dieci fattori sono i seguenti: aspettative degli studenti; credibilità del docente agli occhi degli alunni; fornire ai docenti un supporto e una valutazione formativa; valutazione degli studenti basata sul feedback educativo; insegnamento reciproco tra pari; programmi per lo sviluppo di abilità cognitive; programmi di arricchimento lessicale; competenza di lettura-comprensione; relazione tra insegnante e studente; organizzatori grafici della conoscenza. Si noti che al secondo e terzo posto vi sono fattori legati alla credibilità e all’aggiornamento continuo del docente.
Sul versante della professionalità docente, dunque, vi sono ampi spazi di intervento. La qualità della didattica dipende per molti aspetti dal contesto professionale più ricco e opportunità di formazione per gli insegnanti in servizio, soprattutto in alcuni campi specifici necessari alla lotta alla dispersione: innovazione didattica, competenze psicopedagogiche e relazionali, tecniche di lavoro di gruppo, competenze di educazione alla cittadinanza, insegnamento Italiano L2, cura dei disturbi di apprendimento.
A livello di formazione iniziale, occorrerebbe instaurare una più stretta collaborazione con i Corsi di laurea in Scienze della formazione e con la formazione universitaria dei docenti delle scuole superiori. Il nodo centrale è rappresentato dalla qualità del Tirocinio, con il ruolo centrale del supervisore come insegnante esperto che aiuta gli studenti a fare sintesi tra esperienza e saperi disciplinari, riflessione e esplicitazione della didattica, studi e deontologia professionale. Nel momento del reclutamento, bisognerebbe infatti valutare anche le competenze relazionali degli insegnanti, i fattori di personalità, la capacità di lavorare in gruppo e in rete e la conoscenza delle questioni etiche e normative.
Si deve puntare sulla formazione dei docenti, ma occorre anche che un certo numero di docenti sia sistematicamente dedicato. Per ottenere ciò bisogna che una quota di docenti sia rimotivata e, sicuramente, ri-professionalizzata in tale direzione. Serve un organico funzionale di istituto che non ha niente a che vedere con l’organico «piatto» che abbiamo oggi. Dobbiamo avere risorse in più, ma anche capire dove recuperare risorse professionali.

3.6. Gli studenti di cittadinanza non italiana.
Gli alunni e studenti di cittadinanza non italiana costituiscono una fascia a rischio di dispersione. La questione va però affrontata distinguendo tra chi arriva in Italia dal paese d’origine senza adeguate conoscenze e gli studenti (ormai quasi la metà del totale) considerati «di seconda generazione perché nati o cresciuti qui. Le strategie devono essere quindi molto diverse. Anzitutto i corsi intensivi di Italiano L2 sia in alcuni periodi sia per tutto l’anno, i laboratori pomeridiani a fianco della classe (e non separati), i corsi per disciplina devono essere strutturati nel sistema scolastico anziché estemporanei, impiegando risorse professionali con un alto livello di specializzazione.
Inoltre, con riferimento alla questione dei ritardi, la normativa dello Stato (articolo 45 del decreto del Presidente della Repubblica n. 394 del 1999) stabilisce che lo straniero che si iscrive in una scuola debba essere inserito nella classe della sua età, salvo deroghe. In questo caso si inseriscono i ragazzi di origine immigrata in classi inferiori. Queste deroghe – pur decise dal collegio dei docenti e dal consiglio d’istituto allo scopo di facilitare l’apprendimento della lingua – raramente sono utili al successo scolastico, come è dimostrato da dati empirici. Ci sono anzi indici di correlazione fra ritardi e ripetenza. Sulle deroghe esiste, quindi, un problema. Anche se non si può imporre per legge la rinuncia, prevista dalla legislazione, occorre ripensare lo strumento della deroga creando altri tipo di sostegno e facilitazione all’apprendimento dei neo-arrivati o di chi non conosce la lingua italiana.
In generale, un approccio interculturale a livello delle discipline e delle relazioni, che rispetti ma non amplifichi la diversità, diviene indispensabile per gestire la complessità delle culture e delle lingue presenti in classe.

3.7. Nuovi ambienti di apprendimento.
È necessario un approccio globale al curricolo. Non si può progettare solo la formazione, ma un intero ambiente di apprendimento per creare una scuola nuova, più aperta e coinvolgente, cooperativa e «senza zaino». L’innovazione didattica è al centro della lotta alla dispersione.
Occorre a questo proposito considerare sia l’hardware sia il software. Da un lato si parla dell’ architettura scolastica, con tutte le problematiche legate all’edilizia carente, la distribuzione degli spazi, l’organizzazione degli arredi sino all’interno dell’aula, le dotazioni digitali. Si vuole però sottolineare soprattutto la dimensione corporea e tattile, sensoriale. Se i bambini e i ragazzi sin dall’infanzia non si abituano alla dimensione manuale, corporea, saranno adulti nel mondo del lavoro incapaci di avere una visione a 360 gradi.
Le aule devono diventare ambienti strutturati come aree organizzate di lavoro, con attrezzature tecnologiche adeguate, attraverso investimenti nella didattica 2.0 e nella banda larga per compensare il digital divide tra le diverse aree del paese.
Per i ragazzi (in particolare quelli a rischio) la scuola può e deve preparare percorsi personalizzati e individualizzati, costruendo ambienti di apprendimento attivi, adatti e stimolanti, trasformando l’aula in laboratorio. Oggi, invece, la struttura tradizionale dell’insegnamento contraddice tutto ciò che la ricerca scientifica ormai da più di un secolo ha scoperto sulle modalità cognitive con cui si impara: rende passivi bambini e ragazzi curiosi, ignora l’importanza della corporeità nell’apprendimento, stimola la competitività e non il lavoro di gruppo, ricorre quasi esclusivamente a modalità frontali di insegnamento, separa le materie di studio anziché lavorare per centri di interesse, crea un fossato tra lo studio scolastico e il sapere digitale, sottovaluta la pluralità delle intelligenze trascurando la creatività, impone tempi rigidi quando si dovrebbe lasciare spazio allo spirito di ricerca e adattarvi luoghi e orari della scuola. Lo dimostra il disagio anche degli studenti dotati che non trovano interesse nella scuola.

3.8. Il riordino dei cicli.
Nella lotta alla dispersione si possono prendere in considerazione anche le diverse ipotesi di riordino dei cicli (compreso il progetto di un anno in meno del sistema formativo). Per trovare risposte obiettive a tali ipotesi di intervento (da attuare nel primo o secondo ciclo) è utile tra l’altro riferirsi alle attuali sperimentazioni della scuola secondaria di secondo grado in quattro anni.

3.9. L’anagrafe degli studenti.
Naturalmente, per implementare un’efficace strategia di contrasto alla dispersione scolastica è essenziale poter disporre dei dati e delle misurazioni che consentano di dare il giusto peso ai problemi e di orientare per programmare iniziative mirate alla loro soluzione. Pensare di dover raccogliere i dati, scuola per scuola, potrebbe sembrare un intervento complicato, ma in realtà si tratta di dati già in possesso delle banche dati del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (MIUR). Eccezion fatta per l’evasione, il MIUR conosce il dato degli abbandoni, delle interruzioni non comunicate e delle bocciature e sarebbe in grado di censire il fenomeno in maniera analitica scuola per scuola e – forse – plesso per plesso. Interfacciando questi dati con quelli provenienti dalla banca dati INVALSI, le scuole potrebbero conoscere le competenze dei ragazzi che entrano nelle stesse, per intervenire con azioni – quasi individuali – volte a evitare le bocciature.
Oggi noi non abbiamo ancora un’Anagrafe degli studenti che ci consenta di dire per quella classe di età dove siano gli studenti. Abbiamo tutti dei pezzi della realtà, ma non dialogano tra di loro. L’Anagrafe degli studenti riguarda solo quelli del sistema dell’istruzione: non c’è un collegamento con le Anagrafi regionali della formazione ed è quindi necessaria un’integrazione dei dati tra l’Anagrafe nazionale degli studenti del Ministero dell’istruzione e le altre anagrafi, come i dati degli uffici scolastici regionali. L’altro tema, legato alle anagrafi, è che – da qualche anno – non si registra più o non si verifica più quando le iscrizioni avvengono. Prima dell’inizio dell’anno scolastico, tutte le anagrafi dei municipi non inviano più – come invece avveniva in passato – alle scuole il registro dei residenti per verificare se siano stati iscritti, o meno, a scuola. È stato segnalato nel corso dell’indagine conoscitiva che per i bambini stranieri questo rappresenta un problema molto serio.
Con riferimento all’integrazione delle varie banche dati, occorre puntare ad un’informazione dettagliata, mirata e quasi microscopica sui casi singoli (scuola per scuola e plesso per plesso) e sulle caratteristiche della dispersione scolastica, degli abbandoni precoci, delle ripetenze, dei ritardi – soprattutto per quanto riguarda i ritardi degli studenti stranieri che non sono ammessi nella classe della propria coorte di età. Sono tutti dati ovviamente essenziali, a patto però che siano rispettate due condizioni. La prima condizione è che la direzione sia biunivoca. Il fatto di implementare una banca dati, straordinariamente efficiente nella capacità di distillare i dati anche nelle loro caratteristiche microscopiche, senza però un ritorno di questi dati alle scuole stesse, che ne sono i principali fornitori, è un’operazione che rischia di essere un eccellente patrimonio di dati utili per gli uffici studi e le analisi, ma non per gli interventi. È quindi essenziale pensare a come garantire, nel meccanismo di fornitura delle informazioni, l’andare e il ritornare dei dati. I dati entrano grezzi e devono uscire, invece, con un commento, cioè con una qualità di lettura che consenta alle singole scuole, ai territori, agli uffici scolastici regionali, alle regioni, ai comuni – non cito più le province per ovvi motivi – di orientare le proprie politiche di aggressione nei confronti del fenomeno. In secondo luogo, in una logica sussidiaria, i Comuni dovranno fare quello che lo Stato non è in grado di fare, perché lo Stato accentra i dati e può analizzarli e fornirli. Il Comune, in sinergia con gli uffici e i centri per l’impiego, dovrà creare piuttosto un’anagrafe dei dispersi. A livello di territorio, abbiamo bisogno di una capacità di lettura del fenomeno che intercetti i casi singoli e sia in grado di recuperare storie e vicende, in modo che il territorio sia messo in condizione, sia nelle cause della dispersione sia negli effetti, di recuperare le persone attraverso strategie «multi-attoriali», che coinvolgano non soltanto il pubblico, ma anche il privato sociale, l’associazionismo e il volontariato specializzato nella cosiddetta «seconda opportunità».

4. CONCLUSIONI: UNA STRATEGIA NAZIONALE PER ACCELERARE LA LOTTA ALLA DISPERSIONE

4.1. Obiettivo 10 per cento.
L’obiettivo ultimo di una strategia nazionale che acceleri il contrasto alla dispersione scolastica è portare la quota percentuale degli early school leavers al 10 per cento dal 17,6 per cento attuale.
Tale obiettivo è stato enunciato come condizione anche nel parere che la VII Commissione della Camera ha espresso il 2 luglio 2013, al termine dell’esame congiunto del Programma di lavoro della Commissione europea per il 2013 e relativi allegati (COM(2012)629 final), del Programma di diciotto mesi del Consiglio dell’Unione europea per il periodo 1o gennaio 2013-30 giugno 2014 (17426/12) e della relazione programmatica sulla partecipazione dell’Italia all’Unione europea, relativa all’anno 2013 (Doc. LXXXVII-bis, n. 1). Esso appare ambizioso, ma raggiungibile (attualmente è a portata di mano solo per alcune regioni) se si comincia immediatamente ad operare sui ragazzi che oggi hanno 12-14 anni.
Infatti, in base ai dati PISA del 2012, il sistema dell’istruzione italiana si è rimesso in moto per la prima volta dopo un decennio di stallo. Anche nella lotta alla dispersione si registrano notevoli progressi poiché nel 2000 superava il 25 per cento ed oggi la quota media si attesta al 17,6 per cento. Nelle 4 regioni convergenza (Calabria, Campania, Puglia, Sicilia) il dato si pone intorno al 21 per cento. Con gradualità questa percentuale potrebbe continuare a diminuire, ma troppo lentamente. La sfida è oggi l’accelerazione dei processi, da cui dipende la possibilità per l’Italia di ricominciare a crescere, fornire una qualificazione adeguata ai giovani e contrastare la disoccupazione.
È superfluo ribadire che i costi dell’ignoranza sono pesanti per un sistema formativo che assorbe il 20 per cento della spesa pubblica. Si calcola che abbattere la dispersione potrebbe far «risparmiare» alla collettività fino al 6 per cento del PIL. Tuttavia, la lotta agli abbandoni e la scelta di far concludere al maggior numero possibile di ragazzi la carriera scolastica e formativa non possono avere soltanto un scopo funzionale. La cultura e l’apprendimento sono beni in sé che permettono di sviluppare il capitale umano di ciascuno. Apertura alla cultura e passione per la conoscenza sono il bene più prezioso che la scuola può lasciare in eredità alle nuove generazioni. Dal mancato apprendimento nasce una minore capacità di comprendere la complessità del mondo attuale e quindi un deficit di cittadinanza, una contrazione della possibilità di costruire il futuro.
Le policy options per il contrasto alla dispersione sono oggetto di una vasta letteratura e oggetto di molteplici documenti strategici. Per il contesto del nostro Paese alcuni criteri di azione vanno considerati prioritariamente, in modo mirato rispetto alle diverse dimensioni del fenomeno. In ogni caso, appare necessario che le strategie e le azioni concrete considerino adeguatamente i differenti contesti territoriali ai quali si applicherà e che, semmai, punti, prendere in prestito e disseminare nelle diverse aree del Paese tutte le esperienze e le buone pratiche maturate nel territorio nazionale.
Si potrebbe elencare a lungo lo spreco di intelligenza, interesse e talento compiuto dalla scuola italiana, mentre molti altri paesi europei stanno modificando e innovando i loro metodi di insegnamento/apprendimento. Lo confermano anche le esperienze del mondo non profit che recuperano ragazzi a rischio o che hanno lasciato la scuola con la rimotivazione, la responsabilizzazione, le competenze relazionali. La centralità dell’istituzione scolastica non deve far dimenticare, infatti, che il contrasto alla dispersione richiede un lavoro di partenariato e coordinamento tra scuola e territorio, Enti locali, associazionismo. Senza una forte sinergia la scuola si troverebbe sola e impari al compito.
Il contrasto alla dispersione scolastica parte dalla coscienza di dover rendere nuovamente protagonisti gli studenti e non solo i bisogni degli adulti, della società e degli insegnanti. Lo sviluppo di un paese dipende infatti dalla capacità di coinvolgere le nuove generazioni. Il rapporto scuola/lavoro assume, in questo senso, un’importanza determinante per la sua valenza di apprendimento attivo, legato alla realtà, motivante e di tipo pratico. Troppo a lungo in Italia si è avvalorata la gerarchia tra i saperi di tipo teorico e quelli di tipo pratico dimenticando che essi costituiscono le due facce speculari dell’apprendimento, che deve essere sempre di tipo laboratoriale anziché trasmissivo.
Vanno in questa direzione le misure prese dai recenti governi, in particolare lo stanziamento di 15 milioni di euro – disposto per la lotta alla dispersione scolastica dall’articolo 7, comma 3, del decreto-legge cosiddetto «istruzione», n. 104 del 2013, di cui 3,6 milioni di euro per l’anno 2013 e 11,4 milioni di euro per l’anno 2014. Va segnalato inoltre il programma europeo Garanzia per i giovani, di cui alla raccomandazione 2013/C120/01 del Consiglio, del 22 aprile 2013, richiamato dall’articolo 8 del medesimo decreto-legge n. 104 del 2013: questo articolo, al comma 2, ha autorizzato la spesa di euro 1,6 milioni per l’anno 2013 e di euro 5 milioni a decorrere dall’anno 2014, quale contributo per le spese di organizzazione, programmazione e realizzazione delle attività di orientamento per gli studenti iscritti alle scuole secondarie, al fine di facilitare una scelta consapevole del percorso di studio e di favorire la conoscenza delle opportunità e degli sbocchi occupazionali.
Nel presente documento conclusivo vengono quindi proposte le seguenti azioni prioritarie di carattere generale.

4.2. Azioni prioritarie.

4.2.1. Anagrafe e monitoraggio.
Il primo passo urgente consiste nella realizzazione e nel completamento di Anagrafi integrate che permettano di acquisire dati certi. Si è cercato di affrontare il problema grazie alle disposizioni contenute all’articolo 13 del citato decreto-legge n. 104 del 2013, il quale prevede, in particolare, che al fine di realizzare la piena e immediata operatività e l’integrazione delle anagrafi di cui all’articolo 3 del decreto legislativo n. 76 del 2005, entro l’anno scolastico 2013/2014 le anagrafi regionali degli studenti e l’anagrafe nazionale degli studenti siano integrate nel sistema nazionale delle anagrafi degli studenti del sistema educativo di istruzione e di formazione. Un aspetto che evidenzia l’importanza di avere a disposizione dati utili sui ragazzi che frequentano le nostre scuole è dimostrata dalla previsione del comma 2-ter del suddetto articolo 13, introdotto nel corso della conversione del decreto-legge n. 104, il quale prevede che, al fine di consentire il costante miglioramento dell’integrazione scolastica degli alunni disabili mediante l’assegnazione del personale docente di sostegno, le istituzioni scolastiche trasmettono per via telematica alla banca dati dell’Anagrafe nazionale degli studenti le diagnosi funzionali di cui al comma 5 dell’articolo 12 della legge n. 104 del 1992, prive di elementi identificativi degli alunni.
Un monitoraggio regolare del fenomeno andrebbe effettuato sulla base dei seguenti indicatori:
A. Early school leavers 18-24 che non hanno diploma o qualifica superiore e non sono in formazione;
B. Percentuale tra quelli che iniziano e che finiscono fatte salve le scelte diverse dal punto di vista formativo (come indicatore della capacità di continuità di percorso della scuola). A tali dati devono far riferimento le scuole nei loro piani di miglioramento.
C. Numero di studenti che acquisiscono una qualifica o un diploma nella formazione professionale anche nell’ottica di disporre di una visione integrata del sistema complessivo di diplomi e qualifiche (qualifiche triennali, diplomi quadriennali, diploma di esame di stato,…) da far entrare come informazione statistica corrente negli annuari ISTAT.
D. Preparazione studenti su dati OCSE Pisa e Invalsi.

Ogni USR deve effettuare una precisa diagnosi del fenomeno a livello regionale sulla base di tali indicatori, definire gli specifici obiettivi e fare un piano di azione nel quadro di cooperazione inter-istituzionale. Il Miur può incrociare questi dati con quelli Invalsi per effettuare censimento analitico scuola per scuola del fenomeno, condizione sine qua non di una lotta rigorosa.

4.2.2. Prevenzione nell’infanzia.
Una strategia preventiva riferita alla fase dell’infanzia, dovrebbe basarsi sui seguenti punti.
1. Incrementare l’accesso agli asili nido specie nelle Regioni meridionali. Come dimostrato da numerosi studi del settore, un fattore che fa la differenza è l’arricchimento educativo precoce a partire già dall’asilo nido e dalla scuola dell’infanzia.
2. Valorizzare e rafforzare in funzione preventiva la scuola dell’infanzia all’interno del sistema integrato di istruzione, incrementando la scuola statale dell’infanzia e facilitando l’accesso delle scuole dell’infanzia paritarie al finanziamento europeo.
3. Implementare il sistema di allarme precoce sulle assenze frequenti, ai sensi della raccomandazione del Consiglio del 28 giugno 2011 sulle politiche di riduzione dell’abbandono scolastico (2011/C 191/01) e della Raccomandazione del Consiglio sul programma nazionale di riforma 2012 dell’Italia, formulando un parere del Consiglio sul programma di stabilità dell’Italia 2012-2015.
4. Incrementare l’individuazione precoce dei problemi e difficoltà di apprendimento a livello della scuola dell’infanzia e primaria.

4.2.3. Interventi nella scuola secondaria e IEFP.
Per quanto riguarda gli interventi relativi alla scuola secondaria ed alla formazione professionale, la strategia dovrebbe includere i seguenti interventi.
1. Prevedere un riordino dei cicli e la revisione della loro scansione in funzione della diffusione di un nuovo modello pedagogico-didattico mirato al contrasto alla dispersione (personalizzazione, tutoring, didattica attiva). La riallocazione delle risorse risparmiate abbreviando e ridisegnando il percorso (nella secondaria inferiore o superiore) permetterebbe di qualificare il sistema e giungere ad un organico funzionale. In questa direzione va vista l’eventualità di un riordino dei cicli o la sperimentazione di riforma del ciclo della secondaria di 4 anni, non solo per adeguarsi all’Europa ma soprattutto per ricavare risorse da destinare alla lotta all’insuccesso e alla dispersione scolastica. Ciò permetterebbe di creare figure di tutor e docenti dedicati.
2. Le bocciature sono l’anticamera della dispersione, specie nel I anno di scuola media e nei primi due anni della scuola superiore dove sono stimate in circa 185.000. Il 70 per cento dei bocciati lascia la scuola. Intervenire sulle bocciature prevedendo ad esempio una valutazione biennale (lasciando la bocciatura al I anno come evento eccezionale) nel quadro di un complessivo rinnovamento della didattica. Rendere più flessibile e orientativo il primo biennio superiore.
3. Migliorare l’orientamento alla scelta del percorso scolastico dopo il primo ciclo. È indispensabile un’azione nazionale dedicata, soprattutto attraverso l’utilizzo di figure di specialisti nel campo e tutor.
4. Realizzare il miglioramento delle competenze linguistiche degli alunni di cittadinanza non italiana anzi tutto all’interno dell’orario nonché con corsi intensivi estivi, ad esempio prima dell’inizio dell’anno scolastico. Nella scuola secondaria di secondo grado gli alunni di cittadinanza non italiana sono il 6,6 per cento degli iscritti e di questi circa 175 mila studenti stranieri che frequentano tale ciclo scolastico, quelli «a rischio di abbandono» sono pari al 2,42 per cento degli iscritti, contro l’1,16 per cento degli alunni italiani.
5. I corsi triennali di IeFP che portano ad una qualifica (attualmente le qualifiche sono 22) si sono rivelati un efficace investimento contro NEET (dati Isfol) Oggi, il Ministero del lavoro li finanzia con 189 milioni l’anno. Per 300.000 giovani, sono 630 euro l’anno a studente, una cifra largamente inadeguata, specie se si pensa che il costo di uno studente è circa di 7000 euro). L’allocazione delle risorse deve quindi privilegiare questo segmento di formazione per rinforzarlo, stabilizzarlo e riordinarlo, coinvolgendo la Conferenza Stato-Regioni, e omogeneizzando gli interventi tra Regioni che oggi spendono in modo diverso.
Allo stesso tempo, va valorizzata l’Istruzione Tecnica, e l’utilizzo di una didattica di tipo laboratoriale e tutte le forme di alternanza scuola-lavoro, attraverso un corretto rapporto scuole-imprese.
6. Realizzazione di un Piano di formazione straordinaria dei docenti in servizio su temi chiave come l’innovazione didattica, i problemi di motivazione degli studenti, la personalizzazione dell’insegnamento, la gestione delle classi eterogenee. La modalità didattica standard della scuola deve passare da trasmissione di conoscenze a attivazione di competenze. Per fare questo occorre una formazione specifica degli insegnanti in servizio, svolta anche a livello regionale in modalità di laboratori e gruppi auto generativi di competenze, in collaborazione con l’Università.
7. Creare ambienti di apprendimento adeguati, classi destrutturate, trasformate in laboratorio e digitalizzate. L’architettura scolastica va interamente ripensata nell’organizzazione degli arredi, anche tecnologici, per creare una scuola accogliente dove la dimensione corporea e sensoriale sia messa in primo piano.

4.2.4. La seconda chance.
Monitorare il programma di didattica integrativa previsto dal DM 87 del 7.2.14 in attuazione dell’art. 7 del DL 104 convertito con modifiche nella Legge 128/2013. Il decreto prevede misure di apertura delle scuole e progettualità nel campo della prevenzione della dispersione stanziando un totale di 15 milioni di cui 11,4 nel 2014: una cifra largamente insufficiente.
Altrettanto necessario è la valutazione dei fondi utilizzati per i PON (programmi operativi nazionali) nelle Regioni convergenza a seguito dei quali non appaiono rilevanti i risultati nel ridurre la dispersione, e i finanziamenti legati all’articolo9 del CCNL (Aree a rischio e a forte processo migratorio) passando dalla logica dell’estemporaneità a quella di lungo periodo.
Per le attività di recupero e di «seconda occasione» occorre valorizzare le risorse esterne alla scuola, le esperienze delle associazioni, cooperative e terzo settore e le professionalità di tipo pedagogico (educatori professionali) e psicosociali. Il partenariato con l’associazionismo non può limitarsi a un mero prolungamento del tempo-scuola ma deve promuovere un’integrazione di queste risorse nel sistema scolastico.

4.3. Due strumenti per la realizzazione delle azioni.
Molti insuccessi registrati in passato nonostante le diagnosi puntuali e tempestive vanno ricondotti alla carenza di strumenti di implementazione delle decisioni e degli orientamenti. Per le azioni di rilievo prioritario indicate alla luce degli indicatori e dei criteri di azione occorre una strategia efficace di implementazione che per il periodo 2014-2020 dovrebbe avere due capisaldi: il potenziamento della capacità di iniziativa delle singole scuole, da un lato, e la regia di una unità di crisi capace di creare le necessarie condizioni favorevoli dall’altro.
Per realizzare in modo efficace tali indirizzi strategici occorre dotarsi di due strumenti fondamentali:

4.3.1. Una sperimentazione che possa ampliare l’autonomia delle scuole.
Le esperienze positive e le ipotesi di lavoro nella lotta alla dispersione potrebbero essere verificate con una sperimentazione a livello nazionale (con adesione volontaria degli istituti). La sperimentazione deve permettere di ampliare l’autonomia degli istituti all’insegna della flessibilità.

4.3.2. Una «unità di crisi».
Dato il carattere di una emergenza nazionale è indispensabile un forte pilotaggio a livello nazionale, in grado di creare le indispensabili sinergie tra i soggetti in campo e di mantenere nell’arco dei cinque anni la rotta intrapresa. A questo scopo si raccomanda la costituzione di una Unità di crisi presso la Presidenza del Consiglio che coordini gli interventi in corso 2014-20 e coinvolga tutti gli attori (Miur, Ministeri interessati, Conferenza Stato Regioni, Invalsi, USR etc.) su obiettivi precisi e mirati e promuova la messa in rete delle scuole e degli USR nel conseguimento di tali obiettivi.

 

Aspettando la “Buona Scuola”

ASPETTANDO LA “BUONA SCUOLA”: L’ORGANICO FUNZIONALE. RIFLESSIONI E PROPOSTE

di Pasquale D’Avolio

L’eliminazione delle supplenze annuali e del precariato nella Scuola costituisce uno dei punti qualificanti del Documento sulla “Buona scuola” e a tale questione è dedicata tutta la prima parte del Documento ministeriale (i primi 3 punti).
La strada per arrivarci è indubbiamente quella dell’organico funzionale, vale a dire l’assegnazione alle scuole o reti di scuole di un organico che vada oltre la corrispondenza tra docenti e cattedre di insegnamento. Non si tratta solo di immettere nei ruoli tutti gli aspiranti delle GAE e una quota di vincitori di concorso (150.000 a settembre 2015), ma di garantire che non ci siano più, o siano ridotte al minimo, assunzioni temporanee da parte delle scuole all’inizio dell’anno o nei periodi di assenza del titolare, sulla base di graduatorie di Istituto, con una procedura defatigante per i Presidi e con l’alternarsi magari di più docenti nel corso dell’anno. E’ come l’uovo di Colombo, si direbbe, e la proposta di un “organico funzionale” rientra infatti tra le rivendicazioni delle OOSS da molti anni
Lodevole intento, ma tra il dire e il fare …….
Forse non tutti ricordano quanto prevedeva il ddl del febbraio 2012 (Governo Monti) che tante speranze aveva suscitato
Richiamo le tre grosse novità del Decreto: l’organico dell’autonomia (o funzionale), le reti territoriali con l’organico di rete, e, last but not least, la stabilità triennale degli organici: una vera rivoluzione!
Cosa ne è stato del ddl del 2012 e perché non è stato applicato? Un primo motivo sta nella premessa ai punti surriportati che aveva come presupposto che il tutto doveva rientrare “ nei limiti previsti dall’articolo 64 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni e integrazioni”. In sostanza il primo scoglio sono le risorse occorrenti, risorse che il Documento sulla Buona scuola individua in questo modo: i 150.000 da assumere stabilmente in effetti sono già oggi in servizio e non ci sarebbe un aggravio nel bilancio del MIUR (almeno nei primi anni); inoltre bisognerebbe conteggiare le minori spese per le supplenze temporanee che corrispondono annualmente a 300/350 milioni di Euro l’anno (Documento pag. 35) .
Dando per risolto il problema finanziario (ma sarà così?), il vero problema si presenta successivamente nella gestione di questo organico potenziato e qui le osservazioni di Mario Pirani (“Repubblica” 15 settembre 2014) sono certamente pertinenti. Provo ad elencarle così come lui le presenta, cercando di prevedere le possibili soluzioni.
a) Parto dalla sua obiezione di fondo: un impegno alla cieca delle risorse (docenti) “per un generico e difficilmente attuabile, ampliamento dell’offerta formativa ripropone il tema di una scuola fatta più per gli insegnanti che per gli studenti”
Certamente l’enfasi posta sulla assunzione di 150.000 docenti, che diventa l’obiettivo di fondo del Documento, rischia di mettere in secondo piano quello che il Documento stesso sottolinea, forse non in maniera adeguata, e cioè che con l’organico funzionale si intende raggiungere un risultato importante dal lato della “buona scuola”, vale a dire la continuità didattica.
Le supplenze da eliminare, su questo siamo tutti d’accordo, sono quelle che durano anni, che portano l’insegnante a migrare tra una scuola e l’altra senza riuscire davvero a lasciare un vero imprinting, come si richiede a un docente vero! Il Documento giustamente insiste sul valore della “continuità didattica”, che viene a mancare quando più di 1/4 dei docenti soggiornano nel limbo delle graduatorie, provvisorie o permanenti. E così ci sono scuole dove, come è successo a chi scrive, ogni anno vedono rinnovato l’intero Collegio Docenti. Nel libro “La fabbrica degli ignoranti” del 2008, Giovanni Floris (quello già di Ballarò) citò la Scuola Media di Paularo (UD), di cui sono stato Dirigente per qualche anno, come detentrice del record mondiale del turn-over dei docenti: il 100%, a parte la docente di religione.
Superamento del precariato e della discontinuità didattica sono obiettivi essenziali e collegati tra di loro; se avessi steso il documento, avrei insistito più sul secondo aspetto rispetto al primo, fugando ogni accusa di battage elettorale. Ma tant’è! L’importante è sottolineare come il precariato nuoccia, oltre che ai docenti, soprattutto ai discenti. Su questo forse anche Pirani converrebbe!
b) Altra obiezione di Pirani altrettanto condivisibile: nel documento governativo, egli dice, “si parla molto del sullodato ampliamento, ma senza tenere il minimo conto dell’assenza delle strutture indispensabili anche per il funzionamento normale”.
Non occorre citare esempi di mal funzionamento della macchina amministrativa centrale e periferica del MIUR: le nomine in ritardo sull’inizio dell’anno scolastico, i contenziosi infiniti con ricorsi al TAR che si concludono di solito con la condanna del Ministero, i concorsi infiniti ecc. Verrebbe da dire, parafrasando D’Alema: a noi basta una “scuola normale”; ma se non si riforma l’apparato, se non si semplificano davvero le procedure, se non si riforma dal profondo la macchina amministrativa (almeno 3 riforme del MIUR negli ultimi dieci anni con esiti deludenti) non se ne esce.
c) Da qui discendono una serie di interrogativi sempre di Pirani:
“Nelle 5 o 6 ore aggiuntive al mattino, cosa dovranno fare gli insegnanti aggiuntivi? Quali materie approfondire? Si dovranno aprire le scuole il pomeriggio? Ma i nostri innovatori sono a conoscenza che nelle scuole secondarie superiori non ci sono mense? E che gli orari delle scuole sono concordate con i servizi di trasporto?” Quanto alla possibilità dei docenti neo assunti di insegnare materie “affini” a quelle in cui sono abilitati, Pirani lo considera una delle debolezze della scuola italiana per non parlare del fatto messo in luce da qualcuno recentemente: una buona parte degli iscritti nelle GAE (si parla del 20-30%) non insegna da anni e chissà se è interessata o comunque “qualificata” a insegnare. Occorrerebbe un filtro, ma la cosa è molto improbabile.
Domande legittime e sensate, alle quali se ne potrebbero aggiungere altre: come e dove verranno assegnati i nuovi docenti dal punto di vista geografico e come imporre la mobilità?
Le risposte a tali domande non le si può trovare certamente nella legge, ma è necessario cominciare a dipanare alcune questioni.
1) La assegnazione dei contingenti “aggiuntivi” alle singole Regioni ha bisogno di criteri che potranno essere indicati dalla Conferenza Stato-Regioni e sappiamo quanto l’operazione è complicata. La maggioranza di personale precario è concentrata al Nord, mentre gli organici sono pressoché “saturi” nelle Regioni meridionali. Stesso discorso per il “tempo pieno” che sarebbe necessario espandere al Sud, ma qui ci sono ostacoli di natura logistica,visti i modesti investimenti dei Comuni nel Sud nelle mense e nei trasporti. Per non parlare delle scuole di montagna, notoriamente sprovviste di personale a t. i. (vedi sopra). Si riuscirà a coprire quelle sedi disagiate dove non c’è grande richiesta da parte dei docenti? E come? Inoltre, si terrà conto dei tassi di dispersione, visto che un possibile utilizzo del personale assunto dovrà occuparsi proprio di combattere la dispersione? Aggiungerei, ma qui il problema è molto complicato, che anche i tassi di assenteismo nelle varie realtà scolastiche sono diversi e quindi il problema della copertura delle assenze temporanee non si presenta allo stesso modo. Sono alcune delle questioni che ci si troverà ad affrontare in tempi molto ristretti: tra gennaio e aprile, quando vengono assegnati gli organici si riuscirà a dipanare tutte queste difficoltà? Conoscendo i lavori della suddetta Conferenza e la inevitabile querelle tra le Regioni, ho molti dubbi e probabilmente occorrerà procrastinare tutte le operazioni conseguenti con rischi per l’inizio effettivo del prossimo anno scolastico.
2) L’assegnazione degli organici alle singole scuole o alle reti all’interno delle Regioni è un compito che spetta agli USR e anche qui sappiamo che i tempi sono estremamente problematici con defatiganti riunioni con le OOS, le Province (che ancora esistono) i Comuni e le Scuole. La prima domanda è: la scuola avrà l’organico funzionale e poi deciderà cosa fare oppure il procedimento dovrà essere al contrario? Prima si verificano i bisogni delle scuole e poi la richiesta di insegnanti? E come arrivare eventualmente alla definizione dei “bisogni”? Occorreranno dei criteri per evitare l’”assalto alla diligenza” come l’esperienza pregressa ci insegna. Non è un problema da poco e bisognerà che sia chiarito prima della assegnazione degli organici alle Scuole .
3) l’utilizzo razionale e efficace delle risorse aggiuntive assegnate dall’USR alle singole scuola è un compito che spetterà a queste ultime, singole o in rete. Qui si richiede una governance forte all’interno delle singole scuole, ma io ritengo soprattutto a livello locale, come dirò dopo. Occorre una dirigenza scolastica di alto livello per le scuole autonome che sappia indicare delle soluzioni razionali e corrispondenti ai bisogni della comunità scolastica, e non solo, e che sappia coinvolgere nelle scelte tutti i soggetti interessati, superando particolarismi e resistenze anche di ordine sindacali, che non mancheranno.
Esistono poi questioni che attengono alla specificità delle scuole, che come sappiamo non sono tutte uguali. Una prima distinzione la si dovrà fare a) tra Scuole primarie e secondarie, una seconda ritengo essere importante ed è quella b) tra piccole e grandi scuole. Mi riferisco in questo caso al “dimensionamento” e alla differenza tra scuole di “città” con grandi numeri, sia di alunni che di docenti, e scuole montane o di periferia con un organico limitato (in montagna le Scuole possono avere fino a 400 alunni e sappiamo che ce ne sono ancora di più piccole!)

a) nelle scuole primarie l’utilizzo del personale per i diversi compiti, in particolare per le supplenze, presenta meno problemi. L’organico funzionale in effetti non è una novità per le scuole primarie e fino a pochi anni fa con una dotazione organica aggiuntiva adeguata si riusciva a coprire in parte alle esigenze “funzionali” delle scuole. Il taglio attuato dal 2008 ha reso aleatoria tale possibilità. Con l’organico funzionale “potenziato” tutti i docenti dovrebbero essere in grado di sostituire temporaneamente i colleghi assenti, salvo per gli insegnamenti specifici (musica, arte, educazione fisica) o dedicarsi ad attività di recupero-sostegno agli alunni o alle compresenze o al tempo pieno. Quanto agli insegnamenti specialistici il problema è più di ordine didattico, problema a cui nel Documento si presta scarsa attenzione. Dopo aver giustamente combattuto il “maestro unico” non si arriverà a una pletora di insegnanti sulla stessa classe? Oltre alle compresenze, da ripristinare indubbiamente, la previsione di insegnanti specialisti per “occupare” tutti i precari porterebbe ad avere 7/8 docenti nel Consiglio di classe (i 3 del “modulo”, il docente di religione cattolica, di arte, di musica, di educazione fisica più l’eventuale insegnate di sostegno). Occorrerà pensare ad altre soluzioni.
Per le scuole secondarie l’utilizzo dei docenti per le supplenze non può avvenire a caso, ma dovrà tener conto delle varie professionalità e competenze disciplinari o di altro tipo. Occorrerà che gli organici funzionali tengano conto delle varie tipologie di cattedre per evitare che le supplenze temporanee (che possono durare settimane o mesi) rimangano quelle supplenze “tappabuchi” di cui ci si è giustamente lamentati. In sostanza
b) Diverso è il discorso tra “piccole” e gradi scuole per quanto si diceva prima. Pensiamo ai plessi sottodimensionati o alle scuole secondarie con con pochi corsi. L’operazione diventa difficile, Ma allora l’organico funzionale richiede una revisione dei criteri del dimensionamento superando definitivamente le piccole scuole con meno di 1000 alunni o almeno 10 corsi! E’ una operazione non facile e non veloce. A meno che non si intenda procedere verso l’obbligatorietà delle reti.
Sulle reti il discorso sarebbe lungo, e chi scrive lo ha già tratto in precedenti interventi. Le reti sono un “valore aggiunto” che potrebbero trovare una strada facilitata proprio dall’organico di rete. Ma come si costruisce un “organico di rete”? Forse pochi ricordano i Distretti scolastici istituti con il DPR 416/74, art. 12, e ormai scomparsi. Molti dei compiti loro attribuiti si riferivano proprio a quelli che vengono indicati nel Documento “La buona scuola”. Cito solo uno che ci riguarda nello specifico: “Il CSD formula proposte …. al Ministero della Pubblica Istruzione e al Provveditore agli studi per la migliore utilizzazione del personale della scuola” In sostanza occorrerà pensare a organismi nuovi, che il sottoscritto individua da tempo nei Centri servizi scolastici provinciali o meglio sub-provinciali per garantire una adeguata assegnazione di docenti alle reti di scuole.

Conclusioni
In conclusione le difficoltà sulla strada della “buona scuola” sono tante. Aggiungerei quelle citate dal collega Stefanel (…….) L’idea dell’organico funzionale d’istituto deve però essere integrata con una rivisitazione del tempo scuola (io sono un fautore del monte ore annuale), delle possibilità opzionali da fornire agli studenti (quindi meno tempo obbligatorio e più scelte), delle competenze reali dei nuovi assunti (che sono legati a classi di concorso fuori da ogni realtà). Questioni che vanno affrontate non semplicemente attraverso consultazioni on-line, ma con il coinvolgimento delle OOSS e delle associazioni professionali, che possono dare un contributo importante.
Last but not least la questione tempi non è secondaria. Personalmente la vedo molto dura realizzare tutte le operazioni in tempo utile perché il tutto si concluda entro settembre 2015; dura ma non impossibile se il Ministero si dota di una vera e propria task-force in grado di dipanare tutti i problemi di cui ho parlato sopra. E’ un augurio che mi sento di rivolgere ai 150.000 precari e soprattutto ai milioni di studenti, ai quali ogni riforma dovrebbe rivolgersi.

Cosa ti rende felice?

COSA TI RENDE FELICE?

di Giancarlo Onger

 

È la prima domanda di un questionario rivolto a persone con disabilità nel contesto di un progetto europeo, a cui sono molto contento di partecipare perché una volta tanto si fanno domande anche alle persone che non dovrebbero avere motivi per essere felici.

Anche il titolo è azzeccato: WISPEL Wisdom of Special PeopleSapienza/Saggezza di persone speciali. Un progetto che esce dallo stereotipo: persona con disabilità uguale a persona con infelicità. Fa pure rima. Il che non guasta.

Questa è l’ultima, per ora, delle mie peregrinazioni nei Paesi europei alla scoperta di cosa si combina oltre le Alpi. Ho cominciato, nel lontano 1991, a familiarizzare con la definizione special needs che da noi, nella versione BES (Bisogni Educativi Speciali), è prepotentemente entrata nel lessico scolastico negli ultimi tre anni. Per cui è normale che , dopo l’affermazione del sostantivo DSA, si sia affermato anche il sostantivo BES.

I due, peraltro, sono in buona compagnia perché si ritrovano con altri: ADHD, FIL, ecc. Per strada abbiamo perso le parole bambino/a, ragazzo/a, alunno/a, studente/ssa. Infatti, nelle classi non ci sono Giovanni, Maria, Enrico, Giovanna, ma: un BES, un DSA, un…

Non importa se le disposizioni ministeriali hanno chiarito che le persone che rientrano nei BES sono: gli alunni con disabilità, gli alunni con disturbi specifici di apprendimento, gli alunni con disagio socio-culturale.

Evidentemente è più spiccia la reductio della persona ad una sigla.

Sono talmente condizionato da questa deriva che in una recente tappa del progetto di cui sopra, in Portogallo, mentre si andava a pranzo in una località marina, il teleobiettivo della mia macchina fotografica ha intercettato un’ insegna con scritta bianca su sfondo verde: BES! Neanche il tempo di darmi una risposta ai molti interrogativi che l’acronimo si è svelato: Banco Espirito Santo.

Per un attimo avevo temuto che in Portogallo ci fosse un allarme BES molto più alto che da noi, tanto da indurre il Ministerio da Educação ad aprire centri con insegne ambulatoriali. E invece si trattava di una banca.

Rientrato l’allarme ho cominciato a riflettere, proiettandomi inevitabilmente nel nostro contesto. Vuoi vedere, mi sono detto, che per far tornare in primo piano la persona, senza etichette e aggettivi vari, nella nostra scuola abbiamo bisogno di un miracolo dello Espirito Santo?

Ma poi, riflettendo con calma davanti alle onde del mare arrabbiato, mi sono convinto che in campo abbiamo già molte risorse. Bisogna averne contezza e operare in tal senso.

Per prima cosa non possiamo continuare ad avere parametri quantitativi per valutare se una persona ha una disabilità, un disturbo o una difficoltà. Se il punto di riferimento rimane il QI, con la mitica soglia F70, mi/vi chiedo a cosa è servita la teoria delle intelligenze multiple di Howard Gardner, che ha dimostrato priva di fondamento l’idea di intelligenza come fattore unitario e misurabile; a cosa serve l’ICF se continuiamo a pensare che la condizione di una persona è una questione sua e non dei contesti in cui vive; dov’è finito il bambino montessoriano protagonista della propria crescita con il prezioso supporto dei centri di interesse.

Contemporaneamente suggerirei all’INVALSI di preparare un questionario sulla felicità da somministrare a tutti i nostri alunni/studenti. Come incipit partirei proprio dalla domanda: cos’è che ti rende felice? E subito dopo lo estenderei agli adulti che lavorano con e per loro. Forse scopriremmo che non abbiamo bisogno di un miracolo, ma di una scuola felice.

La ‘buona scuola’ e le radici antiche dell’Ulivo

La ‘buona scuola’ e le radici antiche dell’Ulivo

di Giovanni Fioravanti

 

La scuola è la base di ogni ricchezza era il titolo della tesi n.66 del programma con cui si presentava sulla scena politica del Paese l’Ulivo, nell’ormai lontano 1995. Un programma che rivendicava le radici antiche che ogni futuro deve avere per essere degno di questo nome.

Da allora ad oggi quelle radici si sono perse per strada.

Là si sosteneva che il differenziale fra noi e gli altri Paesi è cresciuto anche perché non abbiamo saputo pensare al nostro sistema scolastico in termini moderni, un sistema scolastico che accusa una crisi profonda nei suoi moduli organizzativi e nelle sue strutture organizzative.

Per questo, si affermava, la scuola è una grande questione nazionale che deve essere affrontata con grandissima lungimiranza e fortissimo impegno, perché un Paese, una Nazione, una comunità vivono del futuro che sanno prepararsi.

Avremmo preferito che il filo della narrazione della ‘buona scuola’ riprendesse di qui, da quel discorso interrotto da un paio di decenni di autentica restaurazione scolastica.

Non certo per spirito di parte, ma semplicemente perché ci sembrava, da uomini di scuola, che il racconto di allora avesse colto la questione centrale del nostro sistema formativo: la sua struttura e la sua organizzazione ormai segnate dal tempo e dalla inadeguatezza ad affrontare le nuove sfide.

Invece ‘la buona scuola’ promette una trama di curiosità per il mondo, di creatività, di pensiero critico, di industrioso fare con le proprie mani, ma poi lascia inalterati gli scenari in cui sviluppare questa vicenda, che restano gli stessi di sempre, come ai tempi dell’Ulivo, come prima e dopo la restaurazione.

Nei dodici capitoli del racconto ci sono cenerentole che sposano il principe, i precari che entrano di ruolo, gli oggetti magici, degno ingrediente di ogni favola, come le nuove alfabetizzazioni, c’è pure la scuola di vetro e la morale finale, la scuola per tutti e tutti per la scuola, come i tre moschettieri.

E i bambini? I bambini che si perdono nel bosco? A loro non restano che le briciole? Le briciole da seminare lungo il percorso per assicurarsi un improbabile ritorno a casa.

Pare una favola per grandi, di quelli protagonisti dei racconti di Roald Dahl, che non s’accorgono e non si curano della grandezza dei piccoli, costretti a lottare contro le pratiche e le liturgie degli adulti.

Com’è distante questa ‘buona scuola’ da quella “fiducia nei giovani come frutto di una fiducia collettiva nella formazione, che è diritto di cittadinanza e garanzia di equità e democrazia”. Così scriveva nel suo racconto, una volta, l’Ulivo.

Eppure il modello di scuola che offriamo ai nostri giovani resta il nodo centrale, il cuore del cambiamento.

Invece nella buona scuola gioca su tutto un peso sproporzionato la questione docente, per di più senza che sia riequilibrata da un’idea veramente nuova di scuola, del suo modo d’essere, della sua organizzazione, delle sue strutture, dei modi di studiare e di apprendere.

Allora questi insegnanti per quale idea di scuola sono chiamati a lavorare? La scuola di vetro?

Ma la scuola di vetro promessa resta identica a se stessa. Le stesse vecchie aule progettate per insegnanti che stanno davanti ad una classe di studenti in file ordinate, in ascolto, a prendere appunti o a svolgere i compiti loro assegnati. Sì, si possono vedere cablaggi per computer e lavagne interattive alla testa dell’aula, ma a parte questo, poco è cambiato.

Si continua a celebrare l’istruzione impartita in un edificio specifico, dove i fanciulli sono separati dagli adulti, che non siano i loro insegnanti. Si continua a perpetuare la società dei fanciulli separata, con i propri rituali e le proprie usanze.

Nelle classi agli studenti è insegnato secondo metodi standardizzati in accordo con gli obiettivi del curricolo. Il libro di testo resta la maggior fonte di istruzione, specificatamente scritto per l’uso scolastico che riflette le richieste del curricolo standard.

Separati i fanciulli dalla comunità e sistemati in un ambiente controllato che consente di plasmare intere generazioni per ciò che la società ritiene necessario per sé e per loro.

Queste comunità separate di fanciulli sono le incubatrici di un futuro che non è quello sognato da ogni singola ragazza e ogni singolo ragazzo, ma di un futuro che altri hanno pensato per loro.

È il modello di scolarizzazione occidentale, così universalmente accettato che è difficile immaginare modelli alternativi.

Ma ormai in giro per il mondo altri argomenti stanno prendendo il centro della scena.

Non è più il dibattito sugli standard e sulle strutture, ma piuttosto una discussione su come i giovani imparano meglio nel 21° secolo, su come possiamo rendere le scuole i catalizzatori del loro impegno per il sapere e la cultura, anziché i non luoghi dell’abbandono, della dispersione, del giudizio, della riuscita o del fallimento. Su come i giovani possono scegliere di imparare, su quanto la motivazione e l’amore per l’apprendimento significano nel contesto della scuola, su come dare più enfasi al coinvolgimento degli studenti nella scelta e nelle modalità dei loro percorsi formativi. Ripensare radicalmente la struttura tradizionale delle classi, dei voti, degli orari, delle interrogazioni e degli esami.

Ma il racconto della buona scuola manca di tutto questo, perché non ci sono gli studenti che avrebbero dovuto essere i veri protagonisti di questa storia e, se i protagonisti non ci sono, non potremo mai sapere se il bene finirà per trionfare.

Altre cose mancano, che prometteva l’Ulivo e per noi essenziali per aviare un percorso di radicale cambiamento, il portare a termine il passaggio di competenze dallo Stato alle Regioni, in particolare in materia di organici e di personale, con una scelta di forte decentramento e il discorso sul significato oggi dell’educazione permanente, della life wide learning, indispensabile in quanto investe il ripensamento del modo d’essere dell’intero nostro sistema formativo.

Sono due ingredienti fondamentali. Volutamente mancanti? Una distrazione? Poca dimestichezza con le questioni della scuola? Certamente sono spie del corto respiro della proposta del governo, di una vecchia idea centralistica dell’amministrazione della scuola che resiste e non promette nulla di buono, che nasconde una certa pavidità di fronte al cambiamento vero.

A noi piacciono le favole che fanno sognare, che ci fanno pensare a un mondo da desiderare, che ci sollecitano ad immedesimarci con l’eroe, che ci fanno amare l’avventura, forse perché ad essere uomini di scuola abbiamo imparato l’incanto dai bambini.

Non ci piacciono le storie riciclate. La buona scuola come minimo è in ritardo sui tempi, perché dietro le parole racconta una storia già vecchia, neppure più intrigante come poteva essere vent’anni fa quella narrata dall’Ulivo con le sue radici antiche.

 

Anche la Confindustria è stata ammaliata dalla sirena scuola

Anche la Confindustria è stata ammaliata dalla sirena scuola  
di Enrico Maranzana
Nella premessa al documento di CONFINDUSTRIA sulla scuola [7 ott 14] è scritto: “Un sistema dominato dal caso che ti entusiasma una volta con un educatore straordinario, ti punisce un’altra con un insegnante del tutto inadeguato”.
Asserzione rinforzata da: “Occorre ridare forma a questa strana chimera istituzionale”.
Stupefacente il fatto che la confederazione degli industriali, dopo aver enunciato il problema, formuli proposte indipendenti dai fondamenti delle scienze dell’amministrazione e dalla prassi progettuale.
Si è dimenticata che la progettazione si fonda sulla specificazione del risultato atteso e raffini per formulare strategie?
Perché la noncuranza per i momenti qualificanti la razionale gestione del servizio scolastico:
1) elencazione delle competenze generali che facilitano l’ingresso dei giovani nel sociale [formazione];
2) identificazione delle capacità ad esse sottese [educazione];
3) ideazione delle modalità di convergenza degli insegnamenti verso i traguardi comuni [istruzione] prescritti dall’art 2 della legge 53/2003?
Come mai non ha rilevato che nel documento governativo “La buona scuola” la volontà del legislatore è elusa, nonostante il suo rigore scientifico? [Tematica sviluppata in rete contrapponendo  “buona” a “efficace”].
Come ha potuto non accorgersi della banalizzazione del “principio di distinzione” tra potere di indirizzo e potere di gestione, enunciato a pag. 71, appiattito sull’insegnamento?
Perché non ha sottolineato che si persevera nell’errore del 1974?
I decreti delegati sono stati sterilizzati per il sistematico e generalizzato rifiuto di ristrutturare il servizio scolastico in conformità agli avanzamenti delle scienze dell’organizzazione.
Preoccupante ma significativa appare anche la mancata rilevazione di un’insidia  latente, seme di un insanabile conflitto tra organismi scolatici: il collegio dei docenti sarà titolare “esclusivo della programmazione didattica”, tipico e protetto ambito della professionalità del singolo docente.

Tre like e tre dislike professionali sul Piano scuola

Tre like e tre dislike professionali sul Piano scuola

di Nicola Zuccherini

Il piano scuola del governo mi sembra un buon punto di partenza per rinnovare il sistema; né condivido l’opinione di quanti ci vedono un conflitto con la contrattazione: oltre alle leggi, sarà proprio un nuovo contratto a rendersi necessario per attuare le proposte del governo, così come usciranno dal dibattito pubblico e politico. C’è molto da discutere, però. Propongo in brevissimo i miei like e dislike, tre per parte e tutti sul piano strettamente professionale, al limite sindacale.

In tre punti “La buona scuola” mi sembra particolarmente efficace nell’incrociare gli aspetti più problematici del sistema: assunzioni dalle Gae, organico d’istituto e retribuzione premiale.

a) L’ingresso in ruolo del personale delle graduatorie a esaurimento ha tutti i limiti di una sanatoria (e i precari delle altre amministrazioni?) ma toglie di mezzo uno dei principali fattori di instabilità del sistema.

b) L’introduzione di un organico funzionale di istituto (o di rete), che è una necessità invocata da tempo e da tutti, cambia il contenuto professionale del mestiere dell’insegnante perché introduce nell’ordinamento il principio che si tratta di una professione plurale, che non si esaurisce nel fare lezione in una classe; e che di conseguenza per fare scuola non basta un numero di insegnanti pari a quello delle classi (salvo il sostegno).

c) Nella stessa direzione va il cosiddetto merito: l’introduzione della premialità pone in maniera forte e spero definitiva il problema di una professione che deve accettare responsabilità più precise e caricarsi di sistemi valutativi stringenti (che entrino nel “merito” del nostro lavoro, se si può giocare con le parole) se veramente ambisce a prestigio sociale e riconoscimento economico.

I tre punti di maggior criticità del documento sono invece ruolo e destino degli Ata (e dei loro compiti e funzioni), ruolo del nuovo organico d’istituto o di rete, retribuzione.

a) Gli Ata, quelli che ci sono adesso e quelli che ci saranno se ce ne saranno. “La buona scuola” gli dedica quattro o cinque parole in tutto: troppo poche, visto che le mansioni che svolgono sono strategiche per la costruzione della qualità della scuola. Perché allora non chiamare anche loro a un percorso di qualificazione professionale che ne ridefinisca compiti e funzioni, magari anche nella direzione del controllo e del coordinamento di attività esternalizzate?

b) Il documento del governo prefigura un nuovo organico di rete destinato a sostituzioni, aumento del tempo scolastico e qualificazione dell’offerta formativa e formato dai soli insegnanti assunti dalle graduatorie a esaurimento. Costruire una sottocategoria con compiti sussidiari accanto a quella dei “veri” insegnanti, che resterebbero quelli “di classe” o “con cattedra”, rischia di dar vita a un ghetto di docenti sottoutilizzati e dequalificati, dai compiti incerti; mi sembra preferibile mettere tutti sullo stesso piano e impegnare le scuole a utilizzare tutte le risorse al meglio in una didattica flessibile e nel garantire il servizio con le sostituzioni (queste, poi, non si vede perché a regime non dovremmo farle tutti, in quota orario, anziché solo una parte di noi, cioè gli ex Gae).

c) Sessanta euro ogni tre anni, infine, sono proprio pochi e sanno di presa in giro, anche perché i meritevoli di domani finirebbero per guadagnare più o meno quanto guadagnano oggi senzanessuna valutazione, che non è un granché come incentivo. Vale la pena oggi chiedere agli insegnanti una sostanziale crescita di produttività (in termini di ore lavorate, di partecipazione alla gestione della scuola, di progettualità e flessibilità didattica, di responsabilità sui risultati) in cambio di un aumento sostanziale della retribuzione base e delle prospettive di miglioramento economico in carriera. Questa dei soldi l’ho tenuta per ultima, ma si poteva mettere per prima, perché da questo passaggio (più soldi in tasca, più responsabilità, più impegni) dipende tutto il resto, cioè tutto il destino del lavorare a scuola nei prossimi decenni.

Il sostegno senza gli insegnanti di sostegno

Il sostegno senza gli insegnanti di sostegno

di Cosimo De Nitto

Il dibattito e le immancabili polemiche sulla sperimentazione del Trentino guidata da D. Ianes in cui si prevede l’eliminazione degli insegnanti di sostegno in quanto figure specialistiche dimostra quanto è sentito il problema del sostegno e quanto sia distante la nostra cultura dell’inclusione e dell’integrazione (LL. 517 e 104) da quelle esperienze europee che sbrigativamente hanno risolto il problema per una via opposta alla nostra, quella dell’isolamento, della separatezza, e delle classi differenziali considerando l’handicap una “malattia”, una diversità da “curare” altrove, intralcio e anomalia che “disturba” la “normale” didattica.
La scelta del sostegno integrato nella classe e nella didattica curricolare (per quanto possibile a seconda delle difficoltà specifiche dei soggetti) si regge su due pilastri essenziali, imprescindibili e sulle relazioni tra loro:
1) l’insegnante curricolare che prende in carico pedagogico e didattico tutti gli alunni nessuno escluso;
2) l’insegnante di sostegno che favorisce e media il raggiungimento degli obiettivi specifici e personali dell’allievo all’interno degli obiettivi generali della classe.
Questo binomio è inscindibile, altrimenti si fa altro e non hanno più ragioni di essere le leggi 104 e 517, altrimenti cambia la natura stessa di questa via italiana all’integrazione/inclusione che invece è stata ed è condivisa da tutti, anzi si vorrebbe fare ancora di più e meglio.
Ci sono tre modi di distorcere e stravolgere questa linea, questa strategia che ha reso il nostro Paese all’avanguardia nel campo internazionale (finalmente!):
1) ritornare alle classi differenziali, e/o alla delega in toto agli insegnanti di sostegno o figure specialistiche;
2) gestire male tutta la partita come fanno le politiche governative. Organici sottodimensionati rispetto ai bisogni. La politica dei tagli ha penalizzato gli insegnanti di sostegno al cui organico manca circa un terzo. Genitori costretti a ricorrere ai TAR per vedere riconosciuto il diritto al sostegno. Organici mal distribuiti e mal gestiti per cui gli insegnanti sono assegnati per punteggio in graduatoria anziché per specifiche competenze richieste rispetto alla disabilità particolare. Poca o nessuna attenzione alla continuità, essenziale per questo tipo di allievi;
3) eliminare la specificità di figure e competenze di sostegno con l’idea di “distribuire” le une e le altre sulle spalle degli insegnanti curricolari, aumentati in un “organico funzionale” che allo stato delle cose è un guscio vuoto in cui nessuno sa chi-fa-che-cosa, privi di uno status giuridico che ne fissi compiti, funzioni, relazioni. Questa mi pare essere in pratica la proposta di Ianes.

Fermiamoci a riflettere un attimo. Che cos’è l’organico funzionale, qualcuno lo sa? La “buona scuola di Renzi”, per esempio, demanda ad esso il compito di eliminare il problema del supplentato e del precariato. Qualcuno ha provato a dire chi-fa-che-cosa, come normare i compiti e le responsabilità specifiche di ciascun insegnante rispetto a tutti i compiti della didattica? L’insegnante curricolare fa il sostegno come pratica didattica specifica? E’ preparato per questo compito? Dall’altro lato, l’insegnante di sostegno fa il curricolare, insegna a tutti? Con quali competenze disciplinari? Quanti anni ci vorrebbero affinché gli uni imparino il mestiere degli altri? Per fare le stesse cose poi? Non è più semplice, “economico” funzionale, praticabile che gli uni e gli altri si specializzino sempre più e facciano meglio ciò che già oggi sono chiamati a fare? E con quali criteri sarebbe assegnato questo organico funzionale? E nella secondaria cosa facciamo? Specializziamo tutto il consiglio di classe sul sostegno? E se spostiamo tutti e 110 mila insegnanti di sostegno sul curricolare e dovranno imparare discipline e didattica disciplinare cosa facciamo fare all’esercito di precari ormai super specializzati per conoscenze esperienze e competenze già pronti all’utilizzo per un inquadramento stabile? E ogni anno che arrivano in classe una o più disabilità (non vedenti, sordastri, tetraplegici, autistici, ritardi mentali ecc.) cosa facciamo? Tutti gli insegnanti si specializzano in ognuna di queste disabilità?
Lasciamo stare poi la configurazione della cabina di regia organizzativa, i poteri e le attribuzioni rispetto al territorio, alla scuola, alla singola classe, al singolo alunno, al super dirigente di istituto.
Lasciamo stare la task force dei super esperti, super visori, super presenti su tutto il territorio, che sanno tutto, ai quali sarebbe demandato, secondo il pensiero di Ianes, di dettare le linee tecniche della didattica dell’inclusione, cioè di tutta la didattica a questo punto.

La proposta di Ianes non mi convince. Di più, mi sembra piuttosto campata in aria, distrofica e strabica, farraginosa e impraticabile per la scuola, i docenti (curricolari e di sostegno), e soprattutto dannosa per coloro ai cui interessi sarebbe destinata. Questa proposta appare priva di quel criterio principe che è la fattibilità su scala universale.

Quando si è aperta la partita dei BES molti insegnanti di sostegno e curricolari, ma anche molti esperti di scuola, l’hanno criticata a fondo perché vedevano in ciò un elemento di confusione che perde i confini della disabilità, includendo in essa ogni difficoltà di apprendimento e dimenticando che l’apprendimento e la capacità di stare in relazione con gli altri costituiscono sempre e comunque difficoltà che bisogna superare senza necessariamente essere affetti di una qualche forma di patologia. In particolare hanno visto i BES come l’anticamera della eliminazione del sostegno, quello vero e riconosciuto (sulla certificazione Ianes dice delle cose molto interessanti, condivisibili delle quali bisognerebbe studiare le condizioni di fattibilità. Sappiamo tutti, infatti, il calvario dei disabili e delle loro famiglie alle prese con le ASL, la burocrazia, con le visite estenuanti e ripetute), quindi l’eliminazione degli insegnanti di sostegno in quanto figure specialistiche. I timori erano più che fondati. Dopo i BES è arrivata puntuale la proposta di Ianes e la sperimentazione del Trentino che prevede l’eliminazione del sostegno, e degli insegnanti di sostegno, nel modo in cui si è configurato fino ad oggi. Una sperimentazione che dovrebbe servire da modello per tutta l’Italia, con tutti i limiti della significatività di un campione che, in fatto di politiche scolastiche ed economiche, ha molto poca somiglianza col resto del Paese.

La partita del sostegno deve essere governata meglio: occorrono risorse, innanzitutto, in termini di organici, di organizzazione scolastica, strutture e strumenti, supporti specifici, preparazione specialistica, ma anche didattica e “culturale” degli attori protagonisti, non solo, ma di tutto l’ambiente istituzionale, sociale, territoriale intorno alle persone disabili e alle loro famiglie. Per realizzare ciò non c’è bisogno dell’eliminazione/”evoluzione” degli insegnanti di sostegno, anzi, occorre sostenere loro e gli insegnanti curricolari ancora di più e meglio. Quanto più e meglio essi svolgeranno i loro compiti tanto più e meglio passerà nella scuola e nella società tutta la “cultura dell’inclusione”.

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“L’evoluzione dell’insegnante di sostegno” (D. Ianes) Erickson Ed.

“Insegnanti di sostegno: eliminazione no, evoluzione sì.” Videointervista a D. Ianes

“Addio insegnante di sostegno?” (Silvana La Porta)

“Eliminare i docenti di sostegno, adesso si sperimenta a Trento” Redazione OrizzonteScuola.it

“I giochi sono fatti” (M. Tiriticco)

“Gli insegnanti di sostegno, Dario Ianes, e la retorica caciara” (R. Iosa)

“Dei Bes e degli H” (M. Tiriticco)

“Dibattito aperto sull’evoluzione dell’insegnante di sostegno” (S. Nocera per Associazione Italiana
Persone Down)

“Il sostegno è un caos calmo e io non cambio mestiere” (M.G. Fiore) su SPECULMMAIUS .WORDPRESS.COM