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Tre like e tre dislike professionali sul Piano scuola

Tre like e tre dislike professionali sul Piano scuola

di Nicola Zuccherini

Il piano scuola del governo mi sembra un buon punto di partenza per rinnovare il sistema; né condivido l’opinione di quanti ci vedono un conflitto con la contrattazione: oltre alle leggi, sarà proprio un nuovo contratto a rendersi necessario per attuare le proposte del governo, così come usciranno dal dibattito pubblico e politico. C’è molto da discutere, però. Propongo in brevissimo i miei like e dislike, tre per parte e tutti sul piano strettamente professionale, al limite sindacale.

In tre punti “La buona scuola” mi sembra particolarmente efficace nell’incrociare gli aspetti più problematici del sistema: assunzioni dalle Gae, organico d’istituto e retribuzione premiale.

a) L’ingresso in ruolo del personale delle graduatorie a esaurimento ha tutti i limiti di una sanatoria (e i precari delle altre amministrazioni?) ma toglie di mezzo uno dei principali fattori di instabilità del sistema.

b) L’introduzione di un organico funzionale di istituto (o di rete), che è una necessità invocata da tempo e da tutti, cambia il contenuto professionale del mestiere dell’insegnante perché introduce nell’ordinamento il principio che si tratta di una professione plurale, che non si esaurisce nel fare lezione in una classe; e che di conseguenza per fare scuola non basta un numero di insegnanti pari a quello delle classi (salvo il sostegno).

c) Nella stessa direzione va il cosiddetto merito: l’introduzione della premialità pone in maniera forte e spero definitiva il problema di una professione che deve accettare responsabilità più precise e caricarsi di sistemi valutativi stringenti (che entrino nel “merito” del nostro lavoro, se si può giocare con le parole) se veramente ambisce a prestigio sociale e riconoscimento economico.

I tre punti di maggior criticità del documento sono invece ruolo e destino degli Ata (e dei loro compiti e funzioni), ruolo del nuovo organico d’istituto o di rete, retribuzione.

a) Gli Ata, quelli che ci sono adesso e quelli che ci saranno se ce ne saranno. “La buona scuola” gli dedica quattro o cinque parole in tutto: troppo poche, visto che le mansioni che svolgono sono strategiche per la costruzione della qualità della scuola. Perché allora non chiamare anche loro a un percorso di qualificazione professionale che ne ridefinisca compiti e funzioni, magari anche nella direzione del controllo e del coordinamento di attività esternalizzate?

b) Il documento del governo prefigura un nuovo organico di rete destinato a sostituzioni, aumento del tempo scolastico e qualificazione dell’offerta formativa e formato dai soli insegnanti assunti dalle graduatorie a esaurimento. Costruire una sottocategoria con compiti sussidiari accanto a quella dei “veri” insegnanti, che resterebbero quelli “di classe” o “con cattedra”, rischia di dar vita a un ghetto di docenti sottoutilizzati e dequalificati, dai compiti incerti; mi sembra preferibile mettere tutti sullo stesso piano e impegnare le scuole a utilizzare tutte le risorse al meglio in una didattica flessibile e nel garantire il servizio con le sostituzioni (queste, poi, non si vede perché a regime non dovremmo farle tutti, in quota orario, anziché solo una parte di noi, cioè gli ex Gae).

c) Sessanta euro ogni tre anni, infine, sono proprio pochi e sanno di presa in giro, anche perché i meritevoli di domani finirebbero per guadagnare più o meno quanto guadagnano oggi senzanessuna valutazione, che non è un granché come incentivo. Vale la pena oggi chiedere agli insegnanti una sostanziale crescita di produttività (in termini di ore lavorate, di partecipazione alla gestione della scuola, di progettualità e flessibilità didattica, di responsabilità sui risultati) in cambio di un aumento sostanziale della retribuzione base e delle prospettive di miglioramento economico in carriera. Questa dei soldi l’ho tenuta per ultima, ma si poteva mettere per prima, perché da questo passaggio (più soldi in tasca, più responsabilità, più impegni) dipende tutto il resto, cioè tutto il destino del lavorare a scuola nei prossimi decenni.

Il sostegno senza gli insegnanti di sostegno

Il sostegno senza gli insegnanti di sostegno

di Cosimo De Nitto

Il dibattito e le immancabili polemiche sulla sperimentazione del Trentino guidata da D. Ianes in cui si prevede l’eliminazione degli insegnanti di sostegno in quanto figure specialistiche dimostra quanto è sentito il problema del sostegno e quanto sia distante la nostra cultura dell’inclusione e dell’integrazione (LL. 517 e 104) da quelle esperienze europee che sbrigativamente hanno risolto il problema per una via opposta alla nostra, quella dell’isolamento, della separatezza, e delle classi differenziali considerando l’handicap una “malattia”, una diversità da “curare” altrove, intralcio e anomalia che “disturba” la “normale” didattica.
La scelta del sostegno integrato nella classe e nella didattica curricolare (per quanto possibile a seconda delle difficoltà specifiche dei soggetti) si regge su due pilastri essenziali, imprescindibili e sulle relazioni tra loro:
1) l’insegnante curricolare che prende in carico pedagogico e didattico tutti gli alunni nessuno escluso;
2) l’insegnante di sostegno che favorisce e media il raggiungimento degli obiettivi specifici e personali dell’allievo all’interno degli obiettivi generali della classe.
Questo binomio è inscindibile, altrimenti si fa altro e non hanno più ragioni di essere le leggi 104 e 517, altrimenti cambia la natura stessa di questa via italiana all’integrazione/inclusione che invece è stata ed è condivisa da tutti, anzi si vorrebbe fare ancora di più e meglio.
Ci sono tre modi di distorcere e stravolgere questa linea, questa strategia che ha reso il nostro Paese all’avanguardia nel campo internazionale (finalmente!):
1) ritornare alle classi differenziali, e/o alla delega in toto agli insegnanti di sostegno o figure specialistiche;
2) gestire male tutta la partita come fanno le politiche governative. Organici sottodimensionati rispetto ai bisogni. La politica dei tagli ha penalizzato gli insegnanti di sostegno al cui organico manca circa un terzo. Genitori costretti a ricorrere ai TAR per vedere riconosciuto il diritto al sostegno. Organici mal distribuiti e mal gestiti per cui gli insegnanti sono assegnati per punteggio in graduatoria anziché per specifiche competenze richieste rispetto alla disabilità particolare. Poca o nessuna attenzione alla continuità, essenziale per questo tipo di allievi;
3) eliminare la specificità di figure e competenze di sostegno con l’idea di “distribuire” le une e le altre sulle spalle degli insegnanti curricolari, aumentati in un “organico funzionale” che allo stato delle cose è un guscio vuoto in cui nessuno sa chi-fa-che-cosa, privi di uno status giuridico che ne fissi compiti, funzioni, relazioni. Questa mi pare essere in pratica la proposta di Ianes.

Fermiamoci a riflettere un attimo. Che cos’è l’organico funzionale, qualcuno lo sa? La “buona scuola di Renzi”, per esempio, demanda ad esso il compito di eliminare il problema del supplentato e del precariato. Qualcuno ha provato a dire chi-fa-che-cosa, come normare i compiti e le responsabilità specifiche di ciascun insegnante rispetto a tutti i compiti della didattica? L’insegnante curricolare fa il sostegno come pratica didattica specifica? E’ preparato per questo compito? Dall’altro lato, l’insegnante di sostegno fa il curricolare, insegna a tutti? Con quali competenze disciplinari? Quanti anni ci vorrebbero affinché gli uni imparino il mestiere degli altri? Per fare le stesse cose poi? Non è più semplice, “economico” funzionale, praticabile che gli uni e gli altri si specializzino sempre più e facciano meglio ciò che già oggi sono chiamati a fare? E con quali criteri sarebbe assegnato questo organico funzionale? E nella secondaria cosa facciamo? Specializziamo tutto il consiglio di classe sul sostegno? E se spostiamo tutti e 110 mila insegnanti di sostegno sul curricolare e dovranno imparare discipline e didattica disciplinare cosa facciamo fare all’esercito di precari ormai super specializzati per conoscenze esperienze e competenze già pronti all’utilizzo per un inquadramento stabile? E ogni anno che arrivano in classe una o più disabilità (non vedenti, sordastri, tetraplegici, autistici, ritardi mentali ecc.) cosa facciamo? Tutti gli insegnanti si specializzano in ognuna di queste disabilità?
Lasciamo stare poi la configurazione della cabina di regia organizzativa, i poteri e le attribuzioni rispetto al territorio, alla scuola, alla singola classe, al singolo alunno, al super dirigente di istituto.
Lasciamo stare la task force dei super esperti, super visori, super presenti su tutto il territorio, che sanno tutto, ai quali sarebbe demandato, secondo il pensiero di Ianes, di dettare le linee tecniche della didattica dell’inclusione, cioè di tutta la didattica a questo punto.

La proposta di Ianes non mi convince. Di più, mi sembra piuttosto campata in aria, distrofica e strabica, farraginosa e impraticabile per la scuola, i docenti (curricolari e di sostegno), e soprattutto dannosa per coloro ai cui interessi sarebbe destinata. Questa proposta appare priva di quel criterio principe che è la fattibilità su scala universale.

Quando si è aperta la partita dei BES molti insegnanti di sostegno e curricolari, ma anche molti esperti di scuola, l’hanno criticata a fondo perché vedevano in ciò un elemento di confusione che perde i confini della disabilità, includendo in essa ogni difficoltà di apprendimento e dimenticando che l’apprendimento e la capacità di stare in relazione con gli altri costituiscono sempre e comunque difficoltà che bisogna superare senza necessariamente essere affetti di una qualche forma di patologia. In particolare hanno visto i BES come l’anticamera della eliminazione del sostegno, quello vero e riconosciuto (sulla certificazione Ianes dice delle cose molto interessanti, condivisibili delle quali bisognerebbe studiare le condizioni di fattibilità. Sappiamo tutti, infatti, il calvario dei disabili e delle loro famiglie alle prese con le ASL, la burocrazia, con le visite estenuanti e ripetute), quindi l’eliminazione degli insegnanti di sostegno in quanto figure specialistiche. I timori erano più che fondati. Dopo i BES è arrivata puntuale la proposta di Ianes e la sperimentazione del Trentino che prevede l’eliminazione del sostegno, e degli insegnanti di sostegno, nel modo in cui si è configurato fino ad oggi. Una sperimentazione che dovrebbe servire da modello per tutta l’Italia, con tutti i limiti della significatività di un campione che, in fatto di politiche scolastiche ed economiche, ha molto poca somiglianza col resto del Paese.

La partita del sostegno deve essere governata meglio: occorrono risorse, innanzitutto, in termini di organici, di organizzazione scolastica, strutture e strumenti, supporti specifici, preparazione specialistica, ma anche didattica e “culturale” degli attori protagonisti, non solo, ma di tutto l’ambiente istituzionale, sociale, territoriale intorno alle persone disabili e alle loro famiglie. Per realizzare ciò non c’è bisogno dell’eliminazione/”evoluzione” degli insegnanti di sostegno, anzi, occorre sostenere loro e gli insegnanti curricolari ancora di più e meglio. Quanto più e meglio essi svolgeranno i loro compiti tanto più e meglio passerà nella scuola e nella società tutta la “cultura dell’inclusione”.

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“L’evoluzione dell’insegnante di sostegno” (D. Ianes) Erickson Ed.

“Insegnanti di sostegno: eliminazione no, evoluzione sì.” Videointervista a D. Ianes

“Addio insegnante di sostegno?” (Silvana La Porta)

“Eliminare i docenti di sostegno, adesso si sperimenta a Trento” Redazione OrizzonteScuola.it

“I giochi sono fatti” (M. Tiriticco)

“Gli insegnanti di sostegno, Dario Ianes, e la retorica caciara” (R. Iosa)

“Dei Bes e degli H” (M. Tiriticco)

“Dibattito aperto sull’evoluzione dell’insegnante di sostegno” (S. Nocera per Associazione Italiana
Persone Down)

“Il sostegno è un caos calmo e io non cambio mestiere” (M.G. Fiore) su SPECULMMAIUS .WORDPRESS.COM

L’amore per la burocrazia

L’amore per la burocrazia
di Stefano Stefanel

La dirigenza scolastica si trova attualmente al centro di un dibattito sulla sua funzione futura. Una parte vorrebbe mantenere la sua specificità (e quindi anche lo sbarramento in ingresso che riserva i ruoli della dirigenze scolastica solo ad ex insegnanti), un’altra vorrebbe l’equiparazione della dirigenza scolastica alle altre dirigenze. Diciamo che le due parti su una sola concordano: lo stipendio dovrebbe essere quello dei dirigenti di prima fascia. Poiché questo è l’ostacolo unico (far transitare 8.000 di noi ad uno stipendio più alto) possiamo lasciare la questione ai tavoli del dibattito.
I dirigenti scolastici nel frattempo si stanno assuefacendo a routine ritenute dalla categoria sempre e comunque virtuose, anche se sono spesso frutto più di adattamento alla situazione contingente, che di scelte. Si sentono in giro magnificare procedure orribili, frutto di scelte passate che dovrebbero venir subito cambiate e invece vengono propagandate. Il dibattito tra leadership educativa e carico burocratico stenta però ad entrare nell’alveo della realtà, anche perché la propensione attuale del Miur è quella di burocratizzare la professione e di far scambiare la gestione amministrativa della scuola per la mission della dirigenza. Questo è ingigantito dai mille “marchingegni” ministeriali e governativi pensati all’apparenza per semplificare, risparmiare, rendere tutto trasparente e che invece determinano quasi esclusivamente perdite di tempo, produzione di un numero esorbitante di documenti inutili, leggibilità molto bassa e troppo complessa di tutto il sistema scolastico italiano.
In questo mare di incombenze e adempimenti noi dirigenti scolastici ci stiamo mettendo del nostro adeguandoci spesso alla burocrazia più retriva, cartacea e inutile. Ad ogni adempimento formale previsto dal Miur o dal Mef ci vengono offerti, gratis o a pagamento, facsimili prodotti da altri che invece di semplificare complicano, che invece di rendere trasparente la procedura la confondono, che invece di far risparmiare fanno spendere di più.
Quello che ormai però ho dovuto constatare è che la categoria nel suo complesso ama la burocrazia più di quanto voglia ammettere. Il problema non sta nella lunghezza dei documenti, ma nella ridondanza delle ripetizioni, nel formalismo ad esse connesso, nella richiesta di firme su firme anche nell’epoca del web, nella blindatura delle decisioni prese dietro procedimenti lunghi, complicati e che vogliono garantire chi li emana e non l’utente che li subisce.
Tutto questo rende il concetto di leadership educativa molto leggero e l’interesse del dirigente scolastico per la didattica quasi un’ingerenza indebita. Resta da vedere però se quanto previsto dall’art. 25 del d.lgs 165/2001 si presti ad una totale burocratizzazione della professione, visto che ci sono in quell’articolo alcuni punti chiave della professione dirigenziale che sono di carattere totalmente educativo-relazione:
valorizzazione delle risorse umane;
diritto all’apprendimento degli alunni;
responsabilità dei risultati del servizio
I tre concetti sopra indicati possono essere facilmente burocratizzati, ma solo dalla parte dei lavoratori della scuola, non da quella dei suoi utenti. Se infatti ciò che prescrive il d.lgs 165/2001 lo pieghiamo a difesa delle esigenze dei lavoratori della scuola trasformiamo il tutto in prescrizioni atte a conservare le esigenze dei lavoratori e dell’amministrazione, nell’indifferenza totale per il percorso formativo degli studenti, che pretende attenzione e istruzione di qualità.
Diventa perciò fondamentale la lettura che si fa del d.lgs 165/2001 in quanto è necessario chiarire se lo si considera un adempimento cui sottoporre dipendenti e utenti o il luogo della riflessione didattica ed educativa. L’impressione è che ai documenti “ben fatti” si preferiscano i documenti “ben pieni” con complicati rimandi di legge, astrusi giri di parole, complesse procedure cui attivarsi attraverso meccanismi burocratici sempre vessatori.
Se a un ufficio di segreteria si chiarisce che il DPR 445/2000 vieta di chiedere dati di cui si è già in possesso la risposta è sempre la stessa: “E se i dati nel frattempo sono cambiati, chi ci garantisce dagli errori?”. Così si richiedono sia i dati potenzialmente mutabili (residenza, carriera, ecc.), sia i dati per loro natura immutabili (data di nascita, data della laurea, codice fiscale, ecc.) perché l’accumulo di dati diventa un meccanismo che si autoalimenta da solo e produce facsimili da compilare. Avviene a volte che il soggetto che compila un modulo o un facsimile chieda alla scuola i dati da inserire nel modulo perché lui non li ha e la scuola sì. La burocrazia però è salva, perché comunque il soggetto risponde di persona di quello che scrive. In questo i nostri uffici sono maestri e la richiesta di dati giù in possesso diventa sempre più vasta.
Più potente e vistosa è la burocrazia più forte è il potere del burocrate e più è stabile il sistema organizzativo (il celebre mantra “abbiamo sempre fatto così”). Il sistema scolastico avrebbe bisogno di un taglio secco della burocrazia (cartacea e on line) e invece aumentano le procedure che richiedono più lavoro, più inutili documenti, più duplicazioni.
Certamente se 8.000 dirigenti intervenissero su tutto questo non a parole ma nei fatti, se invece di emanare ciascuno circa 500 circolarti all’anno si limitassero a 30 documenti o testi ben scritti, se invece di usare facsimili descrivessero cosa realmente serve alla scuola che dirigono, sicuramente la burocrazia italiana sentirebbe una “scossa”. Inutile invocare semplificazioni, cancellazione di procedure inutili e di uffici inutili se i primi burocrati siamo noi.

La scuola buona o la buona scuola?

La scuola buona o la buona scuola?

di Giuseppe Campagnoli  per ReseArt

Analizziamo  i principali  punti governativi e proviamo a dire qualcosa rapidamente e sinteticamente,con cognizione di causa, per aver passato 40 anni nella scuola da docenti e dirigenti e 20 da studenti.

1) Mai più precari nella scuola e basta supplenze. L’idea non è male. Coniugando il fabbisogno di docenti  reale e consolidato di ogni scuola con le risorse disponibili e in attesa si potrebbe chiudere la partita ed aprire una nuova era (di standard internazionale) per il reclutamento e la gestione del personale della scuola. Ma sono stati fatti bene i conti economici? Chi supererà lo stereotipo del  lavoro sotto casa? E come verrà determinata la consistenza del team stabile scolastico?

2) Si entra solo per Concorso. Bene! Ma sarà possibile dal 2016? E quali saranno le regole? E l’efficienza ed equità delle procedure? Occorrono le classiche “cento misure” per un solo giusto taglio! Bene cambiare il reclutamento dei dirigenti e bene la proposta per i cosiddetti privilegiati e nonsisacome reclutati “ispettori” di farne un segmento della carriera dei presidi! E’ da tempo che l’avevamo proposto.

3) Carriera. Qualità valutazione e merito. Quis custodiet custodes? In un paese di raccomandati e di bluff la domanda è d’obbligo! Occorre cambiare forma mentis e allora anche la valutazione potrà entrare, rigorosa, equa e attendibile. E potrà essere accettata da tutti.

4) Formazione e innovazione. Scuola digitale. I soldi spesi in passato per la formazione sull’informatica e le lingue straniere e per l’innovazione (computers, lavagne interattive,tablets ed altre diavolerie) hanno lasciato solo macerie..Speriamo che la formazione e diventi obbligatoria, ricorrente, gratuita e di qualità per tutti. E speriamo che a gestire la pianificazione per  l’innovazione e la digitalizzazione omogenee e con standards simili in tutta Italia, pensi gente seria, preparata,con trascorsi di sicura pluriennale esperienza e moderna.

5) Scuola di vetro e scuola sbloccata. Trasparenza e qualità da costruire nel tempo. Occorre educare cittadini e operatori della scuola per gestire il cambiamento.In Italia sarà possibile? Abolire la burocrazia inutile? Bene. Ma chi toglierà finalmente la dirigenza dell’amministrazione a coloro che non hanno mai avuto formazione scolastica specifica e sono ancora tutti laureati in giurisprudenza? Tutto il personale dell’amministrazione deve venire dalla carriera scolastica!!! Occorre cambiare radicalmente i profili! Meglio un preside a dirigere un provveditorato (o come si chiama ora) che un giurisprudente burocrate!

6) Sport, musica e storia dell’arte. Lingue, economia e competenze digitali. Si auspicano curricoli progressivi dall’infanzia all’università, solidi per qualità e quantità alla pari delle materie umanistiche e scientifiche. Chi se ne è occupato per una vita da docente o esperto saprebbe come fare presto e bene. Un consiglio per le arti: Artemdocere

7) Scuola e lavoro, scuola e territorio. Fare rete e attrarre simbiosi tra imprese serie, enti locali e territoriali,associazioni  e mondo della scuola. Impostare veri percorsi-tandem scuola e lavoro con sistemi di crediti per una formazione integrata continua ed efficace, utile non alla scuola o all’impresa ma al cittadino in fase formativa. Chi si forma si educa e chi si educa si forma. Chi fa stages in azienda non è là per attaccare francobolli sulle buste o portare il caffè agli impiegati!

8) Scuola statale e scuola paritaria: non dimentichiamoci che la Costituzione su questo punto è assolutamente chiara e dimentichiamoci che siamo il paese della Città del Vaticano. Prendiamo spunto dall’Europa.

9) A latere. L’edilizia scolastica. Consigliamo la lettura dei nostri articoli su Education2.0, sull’ultimo numero della “Rivista dell’Istruzione” Maggioli Editore e del libello “Questione di Stile” gratis su Itunes e Ibook. Una sola cosa da dire,per ora.Un milione di euro è la decima parte di quello che investe, per esempio, la Gran Bretagna nei suoi piani triennali sull’architettura scolastica, in una sola annualità.

Per finire: non ripetiamo l’avvilente consultazione di berlingueriana e morattiana memoria! Facciamo i cambiamenti per induzione! I plebisciti e l’assemblearismo allungano solo i tempi e creano ostacoli e demagogie. Impariamo dai saggi di Atene!

P.S. Chi sono  infine  Simona Montesarchio, Damien Lanfrey, Donatella Solda, Antonio Aloisi e Matteo Benedettino?

Ci piacerebbe saperlo e comunque li ringraziamo anche noi. Qualche spunto buono c’è nel documento.

La Buona Scuola

La Buona Scuola

di Tommaso Montefusco

La Buona Scuola di Matteo Renzi  indica certamente, come è ovvio, più che lo stato di salute della scuola italiana di oggi, un auspicio, una direzione di marcia, una meta, anche con una buona dose di ottimismo, immaginando  le resistenze aperte che incontrerà in molti. Ma anche con la speranza e la fiducia di tanti che, come me, sperano che si smuovano le acque stagnanti della nostra scuola, che tutto permettono e tutto celano.

Dopo tante modifiche introdotte con varie riforme agli ordinamenti scolastici, si affronta finalmente dopo circa vent’anni lo stato giuridico dei docenti: formazione iniziale ed in itinere, concorsi, abilitazione,  carriera, tempi di lavoro, figure intermedie, valutazione, etc. Oltre che alcune questioni tanto annose quanto importanti: stabilizzazione dei precari, rapporto scuola-lavoro, dispersione scolastica.
Insomma “La buona scuola” è un documento ampio, scritto da chi sa certamente di scuola, con un ponderoso indice di questioni che si trascinano da decenni. Finalmente.
E’ ovvio che tra le innumerevoli questioni sollevate e le proposte di soluzione offerte alla discussione ci siano, a mio sommesso avvivo beninteso, proposte che reputo senz’altro giuste, altre discutibili, altre ancora sbagliate.
Ma, in ogni caso, meglio dell’insulso chiacchiericcio di molti, delle continue sostanziali resistenze al cambiamento dei sindacati, della difesa ad oltranza dello status quo che si cela sotto molte proposte di cambiamento avveniristiche quanto nebulose. Molto meglio, insomma, della morta gora attuale.

La Buona Scuola mi sembra un documento globalmente buono e condivisibile per molti aspetti, direi i più, anche se scritto a più mani, come lasciano trasparire vision e logiche scolastiche non sempre collimanti.

Entrando nel merito.

  1. Positiva mi sembra la stabilizzazione dei precari di prima fascia. Qualcuno ha arricciato il naso sul fatto che vengano assunti senza concorso, il quale, dicono, è pur sempre una selezione che premia in larga misura i migliori. Potrebbe essere vero, ma si deve pensare che i docenti di prima fascia sono già abilitati e molti di loro insegnano da molti anni. Altro che tirocinio di 6 mesi guidato dal “mentor”. Più della metà di essi dovrebbe essere destinata, poi, alla scuola primaria che, in tal modo, potrebbe utilizzarli per il tempo pieno! L’assunzione di 150.000 precari, risorse finanziare permettendo ( un’incognita non da poco), significherebbe, si dice, consentire la creazione di un organico funzionale di scuola o di rete.  Il che pare senza dubbio positivo a condizione, però, che ogni scuola o rete di scuola definiscano la “funzionalità” di detto organico. Sarebbe umiliante e demansionante se fosse utilizzato per tappare i buchi che si aprono quotidianamente negli orari di servizio. L’organico funzionale, secondo me, dovrebbe essere legato e, quindi concesso, dietro elaborazione e presentazione di precisi progetti di innovazione didattico-metodologica, di ampliamento dell’offerta formativa, mettendo anche in conto, eventualmente forme di codocenza ove possibile ed auspicabile.

  2. La valutazione dei docenti ed il merito.
    Non è plausibile una carriera che si sviluppi solo per anzianità. Non c’è dinamismo, non ci sono stimoli professionali, non c’è differenziazione alcuna che tenga conto di chi lavori e di come lavori, di quanto si lavora in classe innanzi tutto,  nella  propria scuola, nel contesto del territorio.
    Nell’immaginario sociale è ferma l’immagine del docente che transita nelle aule “a sua insaputa”. Ciò provoca scarso riconoscimento del lavoro dei docenti, diffusione di favole metropolitane come i 4 mesi di vacanza (includendo le interruzioni didattiche per Natale, Pasqua e altre feste comandate). Ritengo positivo, perciò, che i docenti siano valutati per quello che fanno in classe e per come lo fanno (crediti didattici) e per la loro formazione professionale in continuum. Basti pensare che la professionalità non può essere un dato acquisito una volta per tutte; ma essa ha un’evoluzione che segue il progresso sociale, tecnologico, lo sviluppo e l’implementazione dei saperi vecchi e nuovi. Ciò che si chiedeva ad un docente 30 anni fa, oggi risulta assolutamente insufficiente. Ben venga quindi la valutazione che riconosca il merito, certificato da crediti didattici, formativi, professionali.

  3. Tuttavia occorre, secondo me, chiarire alcune questioni:
    Definizione, chiarificazione e quantificazione dei crediti.
    Riconoscimento che anche l’anzianità ha bisogno di un qualche riconoscimento.
    Il merito non può, secondo me, garantire meccanicamente solo a 2/3 dei docenti di ciascuna scuola la progressione degli scatti di “competenza”; ammettiamo che io mi trovi in una scuola di docenti bravi e preparati; per avere il riconoscimento degli scatti, che non mi è possibile ottenere nella mia scuola, dovrei trasferirmi in un’altra meno accreditata per “disseminare” il mio lavoro. Mi pare una vera assurdità.
    Occorre trovare un sistema diverso di distribuzione degli scatti per merito e, comunque, accompagnato al riconoscimento anche dell’anzianità. Non si può terminare la propria carriera dopo 40 anni di servizio col medesimo stipendio iniziale. Solo il tasso inflattivo basterebbe a decurtarlo di non so quanto.
    Da considerare bene, poi, il problema di chi sarà chiamato a valutare i crediti e di come essi saranno valutati; oltre al docente mentor, nulla si dice. A mio parere deve esserci anche il d.s. a condizione che anch’egli sia sottoposto a valutazione e valutato attraverso vari parametri, tra cui quello dei risultati. Infatti, a parte la buona fede, l’impegno e la serietà della maggior parte dei dd.ss., occorre che tutti i dd.ss. lavorino per migliorare e valorizzare la risorse umane  di cui dispongono a vantaggio della scuola, dei risultati e, quindi, di conseguenza anche di se stessi. Non è corretto che i dd.ss. ricevano già oggi un’indennità di risultato senza alcuna valutazione dei risultati stessi.
    Taluni sostengono che questo metterebbe i docenti in “concorrenza” tra loro, piuttosto che stimolarli al lavoro comune e organizzato nella propria comunità educante. Mi chiedo, non c’è una sorta di concorrenza anche ora per l’elezione da parte del Collegio delle Funzioni strumentali, dei Tutor vari per i PON, stages, ecc.? E mi chiedo ancora, accrescere la propria professionalità, impegnarsi nel lavoro didattico innovativo, vederselo riconoscere e al tempo stesso metterlo al servizio della propria comunità è così assurdo? E se poi si rivedono, come auspico, i meccanismi di “distribuzione” degli scatti di competenza, uscendo dalla “gabbia” di ogni singola scuola e pensando a possibilità di accesso più “aperte”, fermo restando il budget complessivo messo a disposizione per tali scatti, avrebbe senso ancora parlare di concorrenza e di inficiamento del lavoro collaborativo nella propria comunità educante?

4.    Trovo importante la creazione di figure intermedie. Da definire meglio, tuttavia, l’accesso a tali figure: tipologia di crediti, curriculum del docente candidato, trasferibilità o meno di tale incarico e  dell’esperienza acquisita nella propria scuola, tempo dell’incarico.
5.    Sulla valutazione di sistema, concordo sostanzialmente con l’impianto del d.p.r. 80/1013 e sul VALES  come paradigma. Credo, tuttavia, che occorra limare ancora di più l’eccesso di autoreferenzialità che si intuisce.

Insomma, “La Buona Scuola” è un macigno lanciato nello stagno. Spetta ora lasciar decantare gli schiamazzi,  osservare come il dibattito si sviluppi, raccogliere i contributi migliori anche se polemici purché costruttivi, correggere ciò che sarà indicato dai più e passare prima che si può a legiferare. La scuola italiana non può attendere oltre.

Chi difende la professionalità dei docenti?

Chi difende la professionalità dei docenti?

di Enrico Maranzana

 

L’assenza di un rigoroso linguaggio comune è all’origine sia della crisi della scuola, sia del mancato riconoscimento del lavoro e delle responsabilità dei docenti.

 

La sollecitazione rivolta ai partecipanti alla consultazione popolare sul documento programmatico LA BUONA SCUOLA fornisce un eloquente esempio.

Nella stanza “Servizio civile per la buona scuola” si stimola il dibattito proponendo di “Aprire la scuola .. per sostenere la sua missione educativa”.

Logica vorrebbe che l’accezione “educazione” derivasse dalla legge, ma così non è.  Il termine/concetto, che costituisce la finalità del sistema scolastico, è utilizzato come si fa in famiglia, ascientificamente: il campo del problema risulta indeterminato, confuso.

Si cade nel mondo dell’assurdo leggendo la proposta in conformità al senso attribuito a “educazione” dal legislatore: il contenuto del termine è “sviluppo di capacità”, da promuovere elaborando “i criteri generali della programmazione educativa” e “curando la programmazione dell’azione educativa”.

 

L’educazione è l’essenza, il fondamento, l’origine della professionalità dei docenti.

 

Traslando in campo ospedaliero la proposta “Aprire la scuola .. per sostenere la sua missione educativa” si può constatare la mortificazione inflitta alla professionalità dei docenti: chi proporrebbe di “mobilitare persone e competenze esterne al servizio” per migliorare l’attività della sala operatoria?

 

Una situazione sconcertante che consegue all’inadeguata concezione del servizio scolastico che traspare dal documento governativo: disarticolato, finalizzato alla trasmissione delle conoscenze delle singole discipline, contrapposta alla visione sistemica veicolata dalla legge [CFR in rete “Il divide et impera può far crescere il paese?”].

Una divaricazione che ostacola la valorizzazione dell’attività dei docenti che, operando su campo di lavoro non definito e con un mandato con oggetto imprecisato, vivono nell’indeterminatezza e nell’ansietà.

Una buona scuola… senza dirigenza

UNA BUONA SCUOLA…SENZA DIRIGENZA!

di Francesco G. Nuzzaci

Ripetersi  non è, propriamente, un’ operazione elegante, ancor più in un breve arco temporale e contrassegnato da interventi ripetuti, su questa rivista e altrove. Dobbiamo, però, in parte, farlo. Perché avevamo lasciato il nostro discorso sospeso. Sospeso in attesa della preannunciata palingenetica e, perciò, stupefacente riforma della scuola – anzi, di una buona scuola – da parte del nostro magniloquente Presidente del Consiglio.
Quindi, dobbiamo ripeterci. Ma proveremo a essere lievi.
Si ricorderà che a fine aprile erano state emanate le Linee guida di Renzi-Madia sul radicale – rivoluzionario? – riassetto della dirigenza, all’interno della riforma della Pubblica Amministrazione.
Sull’abbrivo dei ponderosi studi dell’Università Bocconi (I manager pubblici che vogliamo), delle analisi comparative del consigliere economico di Palazzo Chigi, prof. Roberto Perotti (in lavoce.info.it), non ultimo delle relazioni, rigorosamente secretate, del commissario per la spending review Carlo Cottarelli, è stato prefigurato il ruolo unico per la dirigenza pubblica, con l’ abolizione delle due fasce, per l’interscambiabilità e rotazione degli incarichi in ragione delle competenze culturali e professionali di ogni dirigente, sulla scorta di una rigorosa valutazione degli obiettivi assegnati e delle capacità organizzative-gestionali dimostrate.
Ne è seguita l’istanza di omogeneizzazione-perequazione delle retribuzioni, in esito alla riparametrazione e razionalizzazione delle voci componenti il trattamento economico complessivo, rapportate ai carichi quali-quantitativi di lavoro e correlate responsabilità: per espressa dichiarazione in Parlamento della signora Madia, conta quello che uno fa e non dove lo fa.
Si è dunque passati dalla concezione di una dirigenza career based a quella di una dirigenza position based, denominata  manageriale o dirigenza tout court, intestataria di autonomi poteri di gestione di risorse umane-finanziarie-strumentali e loro combinazione ottimale per la realizzazione dello scopo-programma-progetto predefinito dal committente politico o ex lege, ed esclusiva responsabilità di risultato.
Questa ridisegnata, e ristretta, dirigenza è così distinta sia dai professional  che, a fortiori, dai funzionari: i primi soggetti operanti all’interno della struttura organizzativa nell’esercizio di qualificate, circoscritte e infungibili competenze di natura squisitamente tecnico-professionale, ma privi di poteri gestori in senso tecnico-giuridico; i secondi soggetti , parimenti interni, titolari di competenze intermedie specializzate e, di regola, come  primi, privi di rappresentanza esterna.
Dopo tre mesi dal conio di accattivanti slogan e dalla proiezione di variopinte slide, seguite prima da un testo apocrifo, poi da uno semi-ufficiale, poi da uno definito ufficiale, finalmente è pervenuta alla Presidenza del Senato – nella quarta versione in poco più di trenta giorni! – la stesura definitiva del disegno di legge delega n. 1577, a firma del Presidente del Consiglio, di concerto con il Ministro della Pubblica Amministrazione e con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, corredato di relazione illustrativa, relazione tecnica, analisi tecnico-normativa e analisi di impatto della regolamentazione.
Il predetto disegno di legge, di Riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, dedica l’articolo 10 (già art. 3 nella prima bozza apocrifa) alla riforma della dirigenza pubblica. E, con somma incoerenza, priva della minima connessione logica, viene statuito che quella esercitata nelle istituzioni scolastiche non è una dirigenza manageriale, siccome preposta alla conduzione di strutture organizzative dotate di intrinseca complessità, tramite la gestione di risorse umane, strumentali e finanziarie ( e correlate, esclusive, responsabilità  giuridicamente esigibili).
Non lo è, nonostante l’inoppugnabilità del dato normativo( artt. 5, 17, 25 e 29 d. lgs. 165/01 e s.m.i.; d.p.r. 275/99; d. i. 44/01), le puntuali e argomentate pronunce sia della Magistratura contabile (Corte dei conti per la regione Sicilia del 4 marzo 2014; Corte dei conti nazionale-SS.UU. di controllo, adunanze del 7 aprile 2006 e del 14 luglio 2010) che del Consiglio di Stato (Comm. Spec. P.I., n. 529 del 16 ottobre 2003), la conforme dottrina (ex multis cfr  L. Paolucci, Il diritto per il dirigente scolastico, Spaggiari, 2012, p. 167 e p. 180), secondo la quale Il dirigente scolastico, seppure con caratteri di specificità…indubitabilmente partecipa comunque della funzione dirigenziale pubblica ed in particolare statale, come attesta la collocazione sistematica degli artt. 25 e 29 che il d. lgs. n. 59 del 1998 ha inserito dapprima nel d. lgs. n. 29 del 1993 e poi nel d. lgs. n. 65 del 2001, interpolando il Capo della “Dirigenza” (Capo II). Tale collocazione sistematica impone, dal punto di vista interpretativo, di ritenere applicabili alla dirigenza scolastica, ove non espressamente e diversamente disposto dalla norma speciale, le disposizioni generali sulla dirigenza ivi previste…L’articolo 25 costituisce dunque settoriale applicazione delle prerogative attribuite alla dirigenza.
E non lo è nonostante il mero riscontro fattuale percepibile – beninteso, se correttamente informato – dall’uomo comune, al quale – peraltro-  é impensabile, di questi tempi, chiedere indulgenza per chi uno stipendio comunque ce l’ha: giusto per rendersi avvertiti delle distorsioni della pseudo democrazia diretta, che salta a pié pari i corpi intermedi, negandosi al confronto con i soggetti istituzionali e professionali. Insomma, mandateci un twitter e poi decidiamo noi!
Poiché abbiamo promesso di essere lievi, segnaliamo solo che nella prima versione delle stringatissime Linee guida è semplicemente scritto, senza alcuna aggettivazione, Ruolo unico della dirigenza. Ma nella seconda versione, un po’ più articolata e susseguente all’avvenuta consultazione on line, si aggiunge che E’ esclusa dal ruolo unico la dirigenza scolastica.
Passando alle bozze normative, nella prima apocrifa ( 20 giugno 2014) è dunque Esclusa dai ruoli unici la dirigenza scolastica.
Ma nel testo semi-ufficiale del 10 luglio 2014 è specificato che nei predetti ruoli unici confluiscono i dirigenti di carriere speciali (come quella diplomatica) e sono confermate le sezioni speciali del corso-concorso per i dirigenti tecnici ( che però, stricto iure, dirigenti non sono, quanto, piuttosto, professional);  mentre non è  più menzionata la dirigenza scolastica, che quindi deve intendersi compresa nel ruolo unico : ubi lex voluit dixit, quod noluit tacuit, secondo gli elementari canoni ermeneutici che si insegnano al primo anno di Giurisprudenza.
Nel terzo testo, quello ufficiale pubblicato il 24 luglio 2014, si legge però nuovamente Con esclusione dai suddetti ruoli unici della dirigenza scolastica, formula infine replicata dal testo rassegnato –  il giorno prima, 23 luglio, e, in alcuni punti ancora modificato! – alla Presidenza del Senato. Lo sintetizziamo di seguito per quel che qui ne occupa:
-Ruoli unici della dirigenza pubblica, con eliminazione delle due fasce, rispettivamente per Stato, regioni, enti locali, basati sul principio del merito e della formazione continua, omogeneamente reclutati e formati dalla SNA, caratterizzati dalla piena mobilità tra i ruoli e conseguenziale omogeneizzazione-perequazione giuridica ed economica, previa revisione e razionalizzazione delle voci retributive; ma – si ponga attenzione all’inciso – nei limiti delle risorse complessivamente destinate dalle vigenti disposizioni legislative e contrattuali, poi evidenziato nella relazione tecnica sull’articolo 10, laddove si legge che La disposizione, di natura ordinamentale, non comporta nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica;
-Sezioni per le professionalità speciali nel ruolo unico della dirigenza statale, con possibile confluenza di dirigenti delle carriere speciali;
-Esclusione dai suddetti ruoli unici della dirigenza scolastica.
Ora, qualche domanda s’impone.
In primo luogo, chi ha scritto questo testo ballerino, tecnicamente approssimativo e contraddittorio, poi divenuto il disegno di legge delega n. 1577?: l’Ufficio legislativo della Presidenza del Consiglio, diretto dall’ex  comandante dei vigili urbani di Firenze?,  mani anonime dei burocrati del MEF, preoccupati dell’esborso finanziario per remunerare ottomila anime come dirigenti “veri”?, la lobby delle dirigenze forti per preservare le consolidate rendite di posizione?
Seconda domanda: dov’erano i cinque sindacati rappresentativi della dirigenza scolastica mentre, nel loro assordante silenzio, si consumava questo inverecondo scempio?
Terza domanda: oltre alla trentareenne leggiadra ministra per la Pubblica Amministrazione, Matteo Renzi  questo benedetto testo lo ha letto?
Dovremmo dire, decisamente, di no. Altrimenti dovremmo concludere che il livello di schizofrenia imperante in questo nostro singolare Paese ha trasbordato dal suo apice. Sennò come potrebbero spiegarsi le testuali affermazioni contenute nel suo  programma La buona scuola, lanciato in pompa magna, che di qui a quattro mesi dovrebbe tradursi in un decreto legge, a tenore delle quali anche i presidi (sic!) sono prima di tutto dirigenti… pienamente responsabili della gestione generale e della realizzazione del progetto di miglioramento definito sulla base della valutazione?  E nei cui riguardi, mantenendo e rinforzando le indiscutibili competenze gestionali necessarie per promuovere l’efficienza di una organizzazione complessa, andranno parimenti rinforzate le competenze professionali e ridefiniti i poteri connessi  alla promozione della didattica e della qualificazione dell’offerta formativa, tanto ciò vero che anch’essi andranno reclutati tramite corso-concorso affidato alla Scuola Nazionale dell’Amministrazione, la stessa istituzione che seleziona e forma tutti i dirigenti dello Stato?
Sembra fuori discussione che i soggetti oggi preposti alla guida di istituzioni scolastiche funzionalmente autonome, costituzionalmente protette, non possono essere dei semplici funzionari intermedi, come già non lo erano i vecchi presidi e direttori didattici nel previgente assetto del sistema scolastico.
Ma non possono neanche qualificarsi professional, la cui funzione – supra – inerisce   all’esplicazione di qualificate, e circoscritte, prestazioni tecniche, in via esclusiva o prevalente, come nel caso dei  circa centoventimila su centotrentamila odierni dirigenti medici del SSN; che difatti, insieme ai dirigenti tecnici del medesimo Servizio, non saranno più inquadrati nel ruolo unico regionale, nel mentre e all’opposto, con somma incoerenza, continueranno a far parte del ruolo unico della dirigenza statale i dirigenti tecnici del MIUR, ex ispettori scolastici, in ordine ai quali non si riesce proprio a rinvenire  nell’odinamento una disposizione-una che a ciò li legittimi siccome attributari di competenze organizzativo-gestionali.
In conclusione, la dirigenza scolastica, non essendo compresa nel nuovo ruolo unico, neanche in un’ apposita sezione speciale del medesimo, è, semplicemente, una non dirigenza, nei cui confronti non valgono l’abolizione delle distinzioni tra prima e seconda fascia; la conseguente mobilità sia in verticale (c.d. carriera) che in orizzontale, cioè nei diversi settori delle amministrazioni statali e, latamente, pubbliche; la consustanziale omogeneizzazione-perequazione delle retribuzioni nell’ambito del ruolo unico, in esito alla riparametrazione di tutte le voci retributive.
Per converso, la non dirigenza scolastica non sarà incisa da un’ordinaria valutazione dei risultati e delle prestazioni organizzative: né in positivo, a fini premiali, né in negativo, comportante extrema ratio il licenziamento. Sembrerebbe un trattamento di riguardo, ma in realtà – ed ora sancito per legge – è l’ennesima replica di una collaudata, e mai contrastata, strategia per non attribuire la ( una non risibile e offensiva) retribuzione di risultato. In sostanza, a significare che, quella scolastica, è una dirigenza – se ancora la si vuole così denominare – farlocca, destinata a restare  imbutata nella riserva indiana per contemplarvi la propria sublime specificità; vieppiù contrassegnata da nuovi carichi di lavoro, e correlate responsabilità – si veda il capitolo 3 della Buona Scuola –,incomparabili rispetto a tutta la dirigenza pubblica di – ancora – pari seconda fascia. E retribuita esattamente per la metà: in media 55 mila euro lordi annui per chi è specifico, a fronte di 110 mila, sempre lordi, per chi è , e resterà, generico!
Tutto normale, può ben affermarsi. Perché, secondo quanto perspicuamente rimarcato dal presidente provinciale dell’ANDIS di Viterbo, la più antica delle associazioni professionali dei dirigenti scolastici, mentre parte la campagna renziana, col seguito delle immancabili consultazioni libere on line, si espellono i dirigenti scolastici dalla dirigenza statale. Perché?, si domanda, dal momento che è del tutto evidente che solo un incompetente o chi vuole male alla scuola può pensare di collocare alla gestione delle istituzioni scolastiche attuali una “figurina” di livello non dirigenziale.
E’ una domanda che però dovrebbe rivolgere anzitutto alla propria Associazione professionale, di cui è membro autorevole. Che, nel mentre ha completamente ignorato il d.d.l. 1577, ha prodotto un compatto comunicato ufficiale che canta le lodi della Buona Scuola, dedicando alla dirigenza scolastica quattro righe e mezza per puntualizzare che il nuovo sistema di reclutamento affidato alla SNA non può restringersi al solo ambito amministrativo, ma deve tenere soprattutto conto della specificità della dirigenza scolastica, che si qualifica come leadership per l’apprendimento.
E, sempre a proposito della Buona Scuola, è proprio necessario annotare il completo disinteresse dei sindacati di comparto, parimenti rappresentativi della dirigenza scolastica, con riguardo a tutti quei passaggi, testé sunteggiati, che la concernono, per contro impegnati a stigmatizzare l’esproprio delle loro prerogative in materia di carriera dei docenti (rectius: progressioni economiche non più per anzianità, bensì per merito) e la marginalizzazione del personale ATA?
C’è, per il vero, un’eccezione di chi, sempre commentando La buona scuola, scrive essere un peccato che, appena un mese fa, lo stesso Governo abbia negato ai dirigenti scolastici l’inclusione nel ruolo unico con l’argomento che la loro dirigenza non sarebbe gestionale. Semplice distrazione? Ci pare un po’ poco per il più rappresentativo e più autorevole sindacato della dirigenza scolastica.
Dobbiamo concludere. E, anche qui, dobbiamo ripeterci: la dirigenza scolastica, a quattordici anni dalla sua nascita, fa ancora affidamento sulle improbabili benevolenze altrui. Ma se non si determina a dotarsi di proprie gambe per poter camminare e di una sua voce per potersi “raccontare”, il suo deteriore destino  sarà irreversibilmente segnato.
Ora, o mai più.
Perché, alla fin fine, essa sarà quel che avrà meritato.

“La buona scuola” è una grande occasione

“La buona scuola” è una grande occasione

di Stefano Stefanel

“La buona scuola” è una grande occasione per l’Italia e per la scuola italiana. L’accoglienza che la proposta governativa ha ricevuto da alcuni dei migliori commentatori di settore (Giancarlo Cerini, Antonio Valentino, Raffaele Iosa, Franco De Anna) induce ad un certo ottimismo, anche perché gli “scalmanati” innamorati dei propri preconcetti stanno attaccando dai vari siti con una virulenza che spero possa limitare l’impatto della loro protesta. Peccato perché tra i più accaldati contestatori pronti a citare la Costituzione a loro uso e consumo ci sono molte persone valide e competenti, che scambiano la difesa del penoso status quo della scuola italiana per il progressismo della loro giovinezza.
Credo sia importante da qui a novembre entrare nel dibattito con proposte, interventi, osservazioni in modo da far uscire un provvedimento che incida veramente sull’esangue sistema scolastico italiano. Anche perché ci sono in “La buona scuola” elementi che riprendono alcuni punti cruciali delle Riforme Moratti e Gelmini, senza demonizzare nessuno, ma cercando di comprendere anche le buone ragioni di quelle riforme: opzionalità e mantenimento della riforma del secondo ciclo sono i due elementi significativi su cui è bene ragionare. E l’inclusione nel progetto di elementi culturali anche “non di sinistra” io credo sia una cosa positiva.
L’assunzione di 148.000 precari è un azzardo anche perché tra questi si annidano di certo molti problemi che cadranno sulle scuole, molti di loro sono in graduatorie obsolete e inutili (stenografia, come notato da Andrea Ichino sul Corriere della sera del 14 settembre 2014), molti sono rigidi e incapaci di agire funzionalmente. Io credo che un qualche filtro prima di assumerli sarebbe necessario, perché lavorare dentro un organico funzionale significa essere flessibili, capaci di ascoltare le esigenze della scuola, trasversali e non disciplinari. Però l’operazione è interessante e il tentativo di eliminare le graduatorie permanenti degno solo di appoggio. Ed ancora più interessante l’idea che si assumano docenti non per allungare ancora gli insegnamenti obbligatori, ma per costruire organici funzionali per ampliare l’offerta formativa in capo all’autonomia scolastica.
L’idea dell’organico funzionale d’istituto deve però essere integrata  con una rivisitazione del tempo scuola (io sono un fautore del monte ore annuale), delle possibilità opzionali da fornire agli studenti (quindi meno tempo obbligatorio e più scelte), delle competenze reali dei nuovi assunti (che sono legati a classi di concorso fuori da ogni realtà). Inoltre il sistema di valutazione dei docenti poggia su tre gambe molto solide (lavoro in classe, formazione, lavoro di sistema), ma su strumenti valutativi fatiscenti.
Veniamo dunque sul punto che maggiormente produce il vociare tuonante della forte componente di sinistra della scuola: il ruolo dei dirigenti scolastici. Il dato che deve essere scontato è l’obbligatorietà di una loro valutazione secca e unilaterale da parte del ministero. Ritengo che basterebbe fissare cinque punti quantificabili in forma neutra e un’analisi reputazionale da tarare in  maniera da coprire gli spazi per arbitri e vendette per avere una valutazione attendibile e a costi bassi. Faccio un breve esempio: se cinque categorie si esprimono ogni anno in forma anonima sul lavoro di un dirigente scolastico (docenti, ata, studenti, famiglie, enti locali) la valutazione è negativa solo quanto tutte e cinque le categorie si esprimono in forma negativa. Negli altri casi si restituisce al dirigente la valutazione in modo che verifichi il perché di certe negatività. Io ritengo che se cinque soggetti su cinque danno valutazioni negative sul lavoro di uno di noi sia giusto non ricevere l’indennità di risultato e quindi non poter valutare il personale.
Qualsiasi meccanismo valutativo è complicato e costoso, Una valutazione data dal dirigente scolastico invece è rischiosa ma non costa nulla. Ovviamente si obietta che così i “servi del padrone” avrebbero voto alto e l’indipendenza dei docenti andrebbe in soffitta. L’idea che il dirigente valuti il personale è da Charter School, ma l’idea che un Nucleo interno valuti i colleghi mi pare ancora più rischiosa, perché dopo trent’anni in una scuola uno ha idee sui colleghi che nessun questionario può scalfire. Anche in questo caso ritengo sia possibile una valutazione motivata del dirigente scolastico collegata ad una valutazione reputazionale costruita come per il dirigente scolastico. E’ un discorso complesso, ma se si connette la valutazione dei docenti a piani economici faraonici, ad autovalutazioni, a sistemi che garantisccono il lavoratore ma non l’utenza allora non se ne farà niente.
Esiste poi nel documento “La buona scuola” un elemento trasversale che può spostare la riforma in un senso o nell’altro: se i richiami ad alternanza scuola-lavoro, laboratorialità, musica, arte, economia, sport, coding, ecc. creeranno nuovi faraonici, lunghi, stancanti quadri orari obbligatori renderemo ancora più difficile l’adeguamento della nostra scuola alle esigenze europee. Se invece tutte le suggestioni culturali e contenutistiche del documento saranno indicazioni per una flessibilità didattica e di offerta formativa lasciata alle scuole avremo fatto il grande salto di qualità. Una scuola con tante offerte, tante possibilità e pochi obblighi è una scuola che si apre al futuro. Un tempo piene nazionale e obbligatorio sarebbe invece la trasformazione di una proposta fortemente innovativa in una nuova “scuola etica e oppressiva”.
C’è però nel documento del governo qualcosa che manca: l’abolizione del valore legare del titolo di studio, una follia solo italiana che parifica le buone scuole con  i diplomifici, facendo scambiare, ai vocianti difensori del passato, la costituzione per una sorta di difesa di un sistema scolastico che ci sta portando alla bancarotta e alla disoccupazione di alcune generazioni di ragazzi.

Buona scuola, cattiva maestra

Buona scuola, cattiva maestra

di Giovanni Fioravanti

 

Capisco che bisogna governare, capisco che la scuola è un malato grave, che non c’è tempo per spremere le meningi ed è molto più facile copiare dal nostro vicino di banco, in questo caso gli USA.

Le sorprese scolastiche di Renzi altro non sono che la fotocopia, adattata a casa nostra, del programma, non poco sofferto, dei democratici d’oltre oceano con la benedizione di Obama.

Non quello del 2002, quando la riforma della scuola guadagnò una indiscutibile influenza con l’approvazione della legge federale, No Child Left Behind Act (NCLB). Ma i risultati, poi, non furono quelli attesi, anzi, assai deludenti. I test scolastici nazionali dimostrarono impietosamente che molti studenti, specialmente quelli delle minoranze etniche nei centri urbani, non raggiungevano le competenze attese in lingua e aritmetica, mentre un nuovo tipo di scuola, la charter school, stava cominciando a competere con la scuola pubblica tradizionale.

Il programma di Renzi con lo zuccherino della prospettiva di circa 200.000 assunzioni, di soli docenti, entro il 2019, sembra studiato apposta per evitare il contraccolpo dei sindacati all’inequivocabile introduzione del “merit pay”, salario di merito.

Forse è bene ricordare, a chi non ha letto Teachers Versus Public, pubblicato a Washington dal Brookings Institution Press nel 2014, cosa potrebbe succedere anche nel nostro paese.

Nel settembre del 2012 gli insegnanti di Chicago hanno costretto a chiudere le scuole della città per sette giorni e più, le loro rivendicazioni andavano ben al di là del solito. Oltre all’aumento di stipendio la CTU, Chicago Teachers Union, protestava contro l’introduzione della giornata scolastica più lunga, la valutazione degli insegnanti basata sui punteggi degli studenti ai test, contro la retribuzione di merito, e la creazione delle charter school (i dirigenti e gli insegnanti del CTU avevano letto Shock Doctrine di Naomi Klein, una denuncia della privatizzazione del pubblico in tutto il mondo).

Quello del reclutamento e della formazione degli insegnanti è comunque la prima delle emergenze della scuola italiana, che nulla toglie a quanti in tutti questi anni hanno continuato a formarsi a costo di sacrifici personali e, per i quali, si dovrà prevedere pure una forma di riconoscimento.

Chi lavora nella scuola sa benissimo, senza infingimenti, che gli insegnanti variano ampiamente nella loro efficacia nel determinare i risultati degli studenti, per cui occorre considerare con attenzione il ruolo critico che giocano reclutamento, assunzione in ruolo e retribuzione per il successo formativo degli studenti. È per questo che oggi in tutto il mondo le politiche dell’occupazione degli insegnanti sono sempre più sotto controllo, in particolare la loro formazione.

Del resto è difficile negare che il mantenimento della retribuzione basata esclusivamente sull’anzianità finisce per proteggere il lavoro degli insegnanti inefficaci e pone l’interesse della categoria al di sopra di quello degli studenti, oltre ad andare a scapito dei tanti docenti validi e fortemente motivati.

Bene, dunque, “la buona scuola” muove da “buoni insegnanti”, incentivati professionalmente dal merito. Non è mai troppo tardi. Nessuno di noi si farebbe curare da un medico inesperto e professionalmente non aggiornato. A scuola invece sì. Tanto la scuola non ammazza.

È proprio qui che si insinua il tarlo di una domanda elementare, viene cioè da chiedersi che differenza ci sia tra le proclamate riforme della scuola dei governi precedenti e questa “La buona scuola” del governo Renzi. Questo titolo tra il target e lo slogan, dovrebbe essere rassicurante, ispirare fiducia e ottimismo.

Invece, confesso, che appeno letto sono stato percorso da un brivido nella schiena. Un po’ perché foneticamente troppo parente con “Il buono scuola”, in questo caso una sorta di tagliando di revisione della macchina “sistema scolastico”, ma soprattutto, ciò che inquieta è la lunga ombra di decenni di “cattiva scuola” che il faro della buona scuola produce intorno a sé. È come quello che ti dice «quel bambino è buono, l’altro invece è cattivo» poi, se mai, nella realtà si rivela tutto il contrario. È come un buon piatto, non è detto che tale sia per tutti. D’altra parte per i nostri vecchi era buona la scuola dei loro tempi.

Il fatto è che dentro agli aggettivi qualificativi, buono, cattivo, ci sta tutto e il contrario di tutto.

E allora riflettendo sullo stato della nostra scuola, la “buona scuola” dà l’impressione di essere ferma all’infanzia dei pensieri, se si riflette sulla ben più complessa portata del discorso formativo oggi.

Il profilo della buona scuola tracciato dal governo pare i disegni della settimana enigmistica, quelli che unisci con linee i diversi punti e ti viene fuori una figura. Sono dodici i punti segnati dal governo da unire per avere una buona scuola.

Però tra questi punti non ci sono né i bambini né gli studenti. È possibile che ci sia una buona scuola che non muova prima di tutto da loro? No, loro non sono considerati, si prendano il piatto che gli adulti gli confezionano. Eppure si citano come padri della patria educativa Maria Montessori, Don Bosco, Don Milani, perfino Loris Malaguzzi. Non mi pare che la loro preoccupazione prima fosse la scuola, ma i ragazzi! Anzi con la scuola ce l’avevano su tanto!

Allora viene il sospetto che si voglia impastare un pane nuovo con la farina vecchia. Ed è così a leggere attentamente, dall’immissione in ruolo dei docenti a quello che fino ad ora, sulla carta, sarebbe stato possibile praticare, dall’organico funzionale ai rapporti con il territorio, all’apertura delle scuole, ma non si è fatto per mancanza di risorse e di personale, non per colpe di una generica cattiva scuola, ma per responsabilità precise di una cattiva politica e di cattivi governi.

Ora, è difficile allontanare il dubbio che la necessità di sistemare il personale prevarichi ogni riflessione vera sullo stato della scuola italiana, sulla pesantezza dei suoi curricoli, sul fatto che tutto si debba apprendere a scuola. Slogan come “cultura in corpore sano” usati nel 2014, sono per lo meno irritanti, oltre che fuori luogo. Dite piuttosto che avete bisogno di sistemare gli insegnanti di scienze motorie, l’integrazione tra scuola e territorio si fa riconoscendo che a scuola non può essere fatto tutto e che gli apprendimenti possono essere conseguiti nelle strutture e nelle istituzioni che agiscono con competenza nel suo contesto ambientale, è sufficiente dare loro dignità riconoscendoli come crediti. La scuola buona oggi è quella che è capace di pensare un sistema formativo integrato al servizio del diritto allo studio delle persone, di superare le classi, i voti, gli orari rigidi e le bocciature.

Ancora una volta non si tratta di scuola buona, ma di scuola ben fatta, capace di portare a compimento questa rivoluzione, che Montessori, Don Bosco, Don Milani e Loris Malaguzzi hanno a loro tempo praticato.

È un capitolo questo che ancora attendiamo venga scritto. La buona scuola potrebbe esserne la premessa, solo questo di tante speranze oggi ci resta. Diversamente anche questa buona scuola sarà una cattiva maestra.

 

Si può disegnare una BUONA SCUOLA senza conoscere il campo del problema?

Si può disegnare una BUONA SCUOLA senza conoscere il campo del problema?

di Enrico Maranzana

 

 

L’interazione con la società del 2022 è la terminazione del percorso intrapreso da uno studente che accede alla secondaria. Il legislatore, considerata l’imprevedibilità del traguardo, ha incardinato il sistema educativo sulle capacità dei giovani. Una meta che unifica tutti gli insegnamenti: il docente non può più essere visto come soggetto isolato ma come un partecipante a un progetto educativo unitario.

 

La proposta governativa non è stata elaborata in funzione di questo scenario: la visione sistemica è assente. Pertanto il principio di “Valutare per migliorare la scuola” è irragionevole: non è correlato a uno specifico, definito contesto.

 

A pag. 71 del documento si legge: ”La governance interna della scuola va ripensata: vanno ridisegnati al meglio gli organi collegiali della scuola, distinguendo tra potere di indirizzo e potere di gestione. Il Consiglio dell’Istituzione scolastica diventerà il titolare dell’indirizzo generale e strategico dell’Istituzione; il Collegio docenti avrà l’esclusiva della programmazione didattica; il Dirigente scolastico sarà pienamente responsabile della gestione generale”.

 

Sorprendente la superficialità sottesa all’enunciato: se fosse stata osservata la struttura organizzativa introdotta nel 74 e confermata nel 1994 e nel 1999, se fosse stata fatta una ricognizione sulle elusioni e omissioni relative al’applicazione della legge, i nodi problematici sarebbero apparsi in tutta evidenza e un intervento risolutore concepito.

Il principio di separazione, che il governo propone, è il fondamento dei decreti delegati del 74: non ha alcun senso la sua duplicazione. [In rete: “Coraggio! Organizziamo le scuole”].

Il governo, invece di riformulare una norma esistente, avrebbe dovuto riconoscere e rimuovere le cause dell’indecidibilità sottolineata nel documento.

 

Ripensare a ciò che si impara a scuola è il titolo del capitolo 4. Si tratta di un insieme scoordinato, introdotto senza alcun riferimento all’essenza dell’autonomia delle istituzioni scolastiche che “si sostanzia di progettazione”. In tale ottica le conoscenze sono lo strumento e l’occasione per l’ideazione di percorsi di apprendimento. Che senso ha parlare di stampanti 3d quando la finalità è trasmettere la cultura informatica? [in rete “La scuola regredisce. Dal piano nazionale informatica al piano nazionale scuola digitale”].

Parole di Convenzione e di convinzione sulla disabilità infantile

Parole di Convenzione e di convinzione sulla disabilità infantile

di Margherita Marzario

 

Abstract: L’Autrice ci porta per mano nella comprensione della disabilità, “coatta” e “indotta”, affidandoci alle parole giuridiche e letterarie che ne descrivono la condizione.

 

Con l’aumentare dei disagi aumenta anche l’impegno di associazioni e movimenti nell’elaborare carte (o guide) dei diritti dei bambini in varie situazioni, tra cui i bambini disabili. Sarebbe sufficiente conoscere (letteralmente “sapere insieme, o per mezzo di”) e concretizzare (letteralmente “aumentare insieme, o per mezzo di”) la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia per tutelare adeguatamente anche i bambini disabili. A tale proposito, si può provare a rileggere la Convenzione facendo riferimento a testi non giuridici per dare sensibilità a un atto internazionale che, come tale, può sembrare distante e distaccato dalla difficile realtà della disabilità.

“Ti guardo da dietro, la tua testa più allungata, fragile, di bambino, eterno bambino. Forse è stato il forcipe a darle quella forma, vent’anni fa, quando sei nato. Hai i capelli corti, a spazzola, da rugbista, da calciatore, da nuotatore, tu che di sport non ne hai mai fatto uno. Qua e là ne hai qualcuno di bianco, per ricordare che appunto bambino non sei più, che sono passate l’infanzia e l’adolescenza, che adesso in realtà saresti un uomo. Un uomo senza barba né baffi né voce scura, con la pelle rimasta come di neonato, liscia e rosea, pallida a volte per la rabbia dei capricci, con le mani piccole e paffute, con l’improvviso ridere birichino sulla tua faccia di Pulcinella, di Brighella, di Arlecchino, di burattino assorto in misteriosi pensieri e misteriosi viaggi in solitudine dove non ti possiamo accompagnare mai” (la scrittrice Isabella Dossi Fedrigotti). “Gli Stati parti riconoscono ad ogni fanciullo il diritto di beneficiare della sicurezza sociale, nonché delle assicurazioni sociali, e devono prendere misure necessarie perché questo diritto venga pienamente realizzato in conformità alla loro legislazione interna” (art. 26 par. 1 Convenzione). Ogni bambino, ancor di più se disabile, ha bisogno di un sistema di sicurezza sociale perché la sua vita non diventi un viaggio in solitudine dove nessuno lo possa accompagnare. “Sicurezza”, da “sine cura”, senza preoccupazione, “sociale”, da “colui che segue, che accompagna”: se si riuscisse ad avere quest’atteggiamento concreto si realizzerebbe già in parte quella “presa in carico” di cui tanto si parla e che non riguarda solo l’aspetto socio-sanitario, ma soprattutto quello umanitario.

“Sei capace di sorridere nello stesso modo totale e beato a un giocattolo, a un gelato, a un pallone, a un triciclo o alla tua mamma, strizzando i tuoi occhi scuri da cinesino, quegli occhi che alla tua nascita ci avevano un po’ meravigliato e che siamo andati a cercare invano negli album delle fotografie, nelle immagini dei cugini, degli zii, dei parenti. Da chi li ha presi? C’interrogavamo, già sapendo che quelli erano stati fatti per te, segno della malattia che, toccando a te, è toccata a tutta la famiglia: per riequilibrare quali privilegi, per insegnare quale mistero, per guidarci – tu con i tuoi sorrisi silenziosi – attraverso quale giungla?” (I. Dossi Fedrigotti). “[…] far raggiungere al fanciullo l’integrazione sociale e lo sviluppo individuale più completo possibile, incluso culturale e spirituale” (art. 23 par. 3 Convenzione). Sviluppo culturale e spirituale è quello che ci vuole soprattutto per i cosiddetti “normodotati”. E allo sviluppo culturale e spirituale contribuiscono le differenze, (dal verbo latino “differre”, portare da una parte all’altra), “ciò per cui o in cui una persona o una cosa si distingue o discerne dall’altra”.

“Ti accarezzo la guancia e i capelli con la stessa delicata incertezza con cui si accarezza un bambino nella carrozzina. Sei nella carrozzella anche tu e mi chiedo se ti piace, se ti dà fastidio, se sei in grado di sentire quello che vuol dire la mia mano, se sei capace di distinguere la carezza vera da quella fatta per compiacere i genitori, i parenti, gli astanti. Ti prendo la mano che però raramente risponde, mi stringe: come la mano di un bambino, appunto, che ha troppe cose da fare, deve giocare, toccare, assaggiare, esplorare, e non ha tempo per indulgere in tenerezze, disturbato dalle attenzioni, infastidito da chi gli sta addosso. Ti parlo qualche volta, ti dico delle parole, ma tu non ascolti, giri la testa, te le fai scivolare addosso come se non sentissi, più interessato al mio portachiavi, agli orecchini, al bottone lucente della mia giacca” (I. Dossi Fedrigotti). “Gli Stati parti riconoscono al fanciullo disabile cure speciali ed incoraggeranno e garantiranno la concessione, nella misura delle risorse disponibili, ai fanciulli disabili in possesso degli appositi requisiti ed a quanti se ne prendono cura, dell’assistenza di cui sia stata fatta richiesta e che risulti adeguata alle condizioni del fanciullo ed alle specifiche condizioni dei genitori o di altri che si prendono cura di lui” (art. 23 par. 2 Convenzione). Occorre aver cura non solo del bambino ma anche dei suoi familiari e delle altre persone vicine, i cosiddetti “caregiver” (o “carer”), coloro che assistono senza compenso i congiunti.

“Quale linguaggio capisci tu che sai emettere solo gorgoglii di soddisfazione e pianti di disperazione oppure a volte strani suoni usciti da chissà dove che ripeti e ripeti come una monotona canzoncina? Ti piacciono i maglioni viola? Preferisci le camicie con le maniche corte? Hai freddo, hai caldo, ti dà fastidio la lana sulla pelle, quale minestra mangi più volentieri? Ti va di essere trattato come un neonato, ripulito, vestito, nutrito senza che tu possa mettere becco? E te ne rendi conto in realtà, t’infuri in silenzio vedendo come vivono gli altri ventenni? O invece non conosci che te e la tua realtà di bambino seduto su una carrozzella, che non parla, non cammina, non sa fare niente da solo, e noi intorno a te siamo altri, diversi, alieni, stirpe extraterrestre capace di mille cose che ti sono precluse? Qualche volta pensiamo, grazie a un sorriso o a un oggetto, di aver carpito il tuo segreto, illusi di essere sulla tua stessa linea, ma poi di nuovo sfuggi” (I. Dossi Fedrigotti). Il linguaggio presuppone comunicazione ed un bambino disabile, come ogni bambino, con la sua presenza comunica già delle esigenze particolari che esigono prestazioni altrettanto particolari. “Tali prestazioni dovrebbero essere garantite, quando il caso lo richieda, tenuto conto delle risorse e delle specifiche condizioni del fanciullo e delle persone responsabili del suo mantenimento nonché di ogni altra considerazione pertinente in materia per quanto concerne la richiesta di prestazioni fatte dal fanciullo o a suo nome” (art. 26 par. 2 Convenzione). Non è il bambino disabile che non capisce il linguaggio comune ma egli è portatore, come ogni bambino, di un suo linguaggio, di “particolari bisogni” (come si legge nell’art. 23 par. 3 Convenzione), ricordando che “particolare” (da “parte”) significa che “appartiene in proprio a uno solo, o a certe persone, o a certe cose” ed ogni bambino è una “parte” dell’universo dell’infanzia e l’infanzia è una parte, forse la più importante, della formazione della personalità di ogni persona. I vari termini, “bambino”, “fanciullo”, “infanzia”, etimologicamente si riferiscono all’incapacità di parlare, pertanto il prendersi cura di un bambino, di un qualsiasi bambino, presuppone l’educazione al linguaggio e ai linguaggi. Oggi si assiste al dilagare di disturbi del linguaggio, dal parlatore tardivo al mutismo selettivo, anche perché manca una vera comunicazione con i bambini: si parla dei bambini, ma non si parla con loro e a loro. Con i bambini disabili bisognerà attivare ogni forma di “comunicazione alternativa e aumentativa” (CAA).

“Sì, i medici hanno spiegato, hanno tentato di spiegarci da dove vieni e perché sei fatto così ma noi non abbiamo capito, non sappiamo dove e quando è cominciato il tuo viaggio e quale sia la tua malattia. Noi ti scrutiamo, ti studiamo per scoprire di più di te. Sappiamo che sei buono, sorridente, capriccioso solo quando vorremmo importi qualcosa che veramente non ti va, lo yogurt al malto, per esempio, invece di quello ai mirtilli. Sappiamo che ti dà fastidio il sole, che hai la pelle delicata, che il tuo gioco preferito è il vecchio triciclo rosso con le ruote gialle che ormai non si fabbrica più, che facciamo fatica a rintracciare nei fondi di magazzino quando hai finito per distruggere il precedente. Sappiamo che tutti quelli che ti conoscono dopo un po’ ti amano” (I. Dossi Fedrigotti). “[…] garantire che tutti i membri della società, in particolare i genitori ed i fanciulli, siano informati sull’uso di conoscenze di base circa la salute e la nutrizione infantile […]; sviluppare la medicina preventiva, l’educazione dei genitori e l’informazione ed i servizi in materia di pianificazione familiare” (art. 24 par. 2 Convenzione). Occorre preparare i futuri genitori ad un’eventuale o sospetta disabilità del nascituro anche perché, talvolta, la coppia va in crisi per l’incapacità di affrontare e gestire insieme la problematica.

“Sappiamo anche delle tue malinconie e non riusciamo a sopportarle. Passi il cattivo umore che precede i capricci, passino i momenti di rabbia quando butti via qualsiasi cosa ti trovi in mano, ma la tristezza no, la tristezza di un adulto-bambino che se ne sta seduto composto sulla sua carrozzella con le mani abbandonate e la testa un po’ ripiegata sul lato, ci spacca il cuore. Ti vorremo distrarre allora dai pensieri che forse nemmeno pensi, dagli abissi nei quali stai guardando – o forse no -, dall’idea che magari ti sei fatta per un attimo di essere diverso dagli altri. Ti vorremmo scrollare, farti giocare, rimetterti in forma e in allegria” (I. Dossi Fedrigotti). “Cure speciali” e “particolari bisogni” del fanciullo disabile e “specifiche condizioni dei genitori o di altri che si prendano cura di lui” (dall’art. 23 Convenzione): non siano solo parole scritte in un atto internazionale ma siano iscritte in ogni atto quotidiano. Ogni bambino ha bisogno di “cure speciali” affinché non resti “eterno bambino” o non diventi “adulto-bambino”.

“Di nuovo ti carezzo la testa, nostro sfortunato – o fortunato? – burattino e mi domando cosa sarà di te, domani, dopodomani, quando non ci saremo più. È questo stesso pensiero, è vero, che ogni tanto ti rende triste? «Non supererà l’adolescenza», «Non raggiungerà i vent’anni», dicevano i medici pensando di consolarci. E invece eccoti qui, eterno bambino, mai pubere e mai giovane, malato sì, ogni anno di tutte le malattie, ma di quelle dei bambini, non di quelle dei vecchi. Chi ti accudirà, chi ti curerà, chi baderà a te comprandoti gli yogurt giusti e passandoti al setaccio carne, verdure, patate e minestre? Chi ti imboccherà, chi ti massaggerà quei tuoi piedi rigidi, un trentasei scarso, che neppure le scarpe ortopediche sono riuscite a far camminare?” (I. Dossi Fedrigotti). “Gli Stati parti devono promuovere nello spirito della cooperazione internazionale lo scambio di informazioni adeguate nel campo delle cure sanitarie preventive, nel trattamento medico, psicologico e funzionale del fanciullo disabile, tra cui la diffusione di informazioni concernenti i metodi di riabilitazione e servizi di formazione professionale, nonché l’accesso a questi dati, allo scopo di consentire agli Stati parti di migliorare le loro capacità e competenze e di ampliare la loro esperienza in questi settori” (art. 23 par. 4 Convenzione). Prima ancora della cooperazione internazionale si deve e si può realizzare la cooperazione locale e interfamiliare. Occorre avvolgersi tutti in un abbraccio terapeutico (o holding).

“Sì, c’è l’istituto, che già conosci, dove stai bene, ma non posso pensarti lì, bambino sempre più fragile e anziano, nei tuoi momenti malinconici, con la testa ripiegata, le mani abbandonate, senza voglia di fare niente. Del tuo futuro mai nessuno parla ma quelli che ti amano ci pensano in continuazione. Medici, infermiere, ospedali, strutture, istituti: tutto è previsto, programmato. In verità però chi lo vuole un bambino senza età seduto in carrozzella, che non cammina, non parla, non sa mangiare né andare in bagno, non sa leggere né scrivere e nemmeno ragionare come tutti gli altri?” (I. Dossi Fedrigotti). “Gli Stati parti riconoscono che un fanciullo fisicamente o mentalmente disabile deve godere di una vita soddisfacente che garantisca la sua dignità, che promuova la sua autonomia e faciliti la sua partecipazione attiva alla vita della comunità” (art. 23 par. 1 Convenzione). Si passi dal “curing” (cure) al “caring” (cura).

«Basta che il bambino si faccia il minimo graffio e scatta immediatamente l’allarme generale. La mamma corre a prendere il cerotto, il papà si precipita con il disinfettante, i nonni sospirano: “Chissà, poverino, come ti sei fatto male!”. Forse il piccolo non ci badava neppure, visto tanto allarmismo, tanta ansia, pensa: “Già, devo proprio essermi fatto male!”. E giù a piangere… Il graffio di ieri era lo stesso di quello di oggi, eppure nessuno vi faceva caso» (il pedagogista Pino Pellegrino). “[…] un fanciullo fisicamente o mentalmente disabile deve godere di una vita soddisfacente che garantisca la sua dignità, che promuova la sua autonomia e faciliti la sua partecipazione attiva alla vita della comunità” (art. 23 par. 1 Convenzione). Genitori e educatori devono educare nel senso indicato dalla Convenzione ogni bambino, altrimenti rischiano di farlo diventare “disabile della vita”.

“Anche molti adulti, estenuati da un compito formativo al quale loro stessi non sono stati preparati, hanno gettato la spugna, e si muovono tra un rigido proibizionismo che stenta però a trovare le ragioni che fondano questo o quell’altro modo di agire, e un lassismo che tutto permette, disinibito all’eccesso, compiacente e complice. Quindi incapacità o rinuncia (le due cose si intrecciano vistosamente) ad attivare un pur minimo accompagnamento educativo, con conseguente abbattimento di ogni segnaletica di carattere etico” (padre Ugo Sartorio, giornalista e scrittore). Occorre recuperare il senso etico (ricordando che “etica” ha la stessa origine di “etologia”, scienza che studia il comportamento degli animali), altrimenti si rischia di far crescere una generazione di antisociali. Prendendo spunto dall’art. 23 della Convenzione, si può dire che è necessario far raggiungere al fanciullo l’integrazione sociale e lo sviluppo individuale più completo possibile, incluso lo sviluppo culturale (in grandezza) e spirituale (in profondità) per non renderlo un “disabile sociale”.

Nel par. 1 dell’art. 23 della Convenzione si legge l’espressione “fanciullo fisicamente o mentalmente disabile” e un bambino può nascere tale o diventare tale o essere reso tale. “Fisico” etimologicamente significa “riguardante la natura” e “mente” deriva da una radice col senso di “pensare, conoscere, intendere”. Ad un bambino bisogna fornire tutte le competenze per affrontare la vita ed in primo luogo quelle affettivo – relazionali. Dopo i risultati di uno studio della Harvard University, denominato “Progetto Making Caring Common” (letteralmente “rendere comune il prendersi cura”) ad opera dello psicologo statunitense Richard Weissbourd, secondo cui i genitori predicano l’altruismo ma educano soprattutto al successo personale per cui i bambini stanno diventando troppo egoisti, lo psicologo infantile Michele Borba avverte che i genitori devono cambiare il loro atteggiamento, perché inculcare nei giovani l’idea del successo personale prima di tutto, in realtà, non porta né al successo né alla felicità: “Gli studi dimostrano che la capacità dei bambini nel provare empatia per gli altri ha effetti sulla loro salute, porta benessere e felicità, così come sul loro sviluppo cognitivo, sociale, emotivo. L’empatia attiva la coscienza e il ragionamento morale, frena il bullismo e l’aggressività, migliora la gentilezza, riduce i pregiudizi e il razzismo, promuove eroismo e coraggio morale e aumenta la soddisfazione personale. L’empatia è un ingrediente chiave dell’umanità e alla base della società civile”. Perché si deve allevare “in particolare nello spirito di pace, di dignità, di tolleranza, di libertà, di eguaglianza e di solidarietà” (dal Preambolo della Convenzione).

Il peggior handicap è non consentire al bambino di vivere la propria infanzia a causa di vari eccessi ed oggi si sta verificando la scomparsa dell’infanzia che era stata teorizzata (anche se con riferimento alla tecnologia) dal sociologo statunitense Neil Postman nel 1982. Ogni bambino, a maggior ragione se disabile, deve crescere (da “creare, andare formandosi”) in un’atmosfera di felicità (“fecondità”), amore (“non morte”) e comprensione (“prendere insieme”) (dal Preambolo della Convenzione): così si realizza la vera “presa in carico” dei disabili e di ogni persona. “Per cambiare gli uomini bisogna amarli. La nostra influenza arriva solo fin dove arriva il nostro amore” (il pedagogista svizzero J. Heinrich Pestalozzi). Perché “l’affettività si configura […] come realtà umana complessa da analizzare nelle sue radici cognitive, nelle sue implicazioni comportamentali, nella posizione che assume come ingrediente inevitabile nella dinamica delle decisioni della persona umana” (lo psicologo Ferdinando Montuschi[1]).

“Là dove siamo vittime impotenti di una situazione disperata che non possiamo cambiare, possiamo trovare un senso cambiando atteggiamento verso di essa, e quindi noi stessi, così che, da un punto di vista umano, maturiamo, cresciamo, ci superiamo e, in tal modo rendiamo testimonianza della più tipica capacità umana, cioè la capacità di trasformare una tragedia personale in trionfo” (lo psichiatra austriaco Viktor E. Frankl[2]): sia così per ogni disabilità perché e purché non si sia affetti da inabilità ad amare e a essere amati.

Tutto è possibile se non ci si fa prendere da quella malattia che biblicamente è chiamata “sklerokardia”, durezza dei cuori, che erge fredde barriere. È anche questo il senso di uno dei verbi “positivi” usati nell’art. 23 e in altri articoli della Convenzione, “incoraggiare”, dare coraggio, (coraggio, da “cor habeo”, ho cuore): si tratta di una virtù ampia, come dichiara l’origine forte e generica che la lega al cuore. Il coraggio è il prestare l’ampiezza del petto all’incerto, al pericolo, al dolore, la disposizione salda al sacrificio.

 

 

Riferimenti bibliografici

AA. VV. “Mi riguarda”, Edizioni E/O, Roma 1994

 

[1] F. Montuschi, Competenza affettiva e apprendimento, Editrice La Scuola, Brescia 1993, p. 23.

[2] V. Frankl [et al.], Ottimismo per vivere OK, Edizioni Paoline, Milano 1991, p. 28.

Giannini fa rima con Gelmini?

Giannini fa rima con Gelmini? Sì e no

 di Gabriele Boselli

 

Le misure in gestazione dal governo Renzi sono state già accusate di sostanziale continuità con quelle dei governi Berlusconi. Vanno certo in questo senso la particolare attenzione alle scuole a gestione privata (detassazione e decontribuzione) e l’estensione del loro modello di finanziamento e funzionamento alle scuole pubbliche: introduzione di soggetti privati, organico tuttofare, supplenze comprese, valutazione di insegnanti e dirigenti con licenziabilità che fatalmente colpiranno quelli meno integrati nel microsistema. Non ci saranno precarietà di alcuni a prescindere dal comportamento ma, essendo valutati, tutti diventeranno precari e l’autonomia intellettuale di docenti e dirigenti sarà fortemente compressa. Del resto un governo che promuove la modifica della Costituzione in senso presidenziale e autoritario non poteva che “riformare” la scuola in tal direzione, dimenticando che la libertà di insegnamento non è un accessorio ma una condizione essenziale, costitutiva dell’insegnare autentico, magistrale (da magis-stratus, posto sopra).

Il ribadito disprezzo del ruolo del sindacato da parte del Presidente del Consiglio continua poi nella tradizione dei governi di centro-destra.

Fin qui, Giannini fa rima con Gelmini (e Aprea) e certo con le intenzioni in parte incompiute dell’avvocato di rito calabrese. Costei colpì pesantemente nei numeri la parte strutturale del disegno ma incontrò una dura reazione sulla seconda parte e la libertà di insegnamento fu pressoché salva. L’organo di rappresentanza e autogoverno della scuola, il CNPI, fu soppresso (di fatto, senza nemmeno l’onore di una legge o di un articolo di soppressione) in seguito, peraltro ad opera dei gelminiani di centro-sinistra, ora di obbedienza renziana.

Per altri aspetti Giannini non fa rima con Gelmini. La prima tolse oltre centocinquantamila posti alla scuola, con particolare accanimento sulla scuola elementare; la seconda si accinge a restituirne centomila e forse più. Anche sul piano retributivo non ci possiamo lamentare nemmeno in caso di blocco contrattuale poiché la misura (pur presa con finalità elettorali) degli 80.000 euro vale da sola più di un medio rinnovo contrattuale. Del resto in altri paesi colpiti dalla crisi economica come la Spagna gli stipendi sono stati ridotti del 10%.

Pare inoltre che questo ministro voglia fare qualcosa di buono sul piano della formazione culturale e professionale dei docenti, mentre la Gelmini –contrariamente al ministro omopartitico Moratti- ridusse quasi a zero le risorse in questo settore, non avendo alcuna idea di largo respiro sulla ricerca (vedi il tunnel) e sull’ istruzione.

Che fare? Stringersi intorno ai sindacati e alle associazioni professionali per difendere la libertà di insegnamento, sostenere il Ministro, che avrà il suo da fare con il Tesoro, nel ridare sangue agli organici (anche di Provveditorati e USR, ora al lumicino) e nel riconferire respiro culturale e dunque pedagogico all’azione dell’amministrazione scolastica e delle scuole.