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Sul Sistema di valutazione dei dirigenti scolastici

Sul Sistema di valutazione dei dirigenti scolastici: quando il meglio è nemico del bene

di Francesco G. Nuzzaci

I. Anticipiamo qui la sintesi di un corposo lavoro, e relativo apparato di note, in corso di pubblicazione; con cui intendiamo esprimere alcune sia pur sommarie considerazioni sul Sistema di valutazione dei risultati dei dirigenti scolastici, potendo contare sul fatto che sulla sua illustrazione e sul suo funzionamento è comunque già stato scritto a sufficienza nelle varie riviste di settore, cartacee e on line.

Come è noto, si tratta del Sistema introdotto dall’articolo 13 del decreto legge n. 71 del 31 maggio 2024, convertito dalla legge n. 106 del 29 luglio 2024, dopo il puntuale fallimento delle eterne sperimentazioni susseguitesi, e confusamente accavallatesi, nell’ultimo ventennio (fino alla Direttiva n. 36 del 18 agosto 2016) per cogliere la – pretestuosa –  specialità della dirigenza scolastica.

Valutazione che, dopo la fase transitoria valevole per il solo anno scolastico 2024/2025, andrà a regime dal primo settembre 2025, nei termini e modalità dettagliati nel decreto interdipartimentale n. 2276 del 6 agosto 2025.

Dovrebbe così finalmente concludersi il tormentato percorso che i figli di un dio minore hanno dovuto intraprendere per riscattarsi dall’avvilente status di mezzi dirigenti, la cui più significativa interfaccia è il tuttora deteriore trattamento economico: concentrato, per l’appunto, sulla retribuzione di risultato, dopo che – accanto alla retribuzione tabellare, la sola ab origine pari a quella percepite da tutti i dirigenti pubblici non aggettivati di analoga fascia – si è riusciti a perequare la retribuzione di posizione fissa (con il CCNL 2016/2018) e ci si è sostanzialmente allineati alla retribuzione di posizione variabile (con il Contratto integrativo nazionale-CIN 2023/2024, sostitutivo degli opachi e sperequati Contratti integrativi regionali).

II. Il nuovo dispositivo, al di là dei giudizi di valore che possono esprimersi, soggiace dunque alla stringente previsione legale dell’articolo 13, comma 1 del decreto legge 71/2024, citato, laddove è prescritto che i dirigenti scolastici “sono valutati tenuto conto della specificità della funzione e sulla base degli strumenti e dei dati a disposizione del sistema informativo del Ministero dell’istruzione e del merito nonché del Sistema nazionale di valutazione dei risultati dei dirigenti scolastici, adottato con decreto del Ministero dell’istruzione e del merito, che stabilisce gli indirizzi per la definizione degli obiettivi strategici volti ad assicurare il buon andamento dell’azione dirigenziale e individua i soggetti che intervengono nella procedura di valutazione, in coerenza con la direttiva generale del Ministero dell’istruzione e del merito, di cui all’articolo 15, comma 2, lettera a) del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150”.

È quindi in grado di corrispondere alla risalente – ma rimasta priva di seguito – previsione contenuta nel CCNL 1 marzo 2002, di “procedure essenziali e snelle volte ad apprezzare i contenuti della funzione dirigenziale”.

III. Che il Sistema non sia esente da difetti lo si può ben affermare – potrebbe dirsi – per definizione. E sarà l’esperienza sul campo a suggerire “le integrazioni e/o le modifiche necessarie, previo confronto con le organizzazioni sindacali di categoria” (art. 2, comma 2, D.M. n. 47 del 12 marzo 2025, cit.). Ma di certo non giovano le reiterate, tanto granitiche quanto sterili, posizioni ideologiche che confermano le “fortissime riserve sull’impianto complessivo del nuovo sistema di valutazione … da respingere perché privo di trasparenza e oggettività, finalizzato esclusivamente ad esercitare un controllo diretto sull’attività dei dirigenti scolastici e delle scuole”; o che ne denunciano la deriva burocratica, con il rischio “che il dirigente diventi un semplice esecutore di procedure perdendo la sua centralità all’interno della comunità scolastica … svuotato della sua missione pedagogica e di guida dell’istituto”. Laddove è di palmare evidenza che su queste basi ogni costruttiva interlocuzione – funzionale al suo miglioramento – è, radicalmente, impossibile. E può tranquillamente continuarsi ad abbaiare alla luna, condannandosi all’irrilevanza.

Più argomentate, ma in concreto irricevibili – e difatti disattese dal MIM – appaiono le osservazioni del CSPI nel parere di rito reso nella seduta plenaria n. 141 del 4 febbraio 2025. Che, analizzate negli elementi portanti, risultano però del tutto distoniche rispetto a norme giuridiche cogenti, nonché attinte dal libro dei sogni; nel mentre il Sistema di valutazione lo si è disegnato e dovrà essere attuato “senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.

IV. L’intera procedura – che il CSPI ha dovuto riconoscere conforme a legge – si svolge su piattaforma digitale sulla base degli strumenti e dei dati a disposizione del MIM e/o deducibili da altri sistemi. Si compendia in una scheda contenente gli obiettivi nazionali assegnati, quantificabili e misurabili, distinti in generali e specifici, quindi articolati in indicatori e target; in un’altra contenente l’obiettivo di rilevanza regionale; infine in una terza in cui sono formalizzati i comportamenti professionali e organizzativi, che mettono capo al residuo punteggio massimo di venti punti e assegnato in base a una rubrica di valutazione strutturata su quattro indicatori al loro interno graduati su cinque livelli.

Un dispositivo, dunque, “sostenibile”, vale a dire preordinato alla sua concreta fattibilità, con gli obiettivi definiti sulla base di strumenti e di dati oggettivi, e dunque con valutazione più trasparente; che toglie ogni margine di discrezionalità al direttore dell’USR che formalmente li assegna, sulla base delle priorità contenute nell’atto d’indirizzo politico-istituzionale annualmente emanato – con piena legittimità – dal Ministro. E mette poi conto sottolineare che i dirigenti scolastici hanno la possibilità di integrare le informazioni presenti sulle piattaforme con evidenze riferibili ai singoli obiettivi specifici assegnati, anche al fine di argomentare su eventuali aspetti impeditivi del raggiungimento dei target o traguardi attesi.

E a proposito di discrezionalità (e trasparenza), il CSPI ne aveva proposto la riduzione da venti a dieci punti nella valutazione – necessariamente elastica –  dei comportamenti professionali e organizzativi di competenza del direttore dell’Ufficio scolastico regionale; mentre sarebbe stato semmai più logico incrementarli in quanto aventi una funzione obiettivamente compensatoria, per il raggiungimento della soglia superiore agli effetti della retribuzione di risultato, e non punitiva: altrimenti non sarebbe giustificabile – in sede di contraddittorio, poi davanti all’Organo di garanzia, infine ed eventualmente presso il giudice del lavoro – l’attribuzione di un punteggio minimale o addirittura nullo a chi, in ipotesi, abbia pure raggiunto gli ottanta punti massimi sugli obiettivi assegnati e da soli bastevoli per collocarsi nella più alta fascia retributiva.

V. Circola lo spauracchio – nutrito dalle immarcescibili giaculatorie e da altrettanto inossidabili parole d’ordine –  che il dirigente scolastico rischia di dover rispondere del mancato o insufficiente raggiungimento degli obiettivi che non sono – o che non sarebbero – nella sua disponibilità, come la costituzione di reti di scuole e/o di adesione alle medesime, l’attivazione di progetti con istituzioni scolastiche estere, le iniziative di innovazione e di sviluppo della didattica, l’approntamento di un piano di formazione del personale che sia coerente con il PTOF e in linea con il Piano nazionale di formazione … fino alla conduzione della contrattualistica: laddove si rimarca che il Consiglio d’istituto e/o il Collegio dei docenti hanno qui un potere deliberante (e vincolante) e non meramente propositivo o consultivo; mentre il solo soggetto giuridicamente responsabile dei risultati del servizio, che la norma vuole di qualità generalizzata ed inclusiva, resta il dirigente scolastico.

Tuttavia l’enfasi posta anche dal CSPI su questa – reale o presunta – aporia non considera il potere politico del dirigente scolastico di predeterminare ed incanalare l’azione degli organi collegiali tramite il suo Atto d’indirizzo “per le attività della scuola e delle scelte di gestione e di amministrazione”, propedeutico alla – sua – predisposizione del PTOF, poi (solo) elaborato dal Collegio dei docenti e (solo) approvato dal Consiglio d’istituto (comma 14.4, legge 107/2015).

VI. Vi è un dato oggettivo: Il Sistema di valutazione dei risultati dei dirigenti scolastici mette fine alla stucchevole pantomima inscenata dalle parti, trascinatasi da un CCNL all’altro, a dichiarare che “sono concordi nel ritenere che il sistema di valutazione della dirigenza scolastica dovrà essere oggetto di uno specifico approfondimento in sede MIUR (ora MIM) attraverso le modalità del confronto”; fino a quando con il tuttora vigente CCNL 2019/2021, rendendosi esse consapevoli di aver perso ogni credibilità, hanno dovuto prendere atto che “La retribuzione di risultato, la cui finalità è la remunerazione della performance individuale, è attribuita sulla base dei diversi livelli di valutazione conseguiti dai dirigenti … e nel rispetto delle disposizioni di legge in materia, solo a seguito di una valutazione positiva” (art. 21, nel Capo III delleDisposizioni comuni sugli istituti economici).

VII. Dopo di che, è vero: il Sistema – lo ribadiamo: provvidamente e finalmente! – non è perfetto. Ma è – realisticamente – il migliore dei mondi possibili. E qualora si degnassero appena di uno sguardo, neanche troppo attento, le norme – imperative, pertanto non modificabili da accordi tra Amministrazione e Sindacati – non può ritenersi una “deriva burocratica” l’assegnazione di obiettivi (specifici) riguardanti la progettazione e gestione del PTOF, l’inclusione scolastica, l’attivazione di iniziative di sperimentazione, la promozione di innovazioni organizzativo-didattiche, la predisposizione di percorsi di formazione e aggiornamento del personale, l’adesione a reti di scuole e la sottoscrizione di protocolli d’intesa anche con associazioni del terzo settore, l’attivazione di scambi pure virtuali con istituzioni scolastiche all’estero e sempre per qualificare o integrare l’offerta formativa, le azioni intraprese per lo sviluppo delle competenze STEM, et similia; né può ritenersi una “deriva burocratica” pretendere che – come ogni dirigente pubblico preposto alla conduzione di qualsivoglia struttura organizzativa, più o meno complessa – anche il dirigente scolastico provveda alle pubblicazioni di legge e nelle modalità previste, alla tempestività della nomina di supplenti affinché sia garantito senza interruzioni il diritto allo studio, alla puntualità dei pagamenti per evitare contenziosi (beninteso, una volta disponibile la provvista), alla corretta gestione della contrattualistica ovvero dei – più o meno cospicui –  finanziamenti ricevuti e/o (ancor più) delle risorse reperite in virtù delle sue capacità latamente imprenditoriali (e potrà pur sempre evidenziare le eventuali difficoltà incontrate, quali le possibili carenze del suo Ufficio di segreteria o l’instabilità degli organici).

Sicché non può continuare a dirsi che questi obiettivi non sono nella disponibilità del dirigente scolastico, se non in aperta malafede o per partito preso. Pur se qualche eccezione sembra emergere scorrendo la scheda in Allegato B, parte integrante del decreto interdipartimentale, relativa agli obiettivi di rilevanza regionale. Ma si tratta di casi veramente marginali e in ordine ai quali il valutando sicuramente avrà avuto modo di evidenziarlo.

Ragion per cui se possono esserci dirigenti scolastici finora non adeguatamente attenti anche agli aspetti formali e al rispetto delle varie tempistiche nell’esercizio della funzione, adesso hanno lo stimolo – e puntuali direttrici di marcia – per sanare trascuratezze e omissioni; ed, è pleonastico dirlo, di certo non disinteressandosi di adempimenti – per tutti, la normativa sulla sicurezza e la normativa sulla privacy – sol perché non sussumibili negli obiettivi e inerenti indicatori figuranti nell’atto d’incarico.

Ne riverrà il duplice beneficio della propria crescita professionale e dell’incremento del valore pubblico dell’istituzione scolastica diretta.

Nuovi dirigenti scolastici e missione del dotto

Nuovi dirigenti scolastici e missione del dotto

di Gabriele Boselli

Gran parte degli insegnanti osserva con tristezza come per accedere ai ruoli dirigenziali nella scuola non sia più richiesta una elevata cultura generale e pedagogica ma abilità nel compilare i questionari; come non occorrano capacità intellettuali critiche e creative. I nuovi dirigenti, fatte le dovute eccezioni, sono spesso individui bravi a ricordare la normativa ma non a capire la complessità e la profondità del reale; dotati di un’arida cultura giuridico-manageriale e addestrati sui manuali, esprimono un non-pensiero ossequiente, oggettivistico, applicativo, incurante.

Servono ancora una profonda cultura umanistica e scientifica e una intelligenza della complessità per essere un docente e un vero dirigente scolastico? Quale il suo ruolo nella società e nella scuola? Quali le doti necessarie ad adempiere alla funzione/missione? Domande sostanzialmente analoghe a quelle che a Jena si poneva Fichte oltre due secoli fa.

Pur bravo nei test, un ignorante non può dirigere una scuola

Nei questionari di accesso ai ruoli dirigenziali tutto è o bianco o nero, o giusto o sbagliato e quel che è giusto o sbagliato viene deciso in alto loco; non ci sono colori, sfumature; non c’è fastidiosa cultura critica. I dirigenti di una scuola (non di un market) vengono selezionati principalmente sulla capacità di memorizzare nelle prove testistiche le risposte ritenute giuste da una commissione selezionata allo scopo dai serventi del decisore politico. Si privilegia nelle meccaniche d’accesso la disponibilità al decidere-conforme contro il pensiero pensante e l’azione culturale e didattica. E’ naturale che dirigenti di scuola così selezionati trascurino poi gli studi, la ricerca pedagogica, l’animazione della didattica e la partecipazione alla vita culturale della città: tutte anticaglie inutili anche al fine della valutazione in servizio del dirigente. I meccanismi valutativi non considerano le pubblicazioni e inducono a considerare quella che dovrebbe essere la cattedra dirigenziale una scrivania come tante e gli insegnanti non come dei colleghi con cui orientare ed orientarsi ma dei meri dipendenti.

La qualità dei vissuti scolastici di insegnanti e dirigenti autentici è invece costituita dalla cultura, dalle capacità relazionali e dalla padronanza della didattica, intesa questa come ambito della mediazione tra lo studiare (di dirigenti e insegnanti) per costruire il sapere, l’ insegnare e l’apprendere.

Non servono due DSGA

In troppe scuole non c’è un vero dirigente ma si aggirano due DSGA spesso in conflitto e uno dei quali, il DS, il più delle volte privo di competenze amministrative per limiti della propria formazione iniziale. Siede un DS che si limita a un’amministrazione difensivistica, al culto della sicurezza, a cercar di spendere nei tempi comandati tutti i soldi del PNRR, a garantire la correttezza formale delle procedure; non “ perde tempo” ad elaborare una comune visione e coinvolgere la scuola in questo processo. Il che richiederebbe una solida cultura generale (non settoriale) che consentisse di cogliere i fermenti innovativi, valorizzare le professionalità, impostare strategie di sviluppo per poter dialogare con competenza e saggezza con la città, sostenere i docenti nella ricerca di soluzioni innovative. Anche nel tempo dell’AIG vi è ancora necessità di un preside dotto, a guida di una comunità di culturache orienti avendo un quadro d’insieme fondato e partecipato e presieda per primato intellettuale, capacità di cura (non di carico) e umanità. 

Senza zaino

Senza zaino

La scuola primaria che alleggerisce e potenzia

 di Bruno Lorenzo Castrovinci

Senza zaino. Per viaggiare leggeri, sulle ali della fantasia, abbracciando la vita e guardando con fiducia a un futuro felice. È l’immagine di una scuola che cambia, che innova, che crede profondamente nella possibilità di fare meglio. Eppure, sono trascorsi più di vent’anni da quando questa sperimentazione, figlia dell’autonomia scolastica, ha mosso i primi passi, rivelandosi oggi più attuale che mai.

 Nata in Toscana nel 2002 da un’idea del dirigente scolastico e pedagogista Marco Orsi, la Scuola Senza Zaino ha voluto alleggerire non solo il peso fisico sulle spalle degli alunni, ma anche quello simbolico di un’istruzione percepita come fredda e distante, trasformando l’aula in un luogo accogliente, collaborativo e centrato sul benessere di chi la vive. La prima esperienza, a Lucca, aprì le porte a spazi flessibili, materiali condivisi e banchi disposti in isole di lavoro, ispirandosi a modelli innovativi italiani e internazionali. Tre i principi cardine: Ospitalità, Responsabilità e Comunità, valori che hanno guidato la rapida diffusione del progetto in tutto il Paese. Con la nascita, nel 2009, dell’Associazione Nazionale Scuola Senza Zaino – Per una scuola comunità, la rete si è consolidata, offrendo formazione e supporto a centinaia di istituti, dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di primo grado, fino a diventare un modello riconosciuto a livello nazionale per la sua didattica partecipativa e inclusiva.

 In un’epoca in cui la pedagogia invita a ripensare la scuola come luogo di vita, di crescita e di partecipazione autentica, Senza Zaino rappresenta un esempio concreto di come la progettazione degli spazi possa dialogare con un’idea innovativa di insegnamento, concependo l’aula non come contenitore passivo, ma come co-protagonista del processo di apprendimento. Qui, gli studenti imparano a essere responsabili, a collaborare, a sentirsi parte di una comunità viva e accogliente, dove la relazione diventa il cuore pulsante dell’esperienza formativa.

Un’idea di scuola che libera le menti

La “Scuola senza zaino” si fonda sulla convinzione che lo studente debba essere al centro del processo educativo, non come ricettore passivo di informazioni, ma come costruttore attivo di significati e promotore del proprio percorso di crescita personale, culturale ed emotiva.

In questo approccio l’alunno è chiamato a prendere decisioni, a organizzare le proprie attività, a sviluppare autonomia e senso di responsabilità nei confronti del gruppo e di sé stesso. Le lezioni si trasformano in esperienze collaborative e dinamiche, in cui la ricerca, la sperimentazione, il confronto e la creatività assumono un ruolo centrale e si intrecciano con momenti di riflessione e metacognizione.

Questa impostazione non solo sviluppa competenze disciplinari solide, ma stimola anche la capacità di affrontare sfide complesse, di gestire situazioni nuove, di lavorare in team con spirito di cooperazione, di comunicare in modo chiaro ed empatico e di adattarsi a contesti in continua evoluzione. La diversità di approcci e punti di vista diventa una leva strategica per arricchire il dibattito, per allenare il pensiero critico e per imparare a vivere e contribuire attivamente a una società pluralista e interconnessa.

Lo spazio come terzo educatore

Nel modello “Scuola senza zaino” lo spazio fisico non è un elemento neutro, ma un vero e proprio mediatore pedagogico, capace di influenzare in modo diretto la qualità delle relazioni e la profondità dell’apprendimento. I banchi disposti in cerchio o organizzati in piccoli gruppi favoriscono un apprendimento orizzontale e inclusivo, in cui ognuno può vedere e ascoltare l’altro senza barriere fisiche o simboliche, creando un clima di apertura e dialogo.

Gli angoli tematici e le aree funzionali, dedicate alla lettura, alla creatività, alle scienze o alle tecnologie, diventano spazi di esplorazione autonoma, dove i saperi si costruiscono attraverso l’esperienza diretta, la manipolazione di materiali e l’osservazione attiva.

Gli arredi modulari, leggeri e facilmente spostabili, consentono di riconfigurare rapidamente l’aula in base alle necessità del momento, rendendo possibile un passaggio naturale e fluido da attività individuali di concentrazione a lavori collettivi di cooperazione. Questa organizzazione dello spazio, oltre a soddisfare bisogni funzionali, trasmette messaggi impliciti di apertura, fiducia e rispetto per i ritmi e gli stili di apprendimento di ciascuno, contribuendo a creare un contesto in cui ogni studente si senta accolto e valorizzato.

La partecipazione come motore di apprendimento

La partecipazione attiva è il nucleo vitale di questa proposta educativa e si esprime attraverso un coinvolgimento consapevole e costante degli studenti in tutte le fasi del processo di apprendimento. Gli studenti non si limitano a eseguire compiti, ma contribuiscono in maniera critica e creativa alla definizione degli obiettivi, alla scelta delle strategie didattiche e alla valutazione dei risultati raggiunti, assumendo così un ruolo di corresponsabilità che rafforza la loro motivazione intrinseca.

Il docente si configura come facilitatore, mediatore culturale e guida, capace di stimolare la curiosità, di porre domande aperte che innescano riflessione e di sostenere l’autonomia senza imporre percorsi rigidi, ma creando contesti in cui ogni studente possa trovare il proprio modo di apprendere.

La valutazione continua, dialogica e formativa, diventa un momento di crescita reciproca, incoraggiando l’autovalutazione e promuovendo la consapevolezza dei propri punti di forza, delle aree di miglioramento e delle strategie più efficaci da adottare. L’apprendimento si radica profondamente in questo processo interattivo, diventando più significativo, duraturo e trasferibile grazie al forte coinvolgimento emotivo e cognitivo e al senso di appartenenza che ne deriva.

Gli aspetti pratici della quotidianità scolastica

La “Scuola senza zaino” si traduce in pratiche concrete e coerenti, che incidono in profondità sulla vita quotidiana di alunni e docenti. I materiali didattici rimangono in classe e sono organizzati in spazi comuni accessibili, favorendo la condivisione, la cura delle risorse e la responsabilità reciproca, oltre a ridurre il peso fisico dello zaino e lo stress logistico per gli studenti.

Le giornate scolastiche sono scandite da una varietà di attività che alternano momenti di concentrazione individuale a lavori di gruppo e a sessioni laboratoriali interdisciplinari, in cui le discipline dialogano e si intrecciano per dare vita a progetti complessi e motivanti. Le uscite didattiche e gli incontri con esperti esterni arricchiscono il percorso, offrendo esperienze concrete che collegano l’apprendimento scolastico alla realtà del territorio.

Le tecnologie digitali sono integrate in modo mirato e consapevole, diventando strumenti al servizio della creatività, della ricerca e della collaborazione piuttosto che semplici supporti tecnici. L’organizzazione del tempo è flessibile e adattabile, modellata sui ritmi di apprendimento degli studenti, così da consentire approfondimenti quando l’interesse è alto o modifiche quando emergono nuove esigenze, favorendo così un apprendimento autentico e duraturo.

La comunità educativa come cornice

Questo modello si fonda su un’idea di educazione diffusa, che vede la scuola in costante e proficuo dialogo con famiglie, istituzioni locali, associazioni culturali, realtà produttive e organizzazioni del terzo settore, nella consapevolezza che l’apprendimento non si esaurisce tra le mura scolastiche. I genitori sono invitati a partecipare a laboratori, eventi, momenti di confronto e progettazione condivisa, portando competenze, esperienze e prospettive che arricchiscono il percorso formativo e lo radicano nel contesto di vita reale degli studenti.

Le collaborazioni con il territorio si traducono in attività concrete come visite a imprese e musei, interventi di esperti, partecipazione a iniziative civiche e culturali, creando occasioni di apprendimento autentico che connettono la teoria alla pratica. Questa rete educativa, ampia e diversificata, costruisce un ecosistema di apprendimento aperto e inclusivo, in cui ogni attore, dalla famiglia al cittadino, dall’istituzione alla piccola impresa, contribuisce in modo sinergico alla formazione integrale dei ragazzi, rafforzando il senso di appartenenza, la responsabilità civica e la capacità di riconoscersi come parte attiva di una comunità viva e solidale.

Conclusioni

Il modello “Scuola senza zaino” rappresenta una risposta concreta alle sfide della scuola contemporanea, capace di preparare gli studenti non solo a un futuro professionale, ma anche a una vita adulta consapevole e partecipativa. Con spazi flessibili, metodologie partecipative e un forte radicamento nella comunità, questa proposta educativa promuove autonomia, spirito critico e capacità di cooperare. In un’epoca che richiede adattabilità, creatività e responsabilità, ripensare la scuola in questa prospettiva significa investire nel capitale umano e sociale del futuro, offrendo a ogni alunno la possibilità di crescere come persona e come cittadino.

Educazione civica e voto di condotta

Educazione civica e voto di condotta: strumenti formativi, non sanzionatori

di Rita Manzara

Nel panorama educativo italiano, l’educazione civica e il voto di condotta rappresentano due pilastri fondamentali, poiché sono due strumenti centrali per la formazione della persona e del cittadino.

Tuttavia, in un tempo in cui la scuola è spesso chiamata a rispondere a emergenze educative e a gestire comportamenti problematici, le ultime modifiche normative in materia hanno sollevato un acceso dibattito.

Il rischio, infatti, che i suddetti strumenti assumano una connotazione punitiva è obiettivamente concreto, poiché possono essere percepiti come sanzioni disciplinari anziché come opportunità formative.

È lecito, allora, chiedersi se l’introduzione dell’educazione civica come disciplina obbligatoria (Legge n. 92/2019) e la riforma del voto di condotta (DPR 122/2009, aggiornato in tempi recenti) mirino realmente a responsabilizzare gli studenti e a renderli parte attiva della comunità scolastica.

La risposta, dal punto di vista pedagogico e normativo, dovrebbe essere chiaramente affermativa: questi strumenti devono essere utilizzati per formare cittadini consapevoli, dal momento che la scuola, per sua natura, deve essere un luogo di crescita e partecipazione, non di repressione.

Quest’ultima interpretazione costituisce, peraltro, un reale pericolo poiché l’associazione del voto di condotta a possibili bocciature o ad obblighi “riparatori” rischia di creare una visione distorta: punire comportamenti per educare. Una logica che contrasta con i principi fondanti dello Statuto degli Studenti e delle Studentesse (DPR 249/1998), dove il senso civico viene promosso attraverso esperienze, dialogo e coinvolgimento.

Vediamo di approfondire i termini della questione.

Per quanto concerne l’evoluzione del voto di condotta come criterio vincolante per la promozione, con la riforma Valditara (che ha modificato il DPR 122/2009) esso rischia di trasformarsi da semplice indicatore del comportamento a strumento punitivo.

La riforma in esame, nata con l’intento di responsabilizzare gli studenti, introduce cambiamenti sostanziali: un voto inferiore a 6 comporta automaticamente la bocciatura, mentre un voto pari a 6 ha come conseguenza la sospensione del giudizio e l’obbligo di produrre un elaborato riguardante la cittadinanza attiva. Anche le sospensioni disciplinari vanno trasformate in attività educative e socialmente utili.

Tale impostazione solleva dubbi tra educatori, psicologi e giuristi: posto in questi termini, il voto in questione è davvero capace di misurare la crescita morale dello studente, oppure rischia di diventare una semplificazione dell’identità comportamentale, cioè la trasformazione della valutazione in uno strumento di controllo e di compressione dell’autonomia, con conseguente perdita di significato pedagogico nella costruzione del sé?

Si rileva un serio pericolo di una deriva degli strumenti formativi in meccanismi sanzionatori poiché questa valutazione può diventare una misura repressiva: usare il voto di condotta come leva disciplinare può scoraggiare il dissenso, anziché educarlo.

Questa situazione può generare sfiducia, demotivazione e senso di ingiustizia tra gli studenti.

La scuola deve essere autorevole, non autoritaria, come ha sottolineato anche il ministro Valditara.

Volendo portare il discorso sul piano della riflessione pedagogica, educare  non significa punire: secondo le teorie di John Dewey, Paulo Freire e Edgar Morin, l’educazione deve promuovere il pensiero critico e la coscienza etica, favorire la partecipazione attiva e il dialogo, sviluppare la responsabilità sociale e non l’obbedienza passiva.

Una valutazione del comportamento dovrebbe evidenziare progressi, non punire l’errore, dovrebbe far emergere potenzialità, non limitare il futuro, dovrebbe sostenere il dialogo, non inasprire il conflitto.

Quest’ultimo atteggiamento educativo risulta in linea col già citato Statuto degli studenti e delle studentesse (DPR 249/1998) che, oltre a prevedere sanzioni educative e proporzionate, stabilisce i diritti e i doveri degli studenti.

Tornando all’educazione civica, si tratta di una disciplina trasversale presente in tutte le scuole italiane che ha l’obiettivo di promuovere la conoscenza della Costituzione, della legalità, della sostenibilità ambientale e della cittadinanza digitale.

È appena il caso di ricordare che questi ambiti non vanno insegnati come contenuti astratti, ma vissuti attraverso esperienze, dialoghi, riflessioni e pratiche quotidiane.

La scuola, in tale prospettiva, rappresenta un laboratorio di democrazia e l’educazione civica diventa “cultura del bene comune” che, per produrre gli effetti auspicati, deve essere integrata nel curricolo e non relegata a momenti isolati, deve coinvolgere docenti formati ed esperti di cittadinanza e deve collegarsi a progetti reali: volontariato, simulazioni parlamentari, giornate della legalità, ecc.

Solo così si può sviluppare nei ragazzi la coscienza del cittadino, capace di agire in favore della comunità, rispettare le istituzioni e contribuire alla vita democratica.

Non si tratta, quindi, solo di una materia scolastica, ma di un progetto educativo che mira a formare cittadini consapevoli, responsabili e attivi. Non è un insieme di regole da imparare a memoria, ma un processo di interiorizzazione di valori democratici, etici e sociali afferenti alle scienze pedagogiche e sociologiche: il senso civico, come capacità di agire responsabilmente per il bene di tutti, la partecipazione consapevole alla vita pubblica, la comprensione dei diversi punti di vista, la solidarietà e l’educazione morale che porta allo sviluppo della coscienza individuale.

In quest’ottica, la vera educazione civica non può essere connotata come “pena accessoria”, cioè come riparazione di un brutto voto, ma si coltiva nel tempo, promuovendo il pensiero critico, la reciprocità, il rispetto delle regole, la presenza attiva nella collettività.

Ogni progetto, ogni laboratorio, ogni dibattito è un’occasione per “allenare” la coscienza del cittadino, quella voce interna che spinge a scegliere il bene comune anche quando “nessuno ci guarda”.

Anche se l’idea di assegnare elaborati o attività sull’educazione alla cittadinanza attiva come conseguenza di comportamenti negativi da parte degli studenti può sembrare, a prima vista, una strategia educativa, questa pratica rischia di snaturare profondamente il valore formativo della disciplina, trasformandola da strumento di crescita collettiva a misura correttiva individuale.

In altre parole l’approfondimento delle tematiche inerenti l’educazione civica deve riguardare tutti, non solo chi “sbaglia”, poiché le sue tematiche — legalità, diritti e doveri, sostenibilità, partecipazione — sono patrimonio comune, non risposte a comportamenti scorretti.

Quando solo chi ha tenuto condotte negative è chiamato a riflettere sulla cittadinanza attiva, si crea una associazione distorta: educazione civica = rimprovero.

Questo approccio può generare resistenza o disinteresse negli studenti, che percepiscono la disciplina come un obbligo imposto, non come un’opportunità di crescita.

In tal modo, si perde l’occasione di coinvolgere l’intera comunità scolastica in un percorso condiviso di consapevolezza e responsabilità.

Affinchè l’ educazione civica si configuri come percorso inclusivo, l’approfondimento delle tematiche civiche dovrebbe essere trasversale e continuativo, integrato nella vita scolastica di tutti gli studenti. Progetti, dibattiti, laboratori e attività pratiche dovrebbero coinvolgere l’intero gruppo classe, favorendo il confronto e la costruzione di valori comuni. Solo così si può promuovere una cultura della cittadinanza attiva che non sia reattiva, ma proattiva.

In sintesi, l’educazione civica non deve essere il “castigo” per chi sbaglia, ma il terreno fertile su cui tutti gli studenti imparano a essere cittadini.

In conclusione, formare cittadini consapevoli è il compito più alto della scuola, che deve essere una  palestra di cittadinanza.

Non si tratta solo di rispettare le regole, ma di comprenderne il valore. Non di seguire passivamente, ma di partecipare attivamente. Educazione civica e voto di condotta devono essere ponti, non barriere. Perché ciò che conta è quello che ogni ragazzo si dà ogni giorno scegliendo chi essere.

Per fare questo è necessario ripensare il voto di condotta come traccia formativa, non come sentenza, riconoscere l’educazione civica come esperienza vissuta, non come contenuto da studiare, nonché restituire ai ragazzi la possibilità di sbagliare, riflettere e crescere.

Chiediamoci: vogliamo una scuola che giudica o una scuola che forma? Se crediamo nella seconda, dobbiamo avere il coraggio di costruire strumenti educativi coerenti, inclusivi e dialogici. Perché il vero successo educativo non è la condotta impeccabile, ma la capacità di scegliere il giusto anche quando non c’è nessuno a sorvegliare.

Educare alla cittadinanza significa accendere una luce, non piantare un cartello di divieto.

Il Magister e i suoi nemici

Il Magister e i suoi nemici

di Giovanni Fioravanti

Stando all’intervento della professoressa Loredana Perla, su La Stampa del 30 luglio scorso, le Nuove Indicazioni, uscite dal lavoro della commissione da lei presieduta, sarebbero il prodotto di un “riformismo culturale”. Cosa intenda la nostra pedagogista per riformismo culturale non è dato sapere, ma si presume, dalle sue stesse parole, che si tratti di un qualcosa che ha di mira “la scuola cognitiva”, “la scuola dell’istruzione”, che non sarebbe stata in grado di rispondere alle domande fondamentali della vita come solo il Magister con il suo carisma può suscitare nei suoi allievi. Spiega che l’alternativa progressista della “scomparsa dell’insegnante” e “dell’insegnamento tradizionale” non ha funzionato, e questo fenomeno avrebbe iniziato a diffondersi come un virus nelle nostre scuole già sul finire degli anni 80 del secolo scorso.

Per questo invoca, a conclusione del suo intervento, “la rigenerazione di paradigmi culturali che restituiscono agli insegnanti e al loro ruolo fondamentale il posto che meritano”.

Ci troviamo di fronte all’uso di due espressioni assai impegnative: “riformismo culturale”, “paradigmi culturali”. Ragionando, i paradigmi culturali dovrebbero precedere il riformismo culturale, perché si presume che quest’ultimo sia al servizio dei modelli culturali che si vogliono diffondere. Ma quali siano i modelli non vengono esplicitati. Da chi discendono? A cosa fanno riferimento? Chi sono i “maggiori suoi”?

Dal pensiero della Perla, suffragato dal “buon senso” dell’ultima fatica del ministro Valditara, appare chiaro che riformismo e paradigmi culturali sono tutto fuorché la scuola progressista, la quale avrebbe i suoi connotati nell’abolizione dello studio del latino alle scuole medie e nella “Lettera ad una professoressa” dei ragazzi di Barbiana.

La qualcosa può andare bene per la vulgata, per far vendere libri alla professoressa Paola Mastrocola, ma non certo per chi ha in mano le sorti del nostro sistema formativo.

Perché quel Magister a cui vogliamo restituire centralità e autorevolezza di cosa lo nutriamo? Di quale cultura professionale deve essere dotato per divenire autorevole punto di riferimento di generazioni e generazioni di allievi?

È il Magister di cui scrive Ivano Dionigi  per cui la scuola la fanno i maestri e non i ministri come affermava  Manara Valgimigli?

Pare tutto il contrario: Magister è colui che è in grado di realizzare l’idea di scuola che coltivano Valditara e la Perla unitamente alla loro combriccola. Ma non funziona così.

Basterebbe possedere un po’ di cultura della scuola per non cadere in un simile, madornale errore.

Quel che succede sul finire degli anni ’80 del secolo scorso e inizia a far spirare aria nuova in una scuola chiusa su se stessa ha un’altra storia che nulla ha a che vedere con espressioni totalmente vuote di significato come “scuola progressista”, “pedagogia progressista” o “alternativa progressista”, che usate da chi si occupa di scuola denunciano solamente una profonda carenza di cultura professionale.

Una storia che ha il suo inizio tra gli anni 60 e 70 del secolo scorso, quando la formazione degli insegnanti, in particolare quella dei maestri, in una scuola ancora fortemente gentiliana, era affidata prevalentemente alla pedagogia tradizionale, alla pedagogia intesa soprattutto come riflessione filosofica sull’alunno e sul come si deve insegnare.

Ma negli stessi anni si sviluppa l’idea che l’educazione deve essere studiata in modo più scientifico, in particolare secondo un approccio interdisciplinare e fondato sull’attività d’aula. Si diffondevano i contributi  delle scienze umane e, dunque, l’educazione non poteva che abbeverarsi al loro apporto, in particolare alla psicologia, alla sociologia, all’antropologia, alla didattica, alla storia dell’educazione, in sintesi nascevano le scienze dell’educazione. Le scienze dell’educazione non cancellano la pedagogia, ma la riscattano dal suo vassallaggio filosofico, integrandola in un progetto più ampio, in grado di affrontare le sfide educative moderne con strumenti scientifici, interdisciplinari e orientati alla prassi.

La società moderna richiede risposte pratiche, fondate sui dati per affrontare problemi educativi reali: dispersione scolastica, diseguaglianze, bisogni educativi speciali, formazione degli insegnanti.

Le scienze dell’educazione permettono di progettare interventi educativi efficaci, basandosi su ricerche empiriche, non solo su teorie normative o ideali astratti.

A livello internazionale, l’approccio scientifico e multidisciplinare all’educazione si è affermato come standard, nei sistemi anglosassoni si parla di educational sciences o education studies. L’Italia ha seguito questa tendenza, soprattutto a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, con la riforma dei corsi universitari.

Nel 1970 Einaudi pubblica La psicologia del bambino, scritto da Jane Piaget con Bärbel Inhelder, ma già qualche anno prima il lavoro dello psicologo svizzero è oggetto di studio nelle facoltà di magistero più avvertite, come quella di Padova.

Nel 1966 Armando pubblica Dopo Dewey: il processo di apprendimento nelle due culture di Jerome Bruner. Sempre nel 1966 Giunti-Barbera pubblicherà Pensiero e linguaggio di Lev Semënovič Vygotskij. Opere che iniziano a girare tra i giovani insegnanti, nelle università, preparando una classe docente che entra a lavorare nella scuola accanto alle generazioni precedenti formate al pensiero di Gentile e di Giuseppe Lombardo Radice. Portatori di paradigmi culturali nuovi che dovranno attendere i programmi per la scuola elementare del 1985 per trovare piena accoglienza e costituire la cultura professionale di nuove generazioni di maestri. Ma la scuola rimarrà sempre la stessa, salvo aggiustamenti apportati per far fronte a una spinta sociale orientata al rinnovamento attraverso l’istituzione dei nidi, delle scuole dell’infanzia, del tempo pieno, dell’integrazione dei portatori di handicap nella scuola di tutti.

Si diffondono anche pensieri eretici per la matrice gentiliana coniugata all’umanesimo integrale di Jacques Maritain della scuola italiana. Come la pedagogia degli oppressi di Paulo Freire, come la scuola apparato di Stato di Luis Althusser, come il pensiero del sociologo francese Pierre Bourdieu sulle diseguaglianze educative.

La sociologia dell’educazione si nutre delle opere di Émile Durkheim e di Basil Bernard Bernstein, l’antropologia culturale dei lavori di Margaret Mead e di Bronisław  Malinowski.

Ho voluto tracciare solo a grandi linee il profilo di un vero rinnovamento culturale, ben più ricco dei contributi e delle letture di tantissimi autori fondamentali per le scienze dell’educazione, che ha costituito la formazione professionale di una parte importante del corpo docente, che se non è riuscito a cambiare radicalmente il nostro sistema formativo ha però indubbiamente contribuito a fornire una base scientifica alle pratiche d’aula e al rapporto tra docenti e alunni. Un filone culturale che si è nutrito sempre di nuovi apporti, fino al pensiero di Edgar Morin da cui poi sono scaturite le Indicazioni curricolari del 2012.

Certo una cultura democratica e progressista, una cultura che guarda avanti e non in dietro, una cultura prodotto della ricerca continua, della capacità di fornire risposte alla complessità dei tempi che viviamo e che vivranno le nuove generazioni. Nessuna semplificazione, nessuna etichetta, ma l’impegno a misurarsi con nuove domande e nuovi interrogativi, che solo l’incapacità a fornire risposte può indurre a invocare il passato e ripiegare su di esso mostrando la propria fragilità e impotenza intellettuale.

Questo è ciò di cui oggi si tratta, ciò che realmente ci troviamo di fronte, che tenta di sottrarsi alle proprie responsabilità riparandosi dietro allo scudo dei danni causati dalla scuola progressista, che nessuno ha mai visto. Ciò che abbiamo veduto è l’impegno a studiare, a conoscere, a formarsi in modo permanente di tanti insegnanti, consapevoli di essere spesso disarmati di fronte ai problemi quotidiani da affrontare, mentre affabulatori senza cultura cianciano di riformismo culturale, di paradigmi culturali privi di ogni consistenza scientifica, teorica e pratica. Laudatores temporis acti fuori dal tempo che hanno scoperto l’usato sicuro, la cultura del passato, incapaci di concepire la cultura del futuro.

Scrivere per apprendere

Scrivere per apprendere

Prompt generativi e intelligenza artificiale nella didattica riflessiva

di Bruno Lorenzo Castrovinci

Scrivere non è un semplice esercizio tecnico, né un momento accessorio della vita scolastica. È, piuttosto, un gesto cognitivo ed emotivo che permette allo studente di entrare in relazione con sé stesso e con il mondo. La scrittura è il luogo in cui il pensiero prende forma, si chiarisce, si approfondisce, diventa materia viva, plasmabile, capace di restituire una visione del reale arricchito dalla soggettività.

Ogni parola scelta, ogni frase articolata è il risultato di un processo interiore che trasforma l’implicito in esplicito, il confuso in ordinato, l’informe in consapevole. Questo processo non è mai neutro, perchè chi scrive impara a conoscersi, a dare un nome alle emozioni, a collegare fatti, idee, esperienze. In una società in cui la velocità tende a sacrificare la profondità e l’immediatezza prevale sull’elaborazione, educare alla scrittura significa educare alla lentezza, alla riflessione, alla costruzione di significati personali.

Non si tratta di un atto isolato ma di un percorso, che si rinnova ogni volta che si scrive e che può essere potenziato dall’uso consapevole di strumenti come l’intelligenza artificiale. Quando la scrittura è usata come pratica quotidiana, articolata su diversi registri e forme testuali, essa diventa uno strumento di metacognizione, capace di rendere visibile il pensiero, di attivare la consapevolezza del proprio modo di apprendere e di stimolare una riflessione costante su ciò che si è, che si pensa e che si impara.

Il significato dei prompt nella scrittura scolastica

I prompt sono stimoli iniziali, suggestioni o input che attivano il processo di scrittura, innescando il pensiero, suscitando immagini mentali, richiamando emozioni o esperienze. La loro forza risiede nella capacità di non fornire risposte, ma di aprire domande, di lasciare spazio alla complessità, di generare percorsi diversi per ciascuno studente. Possono assumere molteplici forme: una frase da completare, una situazione immaginaria, una citazione letteraria o filosofica, una fotografia, una domanda aperta, una condizione ipotetica. La varietà dei prompt consente di attivare differenti aree cognitive, favorendo l’elaborazione personale, la rielaborazione creativa e la connessione tra le discipline.

Nel contesto scolastico, i prompt diventano strumenti pedagogici potenti, perché sollecitano la partecipazione attiva dello studente, stimolano la riflessione, favoriscono l’espressione di vissuti personali e l’elaborazione critica delle conoscenze. Sono ponti tra ciò che si studia e ciò che si vive, tra il sapere formale e la soggettività. Quando integrati con l’intelligenza artificiale, i prompt possono essere personalizzati in tempo reale, adattati ai diversi livelli cognitivi, emotivi e linguistici, diventando dispositivi inclusivi e dinamici. L’IA può suggerire varianti, ampliare i riferimenti, proporre collegamenti intertestuali o interdisciplinari, stimolando una scrittura dialogica e profonda.

Un prompt ben formulato non guida lo studente verso una risposta predefinita, ma lo invita ad abitare il proprio pensiero, ad esercitare la propria voce, a costruire un testo autentico. Rende la scrittura un laboratorio di ricerca, in cui l’alunno diventa autore e non semplice esecutore, esploratore e non ripetitore. In questo modo, il prompt non è più solo uno strumento didattico, ma un dispositivo formativo che stimola il pensiero divergente, il confronto critico e la capacità di dare senso al mondo attraverso le parole.

Scuola dell’infanzia: dare forma alle emozioni con le parole

Nella scuola dell’infanzia, i bambini sono ancora alle prime esperienze con il linguaggio simbolico, ma possiedono una straordinaria capacità di immaginare, di raccontare, di giocare con le parole e con le immagini mentali. In questa fase, l’obiettivo educativo prioritario non è tanto quello di produrre testi strutturati, quanto di stimolare la verbalizzazione, la narrazione, la capacità di rappresentare il mondo interiore attraverso simboli, suoni, colori, parole. I prompt, in questa fase, possono essere veicolati attraverso immagini evocative, racconti orali, oggetti della quotidianità o esperienze sensoriali.

Un esempio pratico potrebbe essere l’osservazione condivisa di un disegno che rappresenta un prato fiorito, accompagnata dalla domanda aperta: “Cosa succede se i fiori iniziano a parlare tra loro?”. Da questa semplice suggestione, possono nascere storie collettive o individuali, che il bambino racconta a voce, drammatizza con il corpo, costruisce con il disegno o modella con il materiale manipolativo. Il ruolo dell’insegnante è centrale nell’ascolto, nella valorizzazione della risposta, nella riformulazione e nel rilancio creativo. L’intelligenza artificiale educativa può affiancare l’adulto proponendo nuove domande, suggerendo immagini o suoni coerenti con l’universo simbolico del bambino, stimolando narrazioni interattive e personalizzate.

Questa forma di pre-scrittura è fondamentale per lo sviluppo del linguaggio, dell’immaginazione e della consapevolezza di sé. Raccontare ciò che si pensa o si sogna, dare voce a oggetti animati o a personaggi fantastici, aiuta il bambino a costruire il senso di identità, a esplorare emozioni complesse, a riconoscersi come soggetto comunicante. Ogni prompt diventa, così, una finestra sull’universo interiore del bambino, uno strumento per avviare un processo di alfabetizzazione emotiva e narrativa, una prima forma di accesso alla parola come luogo di significato e relazione.

Scuola primaria: scrivere per conoscersi e raccontarsi

Nella scuola primaria, la scrittura non rappresenta soltanto una competenza linguistica da acquisire progressivamente, ma si configura come un mezzo potente per esprimere sé stessi, per consolidare l’identità in formazione e per esplorare la realtà circostante con sguardo critico e creativo. A partire dai primi anni del percorso scolastico, bambini e bambine cominciano a padroneggiare le strutture del racconto, a distinguere le descrizioni dagli eventi, a dare forma scritta a ciò che immaginano o provano. La scrittura, dunque, diventa non solo un esercizio tecnico, ma una palestra emozionale e cognitiva.

Un efficace orientamento in questa direzione può venire dall’introduzione di prompt generativi, ovvero spunti di scrittura che coniughino esperienza personale, immaginazione e riflessione. Un esempio significativo è il celebre “Scrivi una lettera a te stesso tra dieci anni”, un invito che stimola il bambino a proiettarsi nel futuro, esercitando sia la fantasia sia la capacità introspettiva. Attraverso questo tipo di attività, i piccoli scrittori possono dare voce ai propri sogni, paure, desideri, maturando una prima consapevolezza di sé e delle proprie aspirazioni.

L’intelligenza artificiale può offrire un supporto creativo e personalizzato in questo processo, arricchendo l’esperienza di scrittura con domande guidate, che aiutano a focalizzare il pensiero: “Che lavoro ti piacerebbe fare? Dove vivresti? Chi vorresti accanto?”. Questi stimoli, calibrati sull’età e sul livello di maturazione emotiva, favoriscono l’autonarrazione e incoraggiano la costruzione di un dialogo interiore, spesso difficile da attivare nei contesti scolastici tradizionali.

Non meno importante è il ruolo della scrittura nella formazione della coscienza civica. In questo ambito, prompt come “Immagina di essere il sindaco della tua città per un giorno: cosa cambieresti?” attivano nei bambini una riflessione concreta sul proprio ambiente di vita e sulle dinamiche sociali che lo regolano. Scrivere da un punto di vista civico, anche se simulato, significa assumere una prospettiva di responsabilità, immedesimarsi negli altri, pensare in termini di bene comune e imparare a dare forma alle proprie idee su giustizia, equità, ambiente, convivenza.

La scrittura, in questo senso, si fa palestra di cittadinanza attiva, luogo dove si esercita la possibilità di pensare soluzioni, proporre cambiamenti, riconoscere diritti e doveri. Attraverso la parola scritta, il bambino può cominciare a sentirsi parte di una comunità, con il diritto di esprimere opinioni e il dovere di ascoltare e rispettare quelle altrui. Si sviluppa così non solo il pensiero critico, ma anche l’empatia, intesa come capacità di comprendere i punti di vista differenti dal proprio.

L’approccio narrativo riflessivo, sostenuto da una guida sensibile del docente e da strumenti innovativi come l’intelligenza artificiale, consente alla scrittura di diventare un vero e proprio strumento pedagogico trasversale, capace di favorire competenze linguistiche, emotive, cognitive e sociali. Si costruisce così uno spazio educativo in cui l’alunno non è solo un esecutore, ma un autore del proprio percorso, capace di narrare il mondo e di immaginarne uno migliore.

Scuola secondaria di primo grado: dal racconto alla riflessione

Durante la preadolescenza, la scrittura diventa uno spazio privilegiato per l’elaborazione del sé, dei cambiamenti emotivi, delle relazioni e del confronto con il mondo esterno. Gli studenti di questa fascia d’età iniziano a vivere trasformazioni profonde, che coinvolgono la percezione di sé, il rapporto con i pari, la gestione delle emozioni e la definizione dell’identità. La scrittura, in questo contesto, rappresenta un canale espressivo e formativo fondamentale, perché consente di dare voce a pensieri spesso non detti, a insicurezze, a desideri inespressi.

I prompt possono assumere una forma più complessa e stimolante, adeguata allo sviluppo cognitivo e affettivo di questa età. Un esempio è: “Racconta un momento in cui ti sei sentito diverso dagli altri”. Questo tipo di stimolo permette allo studente di esplorare la propria identità, di affrontare vissuti delicati, di sviluppare empatia verso sé stesso e gli altri. L’intelligenza artificiale può suggerire strutture narrative, parole chiave per ampliare il vocabolario emotivo, oppure offrire esempi tratti da testi letterari o autobiografici vicini alla sensibilità adolescenziale, come i romanzi di formazione o i racconti in prima persona.

Anche in ambito disciplinare i prompt possono essere utilizzati per favorire una comprensione più profonda dei contenuti attraverso l’immedesimazione. Ad esempio: “Scrivi il diario di un gladiatore romano prima della battaglia” aiuta a esplorare il contesto storico con uno sguardo emotivo; “Immagina di essere una molecola d’acqua nel suo viaggio attraverso il ciclo naturale” stimola la comprensione dei processi scientifici attraverso la narrazione. L’IA può fornire spunti narrativi, accompagnare l’organizzazione testuale e offrire feedback costruttivi durante la scrittura. Questi stimoli, ben calibrati, favoriscono un apprendimento integrato, in cui emozione, sapere e immaginazione si intrecciano per produrre testi autentici, sentiti e cognitivamente significativi.

Scuola secondaria di secondo grado: la scrittura come laboratorio del pensiero

Nel percorso delle scuole superiori, la scrittura si configura come una vera e propria palestra intellettuale, uno spazio in cui il pensiero si affina e si mette alla prova. Gli studenti, ormai capaci di affrontare temi complessi con maggiore autonomia, trovano nei prompt generativi l’occasione per sviluppare testi argomentativi, riflessivi, creativi e interdisciplinari. I prompt proposti possono stimolare riflessioni filosofiche, etiche, scientifiche, civiche e letterarie, innescando un dialogo tra la conoscenza disciplinare e la sensibilità individuale.

Un esempio particolarmente attuale è: “L’intelligenza artificiale migliora o impoverisce il pensiero umano?”. Una domanda del genere consente allo studente di esercitare la propria capacità argomentativa, di confrontare prospettive teoriche, di formulare ipotesi fondate e di elaborare contro-argomentazioni. L’IA stessa, se integrata nel processo, può suggerire domande guida, raffinare lo stile, offrire citazioni filosofiche, dati scientifici o riferimenti storici che arricchiscono il contenuto. L’obiettivo non è quello di ottenere una risposta giusta, ma di strutturare un pensiero solido, articolato e personale.

Accanto ai prompt argomentativi, un ruolo significativo lo svolgono anche quelli creativi, capaci di rinnovare l’approccio ai testi letterari. Il suggerimento “Scrivi una pagina di diario dal punto di vista di Antigone prima della condanna” consente allo studente di immergersi nei conflitti etici e umani del personaggio, sviluppando empatia e capacità di immedesimazione. Questo tipo di scrittura trasforma l’analisi letteraria in esperienza vissuta, facilitando la comprensione profonda dell’opera.

Anche in ambito scientifico, l’uso dei prompt è strategico per stimolare il pensiero sistemico e la capacità progettuale. Un esempio è: “Immagina un mondo senza energia elettrica: come cambierebbero le nostre vite?”. A partire da questa suggestione, lo studente può analizzare le interconnessioni tra scienza, ambiente, economia, tecnologia e società, sviluppando una visione critica e integrata dei problemi contemporanei. La scrittura, in questi casi, diventa luogo di connessione tra sapere, etica e responsabilità, contribuendo a formare cittadini consapevoli, capaci di orientarsi con autonomia nel pensiero e nell’azione.

Scrittura metacognitiva: pensare a ciò che si è scritto

Oltre alla produzione del testo, è fondamentale promuovere la riflessione sul processo stesso della scrittura, affinché essa non sia percepita come un semplice compito da svolgere, ma come un percorso di consapevolezza in cui lo studente diventa protagonista attivo del proprio apprendimento. La scrittura, infatti, non è solo un prodotto, ma anche e soprattutto un processo  fatto di scelte, revisioni, tentativi, dubbi, intuizioni. In quest’ottica, assumono un ruolo centrale i prompt metacognitivi, ovvero quegli stimoli che invitano a pensare su come si è pensato, su ciò che si è fatto e sulle ragioni di certe decisioni compositive.

Domande come “Cosa hai imparato scrivendo questo testo?”, “Quali parti ti hanno messo in difficoltà?”, “Cosa ti è piaciuto scrivere di più?”, “In che modo potresti migliorarlo?” aprono uno spazio riflessivo che accompagna la scrittura verso una dimensione più profonda e duratura. L’obiettivo non è semplicemente correggere, ma comprendere: comprendere il proprio stile, le strategie che funzionano, gli ostacoli incontrati e i passi compiuti per superarli. In questo modo, l’errore non è più un fallimento da nascondere, ma un’opportunità di crescita, un indicatore prezioso per orientare il cammino.

L’intelligenza artificiale può giocare un ruolo cruciale anche in questa fase, generando domande metacognitive in modo adattivo, calibrate sul contenuto del testo, sul registro linguistico utilizzato, sulle emozioni espresse o sulle strutture narrative impiegate. Questo consente un’interazione più personalizzata e dinamica, capace di valorizzare le unicità di ogni studente e di stimolare un dialogo interiore autentico. La scrittura, così, si trasforma in una forma di autoconoscenza, in un diario di bordo che accompagna il percorso cognitivo e affettivo dell’alunno.

Secondo le neuroscienze educative, la metacognizione è uno dei fattori più rilevanti per consolidare gli apprendimenti a lungo termine. Essa attiva le funzioni esecutive del cervello, rafforza i circuiti della memoria e potenzia la capacità di problem solving. Sviluppare la capacità di riflettere sul proprio pensiero significa potenziare l’autoefficacia, cioè la fiducia nelle proprie risorse, e sviluppare l’autonomia nell’apprendere. Scrivere per riflettere su come si scrive non è un’attività accessoria, ma un passaggio fondamentale per la crescita personale e scolastica, spesso trascurato nella pratica quotidiana.

Favorire spazi di metacognizione nella scuola primaria significa seminare precocemente il gusto per l’esplorazione interiore, il senso critico, la capacità di auto-valutarsi in modo costruttivo. In un mondo sempre più veloce e frammentato, educare i bambini a rallentare, a rileggersi, a interrogarsi su ciò che sentono e pensano, rappresenta una scelta pedagogica coraggiosa e necessaria. È proprio in questa prospettiva che la scrittura torna a essere ciò che dovrebbe essere: un atto formativo integrale, in cui linguaggio, pensiero ed emozione si intrecciano per costruire conoscenza e consapevolezza di sé.

Conclusione: una nuova grammatica del pensiero

L’intelligenza artificiale non sostituisce l’atto di scrivere, né può rimpiazzare la complessità dell’esperienza umana che si riflette nei testi. Tuttavia, se integrata in modo critico e consapevole, può diventare un potente alleato pedagogico, capace di accompagnare e arricchire il processo di scrittura. I prompt generativi, quando progettati con competenza e sensibilità didattica, diventano ponti tra sapere e immaginazione, tra disciplina e interiorità, tra scuola e vita. Offrono stimoli dinamici, personalizzabili e inclusivi, che permettono allo studente di attivare la propria voce e di sviluppare una scrittura autentica, capace di connettere emozione, riflessione e conoscenza.

Scrivere per apprendere, con l’aiuto dell’IA, significa riconoscere nella parola scritta non soltanto un prodotto, ma un processo in divenire, una forma di pensiero e un atto di consapevolezza. Significa restituire centralità al pensiero lento, alla capacità di fermarsi, di osservare, di riformulare. Significa anche educare allo spirito critico, alla responsabilità etica e alla profondità creativa, in un’epoca dominata dall’immediatezza e dalla superficialità. La scrittura resta, oggi più che mai, un atto profondamente umano, capace di costruire senso, identità e visione del mondo. E grazie ai nuovi strumenti digitali, può diventare anche un atto ancora più inclusivo, dialogico e trasformativo.

I “vantaggi” del docente di lingue

I “VANTAGGI” DEL DOCENTE DI LINGUE

di Tiziana Venuti [1]

Le rilevazioni Invalsi degli apprendimenti degli studenti risultano da molti anni insoddisfacenti e non raggiungono un livello adeguato nelle competenze previste per italiano e matematica, solo nella Lingua Inglese i risultati dei test rilevano che i livelli raggiunti sono in linea con soglia prevista, per una buona percentuale la superano, e sono in graduale miglioramento. Nei test Invalsi di inglese vengono valutate la comprensione della lingua orale e della lingua scritta, in cui, ad esempio, gli studenti nel triennio della scuola secondaria di primo grado riescono a sviluppare e a raggiungere un livello di competenza in linea con quello previsto dalla Indicazioni Nazionali alla fine del primo ciclo d’istruzione (livello A2 del QCER).

Da docente di Lingue mi sono sempre sentita avvantaggiata nella costruzione di un percorso didattico per i miei studenti principalmente grazie a due fattori: il primo sono gli strumenti didattici che ho sempre avuto a disposizione e il secondo è una scala di riferimento condivisa a livello europeo, che identifica gli obiettivi da raggiungere e li illustra in modo chiaro e dettagliato.

Prima di analizzarli, faccio una digressione riguardo alla mia esperienza personale.  Quando poi ho cominciato a insegnare, prima Italiano L2,  poi Inglese nelle scuole secondarie di primo grado mi sono subito resa conto di quanto il mio lavoro fosse facilitato e guidato da alcuni libri di testo (o altre pubblicazioni con materiale didattico redatto per ogni diversa abilità linguistica) che fornivano delle attività pratiche, applicando concretamente i principi fondamentali delle teorie sull’apprendimento linguistico. L’unico contatto che avevo avuto precedentemente con la didattica era stato un esame all’università, che peraltro era complementare, e quindi non faceva necessariamente parte del bagaglio formativo di un laureato in Lingue.

La solida base teorica di glottodidattica, di matrice essenzialmente anglo-sassone, non è rimasta astratta e avulsa dalla pratica in classe, ma le maggiori e più prestigiose case editrici l’hanno incorporata sistematicamente nei loro manuali traducendola nelle metodologie operative più efficaci, ad esempio lo scaffolding linguistico, il sillabo a spirale, i role-play, il cooperative learning, il learning by doing, il CLIL. I docenti vengono guidati verso una programmazione coerente, progressiva e basata su strategie didattiche attive, pratiche e coinvolgenti.

La standardizzazione internazionale ha contribuito a definire con chiarezza i livelli di competenza, ha uniformato obiettivi didattici e criteri di valutazione, le prove proposte richiedono abilità comunicative reali e non solo conoscenza teorica. L’apprendimento è centrato sullo studente, sul fare linguistico, la versione digitale dei libri di testo offre strumenti multimediali di facile utilizzo, con contenuti accattivanti e rilevanti per lo studente. Sono incluse attività che prevedono competenze integrate (comprensione orale collegata alla produzione scritta). Le competenze diventano più importanti rispetto ai contenuti, che possono variare per argomento e complessità.


Tutto questo elevato grado di “professionalità” è riconducibile alla predominanza del mondo anglosassone e statunitense nello sviluppo delle teorie dell’apprendimento linguistico e delle metodologie didattiche, per svariati motivi storici, culturali, economici ed accademici.

In primo luogo si deve tenere conto dell’affermazione dell’inglese come lingua globale: prima con l’espansione dell’impero britannico, e poi con l’ascesa degli Stati Uniti come potenza mondiale, l’inglese è diventato la lingua della diplomazia, della scienza, del commercio, della tecnologia e della cultura popolare.  La necessità di imparare l’Inglese come L2 ha generato un enorme mercato e un conseguente interesse accademico e metodologico attorno al suo insegnamento. Durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti dovevano addestrare rapidamente un gran numero di soldati, spie, diplomatici e operatori sul campo a comunicare efficacemente in lingue strategiche (tedesco, giapponese, russo, cinese, arabo, ecc.).

Da iniziali metodi di tipo comportamentista, per i quali l’apprendimento è un processo meccanico di acquisizione tramite stimolo-risposta, si è passati alla scoperta dell’importanza di comunicare efficacemente in contesti reali, apprendendo attraverso l’interazione sociale e la situazione comunicativa. Ecco che la competenza linguistica diventa strumento di comunicazione sociale, le attività linguistiche proposte nei libri di testo diventano meno meccaniche e puramente grammaticali, basate quasi solo sulla memorizzazione.

Questo ha portato alla nascita e alla sistematizzazione di metodi funzionali, rapidi e orientati alla comunicazione pratica, cioè alla nascita di un apprendimento per via curricolare e non programmatica per cui ad ogni obiettivo di apprendimento da raggiungere viene collegata una precisa strategia didattico-formativa.

Conseguentemente alla crescente domanda di insegnare l’inglese come L2 si è reso necessario avere delle scale e dei descrittori di riferimento per una valutazione il più possibile precisa, oggettiva e affidabile. La diffusione delle certificazioni linguistiche, che ormai la maggior parte delle scuole secondarie di primo e di secondo grado includono nella loro offerta formativa, ha costituito un notevole passo avanti per stabilire quali sono le competenze attese, i livelli che è realisticamente possibile raggiungere. Il focus è sulla competenza “globale”, le certificazioni sono progettate per valutare la competenza complessiva di un candidato, non una singola performance in singole abilità. Nelle certificazioni non è necessario ottenere il punteggio minimo in ogni singola abilità valutata, quello che conta è il risultato complessivo nel quale i singoli punteggi si compensano. Questo sistema descrive quindi un profilo generale di competenza in cui alcuni aspetti (abilità) possono essere più sviluppati di altri, senza che questo impedisca di comunicare efficacemente.

Un elemento significativo delle certificazioni linguistiche è che, nel caso in cui uno studente non raggiunga la soglia prevista per il superamento dell’esame (ad esempio il livello B1), non riceve un attestato con l’indicazione di ‘non superato’ o ‘bocciato’. Al contrario, viene rilasciato un documento  che riporta il punteggio ottenuto su scala per ciascuna delle componenti dell’esame (Reading, Writing, Listening, Speaking), che può corrispondere a un livello inferiore, come l’A2. Questo approccio mira a valorizzare le competenze effettivamente acquisite, offrendo al candidato uno strumento utile per l’autovalutazione e per il monitoraggio dei propri progressi.

Allo stesso modo è auspicabile, ma non sempre avviene, che il docente di lingue si attenga a questo tipo di valutazione: ogni studente ha stili di apprendimento e personalità diverse, alcuni sono più estroversi e eccellono nella produzione orale, altri più riflessivi emergono nella produzione o comprensione scritta e così via. In quest’ottica ciò che realmente conta è la capacità dello studente di comunicare in modo efficace, anche se una specifica abilità dovesse risultare non particolarmente sviluppata o l’accuratezza grammaticale non ancora consolidata. La competenza comunicativa è data dall’equilibrio e dalla compensazione tra le diverse abilità, in una visione integrata e funzionale della lingua.

Grazie a queste pratiche consolidate e alla disponibilità di manuali costantemente aggiornati e implementati, anche senza un’approfondita preparazione in area pedagogica e didattica, un insegnante di lingue scrupoloso e motivato riesce ad offrire ai suoi studenti un approccio efficace che può portare al raggiungimento dei traguardi di apprendimento. Ritengo che in alcune discipline (come l’italiano e la matematica) prevalga ancora una didattica di tipo troppo trasmissivo, con strumenti poco interattivi e focalizzati più sul contenuto e sulle nozioni. Sarebbe interessante capire perché altre discipline non definiscano standard di riferimento condivisi.

La definizione chiara di competenze, orientata ad aumentarne la trasferibilità e spendibilità in contesti professionali ed accademici, potrebbe contribuire in modo significativo al miglioramento complessivo di tutto il sistema scolastico italiano, in un’ottica di competenze chiave nell’ambito dell’apprendimento permanente.


[1] Tiziana Venuti insegna Inglese nell’Istituto comprensivo di Pasian di Prato (Udine). Ha maturato competenze didattiche e linguistiche (connesse con una certificazione C2) in Inghilterra, Israele, Nigeria, Monaco di Baviera. Collabora con il Panel Oxford per la redazione di libri di testo ed è tra i formatori della DeA Scuola.

Il rapporto tra la scuola e il broker

Orientamenti giurisprudenziali e prescrizioni etiche che legittimano il rapporto tra la scuola e il broker

di Anna Armone

L’agire amministrativo si snoda lungo due versanti: quello normativo e quello etico-comportamentale. Tale dualismo riguarda anche il caso del ricorso al broker.

Alla base della relazione tra il broker e le pubbliche amministrazioni c’è l’esigenza da parte dei soggetti pubblici di avvalersi della consulenza e dell’assistenza del broker, innanzitutto per ottenere l’esame e la  pianificazione dei rischi  trasferibili sulle compagnie di assicurazioni, attività sempre più complessa. Ma, indipendentemente dalla struttura organizzativa, è sentita la necessità di affrontare la complessità delle funzioni amministrative di propria competenza in condizioni di sicurezza giuridica, liberandosi dai rischi professionali derivanti dalla complessificazione del quadro normativo. Tali compiti, nella PA e in particolare nella scuola, non possono certo essere svolti dai propri dipendenti per mancanza delle specifiche competenze necessarie sia nella fase precontrattuale che in quella di gestione contrattuale. Infatti, il ruolo del broker non si esaurisce nel supporto alla scelta del contraente, ma si sostanzia anche nell’accompagnamento durante la gestione del sinistro.

La Corte di Cassazione, Sezione VI civile, ordinanza numero 9863 del 15 aprile 2021 sancisce che:

“il broker assicurativo svolge – accanto all’attività imprenditoriale di mediatore di assicurazione e riassicurazione – un’attività di collaborazione intellettuale con l’assicurando nella fase che precede la messa in contatto con l’assicuratore, durante la quale non è equidistante dalle parti, ma agisce per iniziativa dell’assicurando e come consulente dello stesso, analizzando i modelli contrattuali sul mercato, rapportandoli alle esigenze  del cliente, allo scopo di riuscire ad ottenere una copertura assicurativa il più possibile aderente a tali esigenze e, in generale, mirando a collocarne i rischi nella maniera e alle condizioni più convenienti per lui; peraltro, tale attività di collaborazione non investe solo la fase genetica del rapporto, ma consiste anche nell’assistenza durante l’esecuzione e la gestione contrattuale (Sez. 3 – , Sentenza n. 25167 del 11/10/2018)”.

Relativamente alla legittimazione di questa figura essa è spesso contrastata perché interviene ad eliminare, nella fase prenegoziale, quelle relazioni “amicali” o essenzialmente commerciali che, come vedremo, non sono ammissibili. A creare questa “zona grigia” contribuiscono anche i gruppi sociali di appartenenza che non vantano certamente un interesse finanziario, ma tendono alla fidelizzazine dell’iscritto. Il sistema della trasparenza, che include l’importante presupposto della legalità, richiederebbe, da parte di tutti gli attori sociali del sistema pubblico, compresi quelli rappresentativi dei dipendenti pubblici, un comportamento etico e rispettoso delle regole di prevenzione e contrasto alla corruzione.

Come affermato in una vecchia pronuncia del Tribunale di Torino “È ammissibile l’intervento di un “broker” in relazione ai contratti assicurativi della p.a. stipulati all’esito di procedura negoziata, poiché viene devoluto l’incarico di formulare giudizi tecnici sulla estensione e convenienza delle coperture assicurative in ballottaggio, ferma restando la esclusiva e inderogabile competenza finale della p.a. nella valutazione del pubblico interesse e nella assunzione delle consequenziali decisioni” (Trib. Torino, 10.1.1997).

È per tali ragioni che la legittimazione principale deriva, pertanto, dal riconoscimento da parte della giurisprudenza della disparità di posizioni contrattuali tra il soggetto pubblico e la compagnia di assicurazioni nella fase precontrattuale e contrattuale a causa della mancanza di informazioni tecniche e della tendenza da parte delle compagnie a sottoporre all’assicurato condizioni contrattuali unilaterali. Bisogna considerare come la spesa assicurativa di un ente pubblico ha forti implicazioni sulle risorse finanziarie e sull’efficienza del servizio. Anche se nella scuola ha un grande rilievo la contribuzione obbligatoria delle famiglie, ciò rende necessario il ricorso a un professionista in possesso delle competenze specialistiche adatte alla ricognizione dei rischi e all’individuazione delle soluzioni assicurative più adatte. Focalizzare l’interrogativo dell’utilizzo del broker esclusivamente sulla ricaduta della provvigione sulla compagnia assicurativa o sulla famiglia, significa mistificare l’interrogativo e le ragioni della scelta.

Sono, dunque, numerose le sentenze che affermano la legittimità e compatibilità tra la figura del broker e le pubbliche amministrazioni. Una sentenza fra tutte, è quella del TAR Sardegna  del 10 giugno 1999, n. 770 secondo la quale “è del tutto compatibile con la natura dei menzionati contratti e con il sistema pubblicistico di aggiudicazione dei medesimi che l’amministrazione, la quale intenda provvedere alla copertura dei rischi mediante un apposito contratto di assicurazione, si avvalga dell’opera di un professionista esterno che l’assista nella determinazione del contenuto del contratto e collabori poi alla sua gestione ed esecuzione. Gli enti pubblici godono, in quanto soggetti giuridici, di una piena capacità giuridica che, salvo il limite connesso al rispetto dei fini istituzionali, attribuisce loro un’autonomia negoziale di carattere generale, la quale può certamente estrinsecarsi anche nel modulare, secondo quanto ritenuto più conveniente nel pubblico interesse, figure contrattuali tipizzate per legge; pertanto, è legittima la cd. clausola broker, inserita nel bando di gara relativo all’affidamento del servizio di copertura assicurativa degli automezzi di proprietà dell’ente pubblico, secondo cui la gestione del contratto di assicurazione è attribuita ad una società di brokeraggio ai sensi della l. 28 novembre 1984 n. 792”

Di recente la Cass. civ., Sez. II, Sentenza, 10/01/2023, n. 341 (rv. 666671-02) ha sentenziato che “Il broker assicurativo svolge un’attività di collaborazione intellettuale a favore dell’assicurando nella fase che precede la messa in contatto con l’assicuratore volta ad ottenere, previa analisi dei modelli contrattuali presenti sul mercato, la copertura assicurativa il più possibile aderente alle esigenze del proprio cliente; attività che, non risultando astrattamente incompatibile con le procedure ad evidenza pubblica, può essere legittimamente svolta in favore della P.A. o di un ente pubblico allo scopo di garantirli ed assisterli nella stipula di un contratto di assicurazione. (Cassa con rinvio, CORTE D’APPELLO ROMA, 19/02/2016).

È peraltro la stessa Corte dei conti che, rispondendo al quesito di un sindaco sulla legittimità di ricorso al broker, definisce il broker “un professionista che assicura al cliente le migliori condizioni possibili ed al quale è legato da un contratto d’opera professionale, inerente a un servizio assicurativo in senso ampio, diverso dall’attività di agenzia che è tipicamente commerciale e a servizio delle compagnie di assicurazione”. Da questa affermazione si evince il vero focus dell’interesse a ricorrere a questa figura professionale, la protezione dell’interesse pubblico all’efficienza ed economicità delle scelte gestionali.

L’agente assicurativo e il broker: le differenze

Andiamo quindi a verificare, incominciando da un parere del Consiglio di Stato, quali sono le differenze fra un Agente di Assicurazione ed un broker assicurativo.

“Il broker assicurativo è un mediatore professionale che organizza una transazione tra un acquirente e un venditore, svolgendo la propria attività su incarico fiduciario del cliente, generalmente allo scopo di reperire sul mercato le soluzioni assicurative rispondenti alle esigenze di coloro che si affidano al suo servizio, remunerato poi alla conclusione dell’affare dalle compagnie di assicurazioni mediante provvigioni commisurate ai premi intermediati”.

In particolare, secondo il Regolamento Isvap n. 5 del 2006 “si intendono per mediatori o broker gli intermediari che agiscono su incarico del cliente e che non hanno poteri di rappresentanza di imprese di assicurazione o di riassicurazione”.

Si individuano, dunque, due diverse figure: quella dell’agente, che agisce quale mandatario di una o più imprese assicurative, e quella del broker che agisce su incarico del cliente.

Fondamentale appare il contenuto del parere n. 576 del 3 marzo 2017 pronunciato dal Consiglio di Stato.

“Dal combinato disposto degli artt. 106, 108 e 109 del CAP si ricava: (i) la definizione di attività di intermediazione assicurativa (“consiste nel presentare o proporre prodotti assicurativi … o nel prestare assistenza o consulenza finalizzate a tale attività e, se previsto dall’incarico intermediativo, nella conclusione dei contratti ovvero nella collaborazione alla gestione … dei contratti stipulati” (art. 106), (ii) che “L’attività di intermediazione assicurativa … è riservata agli iscritti nel registro di cui all’articolo 109” (art. 108), (iii) “Nel registro sono iscritti in sezioni distinte: a) gli agenti di assicurazione, in qualità di intermediari che agiscono in nome e per conto di una o più imprese di assicurazione o di riassicurazione …”; “b) i mediatori di assicurazione o di riassicurazione, altresì denominati broker, in qualità di intermediari che agiscono su incarico del cliente e senza potere di rappresentanza di imprese di assicurazione …”;…..).

L’ANAC, nei documenti di consultazione, ha evidenziato come l’attività dei brokers possa garantire un ausilio fondamentale per le pubbliche amministrazioni nell’attività di riduzione dei rischi e gestione dei contratti assicurativi.

In un contesto generale di profonda complessità come quello attuale – caratterizzato da “policrisi” in atto (pandemica, finanziaria, energetica, geopolitica, ecc..) – anche la Pubblica Amministrazione si trova esposta a un numero crescente e sempre più diversificato di rischi. La difficoltà crescente nel valutare le diverse potenziali situazioni di rischio impone, con sempre maggior frequenza, la necessità di affiancare le Istituzioni con professionalità adeguate a individuare, comprendere, mitigare (ove possibile), trasferire e gestire i rischi rilevati.

La nostra società è in profondo cambiamento, dal punto di vista economico e culturale e la Scuola, in particolare, è il contesto e il luogo dove, prima rispetto ad altri, si manifestano le nuove tendenze. La Scuola, all’interno della P.A. conta un sesto della popolazione nazionale. Negli ultimi decenni è tra i soggetti che hanno subito e attivato la maggiore innovazione, non solo tecnica ma anche strutturale. Le attività “pratiche”, fino all’inizio del secolo circoscritte ai soli istituti professionali, oggi, con l’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro e dei PCTO, coinvolgono tutti gli studenti degli istituti superiori.

L’aumento del rischio è tangibile e concreto: prova ne è la recente previsione di legge che dispone l’estensione della copertura assicurativa prestata dall’INAIL. La Pubblica Amministrazione in generale e quella scolastica in particolare non contempla, all’interno della propria organizzazione, la figura professione del risk manager e non ha, come abbiamo già rilevato, personale specializzato a trattare la gestione del rischio sotto il profilo assicurativo. Inoltre, attività gestite direttamente o attraverso il ricorso a soggetti esterni che millantano condizioni favorevoli e mirano ad evitare il ricorso alla figura professionale del broker potrebbero portare a conseguenze personali di responsabilità amministrativa, venendo nel contempo a mancare il dedicato, quanto necessario e competente, supporto professionale.

A differenza degli altri intermediari assicurativi, il Broker opera come consulente diretto del cliente (nel caso di interesse, la stessa Scuola) ed è tenuto a mantenere, anche attraverso opportuni presidi di carattere normativo che ne garantiscono la dovuta trasparenza, una posizione di terzietà rispetto alle compagnie di assicurazione con le quali si trovi ad operare per collocare nel modo più opportuno i rischi rilevati attraverso la propria analisi consulenziale e professionale.

Le migliori soluzioni assicurative possono essere individuate e proposte, infatti, solo dopo l’esame di un consulente specializzato che sia costantemente a conoscenza degli orientamenti delle imprese di assicurazione, tenuto conto delle specifiche esigenze del cliente, e che sia anche in grado di proporre soluzioni assicurative quanto più efficaci, efficienti, trasparenti ed economiche in funzione di quanto il Mercato possa offrire e recepire, giungendo così a una sintesi efficace tra le innumerevoli e diversificate proposte di polizze e di servizi disponibili.

In una seconda fase il Broker collabora alla gestione delle polizze e dei sinistri relativi alle polizze sottoscritte. Allo stesso tempo, l’evoluzione delle complessive esigenze di gestione dei rischi, unitamente ad una crescente necessità di economicità nella gestione degli stessi, ha progressivamente ampliato il ruolo del Broker, valorizzandone sempre più le competenze. Il Broker oggi, dunque, assume sempre più la veste di vero e proprio “consulente aziendale” e può essere chiamato a fornire servizi aggiuntivi anche indipendentemente dalla sottoscrizione delle polizze assicurative, innanzitutto, in chiave di prevenzione dei rischi, ma anche per la gestione di «sinistri» non assicurati e non ricompresi nella copertura.

Cruciale poi non è unicamente l’azione ex-post ma anche la messa in atto di specifiche azioni preventive nell’assicurabilità dei rischi, attività che, peraltro, viene sempre con maggior vigore enfatizzata dalla stessa EiOPA (Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali), che ne sottolinea l’importanza anche in un’ottica di sviluppo più diffuso di partnership pubblico-private.

Inoltre, l’importante supporto del Broker può essere acquisito dalla PA per lo più senza ulteriori oneri economici aggiuntivi, giacché la sua remunerazione deriva (in)direttamente dalle imprese di assicurazione con la quale vengono sottoscritte le polizze e tale remunerazione è parte integrante dei “caricamenti” già

In un contesto in continua evoluzione è oltremodo auspicabile che la prevenzione dal verificarsi dei rischi, sia sempre più “centrale” per la PA e, in generale, per tutti i cittadini al fine di mitigare, per quanto possibile le conseguenze economiche e sociali, spesso molto “onerose” che gli eventi dannosi recano con sé. La consulenza di un Broker può fare la differenza nel rendere la Scuola un luogo più “sicuro”, concentrando ogni sforzo sulla cura e la formazione delle generazioni future.

La regolazione comportamentale del dirigente nell’attività negoziale e la previsione dell’intermediario

L’azione amministrativa e gestionale dei dirigenti pubblici ha costituito il punto di partenza per la riforma Brunetta del 2009 che ha avuto come scopo principale la responsabilizzazione dei dirigenti e, di conseguenza, il controllo sulla spesa pubblica. La qualità dei servizi pubblici fa da corollario e da fine comprimario a tutto ciò. Ma è stata la legge 190 del 2012 a definire in modo più organico le azioni di prevenzione e contrasto alla corruzione attraverso l’adozione del concetto di maladministration che va oltre il concetto penalistico delle figure corruttive.  È ovvio che l’ambito privilegiato entro il quale si alimenta la maladministration è costituito dall’attività negoziale. Se pensiamo all’ambito assicurativo, la rete di relazioni extracontrattuali, amicali e commerciali, genera effetti sull’azione negoziale che non corrispondono al dettato normativo comportamentale ed etico. Ne vedremo il richiamo specifico.

Le norme regolative dell’attività negoziale sono già codificate nelle leggi primarie, nei regolamenti ministeriali, nelle norme comunitarie. Ma il legislatore ha (correttamente) ritenuto di intervenire anche a livello etico e comportamentale. Ecco perché il codice di comportamento generale per i dipendenti pubblici e i singoli codici di comportamento richiamato il comportamento specifico da tenere nell’attività negoziale. Ne vedremo degli esempi.

È indubbio che non si sia dato seguito alle raccomandazioni che l’Italia ha ricevuto dal Gruppo di Stati contro la Corruzione del Consiglio d’Europa (c.d. “GRECO”) al termine del V ciclo di valutazione che quest’organismo ha svolto. Il Rapporto da esso adottato il 25 marzo 2024 ha chiesto infatti al nostro Paese di dotarsi di un sistema credibile (efficace) di supervisione e di sanzione dei comportamenti che risultano essere inadempimenti degli obblighi contenuti nei codici di comportamento adottati dai vari enti pubblici. Perseguire questa via contribuirebbe in misura determinante a garantire un ambiente integro nella pubblica amministrazione, ricorrendo appunto a misure di tipo amministrativo e disciplinari.

Pima di illustrare qualche esempio occorre fare un cenno al legame tra il codice di comportamento e il codice disciplinare. Quest’ultimo prevede infrazioni e sanzioni collegati, entrambi, alle prescrizioni del codice di comportamento generale, il d.p.r. 62/2013, e al codice di comportamento specifico dell’amministrazione.

Il sistema scolastico è in questa condizione: solo per il personale ATA e per i dirigenti il CCNL prevede il codice disciplinare, mentre per i docenti siamo all’ennesimo rinvio ad uno specifico accordo contrattuale.

Per tutto il personale vale il Codice di comportamento per i dipendenti pubblici, ma non è previsto alcuno codice specifico.

La norma del Codice di comportamento che richiama il comportamento nell’attività negoziale è l’art. 14:

“Nella conclusione di accordi e negozi e nella stipulazione di contratti per conto dell’amministrazione, nonché nella fase di esecuzione degli stessi, il dipendente non ricorre a mediazione di terzi, né corrisponde o promette ad alcuno utilità a titolo di intermediazione, né per facilitare o aver facilitato la conclusione o l’esecuzione del contratto. Il presente comma non si applica ai casi in cui l’amministrazione abbia deciso di ricorrere all’attività di intermediazione professionale”.

Tra tutti gli esempi di codici specifici che si possono fare, prendiamo la previsione del Codice di comportamento dei dipendenti della Presidenza del consiglio dei Ministri:

Codice di comportamento e di tutela della dignità e dell’etica dei dirigenti e dei dipendenti della PCM

Art. 14 – Contratti e altri atti negoziali e rapporti privati del dipendente

È  fatto divieto al dipendente di concordare incontri, se non nei casi previsti dalle procedure di gara, con i concorrenti, anche potenziali, alle procedure medesime o dare loro appuntamenti informali. Eventuali richieste di chiarimento per procedure di gara, che non attengano ad aspetti meramente formali delle procedure stesse, devono essere formalizzate per iscritto dai soggetti interessati ed i contenuti delle relative risposte, se di interesse generale, vengono resi noti mediante pubblicazione sul sito istituzionale dell’Amministrazione nella medesima sezione ove sono riportati gli atti di avvio della procedura di gara. Nelle risposte a quesiti occorre rispettare la parità di trattamento e garantire uguale accesso alle informazioni da parte di tutti i soggetti potenzialmente interessati a partecipare alla procedura di gara.

Come si nota, sono previsti tutti quei comportamenti prodromici alla fase contrattuale che possono viziare il processo decisionale di un dirigente che dovrebbe esercitare la sua discrezionalità alla luce dei criteri di efficienza e di efficacia che non possono essere asserviti all’interesse commerciale degli interlocutori occasionali. Ecco, dunque, la previsione della massima trasparenza delle relazioni formali e informali che, addirittura, vengono formalizzate e pubblicizzate.

Vediamo la regolazione nel sistema ministeriale dell’istruzione.

Codice di comportamento dei dipendenti del Ministero dell’istruzione

All’art. Articolo 21 “Contratti, appalti ed altri atti negoziali”, comma 2 riporta “2. Nella conclusione di accordi e negozi e nella stipulazione di contratti per conto dell’Amministrazione, nonché nella fase di esecuzione degli stessi, il dipendente non ricorre a mediazione di terzi né corrisponde o promette ad alcuno utilità a titolo di intermediazione, per facilitare o aver facilitato la conclusione o l’esecuzione del contratto.”  

Tra i destinatari di cui all’art. 2, comma 3, non sono previsti i dirigenti scolastici

Resta l’obbligo, per I dipendenti scolastici, di adempiere all’art. 14 del d.p.r. 62/2013, così come viene richiamato da tutti I PTPCT degli Uffici scolastici regionali per le scuole del proprio territorio. Un esempio per tutti il  PTPCT dell’usr emilia romagna 2025: “Tutti i dipendenti sono tenuti: − alla conoscenza del piano di prevenzione della corruzione a seguito della pubblicazione sul sito istituzionale nonché alla sua osservanza ed altresì a provvedere, per quanto di competenza, alla sua esecuzione; − alla conoscenza ed all’osservanza del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici di cui al DPR n. 62/2013 ed a successive modificazioni normative e regolamentari al fine di assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni corruttivi, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità, buona condotta e servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico…..”

Quanti dirigenti scolastici ricostruiscono tale percorso di adempimenti, e quanti estendono la conoscenza al personale, in particolare ai Direttori sga?

La regolazione etica per i dirigenti scolastici

CCNL 2016-2018

Per la categoria dei dirigenti scolastici, ad oggi, pertanto, l’unico riferimento è al d.p.r. 62/2013 che prevede la regolazione del comportamento nell’attività negoziale all’art. 14 il quale recita “Contratti ed altri atti negoziali»

1.Nella conclusione di accordi e negozi e nella stipulazione di contratti per conto dell’amministrazione, nonché nella fase di esecuzione degli stessi, il dipendente non ricorre a mediazione di terzi, né corrisponde o promette ad alcuno utilità a titolo di intermediazione, né per facilitare o aver facilitato la conclusione o l’esecuzione del contratto. Il presente comma non si applica ai casi in cui l’amministrazione abbia deciso di ricorrere all’attività di intermediazione professionale”.

All’art. 26 del CCNL 2016 – 2018, titolato “Obblighi del dirigente”-, è previsto che il dirigente osserva il codice di comportamento di cui all’art. 54 del d.lgs. n. 165/2001, nonché lo specifico codice di comportamento adottato dall’amministrazione nella quale presta servizio

Alla luce di queste due prospettive, quella giurisprudenziale e quella (cogente) etica comportamentale, i dirigenti scolastici sono chiamati a garantire la trasparenza e la correttezza dell’azione amministrativa, contrastando quei comportamenti estranei che, anche se non rilevano penalmente, assumono rilievo sanzionatorio per i dirigenti stessi e minano le basi del buon andamento della PA.

La scuola che apprende

La scuola che apprende

La professione docente tra riflessione, ricerca e narrazione

di Bruno Lorenzo Castrovinci

Maestre, maestri, professoresse e professori. Figure un tempo dai contorni netti, ruoli chiari e riconosciuti, oggi si ritrovano a navigare in un mondo che cambia, che si evolve e si trasforma incessantemente. In un tempo come il nostro, in cui la tecnologia ha ridefinito le coordinate della conoscenza e dell’apprendimento, anche l’identità dell’insegnante si apre a nuove dimensioni, ancora in via di definizione.

Un tempo erano i depositari del sapere, guide insostituibili insieme ai libri di testo, alle polverose enciclopedie che campeggiavano nelle case, e alle biblioteche che profumavano di carta e silenzio. Oggi, quegli spazi sono stati affiancati – talvolta sostituiti – da schermi digitali, da motori di ricerca che permettono l’accesso immediato a ogni tipo di informazione, in ogni luogo e in ogni momento. Il sapere, un tempo lento, scandito da rituali ben definiti, si muove ora a ritmi accelerati, e ciascuno diventa inevitabilmente ricercatore, immerso nei meandri infiniti di una rete sempre più densa e interconnessa. L’intelligenza artificiale semplifica, guida, suggerisce, ridisegna il nostro modo di comprendere il mondo.

In questo tempo di rapide trasformazioni sociali, culturali e tecnologiche, la scuola è chiamata a un compito che va oltre la semplice trasmissione dei saperi. Deve diventare essa stessa un luogo di apprendimento continuo, consapevole della propria missione educativa in un contesto in costante mutamento. L’orizzonte della complessità impone un ripensamento profondo delle strutture, dei ruoli, delle relazioni che abitano l’istituzione scolastica. Non basta che l’allievo impari, se la scuola rimane ferma nelle sue certezze. È l’intero sistema che deve interrogarsi, accogliere l’incertezza, trasformarla in occasione di crescita, di rinnovamento autentico.

In questo scenario, il docente non è più soltanto colui che insegna, ma colui che apprende insegnando. Rinnova continuamente la propria identità professionale, si fa artigiano del pensiero educativo, intreccia riflessione, ricerca e narrazione. È un costruttore di senso, capace di dare forma a una scuola viva, sensibile, plurale, capace di rispondere ai bisogni reali delle persone che la abitano.

Ripensare, oggi, il ruolo dell’insegnante significa tornare al significato più profondo dell’educare: un atto di relazione, di ascolto, di responsabilità condivisa. Ma anche uno spazio generativo, in cui l’apprendimento non è solo trasmissione, ma co-costruzione, scoperta reciproca, possibilità aperta. È tempo di riconoscere l’insegnamento come un’arte in movimento, che cresce insieme a chi la pratica e a chi la riceve.

Una scuola che cresce mentre insegna

L’idea di una scuola che apprende non è un paradosso, ma un’aspirazione pedagogica concreta e urgente, capace di rinnovare profondamente il senso stesso dell’istituzione scolastica nel XXI secolo. In un’epoca in cui le conoscenze si moltiplicano, si aggiornano e si trasformano in tempi sempre più rapidi, la scuola non può più limitarsi a essere un contenitore di saperi preconfezionati o un luogo di mera trasmissione verticale. Deve, piuttosto, proporsi come un ambiente dinamico, relazionale e dialogico, capace di autorigenerarsi attraverso l’interazione continua tra teoria e prassi, tra intenzionalità educativa e risposta al contesto. Questo significa ripensare tempi, spazi, linguaggi, ruoli e curricoli, aprendo la scuola a nuove forme di apprendimento collaborativo, esperienziale e transdisciplinare. Non si tratta soltanto di insegnare, ma di farlo in modo tale che l’intera comunità scolastica si configuri come un laboratorio di apprendimento diffuso e generativo, in cui ogni membro, docente o discente, contribuisce attivamente alla costruzione del sapere e del senso. In questo scenario, il docente non è un semplice trasmettitore di nozioni, ma un intellettuale riflessivo, un ricercatore in azione, un mediatore culturale, un attivatore di processi e un narratore di esperienze educative. La scuola che apprende è una scuola che si interroga continuamente, che accoglie il cambiamento come risorsa e come sfida, che si forma mentre forma, e che fonda il suo progetto educativo sulla consapevolezza della propria evoluzione, sul dialogo tra memoria e innovazione, tra esperienza e visione, tra identità e futuro.

Il docente come soggetto riflessivo

Il primo passo verso una scuola che apprende è la riflessione del docente sul proprio operato, intesa come una forma profonda di consapevolezza, responsabilità pedagogica e apertura etica. Riflettere significa osservare con lucidità e coraggio il proprio modo di insegnare, interrogarsi sulle scelte metodologiche adottate, sugli esiti educativi raggiunti, sulle dinamiche relazionali attivate in aula, sulle emozioni che si muovono silenziosamente tra i banchi e sulle attese disattese che rivelano fragilità e bisogni inespressi. Non si tratta di un atto episodico, né di un’abitudine tecnica, ma di una pratica sistematica, un’attitudine mentale e umana che richiede tempo, sospensione del giudizio, silenzio interiore, disponibilità all’ascolto e radicale onestà intellettuale. La riflessione autentica si nutre del dubbio, accetta l’incompiutezza, riconosce gli errori come opportunità di apprendimento trasformativo, superando la logica della performance per abbracciare quella della crescita. È nella riflessione che si annidano le domande più profonde sull’efficacia dell’insegnamento, sul senso della relazione educativa, sulla legittimità delle aspettative, sul valore della conoscenza condivisa e sulla capacità di generare ambienti di apprendimento equi e significativi. L’insegnante che riflette abbandona la posizione di chi sa tutto e si apre alla possibilità di apprendere insieme ai suoi alunni, accogliendone lo sguardo, le domande, le resistenze, e costruendo una pedagogia dell’incontro, in cui la mente e il cuore trovano spazio per coesistere e cooperare, generando un sapere che è sempre anche relazione, apertura e trasformazione reciproca.

La dimensione della ricerca come fondamento professionale

Accanto alla riflessione si colloca l’esigenza della ricerca, intesa non in senso accademico e distaccato, ma come ricerca-azione che si innesta profondamente nella pratica quotidiana e si alimenta di osservazione, sperimentazione e trasformazione. Il docente ricercatore non è un teorico isolato, ma un professionista immerso nel contesto reale della classe, dove ogni gesto didattico diventa oggetto di indagine e possibilità di rinnovamento. La sua postura è quella di chi si interroga costantemente, non si accontenta delle routine e si confronta con l’imprevedibilità dell’insegnamento come terreno vivo di scoperta. Egli sperimenta, documenta, analizza, rielabora, con l’umiltà di chi sa che ogni risposta apre nuove domande e che ogni soluzione è sempre provvisoria, radicata nel qui e ora dell’esperienza educativa. La didattica si fa così terreno di esplorazione e cambiamento, nella consapevolezza che ogni aula rappresenta un microcosmo irripetibile, con dinamiche, storie, potenzialità uniche, e che ogni proposta pedagogica richiede attenzione, flessibilità, responsabilità. Le strategie didattiche non si applicano meccanicamente, ma si adattano, si modellano, si trasformano in risposta ai bisogni mutevoli degli studenti, spesso in modo imprevedibile e creativo, attraversando talvolta la fragilità, l’errore, il tentativo non riuscito. Il docente che fa ricerca si muove tra teorie e contesti reali, tra ipotesi e riscontri, tra intuizioni e verifiche sul campo, e nel farlo rinnova costantemente il proprio ruolo, riscoprendosi protagonista attivo del cambiamento educativo e custode di un sapere in continua evoluzione. In tal senso, la ricerca-azione non è una tecnica, ma una forma di pensiero educativo, una pratica riflessiva incarnata che pone l’insegnante al centro di un processo generativo capace di produrre trasformazioni significative non solo nella scuola, ma nella società tutta.

Il rischio dell’autoreferenzialità

Nel percorso verso una scuola che apprende si annida tuttavia una possibile deriva, spesso sottovalutata ma estremamente pericolosa: l’autoreferenzialità del docente. Questa si manifesta quando l’insegnante smette di interrogarsi realmente, trasformando la riflessione in un esercizio autoreferenziale e compiaciuto, che più che aprire varchi di consapevolezza tende a rafforzare certezze già consolidate. La ricerca, in tale prospettiva, si riduce a un formalismo sterile, uno schema vuoto da ripetere più per dovere che per reale spinta trasformativa. In questo modo, il rischio è quello di perdere completamente il contatto con la realtà viva e mutevole della classe. Parlare di didattica senza ascoltare davvero gli studenti, narrare la propria esperienza senza confrontarsi con quella altrui, costruire percorsi chiusi che non si aprono al dubbio, alla revisione, alla contaminazione, tutto questo conduce a una stagnazione travestita da innovazione. L’autoreferenzialità produce l’illusione di un cambiamento, quando in realtà genera autocelebrazione e irrigidimento. Una scuola autoreferenziale smette di apprendere, si ripiega su se stessa, si chiude nel proprio linguaggio tecnico, e si cristallizza in pratiche che sembrano nuove solo perché cambiano la forma ma non la sostanza. Solo un costante confronto tra pari, l’ascolto critico, il dialogo autentico tra teoria e prassi, e l’umiltà epistemologica possono contrastare questa deriva e mantenere viva l’autenticità dell’agire educativo, restituendo alla scuola la sua capacità generativa e trasformativa.

Narrazione e memoria pedagogica

Ogni insegnamento ha in sé un valore narrativo, perché l’educazione non è mai un atto neutro, ma sempre una storia che si scrive insieme, giorno dopo giorno, tra chi guida e chi si lascia guidare, tra chi ascolta e chi si racconta. L’insegnante non è solo colui che spiega, ma colui che racconta, che dà voce al sapere, lo incarna, lo fa vibrare attraverso le storie, gli esempi, le immagini che parlano al cuore prima che alla mente. Egli costruisce ponti tra il sapere e l’esperienza vissuta, trasforma concetti in vissuti, teoria in tracce di vita concreta, e rende visibile ciò che spesso resta invisibile: i desideri, le paure, le intuizioni dei suoi studenti. Racconta la conoscenza, le esperienze, i fallimenti, i successi, i percorsi che si sono snodati tra i banchi e nelle relazioni, narrando anche ciò che non può essere misurato: le emozioni, i silenzi, le trasformazioni interiori, i momenti di svolta. Narrare significa tessere legami tra passato e presente, tra emozione e cognizione, tra singolarità e collettività, ma anche tra ciò che accade in aula e ciò che avviene nel mondo, restituendo all’apprendimento la sua dimensione umana e situata. La narrazione pedagogica è uno strumento potente di consapevolezza, condivisione e rigenerazione, che permette alla scuola di autoriflettersi, di custodire la propria memoria e di orientare il proprio futuro. Attraverso la scrittura, il racconto orale, la documentazione narrativa, il docente costruisce una memoria viva della scuola, una sorta di diario collettivo che valorizza il senso di appartenenza, custodisce le tracce dell’apprendimento e genera cultura. Narrare non è solo raccontare ciò che si è fatto, ma interpretarlo, dargli senso, renderlo patrimonio comune, trasformarlo in parola condivisa e fertile. La narrazione permette anche di rendere visibile il pensiero educativo, di restituire dignità ai processi e non solo ai prodotti, di trasmettere il significato profondo dell’atto di insegnare come gesto umano, intellettuale ed etico, ma anche poetico, visionario e capace di generare nuove possibilità di esistenza.

Una professione che evolve con la scuola

In una scuola che apprende, il docente non può più essere pensato come un esecutore solitario, vincolato a curriculi rigidi e a un sapere trasmesso in modo unidirezionale. La sua figura si arricchisce di sfumature, responsabilità e consapevolezze, divenendo mediatore di significati, custode di visioni, costruttore di ambienti di apprendimento inclusivi e promotore di comunità educanti. È un ponte tra il sapere e la crescita umana, tra l’innovazione e la tradizione, tra l’individuo e la comunità, tra ciò che è stato e ciò che ancora può essere, con la capacità di tessere connessioni tra discipline, esperienze, storie personali e orizzonti collettivi. In tale prospettiva, la professionalità docente non si limita all’applicazione di metodologie collaudate o all’osservanza delle normative, ma si espande in una continua attività di ricerca, riflessione, documentazione e narrazione condivisa, dove teoria e pratica si intrecciano in modo fecondo e dialogico. L’identità professionale non si cristallizza in un titolo, in una funzione o in una carriera prestabilita, ma si costruisce nel tempo, giorno dopo giorno, nella relazione viva con colleghi, studenti, famiglie e territorio, attraverso la sperimentazione continua, l’ascolto autentico e una costante ridefinizione del proprio ruolo alla luce dei bisogni educativi emergenti, delle trasformazioni sociali e culturali in atto e delle nuove sfide che la contemporaneità pone alla scuola pubblica. Il docente della scuola che apprende è dunque un soggetto in divenire, un agente di cambiamento che educa mentre si educa, e che costruisce la propria autorevolezza non su una posizione acquisita, ma su un’etica della responsabilità, della cura e del servizio.

Conclusione

La scuola che apprende è un organismo dinamico, fragile nella sua esposizione al cambiamento ma potente nella capacità di rigenerarsi attraverso la consapevolezza e l’azione educativa. È un luogo dove il sapere non è mai statico, ma in continuo divenire, alimentato dall’incontro tra pensiero critico, esperienza vissuta e progettualità condivisa. In questa prospettiva, ogni errore si trasforma in una preziosa occasione di crescita, ogni dubbio in una spinta verso la ricerca, ogni relazione educativa in uno spazio generativo di senso. L’insegnamento non è solo trasmissione, ma diventa atto creativo, responsabile, profondamente umano. Riflettere, ricercare e narrare non sono gesti accessori né atti secondari, ma costituiscono la linfa vitale di una professionalità docente capace di rinnovarsi e di rinnovare la scuola. Contro le derive dell’autoreferenzialità, contro il rischio di una scuola chiusa, autoreplicante e disconnessa dal reale, la vera sfida è quella di restare aperti. Aperta alla vita, alla complessità, agli altri e al futuro. Perché si apprende davvero solo là dove qualcuno ha il coraggio di pensare insieme, di mettersi in discussione, di restare vulnerabile e nello stesso tempo creativo, in un cammino educativo che non ha mai fine.

Scuola Primaria ed INValSI 2024/2025

La Scuola Primaria nella rilevazione degli apprendimenti INValSI per l’a.s. 2024/2025

di Emmanuele Roca

Una premessa necessaria

I mutamenti sociali, culturali e tecnologici del nostro tempo, impongono alle Istituzioni Scolastiche un ripensamento del proprio fare scuola nel “quì e adesso” ed un impegno a ricercare – attraverso processi di miglioramento e autovalutazione – quelle strategie didattiche e pedagogiche più adatte al proprio bacino di utenza, al fine di realizzare condizioni ed ambienti educativi in cui ciascuno possa esprimere il meglio di sé, sviluppando competenze adeguate per esplicare una attiva e consapevole partecipazione alla vita sociale, accompagnata da una utile capacità di orientamento finalizzata al perseguimento degli obiettivi professionali e di vita.
In tale direzione le Rilevazioni Nazionali dell’INValSI (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema educativo di Istruzione e di formazione) rappresentano un utile strumento di informazione e divulgazione – attraverso la restituzione dei dati a ciascuna singola scuola – in grado di stimolare l’Istituzione Scolastica a “saper leggere i segni dei tempi” ed attivare quella necessaria autoriflessione sul proprio operato, avviando processi e tentativi di miglioramento che consentano un innalzamento degli apprendimenti ed una più adeguata “calibrazione” della propria Offerta Formativa.
Anche a livello nazionale di Sistema Educativo di Istruzione e Formazione la valutazione dei dati offre non pochi spunti di riflessione.

La rilevazione INValSI 2025

Il Rapporto INValSI 2025 è stato presentato mercoledì 9 luglio 2025 presso la Camera dei Deputati a Roma, con la partecipazione del Ministro del MIM.
La Rilevazione degli apprendimenti per l’a.s. 2024/2025 ha coinvolto circa 11.500 scuole per un totale di circa 960.000 alunni della Scuola Primaria (55.223 classi), circa 550.000 allievi della Scuola Secondaria di Primo Grado (27.337 classi) e più di 1 milione di studenti sella Scuola Secondaria di Secondo Grado (56.365 classi).
Le prove somministrate sono state oltre 2 milioni e mezzo nella Scuola Primaria con modalità cartacea, più di 2 milioni Computer Based Test (CBT) nella Scuola Secondaria di Primo Grado e oltre 3 milioni CBT nella Scuola Secondaria di Secondo Grado. Questo aspetto risulta essere particolarmente importante in quanto ci si trova di fronte ad una delle rilevazioni scolastiche più ampie a livello europeo.

Oggi le prove INValSI vengono somministrate in particolari momenti chiave dei cicli scolastici: classi II e V di Scuola Primaria (SP), classi III di Scuola Secondaria di Primo Grado (SSPG), classi II e V della Scuola Secondaria di Secondo Grado (SSSG).
In particolare:
al Grado 2 di scolarizzazione (classe II SP) le prove riguardano l’Italiano e la Matematica;
al Grado 5 (classe V SP) l’Italiano, la Matematica e l’Inglese (reading e listening);
al Grado 8 (classe III SSPG) l’Italiano, la Matematica e l’Inglese (reading e listening);
al Grado 10 (classe II SSSG) l’Italiano e la Matematica;
al Grado 13 (classe II SSSG) l’Italiano, la Matematica e l’Inglese (reading e listening).
Le prove di Italiano monitorano la capacità di leggere, comprendere e interpretare un testo scritto, quelle di Matematica la capacità di affrontare alcuni temi legati al pensiero matematico, quelle di Inglese la capacità di comprendere un testo scritto o uno stimolo audio in lingua (reading e listening). Inoltre, per le sole classi II campione della SSSG si è aggiunta una prova sulle Competenze Digitali, al fine di valutare la capacità di utilizzare in modo sicuro, critico e responsabile le tecnologie digitali per l’apprendimento, il lavoro e la partecipazione sociale.

L’idea di fondo delle prove INValSI è quella di misurare il raggiungimento di alcuni apprendimenti di base ritenuti essenziali per tutti gli studenti, per affrontare lo studio delle altre discipline e partecipare in modo attivo alla vita sociale ed economica del Paese, come anche al fine dell’esercizio pieno dei diritti e dei doveri di cittadinanza e dell’acquisizione di competenze indispensabili per il lavoro.
Le prove hanno interessato tutti gli alunni delle classi precedentemente indicate.
Per garantire l’affidabilità dei dati nelle comparazioni statistiche, l’INValSI ha individuato un campione casuale con il metodo a due stadi (nel primo stadio sono state campionate le scuole e nel secondo stadio sono state selezionate due classi per ogni scuola campionata); inoltre, nelle classi campione lo svolgimento delle prove è avvenuto alla presenza di un osservatore esterno che ha garantito il rispetto della corretta attuazione del protocollo di somministrazione.
Il campione così determinato per il 2025 è risultato rappresentativo sia a livello di Paese, sia in riferimento alle cinque macro-aree geografiche in cui la nazione è stata suddivisa: Nord Ovest (Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia e Liguria); Nord Est (Bolzano e Trento, Veneto, Friuli-Venezia Giulia ed Emilia-Romagna); Centro (Toscana, Umbria, Marche e Lazio); Sud (Abruzzo, Molise, Campania e Puglia); Sud e Isole (Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna).

Gli alunni delle classi campione e che hanno partecipato alle prove, per la rilevazione degli apprendimenti per l’a.s. 2024/2025, sono così distribuiti:
al Grado 2 (classe II SP) 16.195 per l’Italiano, 16.541 per la Matematica;
al Grado 5 (classe V SP) 16.429 per l’Italiano, 16.607 per la Matematica, 16.776 per il reading e 16.773 per il listening della prova di Inglese;
al Grado 8 (classe III SSPG) 3.978 per l’Italiano, 3.973 per la Matematica, 3.969 per il reading e 3.967 per il listening della prova di Inglese;
al Grado 10 (classe II SSSG) 20.047 per l’Italiano, 20.054 per la Matematica e 19.035 per le Competenze Digitali;
al Grado 13 (classe II SSSG) 20.200 per l’Italiano, 20.201 per la Matematica, 20.198 per il reading e 20.194 per il listening della prova di Inglese.
Le prove somministrate agli alunni afferenti alle classi campione della rilevazione INValSI ammontano: per la Scuola Primaria, a poco meno di 100.000 (quasi il 4% di tutte le prove somministrate); per la Scuola Secondaria di Primo Grado a circa 16.000 (meno dell’1% di tutte le prove somministrate); per la Scuola Secondaria di Secondo Grado a poco meno di 140.00 (più del 4,5% di tutte le prove somministrate).

I dati relativi alla Scuola Primaria

Nella Scuola Primaria per agevolare l’analisi dei risultati delle prove in Italiano e Matematica nel corso del tempo (analisi diacronica), l’INValSI ha adottato una suddivisione statistica in sei fasce di risultato, basata sui dati del 2019, ed utilizzata per il confronto dei dati a partire dal 2021 ovvero:
Fascia 1 “Risultato molto basso” (fino al 5° percentile incluso);
Fascia 2 “Risultato basso” (da sopra il 5° percentile e fino al 25° incluso);
Fascia 3 “Base” (da sopra il 25° percentile e fino al 50° incluso);
Fascia 4 “Risultato medio-alto” (da sopra il 50° percentile al 75° incluso);
Fascia 5 “Risultato alto” (da sopra il 75° percentile al 95° incluso);
Fascia 6 “Risultato molto alto” (al di sopra del 95° percentile).
L’insieme delle Fasce 1 e 2 costituiscono la categoria “al di sotto della fascia base”, quello delle Fasce 4, 5 e 6 la categoria “al di sopra della fascia base”. Tuttavia, nelle rappresentazioni INValSI viene utilizzata spesso la categoria “alunni che si attestano almeno alla fascia base” intendendo in tal modo l’insieme delle fasce 3, 4, 5 e 6.
I risultati delle prove di Inglese, finalizzate alla valutazione delle competenze ricettive di reading e listening in lingua straniera al termine della Scuola Primaria, vengono espressi secondo la scala del Quadro Comune Europeo di Riferimento per la conoscenza delle lingue (QCER) utilizzando gli indicatori di livello:
“Livello Pre-A1” se non in linea con le Indicazioni nazionali;
“Livello A1” se si raggiunge la competenza richiesta dalle Indicazioni nazionali.

I risultati delle prove di Italiano per le classi II della Scuola Primaria evidenziano che la categoria “al di sotto della fascia base” (insieme delle fasce 1 e 2) è passata dal 19% del 2021, al 31% del 2023 ed al 34% del 2025; nelle classi V, per la stessa categoria, si registra il 17% del 2021, il 26% del 2023 ed il 25% del 2025.
Pertanto, nel nostro Paese in base all’ultima rilevazione INValSI, circa il 30% della popolazione scolastica di Grado 2 (classe II SP) registra un livello di competenza in lingua Italiana al di sotto della fascia base e tale dato si riduce al 25% nel Grado 5 di istruzione (classe V SP).
A livello territoriale, relativamente al Grado 2, la categoria “al di sotto della fascia base” raggiunge una quota di oltre il 40% in Friuli-Venezia Giulia e in Liguria, mentre con un range compreso tra il 30% e il 40% si attesta in Piemonte, Sicilia, Toscana, Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna, Campania, Puglia, Calabria, Valle d’Aosta e nelle provincie autonome di Bolzano e Trento.
Al Grado 5 la situazione cambia in meglio e la categoria raggiunge un valore percentuale di oltre il 30% solo in Sicilia, Calabria e nella provincia autonoma di Bolzano (lingua italiana).

Riguardo agli esiti delle prove di Matematica sembra non esserci troppa differenza tra le classi II e V di SP. Infatti la categoria “al di sotto della fascia base” per le classi II è passata dal 26% del 2021, al 36% del 2023 ed al 33% del 2025; nelle classi V, per la stessa categoria, si registra il 28% del 2021, il 37% del 2023 ed il 34% del 2025.
Nel nostro Paese, in base all’ultima rilevazione INValSI, oltre il 30% della popolazione scolastica di Grado 2 e 5 ha livelli di competenza in Matematica al di sotto della fascia base.
I dati a livello territoriale, relativamente al Grado 2, mostrano come la categoria “al di sotto della fascia base” raggiunga la quota di oltre il 40% in Liguria, Sardegna e Sicilia, mentre si attesti con un range tra il 30 e il 40% in Calabria, Campania, Piemonte, Friuli-Venezia Giulia, Lazio e nella provincia autonoma di Trento.
La situazione delle prove di Matematica per il Grado 5, sempre per la categoria “al di sotto della fascia base”, offre la seguente panoramica: valori di oltre il 40% si registrano nelle regioni Sardegna, Sicilia e Calabria; un range compreso tra il 30 ed il 40% si evidenzia in Liguria, Toscana, Puglia, Campania, Emilia-Romagna, Veneto, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Valle d’Aosta e nella provincia autonoma di Bolzano (lingua italiana).

In merito ai risultati delle prove di Inglese al termine della SP (Grado 5), gli alunni che NON raggiungono i traguardi previsti (attestandosi sul Livello Pre-A1) sono passati per il reading dal valore 8% del 2021, al 13% del 2023 ed al 9% del 2025 mentre per il listening dal 18% del 2021, al 19% del 2023 ed al 14% del 2025.
In base all’ultima rilevazione INValSI, mediamente circa il 10% della popolazione scolastica di Grado 5 mostra livelli di competenza Pre-A1 per l’Inglese.
A livello territoriale, nelle prove di reading, Sardegna, Calabria, Sicilia, Campania, Puglia e Basilicata presentano valori superiori al 10% per il livello Pre-A1. La situazione si aggrava per il listening dove il livello Pre-A1 raggiuge in Sardegna e Sicilia valori di oltre il 20%, mentre si attesta nel range 10-20% in Calabria, Campania, Puglia, Basilicata, Piemonte, Veneto, Lombardia, Lazio, Toscana, Emilia-Romagna e provincie autonome di Trento e Bolzano.

Alcune considerazioni sugli esiti della Scuola Primaria

Dalla disamina degli esiti nella Scuola Primaria si evince come per l’Italiano l’aumento delle Fasce 1 e 2 (ovvero della categoria “al di sotto della fascia base”), registrato dal 2019 ad oggi, possa essere collegato all’attuale cambiamento della popolazione scolastica, legata alle profonde trasformazioni della società in termini sia culturali che demografici.
La popolazione scolastica del Grado 2, con la crescente presenza di alunni di origine migratoria e/o di alunni con fragilità, mostra maggiori criticità in relazione ai livelli di partenza e necessita di maggiori attenzioni pedagogiche ed interventi mirati di prima alfabetizzazione, socializzazione ed inclusione; peraltro, la presenza di alunni con provenienze diverse, fa registrare nelle prove risultati molto eterogenei fra loro.
Per l’Italiano, il dato del 30% per la categoria “al di sotto della fascia base” al Grado 2, che poi diventa del 25% al Grado 5, rappresenta una sfida per la scuola di oggi e determina la necessità di concentrare maggiori sforzi sulla comprensione del testo scritto.
Inoltre, in relazione alla valutazione del peso associato ad alcuni fattori sull’esito delle prove di Italiano oltre all’incidenza del backround migratorio (di I o II generazione) e/o di quello socio-economico, insiste anche l’influsso dei divari territoriali. Infatti, il fattore territoriale stimato dall’INValSI ed a cui viene associata la riduzione della bontà delle prestazioni – calcolata come punti percentuali negativi (in GR02 e in GR05) – segue la sequenza Nord Ovest (- 1,4% e – 0,3%), Nord Est (- 2,2% e – 0,9%), Sud (- 2,7% e – 2,7%), Sud e Isole (- 5,0% e – 6,1%) con un evidente svantaggio per il Mezzogiorno; mentre nel Nord nel passaggio GR02-GR05 l’incidenza del fattore si attenua, nel meridione d’Italia sembra stabilizzarsi (Sud) o paradossalmente aumentare (Sud e Isole).

Per la Matematica, a livello nazionale, i risultati delle prove rimangono sempre al di sotto di quelli precedenti alla pandemia e non si registrano particolari differenze, in GR02 e GR05, relativamente alla categoria “al di sotto della fascia base” che raggiunge un valore di oltre il 30% della popolazione scolastica; generalmente l’effetto composizione della popolazione risulta inferiore rispetto a quello registrato per l’Italiano.
Infatti, il peso derivante dall’origine migratoria si riduce in GR05 rispetto a GR02 e quello relativo allo svantaggio socio-economico di provenienza risulta simile a quanto evidenziato per le prove di Italiano. Invece, si evidenzia un aumento dello svantaggio delle bambine nelle prestazioni di Matematica, con un fattore il cui peso percentuale (stimato dall’INValSI) passa da – 3,6% in GR02 a – 6,5% in GR05; pertanto, per la Matematica, le bambine tendono a ottenere risultati peggiori rispetto ai coetanei maschi.
Inoltre, i divari territoriali si accentuano al termine della scuola primaria e la categoria “al di sotto della fascia base” raggiunge la quota di oltre il 40% in Sicilia, Sardegna e Calabria.

Per quanto riguarda l’Inglese, gli esiti delle prove in GR05 possono considerarsi complessivamente positivi, in quanto il livello A1 del QCER è stato raggiunto dal 91% degli alunni nella prova di lettura (reading) e dall’86% nella prova di ascolto (listening).
Trattandosi di traguardi fissati dalle Indicazioni Nazionali ci si auspica, per il futuro, che si possa raggiungere una quota sempre più tendente al valore del 100%. I traguardi della scuola primaria sono fondamentali per garantire un buon successo formativo nel prosieguo degli studi e la semplicità delle prove di lingua dovrebbe consentire a tutti i bambini (o quasi) di raggiungerli.

Una sfida per il futuro

I dati della Scuola Primaria sopra elencati evidenziano quanto sia necessario attuare delle risposte adeguate, a livello di singole Istituzioni Scolastiche e del più ampio Sistema Educativo di Istruzione e Formazione nazionale, al fine di migliorare i processi educativi attraverso un piano di sviluppo progressivo e dinamico, capace di rispondere alle reali esigenze del “quì e adesso” e della mutevolezza dei tempi.
Risultano necessari un adeguato accompagnamento dei bambini, percorsi efficaci di alfabetizzazione in riferimento all’origine migratoria ed alla permanenza nel nostro Paese, azioni a sostegno delle fragilità di diversa natura, azioni personalizzate per il miglioramento degli apprendimenti, ambienti educativi sempre più inclusivi, didattiche innovative sempre più attive e coinvolgenti, una formazione più adeguata per i docenti anche sul piano pedagogico e delle relazioni, supporti strutturali e validi riferimenti metodologici per superare il gap dei divari territoriali, ulteriori risorse da investire nella scuola, saper utilizzare le opportunità offerte dal PNRR e dagli altri Progetti dell’Unione Europea, ecc.
Nel proprio piccolo ciascuna scuola, attivando l’autoriflessione orientata al miglioramento, può intraprendere un proprio specifico percorso di innovazione e di adattamento situazionale dell’Offerta Formativa al fine di garantire maggiore equità, qualità ed inclusione.

Bibliografia

INVALSI (2025), Presentazione Rapporto nazionale 2025, Roma.
https://invalsi-areaprove.cineca.it/docs/2025/Rilevazioni_Nazionali/Rapporto/Presentazione%20Risultati%20prove%20INVALSI%202025.pdf

INVALSI (2025), Rapporto nazionale 2025, Roma.
https://invalsi-areaprove.cineca.it/docs/2025/Rilevazioni_Nazionali/Rapporto/Rapporto%20prove%20INVALSI%202025.pdf

INVALSI (2025), Rilevazioni nazionali degli apprendimenti 2024-25. I risultati in breve delle prove Invalsi 2025, Roma.
https://invalsi-areaprove.cineca.it/docs/2025/Rilevazioni_Nazionali/Rapporto/Sintesi%20primi%20risultati%20prove%20INVALSI%202025.pdf

SECCIA R. (2025), “Rapporto nazionale Invalsi 2025. Leggere i dati per cercare di migliorarli”, Scuola7.it, 438, 13.07.2025.
https://www.scuola7.it/2025/438/rapporto-nazionale-invalsi-2025/

Il silenzio

 Il silenzio

Scuola, emozioni e giustizia nella lotta al narcisismo e alla violenza di genere

di Bruno Lorenzo Castrovinci

Storie di vite che soffrono in silenzio, prigioniere di quelle mura domestiche costruite con amore, si trasformano in narrazioni tragiche di dolore e sopravvivenza. Prigioniere non solo degli spazi fisici, ma di una società che troppo spesso si volta dall’altra parte. Anche chi riesce a scappare da relazioni distruttive si trova a combattere un’altra battaglia: quella contro l’isolamento, il giudizio, la mancanza di ascolto. Se da un lato l’opinione pubblica condanna gli atti estremi, dall’altro mostra una scarsa solidarietà verso chi tenta di liberarsi e ricostruire sé stessa, spesso a rischio della propria vita.

Il narcisista patologico è abile a conquistare le masse, a manipolare la percezione pubblica. Con le sue parole, il carnefice diventa vittima e la vittima viene screditata, isolata, resa invisibile. È in questo sofismo retorico che si annida un pericolo culturale profondo, che la società civile è chiamata a contrastare con determinazione e lucidità, a partire dall’educazione.

Ogni volta che una donna viene uccisa per mano del partner o dell’ex compagno, ci troviamo di fronte a una domanda urgente e scomoda: cosa non ha funzionato nell’educazione di quell’uomo? E cosa avrebbe potuto salvarla? I femminicidi non sono soltanto delitti individuali, ma il riflesso tragico di una cultura ancora intrisa di dominio, possesso e disuguaglianza, sedimentata in secoli di patriarcato che ha modellato persino il linguaggio, l’immaginario collettivo, i modelli educativi.

In questa cornice, la scuola assume un ruolo cruciale e irrinunciabile. È tra i banchi che si formano i pensieri, le relazioni, le prime idee sull’amore, sul rispetto, sul corpo e sull’altro. È nella quotidianità scolastica, fatta di sguardi, parole, attività e silenzi, che si costruisce o si disfa l’educazione sentimentale e sociale di una generazione.

È a scuola che si può insegnare, con parole e comportamenti, che l’amore non uccide, che non esiste libertà senza rispetto e che la fragilità emotiva non può essere gestita con il dominio. Ma per farlo, bisogna riconoscere che educare alla parità non è un’attività collaterale, bensì una priorità pedagogica e civica. In un Paese in cui il numero delle vittime continua a salire, la neutralità è una forma di complicità. Tacere, rinviare, banalizzare è già un modo di schierarsi dalla parte sbagliata.

Un’emergenza sociale che interpella la scuola

Ogni volta che la cronaca restituisce l’ennesimo caso di femminicidio, la società si scuote, si interroga, si indigna. Ma troppo spesso l’indignazione si disperde nel rumore, mentre le radici profonde del fenomeno rimangono intatte. I femminicidi non sono mai eventi isolati, ma l’apice tragico di una lunga escalation di controllo, possesso e disumanizzazione, che affonda le sue radici in un sistema patriarcale interiorizzato e ancora largamente tollerato.

Non si tratta solo di episodi di violenza, ma di un preciso ordine culturale che per secoli ha legittimato la prevaricazione dell’uomo sulla donna, normalizzando atteggiamenti sessisti, sminuendo il concetto di consenso, minimizzando la violenza psicologica ed economica. Questa cultura si riproduce nei media, nei modelli familiari, nel linguaggio quotidiano e, se non contrastata, anche nella scuola.

La scuola, in quanto istituzione educativa per eccellenza, non può restare a guardare. Non può limitarsi a trasmettere saperi astratti o ad adempiere a obblighi burocratici, ma deve farsi presidio attivo di giustizia e consapevolezza. Educare alla parità, alla relazione sana, al rispetto dei confini altrui, non è un compito accessorio. È una missione pedagogica urgente e trasversale, che riguarda ogni ordine di scuola e ogni disciplina, dal nido all’università. È attraverso l’educazione che si spezzano le catene dell’indifferenza e si coltiva una nuova coscienza collettiva.

Il narcisismo patologico e la cultura del possesso

Le dinamiche disfunzionali che conducono alla violenza contro le donne sono spesso legate a forme di narcisismo patologico, disturbo della personalità caratterizzato da una profonda insicurezza, mascherata da onnipotenza e bisogno compulsivo di ammirazione. Dietro la maschera dell’amore si celano desideri di controllo, paure dell’abbandono, mancanza di empatia e un bisogno costante di conferme, che si trasforma in manipolazione e dominio sull’altro.

Il partner abusante non ama, possiede. Non ascolta, impone. Si nutre della dipendenza emotiva della compagna, mina la sua autostima, isola gradualmente la vittima dalle sue reti sociali e familiari. E quando la donna sceglie di andarsene, quando reclama la propria libertà, l’illusione narcisistica crolla. È in quel crollo che il narcisista patologico può diventare letale, perché percepisce la fine della relazione come un affronto intollerabile, una ferita narcisistica che scatena un bisogno di vendetta e annientamento dell’altro.

Questi uomini, spesso insospettabili all’esterno e perfettamente integrati socialmente, presentano una fragilità interna che si trasforma in rabbia distruttiva, in un copione che si ripete con inquietante regolarità. Comprendere questi meccanismi, fin dalla giovane età, significa offrire strumenti fondamentali per riconoscere e allontanarsi da relazioni tossiche prima che degenerino.

Significa educare ragazzi e ragazze alla consapevolezza emotiva, alla gestione del rifiuto, all’autonomia affettiva, alla costruzione di legami basati sul rispetto reciproco. Serve una vera alfabetizzazione sentimentale che insegni a riconoscere i segnali della manipolazione, a rifiutare la logica del possesso, a dare valore ai propri confini e a quelli degli altri. Solo così sarà possibile contrastare alla radice la mentalità predatoria e salvare vite.

Le responsabilità della scuola tra pedagogia e didattica

La scuola ha il compito di decostruire stereotipi, promuovere un pensiero critico e fornire un’educazione affettiva che insegni a distinguere l’amore dal possesso, la cura dal controllo, la gelosia dalla violenza. Questa educazione non può essere affidata al caso o delegata a momenti straordinari, deve diventare parte della didattica quotidiana, strutturata attraverso linguaggi plurali, laboratori, letture guidate, discussioni filosofiche e pratiche riflessive.

Non si tratta solo di trasmettere nozioni, ma di formare una coscienza relazionale. Questo non significa inserire occasionali “lezioni sulla parità” in giornate commemorative, ma costruire percorsi continui, trasversali, interdisciplinari. La pedagogia della parità non è un’aggiunta al curricolo, è il fondamento di ogni vera educazione democratica, perché insegna il rispetto della persona come valore assoluto e inalienabile.

Ogni insegnante, qualunque sia la disciplina, può contribuire a promuovere modelli relazionali sani, valorizzando la diversità, smascherando i micro-sessismi, rielaborando testi, riscrivendo finali alternativi, invitando al confronto tra modelli culturali diversi. Insegnare non è solo trasmettere contenuti, ma generare cittadinanza. E oggi più che mai, educare alla cittadinanza significa educare all’uguaglianza sostanziale, al rifiuto della prevaricazione, alla cura del legame umano.

Percorsi concreti dalla scuola dell’infanzia alle superiori

Già nella scuola dell’infanzia è possibile lavorare sul riconoscimento delle emozioni, sull’empatia, sul rispetto del corpo proprio e altrui. Attraverso il gioco simbolico, la lettura di albi illustrati e il dialogo quotidiano, si possono introdurre storie di amicizia, collaborazione e valorizzazione delle differenze. Le attività devono essere progettate per far emergere la capacità di mettersi nei panni dell’altro, di riconoscere e nominare le emozioni, di capire che ognuno ha il diritto di dire no e che nessuno ha il diritto di far male o costringere.

Nella scuola primaria diventa fondamentale proporre attività cooperative, circle time, role playing, letture guidate di fiabe classiche reinterpretate in chiave paritaria, laboratori artistici e giochi di gruppo che stimolino il pensiero critico. Insegnare che non esistono giochi da maschi o da femmine, che ogni bambino può scegliere liberamente i propri interessi e le proprie emozioni, è già un atto rivoluzionario. L’educazione alla parità passa anche dal linguaggio, dalle dinamiche di classe, dalle relazioni quotidiane tra compagni e con gli insegnanti.

Alla scuola secondaria di primo grado si possono introdurre dibattiti regolati, visioni di film educativi seguite da analisi collettive, progetti teatrali, scrittura di storie alternative e incontri con esperti, psicologi e rappresentanti di centri antiviolenza. È qui che le relazioni affettive iniziano a delinearsi con maggiore intensità, ed è qui che si devono fornire gli strumenti per riconoscere dinamiche malsane, meccanismi di dipendenza emotiva e segnali precoci di abuso. Fondamentale è il lavoro trasversale tra educazione civica, lettere, scienze, arte e tecnologia per affrontare il tema della rappresentazione della donna e del corpo nei media e nei social.

Alle scuole secondarie di secondo grado dai licei, ai tecnici e ai professionali si può lavorare con il debate, con le simulazioni processuali ispirate a casi di cronaca o giurisprudenza, con l’analisi di testi letterari o filosofici che abbiano al centro il tema del rispetto, della libertà individuale, dell’autodeterminazione. La scrittura creativa può diventare uno strumento potente di elaborazione e denuncia. I progetti di peer education e mentoring possono responsabilizzare i ragazzi più grandi e creare spazi orizzontali di confronto. È anche il momento di affrontare in modo esplicito temi come il consenso, la libertà sessuale, l’identità di genere, la violenza psicologica e quella economica, con un linguaggio adulto, rispettoso e non moralistico.

Un esempio virtuoso in questo senso è rappresentato dall’Istituto Ettore Majorana di Milazzo, che ha realizzato l’evento “Narciso e Narcisi – Le mille facce del narcisismo patologico”, con contributi accademici universitari, interventi dell’Ordine degli Psicologi e della scrittrice Shara Pirrotti, autrice del libro Guariti per Amare, raccolta di testimonianze autentiche di vittime di narcisismo patologico. L’incontro ha offerto agli studenti un’occasione preziosa per confrontarsi con esperti e testimoni diretti, approfondendo in chiave scientifica, narrativa e relazionale il legame tra disturbi della personalità e violenza affettiva.

Il Majorana di Milazzo è andato anche oltre, organizzando un incontro di Debate in cui due squadre si sono confrontate pubblicamente sul tema del “Codice Rosso”: una a favore, guidata da un Commissario e vice Questore di Polizia, e una contraria, capitanata dal Presidente della Camera Penale di Messina. Questo confronto, aperto, documentato e civile, ha permesso agli studenti di esplorare la complessità della giustizia penale e delle misure di tutela delle vittime, sviluppando al tempo stesso pensiero critico, capacità oratoria e consapevolezza civica. È questo il volto migliore della scuola: una palestra di democrazia, di parola condivisa e di responsabilità. L’obiettivo è far emergere una nuova narrazione dell’intimità e delle relazioni, fondata sulla reciprocità, sulla libertà e sulla responsabilità affettiva.

Il ruolo delle emozioni e la prevenzione psicologica

La prevenzione della violenza passa dalla costruzione di un’identità affettiva solida e consapevole, che si radica nella capacità di stare in relazione senza annullare sé stessi o l’altro. I ragazzi e le ragazze devono imparare a gestire frustrazioni, delusioni, conflitti e vissuti di rifiuto senza trasformarli in rabbia distruttiva o auto-svalutazione. In questo percorso, la scuola può diventare uno spazio sicuro in cui sviluppare intelligenza emotiva, autostima, assertività e resilienza.

Molti giovani, che diventano carnefici o vittime, portano con sé storie di fragilità relazionale, modelli familiari segnati dalla violenza, carenze affettive o esperienze di abbandono e trascuratezza. Il disagio psico-affettivo, se non intercettato, può evolvere in forme di dipendenza, controllo o sottomissione nelle relazioni. Per questo occorre uno sguardo educativo che sia anche terapeutico, in grado di cogliere i segnali sommersi del malessere e intervenire in modo integrato.

Serve un’alleanza forte e continuativa tra scuola, famiglie, servizi territoriali, centri antiviolenza e sportelli psicologici scolastici. L’approccio deve essere sistemico poiché prevenire non significa soltanto intervenire sull’individuo, ma cambiare l’ambiente educativo, il clima scolastico, le relazioni tra pari, promuovendo una cultura del benessere e dell’ascolto.

Nessun alunno va lasciato solo nel proprio disagio. Le emozioni, se inascoltate, si trasformano in rabbia o annientamento. Se accolte e legittimate, diventano forza creativa, risorsa per costruire relazioni autentiche, motore di cambiamento e crescita. È solo così che la scuola può davvero diventare una comunità educante e protettiva, capace di accompagnare ogni studente nella costruzione di sé.

Costruire una nuova cultura relazionale

Il femminicidio non nasce da un raptus, ma da una cultura che ha tollerato per troppo tempo la violenza, l’ha giustificata, estetizzata, interiorizzata. Una cultura che ha legittimato la gelosia come segno d’amore, la rabbia come virilità, la sottomissione come dedizione, e che ancora oggi plasma l’immaginario collettivo attraverso fiabe, canzoni, narrazioni tossiche nei social e nei media.

In questo contesto, cambiare la cultura non è un atto isolato ma un processo lento e profondo, che richiede pazienza, coerenza e una visione educativa condivisa. Un processo che può e deve cominciare tra i banchi di scuola, in ogni ordine e grado, in ogni materia e in ogni interazione.

Parlare con i ragazzi, ascoltarli senza giudicarli, aiutarli a riflettere sulle parole che usano, sulle relazioni che vivono, sulle emozioni che provano e sui modelli che li influenzano, è già educazione alla libertà. Significa offrire loro la possibilità di diventare cittadini consapevoli, capaci di relazioni libere, fondate sulla reciprocità, sull’empatia e sul rispetto. La scuola ha il potere di interrompere la catena culturale della violenza, restituendo valore al linguaggio, dignità alle emozioni e senso alle relazioni.

Conclusione. Educare per prevenire, educare per cambiare

Di fronte al femminicidio, la scuola non può restare neutrale, né osservare da una comoda distanza ciò che accade nella società. Deve entrare nel cuore della questione con consapevolezza, coraggio e responsabilità, sapendo che ogni azione educativa ha un peso, ogni omissione una conseguenza. Le parole pronunciate in classe, i silenzi taciuti, i testi selezionati o ignorati, le attività proposte o evitate sono tutti atti educativi. E ciascuno di essi può diventare un seme.

Un seme che, se coltivato con cura e intenzione, germoglia nella forma di consapevolezza, spirito critico, rispetto profondo dell’altro. Ma se abbandonato, lasciato inascoltato o represso, crea un vuoto in cui attecchiscono la sopraffazione, l’indifferenza, la violenza.

Educare alla parità non è un compito accessorio o una voce da inserire nel PTOF. È il fondamento etico di ogni progetto educativo. Significa offrire strumenti cognitivi ed emotivi per costruire relazioni sane, libere, fondate sulla reciprocità e sull’autonomia affettiva. È un lavoro quotidiano, lento e profondo, che attraversa tutte le discipline e si riflette nello stile comunicativo, nei modelli relazionali, nell’organizzazione della vita scolastica.

Se davvero vogliamo che mai più nessuna debba morire o essere isolato e screditato per aver detto “basta”, per aver scelto la propria libertà, allora è a scuola che dobbiamo iniziare ogni giorno. Non con proclami, ma con gesti coerenti. Con ogni parola detta e ogni silenzio finalmente spezzato.

Oltre i confini

Oltre i confini

Pedagogie interculturali per una cittadinanza globale

di Bruno Lorenzo Castrovinci

Bambini e studenti silenziosi: occhi che osservano, orecchie che ascoltano, corpi immobili ma presenti. Apparentemente assenti, in realtà profondamente immersi. Apprendono, confrontano, assorbono. Vivono nuove realtà educative, esplorano ambienti di apprendimento inediti, si muovono, spesso con timidezza, tra approcci relazionali sconosciuti.

Cambiare scuola, da un paese all’altro, da una cultura all’altra, non significa soltanto imparare una nuova lingua o abituarsi a un paesaggio diverso. È un cambiamento più profondo, che tocca le radici culturali, le credenze, gli archetipi. Tutto ciò che per noi è scontato – il modo di insegnare, di comunicare, di stare in classe – per uno studente straniero può essere disorientante, persino respingente. In questo contesto, incontrare un insegnante capace di costruire una relazione autentica, accogliente, inclusiva, può rappresentare una novità tanto grande quanto destabilizzante. Se non accompagnata con consapevolezza, questa novità rischia di essere fraintesa o respinta, minando il riconoscimento della figura educativa.

Per questo è fondamentale conoscere le realtà di provenienza degli studenti stranieri. Non per categorizzarli, ma per comprenderli e per progettare percorsi realmente inclusivi, in cui la diversità non sia un fattore da neutralizzare, ma un’occasione per scoprire nuove visioni del mondo. Ogni differenza culturale, ogni sguardo altro, può diventare una risorsa per ampliare lo spettro di ciò che chiamiamo “scuola”.

Per troppo tempo, l’educazione interculturale è stata trattata come un’azione riparativa, una risposta a posteriori alle difficoltà scolastiche degli studenti migranti. Una toppa educativa, appunto, da applicare quando il ritmo della classe sembrava troppo distante. Ma questo approccio, sebbene mosso da buone intenzioni, si è rivelato miope, spesso inefficace. La diversità non è un problema da risolvere. È una lente preziosa con cui rileggere l’intero impianto educativo.

Le pratiche antidiscriminatorie non possono restare confinate nella sfera dell’eccezione ,ma devono diventare parte integrante della struttura scolastica. Occorre ripensare i curricoli, ridefinire le metodologie, trasformare le relazioni educative. L’intercultura non è più “una cosa da stranieri” ma rappresenta la condizione stessa della scuola di oggi. È il terreno comune su cui costruire un’educazione che rifletta la complessità del presente, il pluralismo delle società contemporanee e il senso profondo della convivenza globale.

La scuola araba, identità, autorità e aperture

Nel mondo arabo, l’istruzione è profondamente intrecciata alla religione e all’identità collettiva. Il Corano entra spesso nei programmi scolastici come fonte di valori, ma anche come base epistemologica. L’insegnante ricopre un ruolo centrale non solo dal punto di vista didattico, ma anche morale e talvolta spirituale. In molte realtà rurali o conservatrici, la figura del maestro assume un potere pressoché assoluto, tanto da poter influire in modo determinante sul destino dello studente. Egli decide chi merita di proseguire, chi deve essere punito, chi può essere valorizzato e chi deve restare ai margini, attraverso metodi educativi rigidi, spesso punitivi e talvolta apertamente violenti. In alcune scuole tradizionali, il bastone è ancora lo strumento simbolico del potere pedagogico, e l’umiliazione pubblica viene considerata un deterrente efficace contro la disobbedienza. L’autorità del maestro non viene quasi mai messa in discussione, e il sapere si trasmette in modo unidirezionale, senza spazio per il pensiero critico o la partecipazione attiva. Il rapporto con gli studenti tende ad essere verticale e gerarchico, e la paura sostituisce troppo spesso il rispetto. Tale clima educativo può generare non solo ansia e frustrazione, ma anche una profonda sfiducia nelle istituzioni scolastiche, compromettendo l’idea stessa di scuola come luogo di crescita e di emancipazione. Tuttavia, nei centri urbani più moderni, si affermano scuole internazionali e bilingui che introducono metodologie più partecipative. In queste scuole si inizia a respirare un clima più aperto, in cui la diversità è tollerata e talvolta valorizzata, pur rimanendo vincolata a una forte identità culturale di riferimento. Il clima di classe è spesso formalmente rispettoso, ma la distanza tra insegnanti e studenti può ostacolare una didattica realmente inclusiva.

India, pluralismo, stratificazione e inclusione fragile

Il sistema scolastico indiano riflette la profonda stratificazione della società. La coesistenza di lingue, religioni e caste si riversa nelle aule, generando contesti estremamente eterogenei. Le scuole pubbliche, spesso carenti di risorse e sovraffollate, si affiancano a istituti privati che offrono un’istruzione elitaria, spesso in lingua inglese e con curricula di stampo occidentale. In questo contesto, la scuola è percepita da milioni di famiglie come l’unica via per il riscatto e l’ascesa sociale. Per chi nasce in condizioni di povertà o in caste discriminate, l’istruzione rappresenta la speranza concreta di un futuro diverso. Di conseguenza, gli studenti attribuiscono un valore altissimo allo studio, affrontandolo con rigore, dedizione e spirito di sacrificio. In molte famiglie, soprattutto nelle aree rurali, il successo scolastico del figlio è vissuto come una responsabilità collettiva, e il merito individuale è considerato uno strumento di emancipazione.

Il metodo di insegnamento tradizionale è ancora largamente frontale, con un forte accento sulla memorizzazione e sulla disciplina, ma in alcune realtà si stanno diffondendo approcci più attivi, ispirati alla pedagogia gandhiana o al pensiero di Tagore, con attenzione alla nonviolenza, alla cooperazione e alla comunità. Il clima di classe varia notevolmente, passando da contesti rigidi e competitivi a esperienze di maggiore apertura e partecipazione. La disuguaglianza resta un elemento critico, ma le esperienze più innovative si trovano in alcune ONG e scuole sperimentali che lavorano con bambini delle caste più svantaggiate, promuovendo una didattica interculturale e cooperativa che parte dalla cultura del bambino e la integra nella visione scolastica. In questi contesti, la scuola non è solo un luogo di istruzione, ma diventa lo spazio simbolico e reale di una possibile trasformazione sociale.

Cina, disciplina, omogeneità e nuove aperture

In Cina, l’istruzione è considerata uno strumento fondamentale per la crescita del Paese. Il sistema scolastico si fonda su meritocrazia, disciplina e omologazione, ed è fortemente orientato al raggiungimento di standard elevati nelle competenze chiave. Gli studenti sono sottoposti a forti pressioni fin dall’infanzia, con un ritmo scolastico intenso e programmi strutturati che prevedono una valutazione continua. L’insegnante gode di un’autorità indiscussa, ed è spesso considerato il garante del successo accademico. Le scuole internazionali rappresentano un’eccezione riservata a un’élite, e adottano curricoli occidentali con maggiore apertura al pluralismo culturale. Nel sistema tradizionale, invece, l’intercultura non è ancora un valore esplicito, e la diversità viene spesso gestita con logiche assimilazioniste, dove l’obiettivo è l’uniformità piuttosto che l’integrazione delle differenze.

Tuttavia, l’emergere di problemi legati al benessere psicologico degli studenti e la crescente consapevolezza delle diseguaglianze sociali legate all’istruzione hanno spinto alcune scuole urbane a rivedere i propri modelli, introducendo metodologie più partecipative e attente alla dimensione relazionale. In questo contesto si inseriscono i dati dell’indagine OCSE-PISA 2022, che confermano il primato dell’area asiatica in termini di risultati scolastici. Singapore guida la classifica mondiale con punteggi eccellenti in matematica, scienze e lettura, seguita da regioni cinesi come Macao e Hong Kong, nonché da Taiwan, Giappone e Corea del Sud. Questi risultati riflettono un modello educativo incentrato sulla performance, dove la pressione spinge verso l’eccellenza ma al contempo solleva interrogativi cruciali sull’equilibrio tra successo accademico e benessere emotivo. L’inclusione, in questo contesto, è una sfida ancora aperta, che richiede un cambiamento profondo non solo nei metodi, ma anche nella cultura pedagogica dominante.

Ucraina ed ex Europa dell’Est, scuola tra memoria e resilienza

Nei paesi dell’ex blocco sovietico, l’educazione porta ancora i segni profondi della storia e delle ideologie dominanti del passato. Il modello scolastico ereditato dal periodo socialista era improntato a un forte controllo gerarchico, con una didattica trasmissiva e poco spazio per la creatività o il pensiero critico. La scuola era spesso lo strumento attraverso cui lo Stato forgiava il cittadino ideale, con programmi rigidi, uniformità nei contenuti e nella forma, e con una concezione disciplinare della pedagogia. Tuttavia, dopo la caduta dei regimi autoritari, la transizione democratica e l’adesione o l’avvicinamento all’Unione Europea hanno innescato processi di rinnovamento, pur tra resistenze culturali e contraddizioni irrisolte.

In Ucraina, il conflitto armato ha accelerato e trasformato radicalmente il senso stesso dell’educazione: le scuole sono diventate rifugi di umanità, luoghi di accoglienza e resilienza per bambini e ragazzi sfollati, spesso traumatizzati. Qui, il ruolo dell’insegnante si è ridefinito in modo profondo passando da trasmettitore di contenuti a mediatore culturale ed emotivo, da custode della conoscenza a figura di cura e guida psicologica. Anche nei paesi vicini, come Polonia e Romania, si moltiplicano le esperienze di inclusione attiva degli studenti migranti e rom, con progetti che integrano educazione interculturale, sostegno linguistico e accompagnamento emotivo. In queste aree, l’intercultura non è più solo un’opzione metodologica, ma assume un valore etico e politico diventando lo strumento con cui si cerca di costruire una società più coesa, di superare le fratture storiche, e di dare voce e dignità a soggetti a lungo esclusi dal discorso pubblico e dall’accesso pieno alla cittadinanza educativa.

L’intercultura come fondamento educativo

L’intercultura non è un’aggiunta al sapere scolastico, ma una sua riformulazione profonda. Essa implica un’educazione al dialogo, alla complessità, alla consapevolezza di sé e dell’altro, dove il concetto di alterità non è fonte di distanza, ma possibilità di incontro e di riconoscimento reciproco. Insegnare in un’ottica interculturale significa riconoscere che ogni studente porta in classe una visione del mondo, una lingua del cuore, una memoria culturale sedimentata nel corpo, nei gesti, nelle parole. Significa accettare che l’apprendimento non avviene in una neutralità culturale, ma si costruisce all’incrocio tra mondi simbolici diversi. Quando la scuola accoglie questi patrimoni non come deviazioni da correggere, ma come materiali autentici su cui costruire il sapere comune, allora si trasforma in uno spazio generativo, capace di ridare senso allo stare insieme. Le attività interculturali non possono essere relegate a momenti episodici, né affidate solo alle occasioni cerimoniali; esse devono attraversare tutte le discipline, tutti i curricoli, tutte le pratiche scolastiche. Le narrazioni, i linguaggi, le storie personali, le esperienze migratorie e i saperi familiari diventano così strumenti di relazione, di apprendimento e di cittadinanza attiva. Una cittadinanza che non si fonda sull’assimilazione, ma sulla valorizzazione delle differenze e sulla co-costruzione di uno spazio comune realmente inclusivo e plurale.

La didattica personalizzata come risposta alla complessità

L’intercultura trova il suo terreno privilegiato nella didattica personalizzata, che riconosce e valorizza le differenze non solo culturali, ma anche cognitive, emotive, linguistiche e relazionali. Ogni studente è unico, portatore di un proprio stile di apprendimento, di un vissuto esperienziale, di un sistema di valori e di bisogni educativi specifici. Le classi di oggi, sempre più plurali e complesse, richiedono strategie didattiche flessibili e universali, capaci di adattarsi alle necessità dei singoli senza perdere la coerenza collettiva.

In questo senso, l’approccio UDL (Universal Design for Learning) fornisce un quadro metodologico e teorico che consente di progettare ambienti di apprendimento inclusivi fin dalla fase iniziale. L’UDL propone tre principi fondamentali: molteplici modalità di rappresentazione dei contenuti, molteplici modalità di espressione e azione, molteplici modalità di coinvolgimento. Applicare l’UDL significa pensare una didattica accessibile a tutti, non solo a chi ha bisogni speciali, e progettare esperienze formative capaci di valorizzare le potenzialità di ciascuno.

Metodologie come il cooperative learning, il tutoring tra pari, la didattica laboratoriale, il project-based learning e l’uso consapevole delle tecnologie digitali permettono di costruire percorsi personalizzati e differenziati, in cui ciascuno possa sentirsi parte attiva e portatore di sapere. Personalizzare non significa isolare o semplificare, ma creare contesti di senso, in cui tutti possano dare il meglio di sé e sentirsi pienamente coinvolti.

In tale contesto, la didattica personalizzata si configura come uno strumento di giustizia educativa, capace di riconoscere e valorizzare la pluralità come risorsa e di trasformare l’aula in uno spazio di apprendimento autentico e condiviso.

PDP e valorizzazione delle differenze

All’interno di questa visione pedagogica, il Piano Didattico Personalizzato rappresenta uno strumento prezioso e dinamico. Nato per rispondere ai bisogni educativi speciali, può essere esteso con efficacia a studenti con difficoltà linguistiche, svantaggi socioculturali o esperienze migratorie, secondo quanto indicato nella Direttiva Ministeriale del 27 dicembre 2012 e nella successiva Circolare Ministeriale n. 8 del 6 marzo 2013. Quest’ultima chiarisce che il PDP può essere redatto anche per studenti che non rientrano nella legge 104/92 o nella legge 170/2010, ma che presentano Bisogni Educativi Speciali temporanei o permanenti, come nel caso di minori stranieri neoarrivati, bambini in situazioni di disagio socioeconomico o con problematiche emotive e relazionali.

Il PDP permette di definire obiettivi realistici, strategie didattiche e inclusive, strumenti compensativi e dispensativi, e criteri di valutazione coerenti con il percorso individuale. Nei contesti multiculturali, può includere ad esempio l’uso della lingua madre come supporto all’apprendimento, l’inserimento graduale nelle discipline, la flessibilità nelle verifiche, l’uso di mediatori culturali o la valorizzazione dei saperi pregressi.

In linea con le più recenti indicazioni nazionali per una scuola dell’autonomia inclusiva, il PDP non è un atto isolato o burocratico, ma un processo condiviso e partecipato. Deve essere costruito insieme allo studente, alla famiglia e all’intera comunità scolastica, affinché diventi realmente uno strumento di corresponsabilità educativa. Solo così si evita il rischio che si trasformi in un’etichetta o in una misura formale, e diventa invece uno strumento di reale inclusione, capace di valorizzare le potenzialità di ciascuno e di rispondere in modo etico e professionale alla complessità educativa contemporanea.

Una scuola che si riscrive con lo sguardo dell’altro

Costruire una scuola interculturale e antidiscriminatoria significa riscrivere profondamente il patto educativo. Non basta aggiungere contenuti nuovi o organizzare eventi tematici. Serve un cambiamento di prospettiva, un nuovo sguardo che sappia cogliere nella differenza non un problema da gestire, ma una possibilità di crescita condivisa. L’insegnante diventa il regista di questa trasformazione, un professionista che sa ascoltare, mediare, facilitare e generare spazi di dialogo autentico. Il clima di classe, in questo orizzonte, si trasforma in un laboratorio di umanità, in cui le fragilità diventano risorse e le identità non sono barriere, ma ponti. È in questa scuola che ogni studente, qualunque sia la sua provenienza, può sentirsi non soltanto accolto, ma pienamente riconosciuto. E da questa scuola può nascere una cittadinanza più giusta, più consapevole, più solidale.

Oltre Agenda 2030

Educazione e istruzione di qualità oltre l’Agenda 2030

di Margherita Marzario

L’Obiettivo 4 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è “Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”. Già da altri atti internazionali emergeva che bambini e ragazzi non hanno solo il diritto all’istruzione ma anche il diritto all’istruzione di qualità, per cui occorre che dapprima gli insegnanti abbiano delle qualità come la coerenza, perché la coerenza del e nel docente favorisce la confidenza e la conoscenza degli allievi.

“Non si edifica con discorsi astratti e impersonali, ma con l’esempio coerente della nostra vita, che sa ricordare il bene ricevuto e condividerlo con gioia” (cit.). Educare: edificare con l’esempio coerente della propria vita condividendo con gioia.

Le vocali delle qualità più importanti di cui vestirsi ogni mattina: dalla A di autenticità alla U di umiltà. In particolare lo dovrebbero fare i genitori e gli educatori.

“Il cammino dell’istruzione è un cammino verso la vita” (cit.). Docenti e discenti sono alla stessa scuola della vita e bisogna lavorare intorno allo stesso tavolo, come praticava don Lorenzo Milani.

L’educazione è un processo umano e bisognerebbe recuperare semplicemente quest’aspetto, senza alcuna aggettivazione di quelle che abbondano ora, ambientale, sessuale, affettiva, civica, digitale.

Insegnamento: non nozioni ma emozioni, non interrogazioni ma interrogativi, non compiti ma competenze, non valutazioni ma valori, non progetti ma progettazioni, non costrizioni ma costruzioni… L’insegnamento è una delle fondamentali relazioni di vita, tra vite. Ne devono tener conto gli insegnanti stessi e i genitori, per perseguire i medesimi obiettivi. Tanto la famiglia quanto la scuola devono educare i bambini non a prestazioni buone ma ad azioni buone.

“Nella didattica appare funzionale modificare non necessariamente la proposta ma il come, i modi, la presentazione, appare necessario trasformare una modalità passiva e trasmissiva in coinvolgimento, ricerca. Bisogna creare curiosità” (cit.), come con la teatralizzazione o il teatro a scuola che non significa, però, teatralizzare o enfatizzare o improvvisare ogni cosa. Questa è una delle metodologie che contribuiscono all’istruzione di qualità e ad attuare gli art. 28 e 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in particolare “prendere provvedimenti atti ad incoraggiare la regolare frequenza scolastica e al riduzione dei tassi di abbandono” (lettera e art. 28).

La formatrice Silvia Bogani spiega: “Per sviluppare la creatività e il pensiero divergente si possono proporre in classe esperienze inusuali di vario tipo, accettando i rischi della novità con spirito di avventura e prediligendo situazioni di complessità crescente. In questi contesti, diventa naturale per gli alunni e le alunne attivare forme di funzionamento cognitivo non utilizzate abitualmente, che portano allo sviluppo di pensieri fluidi, originali e flessibili. Se lo scopo principale dell’istruzione è quello di preparare i giovani alla vita dopo la scuola, occorre progettare interventi didattici efficaci e mirati a potenziare le capacità cognitive, emozionali e sociali degli alunni. Essi avranno così a disposizione un bagaglio di competenze utile ad affrontare, con maggior fiducia, le sfide della vita e a fronteggiare efficacemente l’incertezza e la complessità che caratterizzano la società odierna, partendo da una maggior consapevolezza di sé”. Per educare la creatività e alla creatività bisogna essere innanzitutto insegnanti creativi e tener conto che la creatività non riguarda solo l’arte. Bisogna passare dal paradigma “cosa si insegna” a “come si insegna”: stimolare la creatività dei discenti contribuisce ad applicare tutto quanto è indicato nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in particolare promuovere lo sviluppo della personalità del fanciullo “in tutto l’arco delle sue potenzialità” (lettera a dell’art. 29). Di creatività si parla pure nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile tra imprenditoria e innovazioni.

Fondamentale per la creatività e non solo è la lettura. Federico Batini, esperto di educazione alla lettura, afferma: “Le diverse indagini internazionali e nazionali, condotte nel corso degli ultimi anni, mostrano come l’istruzione sia uno degli ambiti in cui la disuguaglianza sociale sia più visibile e, al contempo, rappresenti l’unico spazio, attraverso il quale sia possibile costruire una società più equa e inclusiva. L’introduzione nel sistema scolastico italiano della lettura ad alta voce condivisa può essere una gigantesca opportunità per ridurre le disuguaglianze e aumentare la democrazia: è proprio ascoltando gli adulti leggere che i bambini aumentano la motivazione alla lettura e iniziano a sviluppare abilità che saranno poi essenziali nella vita e nella lettura autonoma” (in un articolo del 22 maggio 2023). La lettura ad alta voce o condivisa è uno strumento di democrazia e uguaglianza, come già praticava don Lorenzo Milani con la lettura costante della Costituzione.

Attraverso la lettura si condividono e si acquisiscono anche le “regole”. “Le regole sono gli elementi costitutivi di ogni cosa, che sia un gioco, il funzionamento di un organismo, un genere musicale, uno sport. Se voglio svolgere una data attività, creare una specifica condizione, modo di operare o di funzionare, è necessario fare ciò che ne permetta l’esistenza. […] In questa logica, in realtà, non c’è più il seguire le regole o trasgredirle, ma lo scegliere se fare ciò che si sta facendo oppure no. Se non fai ciò che fa esistere il gioco (le regole), il gioco non può esistere: quindi è necessario scegliere se fare o non fare” (cit.). La parola “regole” comincia con il prefisso “re-“ come “relazioni”, perché sono fondamentali per le relazioni interpersonali e sono alla base dell’educazione, della vita stessa. Anche nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile si legge: “[…] un’educazione volta ad uno sviluppo e uno stile di vita sostenibile, ai diritti umani, alla parità di genere, alla promozione di una cultura pacifica e non violenta, alla cittadinanza globale e alla valorizzazione delle diversità culturali e del contributo della cultura allo sviluppo sostenibile” (punto 4.7).

Il pedagogista Mario Maviglia sostiene: “La scuola può fare molto per educare alla pace. Ne era una convinta sostenitrice Maria Montessori la quale sottolineava che se si educa per la competizione questo è già l’inizio della guerra. Infatti solo educando alla cooperazione e alla solidarietà si può sperare che le giovani generazioni ripudino la guerra. Una didattica cooperativa, che favorisce l’espressione e la partecipazione dei bambini e delle bambine, che lavora sulle emozioni e le relazioni è una didattica che sviluppa competenze volte alla comprensione e all’incontro con l’altro, e dunque alla pace. D’altro canto educare alla pace è anche uno dei propositi dell’Agenda 2030 ”. La scuola non è un edificio, un posto, ma un luogo di vita, in cui si hanno grosse responsabilità per il presente e il futuro di tutti.

Oggi si punta molto sull’educazione STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica): che dovrebbe e potrebbe essere semplicemente educare alla meraviglia i bambini partendo dalla naturale curiosità dei più piccoli verso il mondo che li circonda. “La carta non è solo un materiale: è un mondo di possibilità” (cit.): e con l’uso della carta a scuola, non come semplice materiale ma come materia (etimologicamente da “tronco dell’albero”), si può fare tanto. 

Il pediatra Giuseppe Di Mauro puntualizza: “L’avvicinamento di bambini e ragazzi alle nuove tecnologie è inevitabile e non può e non deve essere ostacolato. Deve piuttosto essere limitato e guidato verso un uso consapevole e attraverso programmi di alta qualità, compito che spetta in primo luogo ai genitori e agli altri adulti di riferimento, come gli insegnanti”. Quando si parla di educazione digitale bisognerebbe ricordare che ne hanno dapprima bisogno i genitori e gli adulti in generale visto l’abuso che fanno dei device.

Il pedagogista Stefano Manici richiama: “L’umanesimo digitale riconosce l’importanza della tecnica e le esigenze proprie degli esseri umani, si distingue dalle visioni apocalittiche del futuro perché confida nella ragione umana, ma non assume un atteggiamento entusiastico nei confronti delle potenzialità della tecnologia, riconoscendone e sottolineandone i limiti” (in un articolo del 20 settembre 2023). Occorre promuovere l’umanesimo digitale anche in seno alla famiglia diventata sempre più connessa o ibridata, in cui ci si guarda e ascolta poco o nulla, basti pensare alle audiofiabe per la buonanotte o alle mamme che allattano mentre sono intente al cellulare.

“Perché non c’è sostenibilità senza health, human e happiness” (gli esperti aziendali Massimo Lapucci e Stefano Lucchini). Il “fattore H”, cioè salute, umanità e felicità: da recuperare e promuovere in ogni processo non solo produttivo, ma innanzitutto in quello di insegnamento-apprendimento e in ogni processo educativo. Il benessere è innanzitutto un concetto “biopsicologico” ed è questa la dimensione che bisogna o urge recuperare e salvaguardare.

“L’arte del magnificare, cuore di ogni esperienza educativa” (cit.). Educare: appassionare alla vita, appassionarsi alla vita altrui. La scuola non è una fabbrica ma una bottega artigiana, deve fare la differenza e non le differenze.

“Il sapere rende liberi. Tutti i bambini hanno diritto a un’istruzione, con maggiore attenzione per quelli in difficoltà. Perché tutti possano raggiungere gli stessi traguardi” (dal Documento dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza nel 30° anniversario della Convenzione di New York).

Legalizzazione documenti scolastici per uso estero

Legalizzazione documenti scolastici per uso estero

di Leon Zingales e Giuseppa Antonietta Ioculano (*)

Disciplina giuridica

La legalizzazione è la procedura attraverso la quale atti e documenti formati in Italia acquisiscono valore giuridico in altri paesi e viceversa.

La Conferenza dell’Aja di Diritto internazionale  privato (Hague Conference on Private International Law – HCCH)  il 5 ottobre  1961 ha adottato la “Convenzione che sopprime la legalizzazione di atti pubblici stranieri” (c.d. “Convenzione dell’Apostille”) introducendo una significativa semplificazione dell’iter di legalizzazione al fine di prescindere dall’intervento dell’autorità consolare o diplomatica.

In Italia la Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961 è stata ratificata con la legge 20 dicembre 1966, n. 1253   (in G.U. n. 26 del 30.01.1967, con testo in francese).

Il deposito dello strumento di ratifica è stato adottato il 13 dicembre 1977 sancendo l’entrata in vigore della Convenzione avvenuta il’11 febbraio 1978 (Comunicato del Ministero degli affari esteri in G.U. n. 42 dell’11.02.1978, pag. 1075)

Con lo strumento di ratifica l’Italia in attuazione dell’art 6 della Convenzione  dell’Aja del 1961 ha designato e comunicato le seguenti autorità competenti al rilascio dell’Apostille:

  1. per gli atti giudiziari e notarili: Procuratore della Repubblica presso i Tribunali nelle cui giurisdizioni gli atti medesimi sono emanati;
  2.  per tutti gli altri atti amministrativi previsti dalla Convenzione: Prefetti territorialmente competenti, per la Valle d’Aosta il Presidente della Regione, per le Province di Trento e Bolzano il Commissario di Governo.

Lo stato di applicazione della c.d. “Convenzione dell’Apostille” è rinvenibile sul  sito internet della Conferenza dell’Aja di diritto privato internazionale (HCCH).

I documenti scolastici  formati in Italia – quali i diplomi, le pagelle ed i certificati -per poter essere utilizzati  all’estero devono  essere sottoposti a legalizzazione semplificata  ai sensi degli artt. 30 e segg. del D.P.R. 445/2000 mediante l’apposizione dell’”Apostille” che consiste nella certificazione della veridicità della firma,  della  qualità del firmatario e, se necessario, dell’autenticità del timbro o sigillo apposto all’atto.

La firma da legalizzare non viene apposta in presenza dell’ufficiale legalizzante, ma viene verificata tramite il confronto con un campione appositamente depositato.

Approfondimento: Modello fisso dell’Apostille

L’Apostille ha un modello fisso predeterminato dalla Convenzione dell’Aja del 1961, deve avere dimensioni grafiche minime (quadrato di 9×9 cm minimo) deve essere redatta in francese, lingua ufficiale della Convenzione, o nella lingua dell’autorità che la rilascia e il titolo “Apostille” deve essere sempre riportato in francese

L’Apostille viene apposta ad un atto già formato in calce al medesimo o in atto allegato, redatta in francese, lingua ufficiale della Convenzione, o nella lingua dell’autorità che la rilascia; il titolo “Apostille” deve essere sempre riportato in francese

L’”Apostille” non essendo parte integrante dell’atto non modifica la data dell’atto apostillato.

Tale natura di atto separato e la rigida previsione del testo, della lingua e del modello dell’”Apostille” rende superflua ogni sua traduzione: il titolo in francese impedirebbe ogni equivoco, unitamente alla numerazione di ciascuna riga del testo

Procedura di legalizzazione

La procedura si compone di tre fasi che dovranno svolgersi necessariamente nel seguente ordine:

1. Legalizzazione del documento/diploma originale/ certificato sostitutivo ad opera dell’Ambito Territoriale nella cui area di competenza è ricompresa l’istituzione scolastica che ha rilasciato il documento;

2. Estrazione di copia/e conformi del documento/diploma originale/ certificato sostitutivo, previamente munito di legalizzazione da parte dell’Ambito Territoriale, mediante presentazione del documento a pubblico Ufficiale (Notaio/funzionario comunale a ciò delegato);

3. Legalizzazione mediante apposizione di Apostille ai sensi della Convenzione dell’Aja del 1961 da parte dell’Ufficio Territoriale del Governo (Prefettura);

Nella prima fase l’interessato dovrà presentare il documento/diploma/ certificato sostitutivo   in originale presso l’Ambito Territoriale nella cui area di competenza è ricompresa l’istituzione scolastica che ha rilasciato il documento.

Il servizio è svolto gratuitamente presso l’U.S.R. per la Sicilia – Ambito Territoriale di Messina sito Messina in Via San Paolo n.361 previo appuntamento da prendere accedendo al sito internet dell’Ufficio.

La tempistica per il rilascio oscilla da tre a sette giorni lavorativi asseconda delle specificità del caso concreto.

All’uopo si precisa che:

  • la legalizzazione del titolo di studio potrà avere ad oggetto esclusivamente il diploma in originale o il certificato sostitutivo del diploma.
  • Il documento deve recare firma autografa del Dirigente Scolastico dell’Istituto statale o del Coordinatore delle attività didattiche della scuola paritaria ovvero del presidente di commissione nel caso di autentica del diploma conclusivo del secondo ciclo di istruzione.
  • La firma deve essere leggibile e per esteso ed accompagnata dal nominativo del firmatario apposto sul documento mediante stampa ovvero mediante timbro. Non possono essere autenticate sigle, timbri con la stampiglia della firma, firme digitali (in quanto riproduzioni cartacee di documenti informatici)
  • Non possono essere autenticati documenti privi della sottoscrizione originale apposta dai soggetti di cui sopra in quanto l’Ufficio può procedere alla sola autentica delle firme dei Dirigenti scolastici e dei presidenti di commissione che hanno depositato la firma presso l’Ambito Territoriale;
  • Non possono essere oggetto di legalizzazione copie del documento/ diploma/ certificato sostitutivo anche se rilasciate in forma autentica.

E’ opportuno quindi che gli utenti controllino preventivamente che i documenti da sottoporre all’Ufficio abbiano tutte le caratteristiche richieste e nello specifico:

• il documento da autenticare sia originale, poiché non si possono legalizzare copie;

• il nome di chi ha firmato sia leggibile;

• la firma sia autografa, cioè scritta a penna.

Nella seconda fase il documento /diploma in originale o il certificato sostitutivo – munito di legalizzazione da parte dell’Ambito Territoriale –  dovrà essere presentato presso un pubblico ufficiale (Notaio / funzionario comunale a ciò delegato) al fine di estrarre copia/e munite di attestazione di conformità all’originale.

L’estrazione di copia autentica del documento/diploma/certificato sostitutivo e la successiva “Apostille” è funzionale al trattenimento dell’originale del documento/diploma/certificato sostitutivo nella disponibilità dell’utente per eventuali necessità future.

Nella terza fase la copia del documento/diploma/certificato sostitutivo munita di attestazione di conformità all’originale dovrà essere presentata per l’”Apostille” presso l’Ufficio Territoriale del Governo (Prefettura) nella cui area di competenza ricade l’Ambito Territoriale che ha effettuato la legalizzazione.

Il documento/diploma/certificato sostitutivo in copia autentica legalizzata ed apostillata potrà essere così utilizzato per gli adempimenti successivi finalizzati a consentire l’uso all’estero.

Bibliografia

  • “Convenzione che sopprime la legalizzazione di atti pubblici stranieri” ( c.d. “Convenzione dell’Apostille”) del 5 ottobre 1961;
  • Legge 20 dicembre 1966, n. 1253;
  • Comunicato del Ministero degli affari esteri in G.U. n. 42 dell’11.02.1978;
  • D.P.R. 445/2000

(*) Ambito Territoriale Ufficio VII- Messina

Il growth mindset

Il growth mindset

Coltivare la mentalità di crescita a scuola

di Bruno Lorenzo Castrovinci

Nel contesto educativo italiano, segnato dalla sfida della dispersione scolastica, dell’inclusione e del recupero degli apprendimenti, il concetto di growth mindset può rappresentare una risposta strategica, in grado di promuovere un nuovo paradigma culturale dell’apprendimento fondato su fiducia, plasticità e valorizzazione dell’errore.

Negli ultimi anni, il concetto di growth mindset ha acquisito una crescente diffusione nel panorama educativo internazionale, configurandosi come uno degli approcci pedagogici più dibattuti e promossi a livello globale. Nato dagli studi della psicologa statunitense Carol Dweck negli anni Novanta presso l’Università di Stanford, questo approccio si fonda sull’idea che l’intelligenza e le capacità non siano doti innate e immutabili, bensì competenze dinamiche che possono essere sviluppate nel tempo attraverso l’impegno, la perseveranza e l’apprendimento dagli errori. A differenza della mentalità fissa, che tende a cristallizzare i limiti e a scoraggiare il miglioramento, il growth mindset favorisce negli studenti un atteggiamento positivo verso le sfide, una maggiore capacità di resilienza e una visione dell’errore come parte integrante e costruttiva del processo formativo. Questo approccio ha attirato l’attenzione non solo degli insegnanti, ma anche di genitori, dirigenti scolastici, formatori e ricercatori, divenendo punto di riferimento in numerose iniziative scolastiche sia negli Stati Uniti sia in Europa.

La diffusione nelle scuole e le criticità emerse

L’entusiasmo con cui molte scuole, soprattutto nel Regno Unito e negli Stati Uniti, hanno accolto la teoria del growth mindset testimonia la sua attrattiva pedagogica. Si tratta di un’idea semplice, intuitiva e carica di positività, capace di valorizzare la soggettività dello studente e di orientare l’insegnamento verso la costruzione dell’autoefficacia. Tuttavia, nonostante la popolarità del concetto, il corpus di evidenze scientifiche a supporto della sua efficacia come strumento per il miglioramento dei risultati scolastici è ancora oggetto di discussione.

Una ricerca condotta nel Regno Unito dalla Education Endowment Foundation (EEF), in collaborazione con il National Institute for Economic and Social Research (NIESR), ha valutato l’impatto del programma Changing Mindsets, ideato per promuovere la growth mindset tra gli studenti dell’ultimo anno della scuola primaria. I risultati, misurati tramite i test nazionali di literacy e numeracy, non hanno mostrato miglioramenti significativi nei livelli di apprendimento rispetto al gruppo di controllo. È interessante notare che anche molti insegnanti delle scuole oggetto di rilevazione, pur non adottando formalmente il programma, utilizzavano già spontaneamente pratiche riconducibili al growth mindset, come l’enfasi sullo sforzo e sull’autovalutazione. Questa sovrapposizione rende difficile l’isolamento degli effetti specifici dell’intervento. La ricerca sottolinea, quindi, la necessità di un’implementazione strutturata, coerente e monitorata, che non si limiti a slogan motivazionali o interventi frammentari, ma che coinvolga in modo organico l’intero impianto pedagogico e l’identità professionale del docente.

Tra intuizione pedagogica e fondamento empirico

La distanza tra il successo intuitivo del modello e i risultati talvolta contraddittori della ricerca solleva interrogativi sull’efficacia reale del growth mindset. La teoria ha il merito di porre l’accento su aspetti cruciali dell’educazione, come la motivazione, la percezione di sé e l’atteggiamento verso l’errore, ma da sola non garantisce il miglioramento degli apprendimenti. È essenziale integrare il growth mindset in un contesto educativo complesso e coerente, che includa pratiche strutturate, valutazioni formative e un ambiente scolastico favorevole alla sperimentazione.

Il genetista britannico Robert Plomin ha criticato l’adozione acritica del growth mindset, considerandolo una “moda” educativa priva di basi scientifiche solide, se non adeguatamente contestualizzato. Per evitare una banalizzazione del concetto, è fondamentale che i docenti siano formati criticamente, in modo da comprendere le opportunità offerte dal modello e valutarne con consapevolezza limiti e potenzialità. Il growth mindset può fiorire solo se incorporata in una visione sistemica che promuova la motivazione, l’autoefficacia e la gestione dell’errore come strumento di crescita.

Declinazioni operative in aula: rendere visibile il processo

Carol Dweck ha più volte ribadito che il growth mindset non deve essere trasmesso in modo astratto, ma reso visibile attraverso pratiche concrete e quotidiane da parte degli insegnanti. Si tratta di un lavoro pedagogico profondo, che investe il modo di valutare, incoraggiare, ascoltare e comunicare. L’obiettivo è quello di spostare l’attenzione dal risultato all’impegno, dalla risposta corretta alla qualità del ragionamento, dalla prestazione alla riflessione sul processo. Questo implica anche una riconsiderazione dei criteri di successo, allontanandosi da una visione prestazionale e classificatoria per abbracciare un’idea di crescita continua e personalizzata.

Le attività didattiche devono essere autentiche, motivanti e orientate al problem solving. Compiti sfidanti, ma accessibili, aiutano gli studenti a sviluppare la flessibilità cognitiva e l’autoregolazione, due competenze chiave nella società della conoscenza. Il feedback deve essere costruttivo, orientato al miglioramento e focalizzato sulle strategie adottate, piuttosto che sul risultato ottenuto. È attraverso il dialogo riflessivo che si promuove l’apprendimento metacognitivo e si rafforza la consapevolezza di sé.

L’ambiente scolastico, sia fisico che relazionale, deve favorire la collaborazione, l’ascolto e la fiducia reciproca. Un’aula in cui gli errori sono accolti come opportunità, in cui ogni voce è valorizzata e in cui il docente si pone come guida empatica, rappresenta il contesto ideale per far attecchire il growth mindset. Solo in un clima coeso e coerente, gli studenti potranno interiorizzare davvero questo approccio e sviluppare un’identità scolastica fondata sulla resilienza e sulla possibilità del cambiamento.

Aspetti pedagogici della growth mindset

Il growth mindset si inserisce nella cornice della pedagogia attiva e costruttivista, che valorizza l’alunno come soggetto protagonista dell’apprendimento. Il docente assume il ruolo di facilitatore dei processi cognitivi, relazionali e metacognitivi, accompagnando l’evoluzione dell’identità dello studente. L’errore viene riconosciuto come elemento prezioso del percorso educativo e il processo diventa più importante del prodotto finale, in linea con il pensiero di John Dewey, secondo cui si impara facendo, riflettendo e rielaborando.

Approcci come il learning by doing, la didattica laboratoriale e la valutazione formativa trovano nel growth mindset un naturale alleato. Il contributo di Jerome Bruner e Lev Vygotskij appare fondamentale per comprendere come la zona di sviluppo prossimale e il supporto docente favoriscano la progressiva autonomia del discente. L’obiettivo non è soltanto acquisire competenze, ma formare cittadini consapevoli, resilienti e autonomi. In questa prospettiva, l’educazione alla resilienza, all’autodisciplina e all’autoefficacia, come sottolineato anche da Albert Bandura, diventa parte integrante della quotidianità scolastica e dell’interazione educativa.

Aspetti neuroscientifici e implicazioni cognitive

Le neuroscienze confermano la plasticità cerebrale come elemento centrale nell’apprendimento. Studi condotti in Europa e negli Stati Uniti, attraverso avanzate tecniche di neuroimaging come la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e l’elettroencefalografia (EEG), mostrano come l’attività ripetuta, l’impegno intenzionale e l’emozione positiva rafforzino le connessioni neurali e favoriscano la memoria a lungo termine. In particolare, le ricerche statunitensi dell’Università di Stanford e britanniche dell’Università di Cambridge hanno evidenziato come i processi metacognitivi e motivazionali attivino regioni cerebrali legate all’autoregolazione e al rinforzo dopaminergico, facilitando l’apprendimento profondo.

Il growth mindset, stimolando la motivazione intrinseca e la fiducia nelle proprie capacità, attiva i circuiti dopaminergici del cervello, in particolare il sistema mesolimbico, promuovendo l’adattamento flessibile alle nuove informazioni. L’idea che l’intelligenza sia modificabile nel tempo rispecchia il concetto di plasticità sinaptica, su cui convergono numerose evidenze neuroscientifiche.

Daniela Lucangeli, psicologa dello sviluppo e docente presso l’Università di Padova, ha introdotto il concetto di “didattica delle emozioni”, evidenziando l’importanza di un clima scolastico che riduca l’ansia e favorisca l’autoefficacia. Le sue ricerche condotte in Italia, con il gruppo di ricerca Mind4Children, dimostrano che un contesto emotivamente sicuro promuove lo sviluppo cognitivo e la capacità di affrontare sfide complesse. L’attivazione positiva del sistema limbico favorisce una più efficace elaborazione delle informazioni, confermando come emozione e cognizione siano profondamente interconnesse. Il growth mindset, dunque, non è solo una teoria motivazionale, ma una strategia fondata su robuste evidenze neurobiologiche e psicopedagogiche, capace di incidere sul benessere e sul rendimento scolastico degli studenti.

Buone pratiche per ogni ordine di scuola

L’applicazione del growth mindset va calibrato in base all’età degli studenti e alle loro esigenze evolutive, nella consapevolezza che ogni fase dello sviluppo richiede strumenti e approcci specifici, capaci di accompagnare i giovani lungo il percorso di costruzione dell’identità personale e cognitiva.

Nella scuola dell’infanzia, l’apprendimento passa attraverso il gioco simbolico, l’esplorazione sensoriale e l’esperienza corporea: contesti che, secondo Jean Piaget, rappresentano forme privilegiate di assimilazione e accomodamento. Valorizzare l’errore, in questo primo ciclo di vita, significa creare un clima di fiducia in cui ogni tentativo, anche fallimentare, diventa occasione per apprendere e per strutturare una relazione positiva con sé e con l’ambiente.

Nella scuola primaria, l’ingresso nei saperi formali richiede un accompagnamento metacognitivo costante: strumenti come rubriche valutative, mappe concettuali, diari di bordo o portfolio permettono ai bambini di rappresentare il proprio percorso e di comprendere che l’apprendimento è un processo evolutivo e non un’etichetta immutabile. Come sottolineato da John Hattie, è fondamentale che il feedback sia formativo, chiaro e costruttivo, per sostenere l’autoefficacia e la motivazione intrinseca.

Nella scuola secondaria di primo grado, la costruzione dell’identità, messa alla prova da nuovi interrogativi esistenziali e relazionali, rende centrale il tema della narrazione di sé. In questa fase, come osserva Jerome Bruner, la dimensione narrativa dell’apprendimento consente di organizzare le esperienze in forma di racconto, favorendo la consapevolezza delle proprie risorse e la rielaborazione degli insuccessi. Promuovere il growth mindset significa, qui, sostenere la riflessione, il confronto e l’accettazione del limite.

Nella scuola secondaria di secondo grado, l’adolescente si affaccia all’età adulta e ha bisogno di spazi di autonomia, progettualità e pensiero critico. L’insegnante diventa mentore, guida capace di stimolare la responsabilità, la resilienza e la capacità di auto-valutarsi. In linea con le riflessioni di Albert Bandura sull’autoefficacia, è importante offrire sfide cognitive equilibrate e occasioni per esercitare il pensiero divergente, affinché la crescita non sia solo accademica ma anche personale e sociale.

Manuali e letture per approfondire

Per approfondire la teoria del growth mindset e comprenderne le sue applicazioni in ambito educativo, si possono consultare diversi testi fondamentali disponibili in lingua italiana. Uno dei riferimenti principali è l’opera di Carol Dweck, Mindset. Cambiare forma mentis per raggiungere il successo (Franco Angeli, 2023), in cui l’autrice, pioniera della teoria, illustra come l’atteggiamento mentale influenzi profondamente i risultati scolastici, le dinamiche familiari e l’ambiente professionale. Il libro rappresenta una guida essenziale per chiunque desideri comprendere i meccanismi psicologici alla base dell’apprendimento e della motivazione.

In linea con questo approccio, Elena Malaguti in Educarsi alla resilienza (Erickson, 2005) indaga la stretta connessione tra resilienza, emozioni e crescita personale, offrendo una prospettiva educativa incentrata sul rafforzamento del mindset positivo, soprattutto nei contesti più fragili.

Un contributo importante è dato anche da Daniela Lucangeli, che in A mente accesa. Crescere e far crescere (Mondadori, 2024) unisce i risultati delle neuroscienze alla riflessione pedagogica, ponendo al centro il ruolo della curiosità, della motivazione e dell’intelligenza emotiva nei processi di apprendimento.

Tutti questi testi condividono un orientamento educativo che riconosce il potenziale trasformativo della mente, sottolineando l’importanza dell’atteggiamento con cui si affrontano le sfide, e forniscono strumenti teorici e operativi per costruire ambienti di apprendimento più consapevoli, resilienti e orientati alla crescita.

Conclusioni

Il growth mindset non è soltanto una teoria educativa, ma rappresenta una visione trasformativa e profondamente etica dell’apprendimento e dello sviluppo umano. In un’epoca caratterizzata da incertezze e mutamenti rapidi, adottare un growth mindset significa restituire centralità al potenziale dell’individuo, promuovendo un approccio inclusivo, empatico e orientato alla valorizzazione della persona nella sua unicità. Quando tale paradigma viene integrato in modo consapevole nella quotidianità scolastica, non si limita a influenzare i risultati didattici, ma contribuisce alla creazione di ambienti relazionali fondati sulla fiducia, sul riconoscimento reciproco e sulla possibilità di apprendere anche dagli errori. La crescita, dunque, non si configura come traguardo statico, ma come processo continuo che si nutre di motivazione intrinseca, apertura mentale e riflessione critica. Come ricorda Carol Dweck, “La convinzione di poter migliorare è già l’inizio del cambiamento”. Questa affermazione, se assunta in profondità, invita tutta la comunità scolastica a rinnovare la propria cultura pedagogica, investendo in pratiche che alimentino il senso di autoefficacia e la possibilità concreta di trasformazione.