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La costruzione del patto educativo con la classe

Regole condivise

La costruzione del patto educativo con la classe

 di Bruno Lorenzo Castrovinci

Costruire un patto educativo con la classe non significa semplicemente stilare un insieme di regole, ma dare vita a un progetto comune che renda ogni studente partecipe e responsabile. Il patto è uno strumento pedagogico che serve a rafforzare la coesione del gruppo e a favorire l’apprendimento attraverso la condivisione di valori. Esso diventa occasione per riconoscere che la scuola non è soltanto un luogo di trasmissione di saperi, ma una comunità che si costruisce ogni giorno con le relazioni, con il confronto e con la capacità di risolvere insieme i conflitti.

La classe è un microcosmo in cui si intrecciano personalità, storie e sensibilità differenti. Il patto educativo diventa allora il linguaggio comune che consente di convivere, di rispettarsi e di sentirsi parte di un percorso condiviso. Quando gli studenti partecipano attivamente alla sua elaborazione, il patto non è percepito come imposizione, ma come scelta condivisa che rafforza il senso di appartenenza. Questo processo educativo insegna che la libertà non è assenza di limiti, ma capacità di assumere responsabilità per sé stessi e per gli altri.

Dal regolamento al patto

Ogni istituzione scolastica dispone di regolamenti ufficiali che stabiliscono diritti e doveri. Tuttavia, la distanza tra queste norme e la realtà della classe può essere significativa. La quotidianità degli studenti è fatta di dinamiche, emozioni e relazioni che difficilmente un documento scritto riesce a cogliere in tutta la sua complessità. Il patto educativo rappresenta, quindi, il passaggio necessario per trasformare indicazioni generali in pratiche quotidiane comprensibili e applicabili. Una regola astratta rischia di rimanere lettera morta, mentre una regola reinterpretata insieme acquista significato perché diventa legata all’esperienza concreta degli studenti e alla loro vita reale. Questo processo di traduzione del regolamento in patto non solo rende più chiare le aspettative, ma aiuta a interiorizzare i valori sottesi alle norme, che non sono meri divieti ma strumenti per imparare a vivere insieme.

Il docente non si limita a trasmettere regole, ma accompagna la classe nella comprensione del loro senso. Il suo compito è guidare la riflessione, chiarire le finalità, fornire esempi concreti e sostenere l’interiorizzazione delle norme. Egli stimola gli studenti a interrogarsi sul perché di una regola e sul valore che essa tutela, aiutandoli a riconoscere che dietro ogni norma vi è il rispetto della persona e della comunità. In questo modo, l’insegnante non è un giudice che punisce, ma un facilitatore che favorisce la crescita. Grazie a questo processo, le regole diventano espressione della vita della classe, non imposizioni esterne, e acquistano un valore educativo e civile che si estende oltre i confini della scuola, preparando gli studenti ad affrontare con responsabilità anche i contesti sociali più ampi.

Fondamenti pedagogici della regola condivisa

Una regola condivisa non è solo limite, ma occasione di sviluppo delle competenze cognitive, emotive e relazionali. Essa permette di allenare le funzioni esecutive, come la capacità di pianificare, di prevedere le conseguenze delle proprie azioni e di gestire le emozioni. In questo senso, la regola si configura come un ponte che collega il comportamento all’autoconsapevolezza, rendendo possibile un apprendimento non solo disciplinare, ma anche personale e sociale.

Il valore educativo delle regole si rafforza quando gli adulti sono coerenti. Un docente che incarna i principi che enuncia diventa modello credibile e punto di riferimento per gli studenti. La puntualità, l’uso di un linguaggio rispettoso, l’ascolto autentico e la gestione serena dei conflitti rendono la regola concreta e tangibile. Non è più un concetto astratto, ma una prassi quotidiana che si apprende vivendo insieme. L’educazione passa allora attraverso l’esempio, prima ancora che attraverso la parola.

La costruzione condivisa del patto

Il cuore del patto educativo risiede nella sua costruzione partecipata. Coinvolgere gli studenti significa renderli protagonisti attivi e responsabili. Attraverso il dialogo e il confronto, essi esprimono ciò che ritengono importante per vivere bene in classe e per garantire un apprendimento sereno. Da questo confronto nascono proposte che vengono rielaborate in regole chiare e praticabili, capaci di riflettere i valori condivisi dal gruppo.

Trasformare valori generali in comportamenti concreti è passaggio essenziale. Non basta dire che occorre rispettare gli altri: occorre tradurre questo principio in azioni quotidiane, come ascoltare senza interrompere, attendere il proprio turno, usare un tono di voce adeguato. La possibilità di rivedere periodicamente il patto lo rende inoltre dinamico e adattabile all’evoluzione del gruppo, mantenendo viva la partecipazione e il senso di responsabilità. In questo modo il patto non è un documento statico, ma un organismo vivo che cresce insieme alla classe.

Inclusione e differenze

Ogni classe è abitata da studenti con storie personali, stili cognitivi e bisogni educativi diversi. Un patto educativo autentico tiene conto di tali differenze e le trasforma in risorse, predisponendo condizioni di accesso all’apprendimento che siano eque e realmente praticabili. Ciò significa prevedere una pluralità di vie per partecipare, ritmi rispettosi dei tempi individuali, linguaggi diversificati che permettano a ciascuno di comprendere e di esprimersi. Le regole vengono, dunque, formulate in modo inclusivo, così da garantire a tutti la possibilità di essere parte attiva, anche a chi necessita di strumenti compensativi o di tempi personalizzati. Equità non coincide con trattamento identico per tutti, ma con la scelta di offrire a ciascuno ciò che serve per crescere e per sentirsi riconosciuto nella propria unicità.

Questa impostazione si traduce in pratiche concrete che danno corpo all’inclusione. Le regole sono presentate con modalità diverse, orali, scritte e visuali, per sostenere la comprensione. Le attività sono calibrate e graduali, con obiettivi chiari e raggiungibili. La classe adotta routine prevedibili che offrono sicurezza nelle transizioni e prevede momenti di decompressione per chi fatica a gestire la pressione. Sono possibili forme differenti di partecipazione, come la preparazione di materiali, il tutoraggio tra pari o il contributo creativo alla documentazione del lavoro. La valutazione assume un taglio formativo, con criteri trasparenti e occasioni di autovalutazione, e consente di mostrare le competenze attraverso canali diversi, orali, scritti, pratici e digitali, così che il merito non dipenda da un unico modo di performare.

Spiegare al gruppo classe le ragioni delle personalizzazioni riduce il rischio di fraintendimenti e previene la stigmatizzazione. La comunità impara che la diversità non è una minaccia ma una ricchezza e che la responsabilità di includere riguarda ciascuno. La chiarezza comunicativa, unita alla riservatezza sui dati sensibili, crea fiducia e favorisce un clima di mutuo sostegno. In questo modo il patto educativo diventa anche presidio etico, poiché tutela la dignità di ogni studente e rafforza la coesione del gruppo attraverso la valorizzazione delle differenze, promuovendo la consapevolezza delle proprie esigenze e la capacità di chiedere aiuto quando necessario.

Educazione digitale

La vita degli studenti si svolge oggi tra spazi fisici e spazi virtuali, e per questo il patto educativo non può ignorare la dimensione digitale. In Italia l’uso dei telefoni cellulari a scuola è vietato dai regolamenti d’istituto, ma questo non significa che si possa rinunciare a educare i ragazzi a un rapporto sano e critico con la tecnologia. Limitarsi a un divieto rischia di non affrontare il problema alla radice: è invece necessario promuovere un uso consapevole e responsabile degli strumenti digitali, aiutando gli studenti a riconoscere opportunità e rischi connessi. La tecnologia va, quindi, presentata non come minaccia, ma come risorsa di apprendimento che richiede nuove competenze, dalla capacità di selezionare le informazioni alla gestione dell’identità online.

Il patto educativo può prevedere momenti di riflessione e di discussione sul rapporto con i dispositivi digitali, affinché essi non vengano percepiti come ostacolo ma come supporto per lo studio. È importante che gli studenti comprendano come la qualità dello studio e delle relazioni dipenda dall’equilibrio tra concentrazione e svago, tra presenza fisica e connessione virtuale. Il Ministero dell’Istruzione e del Merito con il DM n. 166 del 09/08/2025 ha anticipato le linee guida per l’uso dell’intelligenza artificiale a scuola, che offrono criteri per integrare tali tecnologie in modo etico, sicuro e pedagogicamente fondato. Inserire nel patto principi di netiquette, pratiche di rispetto online e momenti di confronto sull’impatto dell’intelligenza artificiale favorisce lo sviluppo di una cittadinanza digitale matura. In questo modo, il patto diventa un ponte tra educazione tradizionale e formazione alle competenze del futuro, trasformandosi in palestra per una vita digitale consapevole, responsabile e orientata al bene comune.

Gestione dei conflitti e riparazione

Il conflitto è una dimensione inevitabile della vita di gruppo e non va interpretato come un fallimento, ma come occasione educativa e momento di crescita per tutti. Un patto educativo efficace deve prevedere non solo ciò che si fa per prevenire i conflitti, ma anche ciò che accade quando le regole vengono infrante e le relazioni si incrinano. La risposta non deve essere punitiva, ma riparativa, proporzionata e orientata alla ricostruzione del legame. Punire in modo cieco non aiuta a crescere, mentre riparare significa assumersi la responsabilità, comprendere il danno arrecato, chiedere scusa e impegnarsi concretamente a ristabilire la fiducia all’interno del gruppo.

Il colloquio riparativo diventa in questo senso uno strumento prezioso e altamente formativo. Chi ha infranto la regola è guidato a ricostruire i fatti, a riconoscere le proprie emozioni e quelle altrui, a riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni e a immaginare alternative possibili per il futuro. Anche chi ha subito un danno trova spazio per essere ascoltato, riconosciuto e rassicurato. Il conflitto si trasforma, così, in una vera esperienza di apprendimento, che insegna a gestire le tensioni, a comunicare con rispetto e a cercare soluzioni condivise. Questo approccio rafforza l’autorevolezza del docente, promuove la responsabilità degli studenti e mostra che le regole esistono per tutelare le relazioni e per rendere più solida la comunità, non per esercitare potere o imporre obbedienza cieca.

Famiglie e comunità educante

Il patto educativo coinvolge non solo la classe ma anche le famiglie e il territorio. La collaborazione con i genitori nasce dalla condivisione del senso delle regole e delle finalità formative che esse tutelano e si concretizza in momenti di ascolto reciproco, in incontri di inizio e metà anno e in canali comunicativi chiari e coerenti. Quando scuola e famiglia adottano un linguaggio comune, gli studenti sperimentano continuità tra casa e aula, comprendono che le richieste non sono arbitrarie e interiorizzano più facilmente i comportamenti attesi. Questa alleanza non chiede uniformità di vedute, ma impegna gli adulti a sostenere messaggi non contraddittori, a valorizzare l’impegno, a promuovere routine domestiche che favoriscono l’apprendimento come tempi di riposo adeguati, cura dei materiali e uso responsabile della tecnologia in coerenza con il divieto dei telefoni a scuola e con le indicazioni sull’intelligenza artificiale. In questo quadro è utile prevedere momenti di restituzione del percorso, colloqui orientati alla soluzione dei problemi e occasioni formative dedicate alle competenze genitoriali, così che il patto diventi un’esperienza condivisa e non un semplice documento da firmare.

Anche il territorio può diventare parte attiva del patto attraverso collaborazioni che rendono le regole pratiche vissute. Biblioteche, musei, associazioni culturali, realtà sportive, enti del volontariato e istituzioni civiche offrono contesti in cui esercitare rispetto, puntualità, cura degli spazi e comunicazione responsabile. Progetti di service learning, visite guidate, laboratori con esperti e iniziative di cittadinanza attiva permettono agli studenti di vedere le regole in azione e di comprenderne il valore sociale. In questi contesti il patto si estende oltre l’aula e diventa codice di comportamento pubblico, capace di orientare scelte e relazioni. La scuola può coordinare queste esperienze con accordi di rete, con momenti di preparazione in classe e con restituzioni finali aperte alle famiglie, così da trasformare l’intera comunità in laboratorio educativo permanente.

Perché l’alleanza con famiglie e territorio sia efficace occorrono strumenti semplici di monitoraggio condiviso. Diari di bordo, brevi questionari sul clima scuola famiglia, osservazioni narrative e incontri periodici di verifica aiutano a leggere ciò che funziona e ciò che va migliorato. Questo sguardo congiunto trasforma gli episodi quotidiani in dati utili, alimenta la fiducia e rende il patto un processo che apprende nel tempo, capace di sostenere la crescita dei ragazzi dentro e fuori la scuola.

Conclusione

Il patto educativo non rappresenta un atto burocratico, ma un impegno morale e pedagogico che accompagna la vita della classe e la rende più coesa e capace di affrontare le sfide. È il punto di incontro tra esigenze individuali e obiettivi collettivi, uno strumento che aiuta ciascuno a sentirsi parte di un progetto comune. Attraverso regole condivise, la classe impara a gestire conflitti in modo costruttivo, a valorizzare le differenze come risorse, a prendersi cura dell’altro e dell’ambiente in cui vive.

La forza del patto risiede nella chiarezza con cui viene formulato, nella partecipazione degli studenti che lo rendono proprio e nella coerenza dei docenti che lo testimoniano ogni giorno. In questo modo, la scuola si trasforma in un laboratorio di democrazia, un luogo in cui si sperimentano relazioni fondate sul rispetto, sulla collaborazione e sulla responsabilità. Un patto educativo vissuto con autenticità prepara i giovani a vivere da cittadini maturi e consapevoli, capaci di riconoscere che le regole non limitano la libertà, ma la rendono possibile, perché solo attraverso il rispetto dell’altro si costruisce una convivenza davvero civile e giusta. 

La Scuola come palestra di linguaggio

La Scuola come palestra di linguaggio per allenare il pensiero

di Annalisa Filipponi

Viviamo in un momento storico particolarmente critico.

Molti sono gli ambiti in cui questa criticità ha raggiunto limiti che sembrano far vacillare ogni nostro punto di riferimento, ogni nostra certezza e, di conseguenza, il nostro stesso sentirci all’interno di un contesto stabile, rassicurante.

I nostri valori, la distinzione tra vero e falso, tra giusto e sbagliato, le nostre conoscenze, tutto ci appare instabile e ci sentiamo continuamente smentiti anche in quei punti di riferimento che, fino a pochi decenni fa, ci apparivano chiari, definitivi.

In questo contesto opaco e talvolta inquietante la Scuola assume un ruolo che mai è stato così importante e di questo deve sentirsi consapevole e responsabile. Il compito dei docenti di ogni ordine di scuola è diventato quello di costruire nei propri alunni (e in sé stessi) disposizioni cognitive aperte, capaci di porsi domande, di cercare risposte, di formulare ipotesi, di sviluppare curiosità intellettiva e spirito critico.

La Scuola ha la responsabilità di aiutare i discenti ad orientarsi in questo contesto mobile e vacillante, a saper distinguere, a saper formulare definizioni precise nel circoscrivere le categorie del proprio pensiero.

In questa realtà che corre velocissima – l’Intelligenza Artificiale ne è una dimostrazione evidente – solo il recupero di punti di riferimento chiari derivanti da capacità di esercizio del proprio pensiero ci può aiutare a mantenere un equilibrio e ad assumere un ruolo.

Sempre più nella nostra società della conoscenza instabile dobbiamo sottolineare l’importanza del recupero del linguaggio, orale e scritto, e della comunicazione dialettica tra pari dove, attraverso l’ascolto attivo, si possono sostenere le proprie opinioni dopo aver ascoltato quelle dell’altro. Proprio perché la comunicazione è sempre più vittima di intolleranza, dentro un mondo che ci appare totalmente fuori controllo, anche per il ruolo invasivo assunto nella comunicazione dai social media, è fondamentale nella Scuola recuperare quel ragionamento collettivo che passa attraverso la mediazione linguistica del pensiero che si costruisce tramite il confronto. 

Il recupero del linguaggio è importante nel contesto comunicativo in cui ci troviamo immersi e sommersi perché Il linguaggio orale è una palestra che ci permette di allenare il nostro pensiero. Infatti, il linguaggio è la prima forma del pensiero astrattivo con ricadute nel pensiero analitico, sintetico, linguistico, matematico, scientifico, tecnico, critico, ecc., cioè con tutte quelle forme di pensiero che hanno forgiato la nostra democrazia, la nostra cultura, la nostra civiltà.

Un semplice esempio

            Partiamo da un semplice esempio:

Sto guidando e devo andare in un luogo dove ho già avuto modo di recarmi più di una volta. Ad esempio, devo andare da dove abito ad un negozio che si trova a qualche chilometro da casa mia. Quando salgo in auto ho due semplici opzioni:

  1. Metto il navigatore
  2. Costruisco una mappa astrattiva del percorso che devo fare e che ripercorro a mente

Accade che guidando mi distragga e non capisca bene dove mi trovo rispetto alla meta da raggiungere. Anche in questo caso ho due opzioni:

  1. Rimetto in funzione il navigatore
  2. Rimetto in ordine la mappa astrattiva del percorso, la riorganizzo dal punto in cui mi trovo fino all’arrivo

Molte persone non sono più in grado di orientarsi attraverso capacità astrattive in contesti semplici, come quello sopra esposto, e in un qualsiasi tipo di ragionamento logico non supportato da agenti mediali.

La Comunità di ricerca

Il linguaggio è la prima forma di capacità astrattiva del cervello. È la base del suo allenamento e del suo mantenimento attivo e partecipe al mondo circostante. Ecco che, se la forma basilare del linguaggio non è padroneggiata, quando si tenta di raggiungere forme più complesse ci si trova incapaci di seguire qualunque semplice logica. Da qui derivano anche le difficoltà evidenziate dalle rilevazioni OCSE-Pisa e Invalsi nella comprensione testuale anche di un semplice testo.  

L’apprendimento attraverso un ragionamento collettivo passa dalla costruzione del pensiero attraverso il linguaggio, in particolare laddove tutto questo avviene in una comunità di pari (dialogo euristico peer to peer).

Una forma di comunicazione essenziale è il linguaggio dialettico dove si sviluppa un percorso che evolve tramite l’arricchimento della Tesi che, attraverso l’Antitesi, porta verso la Sintesi. In questo modo la Sintesi riesce ad inglobare gli argomenti della Tesi e quelli della sua Antitesi in modo da fornire uno sviluppo al pensiero che ne esce arricchito. Questo processo si base sull’ascolto attivo di quanto viene detto da un altro o da più altri. Il gruppo che discute in una forma comunicativa ed euristica tra pari prende il nome di Comunità di ricerca il cui fine non è la soluzione di un problema (problem solving), ma la ricerca della profondità di un ragionamento in un gruppo che mi permette di allenare il mio pensiero, confermando alcune mie prospettive, mettendole in discussione o costruendone altre.

Quello che viene proposto in una Comunità di ricerca – ad esempio attraverso la lettura di un articolo di attualità – è il tentativo di mettere in atto delle regole precise per sperimentare tra noi una discussione dialettica. Base della Comunità di ricerca è la problematizzazione, che non è la soluzione di problemi, ma la loro organizzazione linguistica in funzione di ricerca. Definire con precisione e con argomentazioni corrette un problema permette di sostenerlo o di confutarlo.

La Comunità di ricerca fa un uso produttivo del dubbio, convertendolo in un’operazione di ricerca che porti ad osservazioni ed asserzioni fondate su ragionamenti corretti. Per comunicazione qui intendiamo non gli ambiti descrittivi e trasmissivi, ma un’attività intellettuale razionale, critica, creativa, problematizzante. Scopo di una discussione in Comunità di ricerca è attivare e rinforzare processi cognitivi.

La Comunità di ricerca si realizza in un piano di discussione che vede impegnato un gruppo (si interviene per alzata di mano, rispettando turni, tempi, regole della discussione) e un docente coordinatore.

L’attività è così organizzata: Organizzazione dell’attività:

  • Scelta di un testo che contenga tematiche di tipo concettuale o universale
  • Predisposizione del gruppo all’attività
  • Lettura del testo
  • Sottolineatura individuale delle frasi che si ritengono significative (una – due )
  • Stesura dell’Agenda che raccoglie le frasi significative per ciascuno studente
  • Formulazione, da parte degli studenti divisi in piccoli gruppi, di domande sui contenuti emersi
  • Avvio della discussione finalizzata alla ricerca di nodi problematici

Le usuali domande dell’insegnante sono in parte sostituite da:

  • riprese o rispecchiamenti degli interventi degli alunni
  • interventi che sottolineano un’eventuale discordanza di posizioni
  • eventuali richieste di spiegazioni/chiarimenti

Esercitando il pensiero dialettico e democratico in Comunità di ricerca è possibile allenare l’apprendimento dentro un ragionamento collettivo, per permettere al singolo di costruire un pensiero attraverso il linguaggio, trasferibile poi in ogni contesto (apprendimento significativo). Credo che nella Scuola sia divenuto imprescindibile prendere in considerazione questa importante pratica, che nasce nella filosofia, ma è la base per un recupero di quelle categorie del pensiero logico-astrattivo che, se sono perse, sono perse per sempre, rendendoci fragili cittadini facilmente manipolabili da un qualsiasi “flauto magico”. [1]


[1] Si vedano i due articoli in cui ho affrontato compiutamente il ruolo della Comunità di ricerca: Una base solida per il Debate: apprendere in Comunità di ricerca, su www.gessetticolorati.it e www.edscuola.it del 10 dicembre 2019 e Linguaggio, dialogo e Debate per far crescere una Comunità di ricerca, su www.gessetticolorati.it e www.edscuola.it del 23 gennaio 2022.

 

Politiche educative e ruolo della scuola nella società contemporanea

Politiche educative e ruolo della scuola nella società contemporanea

Controreplica all’articolo di Massimo Recalcati “A scuola tornare indietro può insegnarti a crescere”

di Giovanni Fioravanti

L’intervento di Massimo Recalcati si inserisce in un dibattito pedagogico e sociale particolarmente acceso, quello relativo alle politiche educative e al ruolo della scuola nella società contemporanea. L’autore propone una lettura “simbolica” delle recenti  proposte ministeriali – il rafforzamento del voto in condotta, il divieto dell’uso dello smartphone in aula e la reintroduzione dell’apprendimento mnemonico delle poesie.

Le sue argomentazioni ruotano intorno alla necessità di reintrodurre il “senso umano della Legge” e di favorire la “separazione” dal mondo della connessione perpetua per accendere il “desiderio di sapere”.

Ora a scrivere di scuola è uno psicanalista, già sostenitore dell’erotica dell’insegnamento per riscoprire la singolare bellezza dell’apprendere, la conoscenza come oggetto del desiderio, come oggetto erotico.

Ma da uno studioso ci si attenderebbero proposte e soluzioni  fornite di efficacia e fondatezza rispetto alla ricerca psicologica e all’attualità pedagogica.

L’idea di un “tornare indietro” per “insegnarti a crescere” fa pensare che il nostro psicanalista sia a digiuno di conoscenze relative ai progressi della psicologia dell’apprendimento, alle esperienze didattiche più significative che hanno trasformato il  campo dell’educazione negli ultimi decenni, in particolare per quanto riguarda l’urgente necessità di preparare gli studenti a un futuro che richiede competenze diverse da quelle del passato.

Recalcati dipinge un quadro della scuola attuale come “luogo del caos e dell’indisciplina permanente”, dove gli insegnanti sono vittime di un “bullismo rovesciato”. Questa rappresentazione, seppur cogliendo alcune sfide reali che il corpo docente deve affrontare, rischia di essere una generalizzazione eccessiva e di attribuire la causa del problema prevalentemente a una presunta assenza di “Legge”.

Dal punto di vista della psicologia sistemica, il comportamento degli studenti e le dinamiche scolastiche non possono essere comprese isolate, ma vanno inserite in un contesto più ampio che include la famiglia, la comunità, la politica educativa e l’influenza pervasiva dei media digitali (Bronfenbrenner, 1979). Il “caos” evocato potrebbe essere il sintomo di una complessità non riconosciuta, piuttosto che la semplice conseguenza di una mancanza di autorità. La ricerca psicologica contemporanea sottolinea che l’apprendimento e il benessere socio-emotivo degli studenti sono profondamente influenzati dalla qualità delle relazioni (Hattie, 2012), dal senso di appartenenza e dalla percezione di autonomia e competenza (Deci & Ryan, 1985).

Un ambiente scolastico efficace non si basa sulla sola imposizione delle regole (“la Legge”), ma sulla costruzione di un clima di fiducia, rispetto reciproco e collaborazione. Le “sfide comportamentali” spesso celano bisogni insoddisfatti, difficoltà di autoregolazione emotiva o relazionale, o carenze nelle competenze sociali. Interventi che puntino solo sulla punizione o sul ripristino autoritario rischiano di essere inefficaci nel lungo termine, generando conformismo esteriore piuttosto che interiorizzazione delle norme e sviluppo di una responsabilità autentica. La psicologia dello sviluppo, infatti, evidenzia come la maturità morale si costruisca progressivamente attraverso l’esperienza, la riflessione e il confronto, e non come mero prodotto dell’obbedienza passiva a un’autorità esterna (Kohlberg, 1984).

Recalcati invoca il voto in condotta come un richiamo essenziale “al fatto che la formazione del soggetto non si riduce all’acquisizione di competenze, ma riguarda innanzitutto il suo rapporto con l’altro, con la comunità e con il senso di responsabilità personale”

La psicologia comportamentale e cognitiva suggeriscono che un approccio restrittivo e punitivo, sebbene possa portare ad una conformità immediata, non promuove necessariamente l’interiorizzazione delle norme morali o lo sviluppo dell’autonomia. La Self-Determination Theory (SDT) di Deci e Ryan (1985) distingue tra motivazione estrinseca (basata su ricompense o punizioni esterne) e motivazione intrinseca (derivante da interessi e valori personali). Il voto in condotta, se percepito come meccanismo di controllo esterno, rischia di agire principalmente sulla motivazione estrinseca, senza favorire lo sviluppo di un senso di responsabilità autentico, che nasce dalla comprensione del valore delle regole e della capacità di autoregolazione.

Esperienze didattiche significative, invece, hanno dimostrato l’efficacia di approcci basati sulla giustizia riparativa e sul lavoro sulle competenze socio-emotive (SEL – Social-Emotional Learning) (Elias et al., 1997). Anziché limitarsi a sanzionare la condotta negativa, questi approcci mirano a comprendere la causa dei comportamenti problematici, a promuovere la risoluzione dei conflitti, l’empatia e la negoziazione. La partecipazione degli studenti alla definizione delle regole di convivenza, la mediazione tra pari e la promozione di progetti di servizio alla comunità sono esempi di pratiche che insegnano la responsabilità in modo attivo e significativo, oltre la passiva accettazione di un giudizio esterno. Queste metodologie, non solo migliorano il clima scolastico, ma favoriscono anche uno sviluppo più profondo morale e civico (Bandura, 1991).

Il divieto dello smartphone in aula è interpretato da Recalcati come una “necessaria castrazione simbolica” volta a creare “separazione, decongestione dello spazio cognitivo, distanza” per il “desiderio di sapere.” Se la preoccupazione per la “dittatura della connessione permanente” e la “distrazione psicotecnica” è assolutamente fondata e condivisa dalla ricerca sulla cognizione e l’attenzione (Carr, 2010), la soluzione proposta merita una riflessione più articolata.

In campo psicologico, la nozione di “castrazione simbolica” pur avendo un suo peso in ambito psicoanalitico, applicata in modo così diretto al contesto didattico, rischia di semplificare un problema complesso. Il digitale non è solo una fonte di distrazione, ma anche un potente strumento di accesso alla conoscenza, di collaborazione e di espressione. La negazione totale in classe non affronta la radice del problema, o la capacità di autoregolazione e di discernimento nell’uso della tecnologia.

Dal punto di vista pedagogico, il divieto rappresenta un’occasione persa per sviluppare la cittadinanza digitale critica (Livingstone & Helsper, 2008). Invece di insegnare agli studenti a gestire in modo consapevole e responsabile uno strumento che è parte integrante della loro vita e del loro futuro professionale e civico, si opta per l’esclusione. Le esperienze didattiche più innovative, infatti, non demonizzano la tecnologia, ma la integrano nel processo di apprendimento (Prensky, 2001). Si pensi all’uso dello smartphone per ricerche istantanee, per la creazione di contenuti multimediali, per l’accesso a piattaforme di apprendimento interattivo o per la collaborazione a distanza.

Ciò che è cambiato rispetto al passato è la pervasività della tecnologia. I “nativi digitali” vivono immersi in un ambiente che richiede nuove competenze. Vietare lo smartphone in classe senza un’educazione all’uso responsabile significa lasciare gli studenti impreparati ad affrontare le sfide e le opportunità del mondo digitale. La sfida pedagogica non è spegnere il dispositivo, ma insegnarmi a “spegnerlo” mentalmente quando è opportuno, a utilizzarlo in modo produttivo, a discernere le informazioni, a proteggere la propria privacy e a interagire eticamente online. Questo richiede non una “castrazione”, ma un processo educativo attivo che sviluppi l’autocontrollo, la metacognizione e la consapevolezza critica, competenze che non nascono dal semplice divieto, ma da un percorso di apprendimento guidato (Tapscott, 2009).

La reintroduzione dell’apprendimento a memoria delle poesie è difesa da Recalcati come “immersione nel grande fiume della nostra cultura e della nostra lingua,” un “tesoro” per la vita. Anche qui, la critica non è la negazione del valore della poesia o dell’importanza della memoria, ma la problematizzazione della modalità di apprendimento proposta.

Dal punto di vista della psicologia cognitiva, la memoria non è un monolite. Esistono diversi tipi di memoria e diverse strategie di apprendimento. La ROT memory (o memoria meccanica), quella implicata nell’imparare a memoria senza comprendere il significato, è indubbiamente utile per alcune informazioni (es. date, formule). Tuttavia, la ricerca sull’apprendimento significativo (Ausubel, 1968) dimostra che l’acquisizione di nuove conoscenze è più duratura ed efficace quando queste vengono connesse a concetti preesistenti e integrate in una struttura di significato. Imparare la poesia a memoria senza un’analisi critica, una discussione sul contesto storico-culturale, sulle figure retoriche, sulle emozioni evocate e sulla risonanza personale, rischia di trasformarsi in un esercizio sterile, privo di quel “tesoro” evocato da Recalcati.

In campo pedagogico, il passaggio da un modello trasmissivo a uno costruttivista (Piaget, Vygotsky) ha enfatizzato l’importanza di un apprendimento attivo, che vede lo studente come costruttore della propria conoscenza. Le esperienze didattiche più significative in ambito letterario non si limitano alla memorizzazione, ma promuovono la lettura critica, l’interpretazione personale, la scrittura creativa, la performance e la rielaborazione dei testi. La poesia può essere un potente veicolo di cultura, ma solo se gli studenti sono invitati a interagire con questa, a esplorarne i significati, a connetterla con la propria esperienza e a produrla a loro volta (Bruner, 1960). Memorizzare un testo senza comprenderlo può generare un’avversione alla letteratura anziché un amore per questa.

Ciò che è cambiato rispetto al passato è l’enfasi sulle competenze trasversali: pensiero critico, problem-solving, creatività, comunicazione. In un’epoca in cui le informazioni sono immediatamente accessibili, la capacità di interpretare, valutare e sintetizzare diventa più cruciale della mera memorizzazione di dati o testi. Valorizzare la poesia significa renderla viva e significativa per gli studenti di oggi, non trasformarla in un compito mnemonico.

Recalcati difende anche il concetto di “merito”, spesso “frainteso ideologicamente”, richiamando l’Articolo 34 della Costituzione e lo definisce come riconoscimento dell’impegno, della dedizione e della tenacia, non come competizione selvaggia. Questa ridefinizione del merito come “perseveranza” e “capacità di misurarsi con i propri limiti e di trasformare l’ostacolo in occasione” è condivisibile. Tuttavia, è essenziale che questa visione sia tradotta in pratiche educative che non solo riconoscano l’impegno, ma garantiscano anche un punto di partenza equo e un supporto adeguato per tutti.

La psicologia dell’educazione ci ha fornito strumenti preziosi per capire la dinamica del merito. La teoria del Growth Mindset di Carol Dweck (2006) distingue tra talento  innato e immutabile e la crescita di capacità che possono essere sviluppate attraverso l’impegno. La visione di Recalcati del merito si allinea con quest’ultima, ed è un approccio altamente desiderabile. Tuttavia, le politiche sul “merito” spesso finiscono per premiare il talento innato o le condizioni socio-economiche favorevoli, invece dell’impegno, se non sono attentamente calibrate. La scuola deve essere il luogo dove si coltiva la mentalità di crescita, insegnando agli studenti che il fallimento è un’opportunità di apprendimento e che l’impegno perseverante porta al miglioramento.

Il rischio della retorica del “merito”, soprattutto se non accompagnata da una robusta politica di inclusione e di sostegno, è ciò che rafforza le disuguaglianze esistenti. La ricerca psicologica ha ampiamente dimostrato che fattori socio-economici, culturali e familiari influenzano profondamente le opportunità di apprendimento e i risultati scolastici (Anyon, 1980; Sirin, 2005). Una scuola che valorizza il merito deve, quindi, dotarsi di strumenti per riconoscere e superare queste disparità, offrendo percorsi personalizzati e supporti differenziati, come sottolineato anche da Recalcati quando menziona “senza tagliare fuori chi corre più piano.” Il vero merito, in un’ottica pedagogica moderna, è quello che emerge da un sistema che dà a tutti gli strumenti per esprimere il proprio potenziale, non solo quello che celebra chi parte già avvantaggiato.

La critica di Pasolini alla scuola di Barbiana, richiamata da Recalcati, contro un “egualitarismo che cancella le differenze”, è un monito importante. Una buona scuola non appiattisce le differenze, ma le valorizza, offrendo a ciascuno la possibilità di eccellere secondo le proprie inclinazioni e il proprio ritmo. Questo, però, richiede un investimento in una didattica inclusiva, differenziata e personalizzata, non un ritorno a un modello unico e selettivo.

In conclusione, l’articolo di Recalcati solleva questioni cruciali sul ruolo della scuola e sulle sfide del nostro tempo. Tuttavia le sue proposte, pur richiamando valori importanti come il senso del limite e la responsabilità, rischiano di fraintendere la natura della crescita educativa nel contesto contemporaneo. La scuola del XXI secolo non può permettersi il lusso di “tornare indietro”; questa deve evolvere, forte dei contributi che la psicologia e la pedagogia hanno arrecato negli ultimi decenni.

Il ruolo del docente si è profondamente trasformato: da mero trasmettitore di sapere a mentore, guida nell’apprendimento e nello sviluppo delle competenze trasversali. Le esperienze didattiche più significative oggi sono quelle che promuovono l’apprendimento attivo, cooperativo, basato sulla risoluzione dei problemi e sulla creazione di progetti, dove gli errori sono occasioni di crescita e la curiosità è il motore della conoscenza.

Ciò che è cambiato rispetto al passato non è solo l’avvento della tecnologia, ma una più profonda comprensione della mente umana, dei processi di apprendimento, delle dinamiche sociali e della necessità di un’educazione olistica che sviluppi non solo l’intelletto, ma anche la competenze emotive, sociali ed etiche. Ripristinare il “senso della Legge” non significa imporre divieti e sanzioni, ma costruire un’etica condivisa attraverso il dialogo, la partecipazione e l’esempio. Insegnare la “separazione” non significa escludere, ma educare alla gestione critica e consapevole delle proprie scelte. Coltivare il “desiderio di sapere” non significa imporre la memorizzazione, ma accendere la curiosità attraverso la scoperta e la rilevanza.

La scuola può insegnare a crescere non tornando indietro, ma guardando avanti con coraggio e innovazione, riconoscendo la complessità del presente e dotando gli studenti degli strumenti psicologici, cognitivi e sociali per diventare cittadini autonomi, critici e responsabili in un mondo in continua e rapida trasformazione.

Motivazione e apprendimento significativo

MOTIVAZIONE E APPRENDIMENTO SIGNIFICATIVO:

UNA STORIA CHE VALE PIÙ DI UN VOTO

di Tiziana Venuti [1]

In un pomeriggio estivo un messaggio su Instagram può trasformarsi in un’occasione di riflessione sul compito della scuola, sull’apprendimento e sul nostro ruolo di insegnanti.

Una mia ex studentessa, oggi quindicenne, mi scrive per condividere la sua soddisfazione personale nel riuscire a leggere il libro Dead Poets Society[2]  in inglese e nel riuscire a comprendere quasi tutto. Il messaggio è entusiastico e mi annuncia anche che quest’anno ha appena ottenuto la certificazione B1, mentre l’anno scorso era addirittura incerta se sostenere l’esame A2. Infatti non era una studentessa particolarmente studiosa, ma dimostrava interesse verso la materia ed era curiosa e motivata a migliorare. Alla fine l’ho convinta a sostenere l’esame per la certificazione linguistica, che lei ha superato, anche se non con una valutazione brillante. Il suo post non parlava di un compito scolastico da svolgere, ma di un’attività a cui lei si stava dedicando per il puro piacere di scoprire, apprendere, mettersi alla prova. Evidentemente il progresso nell’apprendimento di una lingua straniera si è immediatamente tradotto in una effettiva competenza che le ha permesso di affrontare un compito nuovo, sfidante, con cui non si era mai confrontata prima. E’ anche un momento di consapevolezza: la lingua studiata diventa uno strumento reale, capace di aprire nuove porte e nuovi scenari.

Questo – a mio modo di vedere – è un caso emblematico di un apprendimento significativo, non meccanico, in cui le nuove conoscenze si collegano con quelle già acquisite per costruire una concreta base di apprendimento destinata a durare nel tempo, in cui la motivazione gioca un ruolo fondamentale. David Ausubel, psicologo statunitense dell’educazione, ha posto al centro della sua teoria l’idea che l’apprendimento sia veramente efficace solo quando il nuovo sapere si integra con ciò che l’alunno già conosce, formando una rete di connessioni concettuali. Questo è l’apprendimento significativo, contrapposto all’apprendimento meccanico, dove le informazioni vengono memorizzate senza legami profondi e quindi dimenticate rapidamente. Nel caso della mia ex studentessa, la competenza linguistica sviluppata negli anni di studio (tutt’altro che matto e disperatissimo) non è rimasta un insieme di regole astratte, ma è diventata uno strumento reale per comprendere un testo complesso, con conseguente senso di soddisfazione nel misurarsi con un’esperienza autentica di lettura.

Se l’apprendimento vuole essere significativo è essenziale che il contenuto sia rilevante: Dead Poets Society non è solo un libro e un film, ma è una storia che parla di adolescenti, dei loro sogni, delle insicurezze, di tante problematiche della loro età. E’ anche un manifesto di libertà, passione per la conoscenza, di pensiero critico.

Questo episodio dimostra come l’apprendimento significativo non si esaurisce nell’aula. La scuola può fornire le basi linguistiche, strategiche e culturali, ma la vera misura del successo è nella capacità dello studente di trasferire quanto appreso in contesti nuovi. Leggere Dead Poets Society non è stato un “compito” né un test: è stato un atto di autonomia linguistica, frutto di un percorso in cui la motivazione ha trovato un terreno fertile. La motivazione è il carburante dell’apprendimento. Senza di essa, anche il miglior progetto didattico rischia di rimanere un sapere inerte. La studentessa che mi ha scritto lo ha fatto con entusiasmo ed orgoglio, volendo condividere questo traguardo con chi lei ritiene l’abbia guidata nel percorso.

Il fatto che abbia usato Instagram offre lo spunto per altre riflessioni, particolarmente attuali vista la recente nota del Ministro dell’Istruzione e del Merito riguardo l’uso degli smartphone a scuola, anche per uso didattico. A parte la totale mancanza di valore prescrittivo della nota, in quanto non esiste alcuna legge che vieti l’uso dello smartphone a scuola o in altri luoghi pubblici, mi rammarico molto che vengano sottovalutati il potenziale e gli effettivi vantaggi pratici nel poter utilizzare il proprio dispositivo a scuola per attività scolastiche assegnate dai docenti.

La modalità BYOD[3] consente di risparmiare tempo prezioso in classe, evitando di prenotare aule computer, portare in classe dispositivi della scuola che tutti utilizzano, che possono presentare problemi tecnici dovuti a usi precedenti scorretti, immissione di password che spesso gli studenti non ricordano più, perché tanto le hanno memorizzate sui loro dispositivi. Autorizzare gli alunni ad accendere il cellulare in classe, fornire le indicazioni per lo svolgimento dell’attività prevista, l’uso delle piattaforme come Google Classroom e Microsoft Teams (e di tutti gli strumenti che offrono), che sono state così indispensabili durante il periodo pandemico, risulta molto più semplice e veloce. In sistemi educativi avanzati come Singapore i cellulari e le applicazioni didattiche sono ampiamente utilizzati in classe e per i compiti a casa. Il cellulare può coniugare apprendimento formale ed informale. La simbiosi degli studenti con i loro dispositivi è anche un aspetto sottovalutato per quanto riguarda la loro esposizione alla lingua inglese, soprattutto attraverso i social media come Instagram, TikTok, Youtube. Gli adolescenti vivono immersi in una dimensione multilingue, si pensi anche alla possibilità di fruire di film e serie tv in moltissime lingue diverse con una combinazione di sottotitoli possibili. Questa esposizione informale, continua, contribuisce in modo decisivo alla comprensione a all’acquisizione della lingua. Se la scuola riesce a sfruttare ed integrare queste risorse l’apprendimento diventa più motivato ed autentico. In questo scenario, l’insegnante è un facilitatore di esperienze che portano all’apprendimento. È proprio questa la sfida più grande per la scuola: costruire percorsi che non solo portino al raggiungimento di competenze misurabili, ma che facciano percepire agli studenti il valore intrinseco di quello che imparano e viene loro proposto, che è solo il punto di partenza per un percorso di apprendimento che può durare una vita. La mia personale conclusione è che i risultati del nostro lavoro non sempre sono immediatamente visibili nei registri o nei voti. Spesso emergono a distanza di anni, quando uno studente, spinto dalla propria motivazione, applica ciò che ha imparato in un contesto reale e ne trae soddisfazione personale o professionale.

Il nostro compito non è solo trasmettere conoscenze, ma creare le condizioni perché l’apprendimento diventi parte della vita degli studenti. E quando questo accade, come nel caso della lettura autonoma di un romanzo in lingua originale, la motivazione e l’apprendimento significativo stanno continuando a crescere, anche fuori dall’aula.


[1] Tiziana Venuti insegna Inglese nell’Istituto comprensivo di Pasian di Prato (Udine). Ha maturato competenze didattiche e linguistiche (connesse con una certificazione C2) in Inghilterra, Israele, Nigeria, Monaco di Baviera. E’ membro del Teachers’Panel della Oxford University Press per la redazione di libri di testo ed è tra i formatori della DeA Scuola.

[2] Il titolo italiano del celebre film è L’attimo fuggente, diretto da Peter Weir nel 1989 ed interpretato da Robin Williams. Solo in italiano il titolo è stato adattato e preferito a quella “Setta dei poeti estinti” del titolo originale. Il libro è stato scritto da Nancy Horowitz Kleinbaum e pubblicato nel 1988.

[3] BYOD: bring your own device (porta il tuo dispositivo personale)

Novità per gli esami integrativi

Novità per gli esami integrativi

di Gennaro Palmisciano (*)

Siamo giunti a settembre, mese nel quale, prima dell’inizio del nuovo anno scolastico, tradizionalmente vengono calendarizzati gli esami integrativi, ovvero quelle prove le quali legittimano, nelle scuole secondarie di secondo grado, il passaggio a una classe corrispondente di altro percorso, indirizzo, articolazione oppure opzione. Una volta iniziato l’anno scolastico si riteneva, dopo l’emanazione del D.M. n. 5/2021, che non fosse più possibile indire una ulteriore sessione di esami integrativi, sulla base dell’articolo 4, rubricato Esami integrativi nella scuola secondaria di secondo grado, il quale sancisce:

1. Gli esami integrativi nella scuola secondaria di secondo grado si svolgono, presso l’istituzione scolastica scelta dal candidato per la successiva frequenza, in un’unica sessione speciale, che deve aver termine prima dell’inizio delle lezioni.

Sul tema è intervenuta la Sezione VII del Consiglio di Stato con la sentenza 9 aprile 2024, n. 3250 che ha annullato il D.M. n. 5/2021 nella parte in cui, all’articolo 4, ha previsto l’obbligo in questione.

Secondo i giudici amministrativi gli esami scolastici, in attuazione dei commi 3 e 4 dell’articolo 33 della Costituzione, devono essere sempre previsti da una legge. L’abrogazione del comma 2 dell’articolo 192 del D.lgs. n. 297/1994, ad opera del D.lgs. n. 226/2005, ha pertanto fatto venir meno il fondamento giuridico della obbligatorietà degli esami integrativi.

Tanto, unito alla previsione originariamente contenuta nel comma 6 dell’articolo 4 del D.lgs. n. 226/2005, fa emergere la volontà del legislatore di offrire allo studente la possibilità di modificare la scelta del percorso intrapreso, “nella convinzione che, nella fase di crescita, le aspirazioni ed attitudini del discente possano mutare o meglio precisarsi” senza che esse debbano incontrare rallentamenti ed ostacoli nella presenza di esami integrativi obbligatori.

Il Consiglio di Stato prosegue affermando che il venir meno della obbligatorietà degli esami integrativi non dà luogo ad alcun vuoto normativo, né lascia l’alunno “solo in questa delicata fase”. Spetta alle istituzioni scolastiche infatti, in forza del disposto dell’articolo 4, comma 6 del DPR n. 275/1999, calibrare e modulare opportunamente le iniziative da attuarsi sia per il riconoscimento dei crediti che per il recupero dei debiti scolastici, “avuto riguardo agli obiettivi specifici di apprendimento” e “tenuto conto della necessità di facilitare i passaggi tra diversi tipi e indirizzi di studio, di favorire l’integrazione tra sistemi formativi, di agevolare le uscite e i rientri tra scuola, formazione professionale e mondo del lavoro”. È alle istituzioni scolastiche, in altri termini, che l’ordinamento attribuisce “un ruolo decisivo nell’orientare il giovane, oltre che nel valutarne attitudini e capacità nell’affrontare il nuovo ciclo formativo, individuando – a seconda del contesto disciplinare e degli altri specifici elementi – le modalità ritenute di volta in volta più idonee ad accompagnare detto passaggio. Queste modalità consisteranno, a titolo esemplificativo, in lezioni integrative, interventi di sostegno, in diverse tipologie di verifiche disposte al fine di sondarne attitudini, ma anche la fermezza di volontà nell’intraprendere il nuovo percorso”.

La pronuncia del Consiglio di Stato, dunque, individua nelle scuole il soggetto competente sui passaggi, riconducendoli nel perimetro dell’autonomia didattica alla luce della finalità propria di quest’ultima, il successo formativo dello studente.

E configurando la necessità e l’opportunità di percorsi integrativi, nelle more che una legge primaria dettagli una procedura ordinamentale.

Il tema è particolarmente delicato, perché l’abuso è dietro l’angolo.

Si pensi al fatto che si sta diffondendo la pratica di accettare le iscrizioni di alunni provenienti da altro ordine di istituto anche per anno successivo al secondo e finanche dopo il 31 dicembre.

Per evitare che le scuole siano lasciate troppo sole, sarebbe necessario precisare un sistema di Unità Formative Capitalizzabili scuola (UFC scuola, da non confondersi con le UFC lavoro). Le UFC scuola, proprie del cosiddetto modello compositivo, sono particolarmente utilizzate nei sistemi scolastici anglosassoni. Secondo tale modello, ogni percorso scolastico è costituito dalla somma di specifiche UFC, per cui nel passaggio da una classe all’altra nell’esame e nel percorso integrativi, lo studente deve dimostrare di aver acquisito le UFC necessarie.

Mentre per percorsi molto diversi sarebbe necessario dimostrare di aver raggiunto tutti gli obiettivi specifici di apprendimento relativi a tutti gli anni di tutte le discipline non affrontate, per i percorsi più simili (per esempio nel passaggio da Amministrazione, Finanza e Marketing verso Sistemi Informativi Aziendali) bisognerebbe certificare le sole UFC non affrontate (nell’esempio, alcune relative alla disciplina Informatica).

Tanto richiederebbe che le Indicazioni Nazionali e le Linee Guida relative agli istituti di secondo grado fossero ripensati, da parte di commissioni ministeriali nazionali, in termini di Unità Formative Capitalizzabili, in analogia ai percorsi universitari, già articolati in CFU.

L’implementazione della filiera formativa tecnologico-professionale 4+2 costituisce una ulteriore importante occasione per applicare le UFC scuola al sistema scolastico nazionale.


(*) Dirigente Ispettore Tecnico

Cellulari a scuola

Cellulari a scuola

di Rita Manzara

Negli ultimi mesi si è tornati a parlare del divieto di utilizzo dei cellulari durante le lezioni, con nuove disposizioni che lo presentano come una misura innovativa per tutelare l’attenzione e il benessere degli studenti.

In occasione della diffusione della circolare ministeriale n. 3392 del 16 giugno 2025, il Ministro Giuseppe Valditara, ha dichiarato quanto segue:

Distrarsi con i cellulari non permette di seguire le lezioni in modo proficuo ed è inoltre una mancanza di rispetto verso la figura del docente, a cui è prioritario restituire autorevolezza”.

La circolare invita le scuole ad “aggiornare i propri regolamenti e il patto di corresponsabilità educativa prevedendo […] specifiche sanzioni disciplinari per coloro che dovessero contravvenire a tale divieto”.

  • La stessa circolare rimette infine “… all’autonomia scolastica l’individuazione delle misure organizzative atte ad assicurare il rispetto del divieto”. Questa indicazione riconosce esplicitamente la capacità delle istituzioni scolastiche di affrontare il problema in autonomia e conferma, di fatto, che il controllo sull’uso dei dispositivi mobili è già parte integrante dell’organizzazione quotidiana. Alcuni istituti prevedono da anni il ritiro dei cellulari all’ingresso e la restituzione all’uscita, altri hanno affidato il monitoraggio agli insegnanti, che intervengono prontamente in caso di uso improprio. Queste misure non nascono da imposizioni esterne, ma da esigenze concrete vissute in aula: distrazione, isolamento, difficoltà relazionali.
  • Riconoscere il ruolo proattivo delle istituzioni scolastiche autonome significa valorizzare l’intelligenza collettiva del sistema educativo. La vera innovazione non nasce dai decreti, ma dall’ascolto, dalla sperimentazione e dalla condivisione tra docenti, studenti e comunità scolastiche.
  • La normativa arriva dunque a formalizzare una prassi già consolidata, dimostrando che le scuole sanno leggere i bisogni educativi prima ancora che vengano tradotti in legge.

Il caso del divieto dei cellulari in aula è emblematico: la scuola non è solo destinataria della norma, ma spesso ne è l’anticipatrice. Riconoscere questo ruolo significa valorizzare l’autonomia scolastica come motore di innovazione e buon senso educativo.

Inoltre, è bene ricordare che, sia a livello ministeriale sia da parte dei docenti, si è affermata parallelamente nel tempo una visione pedagogica che mira a educare all’uso consapevole della tecnologia, piuttosto che semplicemente vietarla.

Infatti, ci sono stati momenti e contesti in cui l’uso del cellulare in classe è stato non solo tollerato, ma valorizzato come strumento didattico, purché sotto la supervisione attenta dell’insegnante.

Esistono documenti ufficiali che riconoscono la possibilità di usare il cellulare in classe per scopi didattici:

La Nota MIUR n. 107190 del 19 dicembre 2022 chiarisce che l’uso dei cellulari è vietato in generale, ma possono essere fatte eccezioni “con il consenso del docente, per finalità inclusive, didattiche e formative, in conformità al Regolamento d’Istituto”.

La Circolare Ministeriale n. 5274 dell’11 luglio 2024, pur ribadendo il divieto assoluto per il primo ciclo, distingue il secondo ciclo, dove: “L’impiego dei dispositivi mobili è ammesso per scopi didattici, sotto la supervisione dei docenti”.

Il Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD) promuove il modello BYOD (Bring Your Own Device), che prevede l’uso regolamentato dei dispositivi personali per attività didattiche. Il Decalogo BYOD incluso nel piano offre linee guida per un uso consapevole e sicuro della tecnologia.

Sulla base di queste indicazioni, in molte scuole secondarie di secondo grado i docenti hanno sperimentato l’uso del cellulare per attività come:

  • Ricerche rapide durante la lezione, per stimolare il pensiero critico e il confronto tra fonti.
  • Quiz interattivi tramite app come Kahoot o Socrative, che rendono la verifica più coinvolgente.
  • Produzione di contenuti multimediali, come video, podcast o foto per progetti interdisciplinari.
  • Traduzioni e dizionari digitali in classi con studenti non italofoni.
  • Accesso a piattaforme didattiche o ambienti digitali come Google Classroom, Moodle, Edmodo.

Queste attività sono sempre state condotte con regole chiare, tempi definiti e obiettivi precisi, evitando l’uso libero e personale del dispositivo.

In conclusione, educare al digitale potrebbe diventare una sfida pedagogica, il cui vero obiettivo non è vietare, ma educare all’uso consapevole. Insegnare agli studenti a distinguere tra uso personale e uso didattico, tra distrazione e concentrazione, è infatti parte della missione educativa della scuola.

In questo senso, il cellulare può anche diventare uno strumento di cittadinanza digitale, utile per sviluppare competenze trasversali e responsabilità. 

Sul Sistema di valutazione dei dirigenti scolastici

Sul Sistema di valutazione dei dirigenti scolastici: quando il meglio è nemico del bene

di Francesco G. Nuzzaci

I. Anticipiamo qui la sintesi di un corposo lavoro, e relativo apparato di note, in corso di pubblicazione; con cui intendiamo esprimere alcune sia pur sommarie considerazioni sul Sistema di valutazione dei risultati dei dirigenti scolastici, potendo contare sul fatto che sulla sua illustrazione e sul suo funzionamento è comunque già stato scritto a sufficienza nelle varie riviste di settore, cartacee e on line.

Come è noto, si tratta del Sistema introdotto dall’articolo 13 del decreto legge n. 71 del 31 maggio 2024, convertito dalla legge n. 106 del 29 luglio 2024, dopo il puntuale fallimento delle eterne sperimentazioni susseguitesi, e confusamente accavallatesi, nell’ultimo ventennio (fino alla Direttiva n. 36 del 18 agosto 2016) per cogliere la – pretestuosa –  specialità della dirigenza scolastica.

Valutazione che, dopo la fase transitoria valevole per il solo anno scolastico 2024/2025, andrà a regime dal primo settembre 2025, nei termini e modalità dettagliati nel decreto interdipartimentale n. 2276 del 6 agosto 2025.

Dovrebbe così finalmente concludersi il tormentato percorso che i figli di un dio minore hanno dovuto intraprendere per riscattarsi dall’avvilente status di mezzi dirigenti, la cui più significativa interfaccia è il tuttora deteriore trattamento economico: concentrato, per l’appunto, sulla retribuzione di risultato, dopo che – accanto alla retribuzione tabellare, la sola ab origine pari a quella percepite da tutti i dirigenti pubblici non aggettivati di analoga fascia – si è riusciti a perequare la retribuzione di posizione fissa (con il CCNL 2016/2018) e ci si è sostanzialmente allineati alla retribuzione di posizione variabile (con il Contratto integrativo nazionale-CIN 2023/2024, sostitutivo degli opachi e sperequati Contratti integrativi regionali).

II. Il nuovo dispositivo, al di là dei giudizi di valore che possono esprimersi, soggiace dunque alla stringente previsione legale dell’articolo 13, comma 1 del decreto legge 71/2024, citato, laddove è prescritto che i dirigenti scolastici “sono valutati tenuto conto della specificità della funzione e sulla base degli strumenti e dei dati a disposizione del sistema informativo del Ministero dell’istruzione e del merito nonché del Sistema nazionale di valutazione dei risultati dei dirigenti scolastici, adottato con decreto del Ministero dell’istruzione e del merito, che stabilisce gli indirizzi per la definizione degli obiettivi strategici volti ad assicurare il buon andamento dell’azione dirigenziale e individua i soggetti che intervengono nella procedura di valutazione, in coerenza con la direttiva generale del Ministero dell’istruzione e del merito, di cui all’articolo 15, comma 2, lettera a) del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150”.

È quindi in grado di corrispondere alla risalente – ma rimasta priva di seguito – previsione contenuta nel CCNL 1 marzo 2002, di “procedure essenziali e snelle volte ad apprezzare i contenuti della funzione dirigenziale”.

III. Che il Sistema non sia esente da difetti lo si può ben affermare – potrebbe dirsi – per definizione. E sarà l’esperienza sul campo a suggerire “le integrazioni e/o le modifiche necessarie, previo confronto con le organizzazioni sindacali di categoria” (art. 2, comma 2, D.M. n. 47 del 12 marzo 2025, cit.). Ma di certo non giovano le reiterate, tanto granitiche quanto sterili, posizioni ideologiche che confermano le “fortissime riserve sull’impianto complessivo del nuovo sistema di valutazione … da respingere perché privo di trasparenza e oggettività, finalizzato esclusivamente ad esercitare un controllo diretto sull’attività dei dirigenti scolastici e delle scuole”; o che ne denunciano la deriva burocratica, con il rischio “che il dirigente diventi un semplice esecutore di procedure perdendo la sua centralità all’interno della comunità scolastica … svuotato della sua missione pedagogica e di guida dell’istituto”. Laddove è di palmare evidenza che su queste basi ogni costruttiva interlocuzione – funzionale al suo miglioramento – è, radicalmente, impossibile. E può tranquillamente continuarsi ad abbaiare alla luna, condannandosi all’irrilevanza.

Più argomentate, ma in concreto irricevibili – e difatti disattese dal MIM – appaiono le osservazioni del CSPI nel parere di rito reso nella seduta plenaria n. 141 del 4 febbraio 2025. Che, analizzate negli elementi portanti, risultano però del tutto distoniche rispetto a norme giuridiche cogenti, nonché attinte dal libro dei sogni; nel mentre il Sistema di valutazione lo si è disegnato e dovrà essere attuato “senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.

IV. L’intera procedura – che il CSPI ha dovuto riconoscere conforme a legge – si svolge su piattaforma digitale sulla base degli strumenti e dei dati a disposizione del MIM e/o deducibili da altri sistemi. Si compendia in una scheda contenente gli obiettivi nazionali assegnati, quantificabili e misurabili, distinti in generali e specifici, quindi articolati in indicatori e target; in un’altra contenente l’obiettivo di rilevanza regionale; infine in una terza in cui sono formalizzati i comportamenti professionali e organizzativi, che mettono capo al residuo punteggio massimo di venti punti e assegnato in base a una rubrica di valutazione strutturata su quattro indicatori al loro interno graduati su cinque livelli.

Un dispositivo, dunque, “sostenibile”, vale a dire preordinato alla sua concreta fattibilità, con gli obiettivi definiti sulla base di strumenti e di dati oggettivi, e dunque con valutazione più trasparente; che toglie ogni margine di discrezionalità al direttore dell’USR che formalmente li assegna, sulla base delle priorità contenute nell’atto d’indirizzo politico-istituzionale annualmente emanato – con piena legittimità – dal Ministro. E mette poi conto sottolineare che i dirigenti scolastici hanno la possibilità di integrare le informazioni presenti sulle piattaforme con evidenze riferibili ai singoli obiettivi specifici assegnati, anche al fine di argomentare su eventuali aspetti impeditivi del raggiungimento dei target o traguardi attesi.

E a proposito di discrezionalità (e trasparenza), il CSPI ne aveva proposto la riduzione da venti a dieci punti nella valutazione – necessariamente elastica –  dei comportamenti professionali e organizzativi di competenza del direttore dell’Ufficio scolastico regionale; mentre sarebbe stato semmai più logico incrementarli in quanto aventi una funzione obiettivamente compensatoria, per il raggiungimento della soglia superiore agli effetti della retribuzione di risultato, e non punitiva: altrimenti non sarebbe giustificabile – in sede di contraddittorio, poi davanti all’Organo di garanzia, infine ed eventualmente presso il giudice del lavoro – l’attribuzione di un punteggio minimale o addirittura nullo a chi, in ipotesi, abbia pure raggiunto gli ottanta punti massimi sugli obiettivi assegnati e da soli bastevoli per collocarsi nella più alta fascia retributiva.

V. Circola lo spauracchio – nutrito dalle immarcescibili giaculatorie e da altrettanto inossidabili parole d’ordine –  che il dirigente scolastico rischia di dover rispondere del mancato o insufficiente raggiungimento degli obiettivi che non sono – o che non sarebbero – nella sua disponibilità, come la costituzione di reti di scuole e/o di adesione alle medesime, l’attivazione di progetti con istituzioni scolastiche estere, le iniziative di innovazione e di sviluppo della didattica, l’approntamento di un piano di formazione del personale che sia coerente con il PTOF e in linea con il Piano nazionale di formazione … fino alla conduzione della contrattualistica: laddove si rimarca che il Consiglio d’istituto e/o il Collegio dei docenti hanno qui un potere deliberante (e vincolante) e non meramente propositivo o consultivo; mentre il solo soggetto giuridicamente responsabile dei risultati del servizio, che la norma vuole di qualità generalizzata ed inclusiva, resta il dirigente scolastico.

Tuttavia l’enfasi posta anche dal CSPI su questa – reale o presunta – aporia non considera il potere politico del dirigente scolastico di predeterminare ed incanalare l’azione degli organi collegiali tramite il suo Atto d’indirizzo “per le attività della scuola e delle scelte di gestione e di amministrazione”, propedeutico alla – sua – predisposizione del PTOF, poi (solo) elaborato dal Collegio dei docenti e (solo) approvato dal Consiglio d’istituto (comma 14.4, legge 107/2015).

VI. Vi è un dato oggettivo: Il Sistema di valutazione dei risultati dei dirigenti scolastici mette fine alla stucchevole pantomima inscenata dalle parti, trascinatasi da un CCNL all’altro, a dichiarare che “sono concordi nel ritenere che il sistema di valutazione della dirigenza scolastica dovrà essere oggetto di uno specifico approfondimento in sede MIUR (ora MIM) attraverso le modalità del confronto”; fino a quando con il tuttora vigente CCNL 2019/2021, rendendosi esse consapevoli di aver perso ogni credibilità, hanno dovuto prendere atto che “La retribuzione di risultato, la cui finalità è la remunerazione della performance individuale, è attribuita sulla base dei diversi livelli di valutazione conseguiti dai dirigenti … e nel rispetto delle disposizioni di legge in materia, solo a seguito di una valutazione positiva” (art. 21, nel Capo III delleDisposizioni comuni sugli istituti economici).

VII. Dopo di che, è vero: il Sistema – lo ribadiamo: provvidamente e finalmente! – non è perfetto. Ma è – realisticamente – il migliore dei mondi possibili. E qualora si degnassero appena di uno sguardo, neanche troppo attento, le norme – imperative, pertanto non modificabili da accordi tra Amministrazione e Sindacati – non può ritenersi una “deriva burocratica” l’assegnazione di obiettivi (specifici) riguardanti la progettazione e gestione del PTOF, l’inclusione scolastica, l’attivazione di iniziative di sperimentazione, la promozione di innovazioni organizzativo-didattiche, la predisposizione di percorsi di formazione e aggiornamento del personale, l’adesione a reti di scuole e la sottoscrizione di protocolli d’intesa anche con associazioni del terzo settore, l’attivazione di scambi pure virtuali con istituzioni scolastiche all’estero e sempre per qualificare o integrare l’offerta formativa, le azioni intraprese per lo sviluppo delle competenze STEM, et similia; né può ritenersi una “deriva burocratica” pretendere che – come ogni dirigente pubblico preposto alla conduzione di qualsivoglia struttura organizzativa, più o meno complessa – anche il dirigente scolastico provveda alle pubblicazioni di legge e nelle modalità previste, alla tempestività della nomina di supplenti affinché sia garantito senza interruzioni il diritto allo studio, alla puntualità dei pagamenti per evitare contenziosi (beninteso, una volta disponibile la provvista), alla corretta gestione della contrattualistica ovvero dei – più o meno cospicui –  finanziamenti ricevuti e/o (ancor più) delle risorse reperite in virtù delle sue capacità latamente imprenditoriali (e potrà pur sempre evidenziare le eventuali difficoltà incontrate, quali le possibili carenze del suo Ufficio di segreteria o l’instabilità degli organici).

Sicché non può continuare a dirsi che questi obiettivi non sono nella disponibilità del dirigente scolastico, se non in aperta malafede o per partito preso. Pur se qualche eccezione sembra emergere scorrendo la scheda in Allegato B, parte integrante del decreto interdipartimentale, relativa agli obiettivi di rilevanza regionale. Ma si tratta di casi veramente marginali e in ordine ai quali il valutando sicuramente avrà avuto modo di evidenziarlo.

Ragion per cui se possono esserci dirigenti scolastici finora non adeguatamente attenti anche agli aspetti formali e al rispetto delle varie tempistiche nell’esercizio della funzione, adesso hanno lo stimolo – e puntuali direttrici di marcia – per sanare trascuratezze e omissioni; ed, è pleonastico dirlo, di certo non disinteressandosi di adempimenti – per tutti, la normativa sulla sicurezza e la normativa sulla privacy – sol perché non sussumibili negli obiettivi e inerenti indicatori figuranti nell’atto d’incarico.

Ne riverrà il duplice beneficio della propria crescita professionale e dell’incremento del valore pubblico dell’istituzione scolastica diretta.

Nuovi dirigenti scolastici e missione del dotto

Nuovi dirigenti scolastici e missione del dotto

di Gabriele Boselli

Gran parte degli insegnanti osserva con tristezza come per accedere ai ruoli dirigenziali nella scuola non sia più richiesta una elevata cultura generale e pedagogica ma abilità nel compilare i questionari; come non occorrano capacità intellettuali critiche e creative. I nuovi dirigenti, fatte le dovute eccezioni, sono spesso individui bravi a ricordare la normativa ma non a capire la complessità e la profondità del reale; dotati di un’arida cultura giuridico-manageriale e addestrati sui manuali, esprimono un non-pensiero ossequiente, oggettivistico, applicativo, incurante.

Servono ancora una profonda cultura umanistica e scientifica e una intelligenza della complessità per essere un docente e un vero dirigente scolastico? Quale il suo ruolo nella società e nella scuola? Quali le doti necessarie ad adempiere alla funzione/missione? Domande sostanzialmente analoghe a quelle che a Jena si poneva Fichte oltre due secoli fa.

Pur bravo nei test, un ignorante non può dirigere una scuola

Nei questionari di accesso ai ruoli dirigenziali tutto è o bianco o nero, o giusto o sbagliato e quel che è giusto o sbagliato viene deciso in alto loco; non ci sono colori, sfumature; non c’è fastidiosa cultura critica. I dirigenti di una scuola (non di un market) vengono selezionati principalmente sulla capacità di memorizzare nelle prove testistiche le risposte ritenute giuste da una commissione selezionata allo scopo dai serventi del decisore politico. Si privilegia nelle meccaniche d’accesso la disponibilità al decidere-conforme contro il pensiero pensante e l’azione culturale e didattica. E’ naturale che dirigenti di scuola così selezionati trascurino poi gli studi, la ricerca pedagogica, l’animazione della didattica e la partecipazione alla vita culturale della città: tutte anticaglie inutili anche al fine della valutazione in servizio del dirigente. I meccanismi valutativi non considerano le pubblicazioni e inducono a considerare quella che dovrebbe essere la cattedra dirigenziale una scrivania come tante e gli insegnanti non come dei colleghi con cui orientare ed orientarsi ma dei meri dipendenti.

La qualità dei vissuti scolastici di insegnanti e dirigenti autentici è invece costituita dalla cultura, dalle capacità relazionali e dalla padronanza della didattica, intesa questa come ambito della mediazione tra lo studiare (di dirigenti e insegnanti) per costruire il sapere, l’ insegnare e l’apprendere.

Non servono due DSGA

In troppe scuole non c’è un vero dirigente ma si aggirano due DSGA spesso in conflitto e uno dei quali, il DS, il più delle volte privo di competenze amministrative per limiti della propria formazione iniziale. Siede un DS che si limita a un’amministrazione difensivistica, al culto della sicurezza, a cercar di spendere nei tempi comandati tutti i soldi del PNRR, a garantire la correttezza formale delle procedure; non “ perde tempo” ad elaborare una comune visione e coinvolgere la scuola in questo processo. Il che richiederebbe una solida cultura generale (non settoriale) che consentisse di cogliere i fermenti innovativi, valorizzare le professionalità, impostare strategie di sviluppo per poter dialogare con competenza e saggezza con la città, sostenere i docenti nella ricerca di soluzioni innovative. Anche nel tempo dell’AIG vi è ancora necessità di un preside dotto, a guida di una comunità di culturache orienti avendo un quadro d’insieme fondato e partecipato e presieda per primato intellettuale, capacità di cura (non di carico) e umanità. 

Senza zaino

Senza zaino

La scuola primaria che alleggerisce e potenzia

 di Bruno Lorenzo Castrovinci

Senza zaino. Per viaggiare leggeri, sulle ali della fantasia, abbracciando la vita e guardando con fiducia a un futuro felice. È l’immagine di una scuola che cambia, che innova, che crede profondamente nella possibilità di fare meglio. Eppure, sono trascorsi più di vent’anni da quando questa sperimentazione, figlia dell’autonomia scolastica, ha mosso i primi passi, rivelandosi oggi più attuale che mai.

 Nata in Toscana nel 2002 da un’idea del dirigente scolastico e pedagogista Marco Orsi, la Scuola Senza Zaino ha voluto alleggerire non solo il peso fisico sulle spalle degli alunni, ma anche quello simbolico di un’istruzione percepita come fredda e distante, trasformando l’aula in un luogo accogliente, collaborativo e centrato sul benessere di chi la vive. La prima esperienza, a Lucca, aprì le porte a spazi flessibili, materiali condivisi e banchi disposti in isole di lavoro, ispirandosi a modelli innovativi italiani e internazionali. Tre i principi cardine: Ospitalità, Responsabilità e Comunità, valori che hanno guidato la rapida diffusione del progetto in tutto il Paese. Con la nascita, nel 2009, dell’Associazione Nazionale Scuola Senza Zaino – Per una scuola comunità, la rete si è consolidata, offrendo formazione e supporto a centinaia di istituti, dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di primo grado, fino a diventare un modello riconosciuto a livello nazionale per la sua didattica partecipativa e inclusiva.

 In un’epoca in cui la pedagogia invita a ripensare la scuola come luogo di vita, di crescita e di partecipazione autentica, Senza Zaino rappresenta un esempio concreto di come la progettazione degli spazi possa dialogare con un’idea innovativa di insegnamento, concependo l’aula non come contenitore passivo, ma come co-protagonista del processo di apprendimento. Qui, gli studenti imparano a essere responsabili, a collaborare, a sentirsi parte di una comunità viva e accogliente, dove la relazione diventa il cuore pulsante dell’esperienza formativa.

Un’idea di scuola che libera le menti

La “Scuola senza zaino” si fonda sulla convinzione che lo studente debba essere al centro del processo educativo, non come ricettore passivo di informazioni, ma come costruttore attivo di significati e promotore del proprio percorso di crescita personale, culturale ed emotiva.

In questo approccio l’alunno è chiamato a prendere decisioni, a organizzare le proprie attività, a sviluppare autonomia e senso di responsabilità nei confronti del gruppo e di sé stesso. Le lezioni si trasformano in esperienze collaborative e dinamiche, in cui la ricerca, la sperimentazione, il confronto e la creatività assumono un ruolo centrale e si intrecciano con momenti di riflessione e metacognizione.

Questa impostazione non solo sviluppa competenze disciplinari solide, ma stimola anche la capacità di affrontare sfide complesse, di gestire situazioni nuove, di lavorare in team con spirito di cooperazione, di comunicare in modo chiaro ed empatico e di adattarsi a contesti in continua evoluzione. La diversità di approcci e punti di vista diventa una leva strategica per arricchire il dibattito, per allenare il pensiero critico e per imparare a vivere e contribuire attivamente a una società pluralista e interconnessa.

Lo spazio come terzo educatore

Nel modello “Scuola senza zaino” lo spazio fisico non è un elemento neutro, ma un vero e proprio mediatore pedagogico, capace di influenzare in modo diretto la qualità delle relazioni e la profondità dell’apprendimento. I banchi disposti in cerchio o organizzati in piccoli gruppi favoriscono un apprendimento orizzontale e inclusivo, in cui ognuno può vedere e ascoltare l’altro senza barriere fisiche o simboliche, creando un clima di apertura e dialogo.

Gli angoli tematici e le aree funzionali, dedicate alla lettura, alla creatività, alle scienze o alle tecnologie, diventano spazi di esplorazione autonoma, dove i saperi si costruiscono attraverso l’esperienza diretta, la manipolazione di materiali e l’osservazione attiva.

Gli arredi modulari, leggeri e facilmente spostabili, consentono di riconfigurare rapidamente l’aula in base alle necessità del momento, rendendo possibile un passaggio naturale e fluido da attività individuali di concentrazione a lavori collettivi di cooperazione. Questa organizzazione dello spazio, oltre a soddisfare bisogni funzionali, trasmette messaggi impliciti di apertura, fiducia e rispetto per i ritmi e gli stili di apprendimento di ciascuno, contribuendo a creare un contesto in cui ogni studente si senta accolto e valorizzato.

La partecipazione come motore di apprendimento

La partecipazione attiva è il nucleo vitale di questa proposta educativa e si esprime attraverso un coinvolgimento consapevole e costante degli studenti in tutte le fasi del processo di apprendimento. Gli studenti non si limitano a eseguire compiti, ma contribuiscono in maniera critica e creativa alla definizione degli obiettivi, alla scelta delle strategie didattiche e alla valutazione dei risultati raggiunti, assumendo così un ruolo di corresponsabilità che rafforza la loro motivazione intrinseca.

Il docente si configura come facilitatore, mediatore culturale e guida, capace di stimolare la curiosità, di porre domande aperte che innescano riflessione e di sostenere l’autonomia senza imporre percorsi rigidi, ma creando contesti in cui ogni studente possa trovare il proprio modo di apprendere.

La valutazione continua, dialogica e formativa, diventa un momento di crescita reciproca, incoraggiando l’autovalutazione e promuovendo la consapevolezza dei propri punti di forza, delle aree di miglioramento e delle strategie più efficaci da adottare. L’apprendimento si radica profondamente in questo processo interattivo, diventando più significativo, duraturo e trasferibile grazie al forte coinvolgimento emotivo e cognitivo e al senso di appartenenza che ne deriva.

Gli aspetti pratici della quotidianità scolastica

La “Scuola senza zaino” si traduce in pratiche concrete e coerenti, che incidono in profondità sulla vita quotidiana di alunni e docenti. I materiali didattici rimangono in classe e sono organizzati in spazi comuni accessibili, favorendo la condivisione, la cura delle risorse e la responsabilità reciproca, oltre a ridurre il peso fisico dello zaino e lo stress logistico per gli studenti.

Le giornate scolastiche sono scandite da una varietà di attività che alternano momenti di concentrazione individuale a lavori di gruppo e a sessioni laboratoriali interdisciplinari, in cui le discipline dialogano e si intrecciano per dare vita a progetti complessi e motivanti. Le uscite didattiche e gli incontri con esperti esterni arricchiscono il percorso, offrendo esperienze concrete che collegano l’apprendimento scolastico alla realtà del territorio.

Le tecnologie digitali sono integrate in modo mirato e consapevole, diventando strumenti al servizio della creatività, della ricerca e della collaborazione piuttosto che semplici supporti tecnici. L’organizzazione del tempo è flessibile e adattabile, modellata sui ritmi di apprendimento degli studenti, così da consentire approfondimenti quando l’interesse è alto o modifiche quando emergono nuove esigenze, favorendo così un apprendimento autentico e duraturo.

La comunità educativa come cornice

Questo modello si fonda su un’idea di educazione diffusa, che vede la scuola in costante e proficuo dialogo con famiglie, istituzioni locali, associazioni culturali, realtà produttive e organizzazioni del terzo settore, nella consapevolezza che l’apprendimento non si esaurisce tra le mura scolastiche. I genitori sono invitati a partecipare a laboratori, eventi, momenti di confronto e progettazione condivisa, portando competenze, esperienze e prospettive che arricchiscono il percorso formativo e lo radicano nel contesto di vita reale degli studenti.

Le collaborazioni con il territorio si traducono in attività concrete come visite a imprese e musei, interventi di esperti, partecipazione a iniziative civiche e culturali, creando occasioni di apprendimento autentico che connettono la teoria alla pratica. Questa rete educativa, ampia e diversificata, costruisce un ecosistema di apprendimento aperto e inclusivo, in cui ogni attore, dalla famiglia al cittadino, dall’istituzione alla piccola impresa, contribuisce in modo sinergico alla formazione integrale dei ragazzi, rafforzando il senso di appartenenza, la responsabilità civica e la capacità di riconoscersi come parte attiva di una comunità viva e solidale.

Conclusioni

Il modello “Scuola senza zaino” rappresenta una risposta concreta alle sfide della scuola contemporanea, capace di preparare gli studenti non solo a un futuro professionale, ma anche a una vita adulta consapevole e partecipativa. Con spazi flessibili, metodologie partecipative e un forte radicamento nella comunità, questa proposta educativa promuove autonomia, spirito critico e capacità di cooperare. In un’epoca che richiede adattabilità, creatività e responsabilità, ripensare la scuola in questa prospettiva significa investire nel capitale umano e sociale del futuro, offrendo a ogni alunno la possibilità di crescere come persona e come cittadino.

Educazione civica e voto di condotta

Educazione civica e voto di condotta: strumenti formativi, non sanzionatori

di Rita Manzara

Nel panorama educativo italiano, l’educazione civica e il voto di condotta rappresentano due pilastri fondamentali, poiché sono due strumenti centrali per la formazione della persona e del cittadino.

Tuttavia, in un tempo in cui la scuola è spesso chiamata a rispondere a emergenze educative e a gestire comportamenti problematici, le ultime modifiche normative in materia hanno sollevato un acceso dibattito.

Il rischio, infatti, che i suddetti strumenti assumano una connotazione punitiva è obiettivamente concreto, poiché possono essere percepiti come sanzioni disciplinari anziché come opportunità formative.

È lecito, allora, chiedersi se l’introduzione dell’educazione civica come disciplina obbligatoria (Legge n. 92/2019) e la riforma del voto di condotta (DPR 122/2009, aggiornato in tempi recenti) mirino realmente a responsabilizzare gli studenti e a renderli parte attiva della comunità scolastica.

La risposta, dal punto di vista pedagogico e normativo, dovrebbe essere chiaramente affermativa: questi strumenti devono essere utilizzati per formare cittadini consapevoli, dal momento che la scuola, per sua natura, deve essere un luogo di crescita e partecipazione, non di repressione.

Quest’ultima interpretazione costituisce, peraltro, un reale pericolo poiché l’associazione del voto di condotta a possibili bocciature o ad obblighi “riparatori” rischia di creare una visione distorta: punire comportamenti per educare. Una logica che contrasta con i principi fondanti dello Statuto degli Studenti e delle Studentesse (DPR 249/1998), dove il senso civico viene promosso attraverso esperienze, dialogo e coinvolgimento.

Vediamo di approfondire i termini della questione.

Per quanto concerne l’evoluzione del voto di condotta come criterio vincolante per la promozione, con la riforma Valditara (che ha modificato il DPR 122/2009) esso rischia di trasformarsi da semplice indicatore del comportamento a strumento punitivo.

La riforma in esame, nata con l’intento di responsabilizzare gli studenti, introduce cambiamenti sostanziali: un voto inferiore a 6 comporta automaticamente la bocciatura, mentre un voto pari a 6 ha come conseguenza la sospensione del giudizio e l’obbligo di produrre un elaborato riguardante la cittadinanza attiva. Anche le sospensioni disciplinari vanno trasformate in attività educative e socialmente utili.

Tale impostazione solleva dubbi tra educatori, psicologi e giuristi: posto in questi termini, il voto in questione è davvero capace di misurare la crescita morale dello studente, oppure rischia di diventare una semplificazione dell’identità comportamentale, cioè la trasformazione della valutazione in uno strumento di controllo e di compressione dell’autonomia, con conseguente perdita di significato pedagogico nella costruzione del sé?

Si rileva un serio pericolo di una deriva degli strumenti formativi in meccanismi sanzionatori poiché questa valutazione può diventare una misura repressiva: usare il voto di condotta come leva disciplinare può scoraggiare il dissenso, anziché educarlo.

Questa situazione può generare sfiducia, demotivazione e senso di ingiustizia tra gli studenti.

La scuola deve essere autorevole, non autoritaria, come ha sottolineato anche il ministro Valditara.

Volendo portare il discorso sul piano della riflessione pedagogica, educare  non significa punire: secondo le teorie di John Dewey, Paulo Freire e Edgar Morin, l’educazione deve promuovere il pensiero critico e la coscienza etica, favorire la partecipazione attiva e il dialogo, sviluppare la responsabilità sociale e non l’obbedienza passiva.

Una valutazione del comportamento dovrebbe evidenziare progressi, non punire l’errore, dovrebbe far emergere potenzialità, non limitare il futuro, dovrebbe sostenere il dialogo, non inasprire il conflitto.

Quest’ultimo atteggiamento educativo risulta in linea col già citato Statuto degli studenti e delle studentesse (DPR 249/1998) che, oltre a prevedere sanzioni educative e proporzionate, stabilisce i diritti e i doveri degli studenti.

Tornando all’educazione civica, si tratta di una disciplina trasversale presente in tutte le scuole italiane che ha l’obiettivo di promuovere la conoscenza della Costituzione, della legalità, della sostenibilità ambientale e della cittadinanza digitale.

È appena il caso di ricordare che questi ambiti non vanno insegnati come contenuti astratti, ma vissuti attraverso esperienze, dialoghi, riflessioni e pratiche quotidiane.

La scuola, in tale prospettiva, rappresenta un laboratorio di democrazia e l’educazione civica diventa “cultura del bene comune” che, per produrre gli effetti auspicati, deve essere integrata nel curricolo e non relegata a momenti isolati, deve coinvolgere docenti formati ed esperti di cittadinanza e deve collegarsi a progetti reali: volontariato, simulazioni parlamentari, giornate della legalità, ecc.

Solo così si può sviluppare nei ragazzi la coscienza del cittadino, capace di agire in favore della comunità, rispettare le istituzioni e contribuire alla vita democratica.

Non si tratta, quindi, solo di una materia scolastica, ma di un progetto educativo che mira a formare cittadini consapevoli, responsabili e attivi. Non è un insieme di regole da imparare a memoria, ma un processo di interiorizzazione di valori democratici, etici e sociali afferenti alle scienze pedagogiche e sociologiche: il senso civico, come capacità di agire responsabilmente per il bene di tutti, la partecipazione consapevole alla vita pubblica, la comprensione dei diversi punti di vista, la solidarietà e l’educazione morale che porta allo sviluppo della coscienza individuale.

In quest’ottica, la vera educazione civica non può essere connotata come “pena accessoria”, cioè come riparazione di un brutto voto, ma si coltiva nel tempo, promuovendo il pensiero critico, la reciprocità, il rispetto delle regole, la presenza attiva nella collettività.

Ogni progetto, ogni laboratorio, ogni dibattito è un’occasione per “allenare” la coscienza del cittadino, quella voce interna che spinge a scegliere il bene comune anche quando “nessuno ci guarda”.

Anche se l’idea di assegnare elaborati o attività sull’educazione alla cittadinanza attiva come conseguenza di comportamenti negativi da parte degli studenti può sembrare, a prima vista, una strategia educativa, questa pratica rischia di snaturare profondamente il valore formativo della disciplina, trasformandola da strumento di crescita collettiva a misura correttiva individuale.

In altre parole l’approfondimento delle tematiche inerenti l’educazione civica deve riguardare tutti, non solo chi “sbaglia”, poiché le sue tematiche — legalità, diritti e doveri, sostenibilità, partecipazione — sono patrimonio comune, non risposte a comportamenti scorretti.

Quando solo chi ha tenuto condotte negative è chiamato a riflettere sulla cittadinanza attiva, si crea una associazione distorta: educazione civica = rimprovero.

Questo approccio può generare resistenza o disinteresse negli studenti, che percepiscono la disciplina come un obbligo imposto, non come un’opportunità di crescita.

In tal modo, si perde l’occasione di coinvolgere l’intera comunità scolastica in un percorso condiviso di consapevolezza e responsabilità.

Affinchè l’ educazione civica si configuri come percorso inclusivo, l’approfondimento delle tematiche civiche dovrebbe essere trasversale e continuativo, integrato nella vita scolastica di tutti gli studenti. Progetti, dibattiti, laboratori e attività pratiche dovrebbero coinvolgere l’intero gruppo classe, favorendo il confronto e la costruzione di valori comuni. Solo così si può promuovere una cultura della cittadinanza attiva che non sia reattiva, ma proattiva.

In sintesi, l’educazione civica non deve essere il “castigo” per chi sbaglia, ma il terreno fertile su cui tutti gli studenti imparano a essere cittadini.

In conclusione, formare cittadini consapevoli è il compito più alto della scuola, che deve essere una  palestra di cittadinanza.

Non si tratta solo di rispettare le regole, ma di comprenderne il valore. Non di seguire passivamente, ma di partecipare attivamente. Educazione civica e voto di condotta devono essere ponti, non barriere. Perché ciò che conta è quello che ogni ragazzo si dà ogni giorno scegliendo chi essere.

Per fare questo è necessario ripensare il voto di condotta come traccia formativa, non come sentenza, riconoscere l’educazione civica come esperienza vissuta, non come contenuto da studiare, nonché restituire ai ragazzi la possibilità di sbagliare, riflettere e crescere.

Chiediamoci: vogliamo una scuola che giudica o una scuola che forma? Se crediamo nella seconda, dobbiamo avere il coraggio di costruire strumenti educativi coerenti, inclusivi e dialogici. Perché il vero successo educativo non è la condotta impeccabile, ma la capacità di scegliere il giusto anche quando non c’è nessuno a sorvegliare.

Educare alla cittadinanza significa accendere una luce, non piantare un cartello di divieto.

Il Magister e i suoi nemici

Il Magister e i suoi nemici

di Giovanni Fioravanti

Stando all’intervento della professoressa Loredana Perla, su La Stampa del 30 luglio scorso, le Nuove Indicazioni, uscite dal lavoro della commissione da lei presieduta, sarebbero il prodotto di un “riformismo culturale”. Cosa intenda la nostra pedagogista per riformismo culturale non è dato sapere, ma si presume, dalle sue stesse parole, che si tratti di un qualcosa che ha di mira “la scuola cognitiva”, “la scuola dell’istruzione”, che non sarebbe stata in grado di rispondere alle domande fondamentali della vita come solo il Magister con il suo carisma può suscitare nei suoi allievi. Spiega che l’alternativa progressista della “scomparsa dell’insegnante” e “dell’insegnamento tradizionale” non ha funzionato, e questo fenomeno avrebbe iniziato a diffondersi come un virus nelle nostre scuole già sul finire degli anni 80 del secolo scorso.

Per questo invoca, a conclusione del suo intervento, “la rigenerazione di paradigmi culturali che restituiscono agli insegnanti e al loro ruolo fondamentale il posto che meritano”.

Ci troviamo di fronte all’uso di due espressioni assai impegnative: “riformismo culturale”, “paradigmi culturali”. Ragionando, i paradigmi culturali dovrebbero precedere il riformismo culturale, perché si presume che quest’ultimo sia al servizio dei modelli culturali che si vogliono diffondere. Ma quali siano i modelli non vengono esplicitati. Da chi discendono? A cosa fanno riferimento? Chi sono i “maggiori suoi”?

Dal pensiero della Perla, suffragato dal “buon senso” dell’ultima fatica del ministro Valditara, appare chiaro che riformismo e paradigmi culturali sono tutto fuorché la scuola progressista, la quale avrebbe i suoi connotati nell’abolizione dello studio del latino alle scuole medie e nella “Lettera ad una professoressa” dei ragazzi di Barbiana.

La qualcosa può andare bene per la vulgata, per far vendere libri alla professoressa Paola Mastrocola, ma non certo per chi ha in mano le sorti del nostro sistema formativo.

Perché quel Magister a cui vogliamo restituire centralità e autorevolezza di cosa lo nutriamo? Di quale cultura professionale deve essere dotato per divenire autorevole punto di riferimento di generazioni e generazioni di allievi?

È il Magister di cui scrive Ivano Dionigi  per cui la scuola la fanno i maestri e non i ministri come affermava  Manara Valgimigli?

Pare tutto il contrario: Magister è colui che è in grado di realizzare l’idea di scuola che coltivano Valditara e la Perla unitamente alla loro combriccola. Ma non funziona così.

Basterebbe possedere un po’ di cultura della scuola per non cadere in un simile, madornale errore.

Quel che succede sul finire degli anni ’80 del secolo scorso e inizia a far spirare aria nuova in una scuola chiusa su se stessa ha un’altra storia che nulla ha a che vedere con espressioni totalmente vuote di significato come “scuola progressista”, “pedagogia progressista” o “alternativa progressista”, che usate da chi si occupa di scuola denunciano solamente una profonda carenza di cultura professionale.

Una storia che ha il suo inizio tra gli anni 60 e 70 del secolo scorso, quando la formazione degli insegnanti, in particolare quella dei maestri, in una scuola ancora fortemente gentiliana, era affidata prevalentemente alla pedagogia tradizionale, alla pedagogia intesa soprattutto come riflessione filosofica sull’alunno e sul come si deve insegnare.

Ma negli stessi anni si sviluppa l’idea che l’educazione deve essere studiata in modo più scientifico, in particolare secondo un approccio interdisciplinare e fondato sull’attività d’aula. Si diffondevano i contributi  delle scienze umane e, dunque, l’educazione non poteva che abbeverarsi al loro apporto, in particolare alla psicologia, alla sociologia, all’antropologia, alla didattica, alla storia dell’educazione, in sintesi nascevano le scienze dell’educazione. Le scienze dell’educazione non cancellano la pedagogia, ma la riscattano dal suo vassallaggio filosofico, integrandola in un progetto più ampio, in grado di affrontare le sfide educative moderne con strumenti scientifici, interdisciplinari e orientati alla prassi.

La società moderna richiede risposte pratiche, fondate sui dati per affrontare problemi educativi reali: dispersione scolastica, diseguaglianze, bisogni educativi speciali, formazione degli insegnanti.

Le scienze dell’educazione permettono di progettare interventi educativi efficaci, basandosi su ricerche empiriche, non solo su teorie normative o ideali astratti.

A livello internazionale, l’approccio scientifico e multidisciplinare all’educazione si è affermato come standard, nei sistemi anglosassoni si parla di educational sciences o education studies. L’Italia ha seguito questa tendenza, soprattutto a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, con la riforma dei corsi universitari.

Nel 1970 Einaudi pubblica La psicologia del bambino, scritto da Jane Piaget con Bärbel Inhelder, ma già qualche anno prima il lavoro dello psicologo svizzero è oggetto di studio nelle facoltà di magistero più avvertite, come quella di Padova.

Nel 1966 Armando pubblica Dopo Dewey: il processo di apprendimento nelle due culture di Jerome Bruner. Sempre nel 1966 Giunti-Barbera pubblicherà Pensiero e linguaggio di Lev Semënovič Vygotskij. Opere che iniziano a girare tra i giovani insegnanti, nelle università, preparando una classe docente che entra a lavorare nella scuola accanto alle generazioni precedenti formate al pensiero di Gentile e di Giuseppe Lombardo Radice. Portatori di paradigmi culturali nuovi che dovranno attendere i programmi per la scuola elementare del 1985 per trovare piena accoglienza e costituire la cultura professionale di nuove generazioni di maestri. Ma la scuola rimarrà sempre la stessa, salvo aggiustamenti apportati per far fronte a una spinta sociale orientata al rinnovamento attraverso l’istituzione dei nidi, delle scuole dell’infanzia, del tempo pieno, dell’integrazione dei portatori di handicap nella scuola di tutti.

Si diffondono anche pensieri eretici per la matrice gentiliana coniugata all’umanesimo integrale di Jacques Maritain della scuola italiana. Come la pedagogia degli oppressi di Paulo Freire, come la scuola apparato di Stato di Luis Althusser, come il pensiero del sociologo francese Pierre Bourdieu sulle diseguaglianze educative.

La sociologia dell’educazione si nutre delle opere di Émile Durkheim e di Basil Bernard Bernstein, l’antropologia culturale dei lavori di Margaret Mead e di Bronisław  Malinowski.

Ho voluto tracciare solo a grandi linee il profilo di un vero rinnovamento culturale, ben più ricco dei contributi e delle letture di tantissimi autori fondamentali per le scienze dell’educazione, che ha costituito la formazione professionale di una parte importante del corpo docente, che se non è riuscito a cambiare radicalmente il nostro sistema formativo ha però indubbiamente contribuito a fornire una base scientifica alle pratiche d’aula e al rapporto tra docenti e alunni. Un filone culturale che si è nutrito sempre di nuovi apporti, fino al pensiero di Edgar Morin da cui poi sono scaturite le Indicazioni curricolari del 2012.

Certo una cultura democratica e progressista, una cultura che guarda avanti e non in dietro, una cultura prodotto della ricerca continua, della capacità di fornire risposte alla complessità dei tempi che viviamo e che vivranno le nuove generazioni. Nessuna semplificazione, nessuna etichetta, ma l’impegno a misurarsi con nuove domande e nuovi interrogativi, che solo l’incapacità a fornire risposte può indurre a invocare il passato e ripiegare su di esso mostrando la propria fragilità e impotenza intellettuale.

Questo è ciò di cui oggi si tratta, ciò che realmente ci troviamo di fronte, che tenta di sottrarsi alle proprie responsabilità riparandosi dietro allo scudo dei danni causati dalla scuola progressista, che nessuno ha mai visto. Ciò che abbiamo veduto è l’impegno a studiare, a conoscere, a formarsi in modo permanente di tanti insegnanti, consapevoli di essere spesso disarmati di fronte ai problemi quotidiani da affrontare, mentre affabulatori senza cultura cianciano di riformismo culturale, di paradigmi culturali privi di ogni consistenza scientifica, teorica e pratica. Laudatores temporis acti fuori dal tempo che hanno scoperto l’usato sicuro, la cultura del passato, incapaci di concepire la cultura del futuro.

Scrivere per apprendere

Scrivere per apprendere

Prompt generativi e intelligenza artificiale nella didattica riflessiva

di Bruno Lorenzo Castrovinci

Scrivere non è un semplice esercizio tecnico, né un momento accessorio della vita scolastica. È, piuttosto, un gesto cognitivo ed emotivo che permette allo studente di entrare in relazione con sé stesso e con il mondo. La scrittura è il luogo in cui il pensiero prende forma, si chiarisce, si approfondisce, diventa materia viva, plasmabile, capace di restituire una visione del reale arricchito dalla soggettività.

Ogni parola scelta, ogni frase articolata è il risultato di un processo interiore che trasforma l’implicito in esplicito, il confuso in ordinato, l’informe in consapevole. Questo processo non è mai neutro, perchè chi scrive impara a conoscersi, a dare un nome alle emozioni, a collegare fatti, idee, esperienze. In una società in cui la velocità tende a sacrificare la profondità e l’immediatezza prevale sull’elaborazione, educare alla scrittura significa educare alla lentezza, alla riflessione, alla costruzione di significati personali.

Non si tratta di un atto isolato ma di un percorso, che si rinnova ogni volta che si scrive e che può essere potenziato dall’uso consapevole di strumenti come l’intelligenza artificiale. Quando la scrittura è usata come pratica quotidiana, articolata su diversi registri e forme testuali, essa diventa uno strumento di metacognizione, capace di rendere visibile il pensiero, di attivare la consapevolezza del proprio modo di apprendere e di stimolare una riflessione costante su ciò che si è, che si pensa e che si impara.

Il significato dei prompt nella scrittura scolastica

I prompt sono stimoli iniziali, suggestioni o input che attivano il processo di scrittura, innescando il pensiero, suscitando immagini mentali, richiamando emozioni o esperienze. La loro forza risiede nella capacità di non fornire risposte, ma di aprire domande, di lasciare spazio alla complessità, di generare percorsi diversi per ciascuno studente. Possono assumere molteplici forme: una frase da completare, una situazione immaginaria, una citazione letteraria o filosofica, una fotografia, una domanda aperta, una condizione ipotetica. La varietà dei prompt consente di attivare differenti aree cognitive, favorendo l’elaborazione personale, la rielaborazione creativa e la connessione tra le discipline.

Nel contesto scolastico, i prompt diventano strumenti pedagogici potenti, perché sollecitano la partecipazione attiva dello studente, stimolano la riflessione, favoriscono l’espressione di vissuti personali e l’elaborazione critica delle conoscenze. Sono ponti tra ciò che si studia e ciò che si vive, tra il sapere formale e la soggettività. Quando integrati con l’intelligenza artificiale, i prompt possono essere personalizzati in tempo reale, adattati ai diversi livelli cognitivi, emotivi e linguistici, diventando dispositivi inclusivi e dinamici. L’IA può suggerire varianti, ampliare i riferimenti, proporre collegamenti intertestuali o interdisciplinari, stimolando una scrittura dialogica e profonda.

Un prompt ben formulato non guida lo studente verso una risposta predefinita, ma lo invita ad abitare il proprio pensiero, ad esercitare la propria voce, a costruire un testo autentico. Rende la scrittura un laboratorio di ricerca, in cui l’alunno diventa autore e non semplice esecutore, esploratore e non ripetitore. In questo modo, il prompt non è più solo uno strumento didattico, ma un dispositivo formativo che stimola il pensiero divergente, il confronto critico e la capacità di dare senso al mondo attraverso le parole.

Scuola dell’infanzia: dare forma alle emozioni con le parole

Nella scuola dell’infanzia, i bambini sono ancora alle prime esperienze con il linguaggio simbolico, ma possiedono una straordinaria capacità di immaginare, di raccontare, di giocare con le parole e con le immagini mentali. In questa fase, l’obiettivo educativo prioritario non è tanto quello di produrre testi strutturati, quanto di stimolare la verbalizzazione, la narrazione, la capacità di rappresentare il mondo interiore attraverso simboli, suoni, colori, parole. I prompt, in questa fase, possono essere veicolati attraverso immagini evocative, racconti orali, oggetti della quotidianità o esperienze sensoriali.

Un esempio pratico potrebbe essere l’osservazione condivisa di un disegno che rappresenta un prato fiorito, accompagnata dalla domanda aperta: “Cosa succede se i fiori iniziano a parlare tra loro?”. Da questa semplice suggestione, possono nascere storie collettive o individuali, che il bambino racconta a voce, drammatizza con il corpo, costruisce con il disegno o modella con il materiale manipolativo. Il ruolo dell’insegnante è centrale nell’ascolto, nella valorizzazione della risposta, nella riformulazione e nel rilancio creativo. L’intelligenza artificiale educativa può affiancare l’adulto proponendo nuove domande, suggerendo immagini o suoni coerenti con l’universo simbolico del bambino, stimolando narrazioni interattive e personalizzate.

Questa forma di pre-scrittura è fondamentale per lo sviluppo del linguaggio, dell’immaginazione e della consapevolezza di sé. Raccontare ciò che si pensa o si sogna, dare voce a oggetti animati o a personaggi fantastici, aiuta il bambino a costruire il senso di identità, a esplorare emozioni complesse, a riconoscersi come soggetto comunicante. Ogni prompt diventa, così, una finestra sull’universo interiore del bambino, uno strumento per avviare un processo di alfabetizzazione emotiva e narrativa, una prima forma di accesso alla parola come luogo di significato e relazione.

Scuola primaria: scrivere per conoscersi e raccontarsi

Nella scuola primaria, la scrittura non rappresenta soltanto una competenza linguistica da acquisire progressivamente, ma si configura come un mezzo potente per esprimere sé stessi, per consolidare l’identità in formazione e per esplorare la realtà circostante con sguardo critico e creativo. A partire dai primi anni del percorso scolastico, bambini e bambine cominciano a padroneggiare le strutture del racconto, a distinguere le descrizioni dagli eventi, a dare forma scritta a ciò che immaginano o provano. La scrittura, dunque, diventa non solo un esercizio tecnico, ma una palestra emozionale e cognitiva.

Un efficace orientamento in questa direzione può venire dall’introduzione di prompt generativi, ovvero spunti di scrittura che coniughino esperienza personale, immaginazione e riflessione. Un esempio significativo è il celebre “Scrivi una lettera a te stesso tra dieci anni”, un invito che stimola il bambino a proiettarsi nel futuro, esercitando sia la fantasia sia la capacità introspettiva. Attraverso questo tipo di attività, i piccoli scrittori possono dare voce ai propri sogni, paure, desideri, maturando una prima consapevolezza di sé e delle proprie aspirazioni.

L’intelligenza artificiale può offrire un supporto creativo e personalizzato in questo processo, arricchendo l’esperienza di scrittura con domande guidate, che aiutano a focalizzare il pensiero: “Che lavoro ti piacerebbe fare? Dove vivresti? Chi vorresti accanto?”. Questi stimoli, calibrati sull’età e sul livello di maturazione emotiva, favoriscono l’autonarrazione e incoraggiano la costruzione di un dialogo interiore, spesso difficile da attivare nei contesti scolastici tradizionali.

Non meno importante è il ruolo della scrittura nella formazione della coscienza civica. In questo ambito, prompt come “Immagina di essere il sindaco della tua città per un giorno: cosa cambieresti?” attivano nei bambini una riflessione concreta sul proprio ambiente di vita e sulle dinamiche sociali che lo regolano. Scrivere da un punto di vista civico, anche se simulato, significa assumere una prospettiva di responsabilità, immedesimarsi negli altri, pensare in termini di bene comune e imparare a dare forma alle proprie idee su giustizia, equità, ambiente, convivenza.

La scrittura, in questo senso, si fa palestra di cittadinanza attiva, luogo dove si esercita la possibilità di pensare soluzioni, proporre cambiamenti, riconoscere diritti e doveri. Attraverso la parola scritta, il bambino può cominciare a sentirsi parte di una comunità, con il diritto di esprimere opinioni e il dovere di ascoltare e rispettare quelle altrui. Si sviluppa così non solo il pensiero critico, ma anche l’empatia, intesa come capacità di comprendere i punti di vista differenti dal proprio.

L’approccio narrativo riflessivo, sostenuto da una guida sensibile del docente e da strumenti innovativi come l’intelligenza artificiale, consente alla scrittura di diventare un vero e proprio strumento pedagogico trasversale, capace di favorire competenze linguistiche, emotive, cognitive e sociali. Si costruisce così uno spazio educativo in cui l’alunno non è solo un esecutore, ma un autore del proprio percorso, capace di narrare il mondo e di immaginarne uno migliore.

Scuola secondaria di primo grado: dal racconto alla riflessione

Durante la preadolescenza, la scrittura diventa uno spazio privilegiato per l’elaborazione del sé, dei cambiamenti emotivi, delle relazioni e del confronto con il mondo esterno. Gli studenti di questa fascia d’età iniziano a vivere trasformazioni profonde, che coinvolgono la percezione di sé, il rapporto con i pari, la gestione delle emozioni e la definizione dell’identità. La scrittura, in questo contesto, rappresenta un canale espressivo e formativo fondamentale, perché consente di dare voce a pensieri spesso non detti, a insicurezze, a desideri inespressi.

I prompt possono assumere una forma più complessa e stimolante, adeguata allo sviluppo cognitivo e affettivo di questa età. Un esempio è: “Racconta un momento in cui ti sei sentito diverso dagli altri”. Questo tipo di stimolo permette allo studente di esplorare la propria identità, di affrontare vissuti delicati, di sviluppare empatia verso sé stesso e gli altri. L’intelligenza artificiale può suggerire strutture narrative, parole chiave per ampliare il vocabolario emotivo, oppure offrire esempi tratti da testi letterari o autobiografici vicini alla sensibilità adolescenziale, come i romanzi di formazione o i racconti in prima persona.

Anche in ambito disciplinare i prompt possono essere utilizzati per favorire una comprensione più profonda dei contenuti attraverso l’immedesimazione. Ad esempio: “Scrivi il diario di un gladiatore romano prima della battaglia” aiuta a esplorare il contesto storico con uno sguardo emotivo; “Immagina di essere una molecola d’acqua nel suo viaggio attraverso il ciclo naturale” stimola la comprensione dei processi scientifici attraverso la narrazione. L’IA può fornire spunti narrativi, accompagnare l’organizzazione testuale e offrire feedback costruttivi durante la scrittura. Questi stimoli, ben calibrati, favoriscono un apprendimento integrato, in cui emozione, sapere e immaginazione si intrecciano per produrre testi autentici, sentiti e cognitivamente significativi.

Scuola secondaria di secondo grado: la scrittura come laboratorio del pensiero

Nel percorso delle scuole superiori, la scrittura si configura come una vera e propria palestra intellettuale, uno spazio in cui il pensiero si affina e si mette alla prova. Gli studenti, ormai capaci di affrontare temi complessi con maggiore autonomia, trovano nei prompt generativi l’occasione per sviluppare testi argomentativi, riflessivi, creativi e interdisciplinari. I prompt proposti possono stimolare riflessioni filosofiche, etiche, scientifiche, civiche e letterarie, innescando un dialogo tra la conoscenza disciplinare e la sensibilità individuale.

Un esempio particolarmente attuale è: “L’intelligenza artificiale migliora o impoverisce il pensiero umano?”. Una domanda del genere consente allo studente di esercitare la propria capacità argomentativa, di confrontare prospettive teoriche, di formulare ipotesi fondate e di elaborare contro-argomentazioni. L’IA stessa, se integrata nel processo, può suggerire domande guida, raffinare lo stile, offrire citazioni filosofiche, dati scientifici o riferimenti storici che arricchiscono il contenuto. L’obiettivo non è quello di ottenere una risposta giusta, ma di strutturare un pensiero solido, articolato e personale.

Accanto ai prompt argomentativi, un ruolo significativo lo svolgono anche quelli creativi, capaci di rinnovare l’approccio ai testi letterari. Il suggerimento “Scrivi una pagina di diario dal punto di vista di Antigone prima della condanna” consente allo studente di immergersi nei conflitti etici e umani del personaggio, sviluppando empatia e capacità di immedesimazione. Questo tipo di scrittura trasforma l’analisi letteraria in esperienza vissuta, facilitando la comprensione profonda dell’opera.

Anche in ambito scientifico, l’uso dei prompt è strategico per stimolare il pensiero sistemico e la capacità progettuale. Un esempio è: “Immagina un mondo senza energia elettrica: come cambierebbero le nostre vite?”. A partire da questa suggestione, lo studente può analizzare le interconnessioni tra scienza, ambiente, economia, tecnologia e società, sviluppando una visione critica e integrata dei problemi contemporanei. La scrittura, in questi casi, diventa luogo di connessione tra sapere, etica e responsabilità, contribuendo a formare cittadini consapevoli, capaci di orientarsi con autonomia nel pensiero e nell’azione.

Scrittura metacognitiva: pensare a ciò che si è scritto

Oltre alla produzione del testo, è fondamentale promuovere la riflessione sul processo stesso della scrittura, affinché essa non sia percepita come un semplice compito da svolgere, ma come un percorso di consapevolezza in cui lo studente diventa protagonista attivo del proprio apprendimento. La scrittura, infatti, non è solo un prodotto, ma anche e soprattutto un processo  fatto di scelte, revisioni, tentativi, dubbi, intuizioni. In quest’ottica, assumono un ruolo centrale i prompt metacognitivi, ovvero quegli stimoli che invitano a pensare su come si è pensato, su ciò che si è fatto e sulle ragioni di certe decisioni compositive.

Domande come “Cosa hai imparato scrivendo questo testo?”, “Quali parti ti hanno messo in difficoltà?”, “Cosa ti è piaciuto scrivere di più?”, “In che modo potresti migliorarlo?” aprono uno spazio riflessivo che accompagna la scrittura verso una dimensione più profonda e duratura. L’obiettivo non è semplicemente correggere, ma comprendere: comprendere il proprio stile, le strategie che funzionano, gli ostacoli incontrati e i passi compiuti per superarli. In questo modo, l’errore non è più un fallimento da nascondere, ma un’opportunità di crescita, un indicatore prezioso per orientare il cammino.

L’intelligenza artificiale può giocare un ruolo cruciale anche in questa fase, generando domande metacognitive in modo adattivo, calibrate sul contenuto del testo, sul registro linguistico utilizzato, sulle emozioni espresse o sulle strutture narrative impiegate. Questo consente un’interazione più personalizzata e dinamica, capace di valorizzare le unicità di ogni studente e di stimolare un dialogo interiore autentico. La scrittura, così, si trasforma in una forma di autoconoscenza, in un diario di bordo che accompagna il percorso cognitivo e affettivo dell’alunno.

Secondo le neuroscienze educative, la metacognizione è uno dei fattori più rilevanti per consolidare gli apprendimenti a lungo termine. Essa attiva le funzioni esecutive del cervello, rafforza i circuiti della memoria e potenzia la capacità di problem solving. Sviluppare la capacità di riflettere sul proprio pensiero significa potenziare l’autoefficacia, cioè la fiducia nelle proprie risorse, e sviluppare l’autonomia nell’apprendere. Scrivere per riflettere su come si scrive non è un’attività accessoria, ma un passaggio fondamentale per la crescita personale e scolastica, spesso trascurato nella pratica quotidiana.

Favorire spazi di metacognizione nella scuola primaria significa seminare precocemente il gusto per l’esplorazione interiore, il senso critico, la capacità di auto-valutarsi in modo costruttivo. In un mondo sempre più veloce e frammentato, educare i bambini a rallentare, a rileggersi, a interrogarsi su ciò che sentono e pensano, rappresenta una scelta pedagogica coraggiosa e necessaria. È proprio in questa prospettiva che la scrittura torna a essere ciò che dovrebbe essere: un atto formativo integrale, in cui linguaggio, pensiero ed emozione si intrecciano per costruire conoscenza e consapevolezza di sé.

Conclusione: una nuova grammatica del pensiero

L’intelligenza artificiale non sostituisce l’atto di scrivere, né può rimpiazzare la complessità dell’esperienza umana che si riflette nei testi. Tuttavia, se integrata in modo critico e consapevole, può diventare un potente alleato pedagogico, capace di accompagnare e arricchire il processo di scrittura. I prompt generativi, quando progettati con competenza e sensibilità didattica, diventano ponti tra sapere e immaginazione, tra disciplina e interiorità, tra scuola e vita. Offrono stimoli dinamici, personalizzabili e inclusivi, che permettono allo studente di attivare la propria voce e di sviluppare una scrittura autentica, capace di connettere emozione, riflessione e conoscenza.

Scrivere per apprendere, con l’aiuto dell’IA, significa riconoscere nella parola scritta non soltanto un prodotto, ma un processo in divenire, una forma di pensiero e un atto di consapevolezza. Significa restituire centralità al pensiero lento, alla capacità di fermarsi, di osservare, di riformulare. Significa anche educare allo spirito critico, alla responsabilità etica e alla profondità creativa, in un’epoca dominata dall’immediatezza e dalla superficialità. La scrittura resta, oggi più che mai, un atto profondamente umano, capace di costruire senso, identità e visione del mondo. E grazie ai nuovi strumenti digitali, può diventare anche un atto ancora più inclusivo, dialogico e trasformativo.

I “vantaggi” del docente di lingue

I “VANTAGGI” DEL DOCENTE DI LINGUE

di Tiziana Venuti [1]

Le rilevazioni Invalsi degli apprendimenti degli studenti risultano da molti anni insoddisfacenti e non raggiungono un livello adeguato nelle competenze previste per italiano e matematica, solo nella Lingua Inglese i risultati dei test rilevano che i livelli raggiunti sono in linea con soglia prevista, per una buona percentuale la superano, e sono in graduale miglioramento. Nei test Invalsi di inglese vengono valutate la comprensione della lingua orale e della lingua scritta, in cui, ad esempio, gli studenti nel triennio della scuola secondaria di primo grado riescono a sviluppare e a raggiungere un livello di competenza in linea con quello previsto dalla Indicazioni Nazionali alla fine del primo ciclo d’istruzione (livello A2 del QCER).

Da docente di Lingue mi sono sempre sentita avvantaggiata nella costruzione di un percorso didattico per i miei studenti principalmente grazie a due fattori: il primo sono gli strumenti didattici che ho sempre avuto a disposizione e il secondo è una scala di riferimento condivisa a livello europeo, che identifica gli obiettivi da raggiungere e li illustra in modo chiaro e dettagliato.

Prima di analizzarli, faccio una digressione riguardo alla mia esperienza personale.  Quando poi ho cominciato a insegnare, prima Italiano L2,  poi Inglese nelle scuole secondarie di primo grado mi sono subito resa conto di quanto il mio lavoro fosse facilitato e guidato da alcuni libri di testo (o altre pubblicazioni con materiale didattico redatto per ogni diversa abilità linguistica) che fornivano delle attività pratiche, applicando concretamente i principi fondamentali delle teorie sull’apprendimento linguistico. L’unico contatto che avevo avuto precedentemente con la didattica era stato un esame all’università, che peraltro era complementare, e quindi non faceva necessariamente parte del bagaglio formativo di un laureato in Lingue.

La solida base teorica di glottodidattica, di matrice essenzialmente anglo-sassone, non è rimasta astratta e avulsa dalla pratica in classe, ma le maggiori e più prestigiose case editrici l’hanno incorporata sistematicamente nei loro manuali traducendola nelle metodologie operative più efficaci, ad esempio lo scaffolding linguistico, il sillabo a spirale, i role-play, il cooperative learning, il learning by doing, il CLIL. I docenti vengono guidati verso una programmazione coerente, progressiva e basata su strategie didattiche attive, pratiche e coinvolgenti.

La standardizzazione internazionale ha contribuito a definire con chiarezza i livelli di competenza, ha uniformato obiettivi didattici e criteri di valutazione, le prove proposte richiedono abilità comunicative reali e non solo conoscenza teorica. L’apprendimento è centrato sullo studente, sul fare linguistico, la versione digitale dei libri di testo offre strumenti multimediali di facile utilizzo, con contenuti accattivanti e rilevanti per lo studente. Sono incluse attività che prevedono competenze integrate (comprensione orale collegata alla produzione scritta). Le competenze diventano più importanti rispetto ai contenuti, che possono variare per argomento e complessità.


Tutto questo elevato grado di “professionalità” è riconducibile alla predominanza del mondo anglosassone e statunitense nello sviluppo delle teorie dell’apprendimento linguistico e delle metodologie didattiche, per svariati motivi storici, culturali, economici ed accademici.

In primo luogo si deve tenere conto dell’affermazione dell’inglese come lingua globale: prima con l’espansione dell’impero britannico, e poi con l’ascesa degli Stati Uniti come potenza mondiale, l’inglese è diventato la lingua della diplomazia, della scienza, del commercio, della tecnologia e della cultura popolare.  La necessità di imparare l’Inglese come L2 ha generato un enorme mercato e un conseguente interesse accademico e metodologico attorno al suo insegnamento. Durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti dovevano addestrare rapidamente un gran numero di soldati, spie, diplomatici e operatori sul campo a comunicare efficacemente in lingue strategiche (tedesco, giapponese, russo, cinese, arabo, ecc.).

Da iniziali metodi di tipo comportamentista, per i quali l’apprendimento è un processo meccanico di acquisizione tramite stimolo-risposta, si è passati alla scoperta dell’importanza di comunicare efficacemente in contesti reali, apprendendo attraverso l’interazione sociale e la situazione comunicativa. Ecco che la competenza linguistica diventa strumento di comunicazione sociale, le attività linguistiche proposte nei libri di testo diventano meno meccaniche e puramente grammaticali, basate quasi solo sulla memorizzazione.

Questo ha portato alla nascita e alla sistematizzazione di metodi funzionali, rapidi e orientati alla comunicazione pratica, cioè alla nascita di un apprendimento per via curricolare e non programmatica per cui ad ogni obiettivo di apprendimento da raggiungere viene collegata una precisa strategia didattico-formativa.

Conseguentemente alla crescente domanda di insegnare l’inglese come L2 si è reso necessario avere delle scale e dei descrittori di riferimento per una valutazione il più possibile precisa, oggettiva e affidabile. La diffusione delle certificazioni linguistiche, che ormai la maggior parte delle scuole secondarie di primo e di secondo grado includono nella loro offerta formativa, ha costituito un notevole passo avanti per stabilire quali sono le competenze attese, i livelli che è realisticamente possibile raggiungere. Il focus è sulla competenza “globale”, le certificazioni sono progettate per valutare la competenza complessiva di un candidato, non una singola performance in singole abilità. Nelle certificazioni non è necessario ottenere il punteggio minimo in ogni singola abilità valutata, quello che conta è il risultato complessivo nel quale i singoli punteggi si compensano. Questo sistema descrive quindi un profilo generale di competenza in cui alcuni aspetti (abilità) possono essere più sviluppati di altri, senza che questo impedisca di comunicare efficacemente.

Un elemento significativo delle certificazioni linguistiche è che, nel caso in cui uno studente non raggiunga la soglia prevista per il superamento dell’esame (ad esempio il livello B1), non riceve un attestato con l’indicazione di ‘non superato’ o ‘bocciato’. Al contrario, viene rilasciato un documento  che riporta il punteggio ottenuto su scala per ciascuna delle componenti dell’esame (Reading, Writing, Listening, Speaking), che può corrispondere a un livello inferiore, come l’A2. Questo approccio mira a valorizzare le competenze effettivamente acquisite, offrendo al candidato uno strumento utile per l’autovalutazione e per il monitoraggio dei propri progressi.

Allo stesso modo è auspicabile, ma non sempre avviene, che il docente di lingue si attenga a questo tipo di valutazione: ogni studente ha stili di apprendimento e personalità diverse, alcuni sono più estroversi e eccellono nella produzione orale, altri più riflessivi emergono nella produzione o comprensione scritta e così via. In quest’ottica ciò che realmente conta è la capacità dello studente di comunicare in modo efficace, anche se una specifica abilità dovesse risultare non particolarmente sviluppata o l’accuratezza grammaticale non ancora consolidata. La competenza comunicativa è data dall’equilibrio e dalla compensazione tra le diverse abilità, in una visione integrata e funzionale della lingua.

Grazie a queste pratiche consolidate e alla disponibilità di manuali costantemente aggiornati e implementati, anche senza un’approfondita preparazione in area pedagogica e didattica, un insegnante di lingue scrupoloso e motivato riesce ad offrire ai suoi studenti un approccio efficace che può portare al raggiungimento dei traguardi di apprendimento. Ritengo che in alcune discipline (come l’italiano e la matematica) prevalga ancora una didattica di tipo troppo trasmissivo, con strumenti poco interattivi e focalizzati più sul contenuto e sulle nozioni. Sarebbe interessante capire perché altre discipline non definiscano standard di riferimento condivisi.

La definizione chiara di competenze, orientata ad aumentarne la trasferibilità e spendibilità in contesti professionali ed accademici, potrebbe contribuire in modo significativo al miglioramento complessivo di tutto il sistema scolastico italiano, in un’ottica di competenze chiave nell’ambito dell’apprendimento permanente.


[1] Tiziana Venuti insegna Inglese nell’Istituto comprensivo di Pasian di Prato (Udine). Ha maturato competenze didattiche e linguistiche (connesse con una certificazione C2) in Inghilterra, Israele, Nigeria, Monaco di Baviera. Collabora con il Panel Oxford per la redazione di libri di testo ed è tra i formatori della DeA Scuola.

Il rapporto tra la scuola e il broker

Orientamenti giurisprudenziali e prescrizioni etiche che legittimano il rapporto tra la scuola e il broker

di Anna Armone

L’agire amministrativo si snoda lungo due versanti: quello normativo e quello etico-comportamentale. Tale dualismo riguarda anche il caso del ricorso al broker.

Alla base della relazione tra il broker e le pubbliche amministrazioni c’è l’esigenza da parte dei soggetti pubblici di avvalersi della consulenza e dell’assistenza del broker, innanzitutto per ottenere l’esame e la  pianificazione dei rischi  trasferibili sulle compagnie di assicurazioni, attività sempre più complessa. Ma, indipendentemente dalla struttura organizzativa, è sentita la necessità di affrontare la complessità delle funzioni amministrative di propria competenza in condizioni di sicurezza giuridica, liberandosi dai rischi professionali derivanti dalla complessificazione del quadro normativo. Tali compiti, nella PA e in particolare nella scuola, non possono certo essere svolti dai propri dipendenti per mancanza delle specifiche competenze necessarie sia nella fase precontrattuale che in quella di gestione contrattuale. Infatti, il ruolo del broker non si esaurisce nel supporto alla scelta del contraente, ma si sostanzia anche nell’accompagnamento durante la gestione del sinistro.

La Corte di Cassazione, Sezione VI civile, ordinanza numero 9863 del 15 aprile 2021 sancisce che:

“il broker assicurativo svolge – accanto all’attività imprenditoriale di mediatore di assicurazione e riassicurazione – un’attività di collaborazione intellettuale con l’assicurando nella fase che precede la messa in contatto con l’assicuratore, durante la quale non è equidistante dalle parti, ma agisce per iniziativa dell’assicurando e come consulente dello stesso, analizzando i modelli contrattuali sul mercato, rapportandoli alle esigenze  del cliente, allo scopo di riuscire ad ottenere una copertura assicurativa il più possibile aderente a tali esigenze e, in generale, mirando a collocarne i rischi nella maniera e alle condizioni più convenienti per lui; peraltro, tale attività di collaborazione non investe solo la fase genetica del rapporto, ma consiste anche nell’assistenza durante l’esecuzione e la gestione contrattuale (Sez. 3 – , Sentenza n. 25167 del 11/10/2018)”.

Relativamente alla legittimazione di questa figura essa è spesso contrastata perché interviene ad eliminare, nella fase prenegoziale, quelle relazioni “amicali” o essenzialmente commerciali che, come vedremo, non sono ammissibili. A creare questa “zona grigia” contribuiscono anche i gruppi sociali di appartenenza che non vantano certamente un interesse finanziario, ma tendono alla fidelizzazine dell’iscritto. Il sistema della trasparenza, che include l’importante presupposto della legalità, richiederebbe, da parte di tutti gli attori sociali del sistema pubblico, compresi quelli rappresentativi dei dipendenti pubblici, un comportamento etico e rispettoso delle regole di prevenzione e contrasto alla corruzione.

Come affermato in una vecchia pronuncia del Tribunale di Torino “È ammissibile l’intervento di un “broker” in relazione ai contratti assicurativi della p.a. stipulati all’esito di procedura negoziata, poiché viene devoluto l’incarico di formulare giudizi tecnici sulla estensione e convenienza delle coperture assicurative in ballottaggio, ferma restando la esclusiva e inderogabile competenza finale della p.a. nella valutazione del pubblico interesse e nella assunzione delle consequenziali decisioni” (Trib. Torino, 10.1.1997).

È per tali ragioni che la legittimazione principale deriva, pertanto, dal riconoscimento da parte della giurisprudenza della disparità di posizioni contrattuali tra il soggetto pubblico e la compagnia di assicurazioni nella fase precontrattuale e contrattuale a causa della mancanza di informazioni tecniche e della tendenza da parte delle compagnie a sottoporre all’assicurato condizioni contrattuali unilaterali. Bisogna considerare come la spesa assicurativa di un ente pubblico ha forti implicazioni sulle risorse finanziarie e sull’efficienza del servizio. Anche se nella scuola ha un grande rilievo la contribuzione obbligatoria delle famiglie, ciò rende necessario il ricorso a un professionista in possesso delle competenze specialistiche adatte alla ricognizione dei rischi e all’individuazione delle soluzioni assicurative più adatte. Focalizzare l’interrogativo dell’utilizzo del broker esclusivamente sulla ricaduta della provvigione sulla compagnia assicurativa o sulla famiglia, significa mistificare l’interrogativo e le ragioni della scelta.

Sono, dunque, numerose le sentenze che affermano la legittimità e compatibilità tra la figura del broker e le pubbliche amministrazioni. Una sentenza fra tutte, è quella del TAR Sardegna  del 10 giugno 1999, n. 770 secondo la quale “è del tutto compatibile con la natura dei menzionati contratti e con il sistema pubblicistico di aggiudicazione dei medesimi che l’amministrazione, la quale intenda provvedere alla copertura dei rischi mediante un apposito contratto di assicurazione, si avvalga dell’opera di un professionista esterno che l’assista nella determinazione del contenuto del contratto e collabori poi alla sua gestione ed esecuzione. Gli enti pubblici godono, in quanto soggetti giuridici, di una piena capacità giuridica che, salvo il limite connesso al rispetto dei fini istituzionali, attribuisce loro un’autonomia negoziale di carattere generale, la quale può certamente estrinsecarsi anche nel modulare, secondo quanto ritenuto più conveniente nel pubblico interesse, figure contrattuali tipizzate per legge; pertanto, è legittima la cd. clausola broker, inserita nel bando di gara relativo all’affidamento del servizio di copertura assicurativa degli automezzi di proprietà dell’ente pubblico, secondo cui la gestione del contratto di assicurazione è attribuita ad una società di brokeraggio ai sensi della l. 28 novembre 1984 n. 792”

Di recente la Cass. civ., Sez. II, Sentenza, 10/01/2023, n. 341 (rv. 666671-02) ha sentenziato che “Il broker assicurativo svolge un’attività di collaborazione intellettuale a favore dell’assicurando nella fase che precede la messa in contatto con l’assicuratore volta ad ottenere, previa analisi dei modelli contrattuali presenti sul mercato, la copertura assicurativa il più possibile aderente alle esigenze del proprio cliente; attività che, non risultando astrattamente incompatibile con le procedure ad evidenza pubblica, può essere legittimamente svolta in favore della P.A. o di un ente pubblico allo scopo di garantirli ed assisterli nella stipula di un contratto di assicurazione. (Cassa con rinvio, CORTE D’APPELLO ROMA, 19/02/2016).

È peraltro la stessa Corte dei conti che, rispondendo al quesito di un sindaco sulla legittimità di ricorso al broker, definisce il broker “un professionista che assicura al cliente le migliori condizioni possibili ed al quale è legato da un contratto d’opera professionale, inerente a un servizio assicurativo in senso ampio, diverso dall’attività di agenzia che è tipicamente commerciale e a servizio delle compagnie di assicurazione”. Da questa affermazione si evince il vero focus dell’interesse a ricorrere a questa figura professionale, la protezione dell’interesse pubblico all’efficienza ed economicità delle scelte gestionali.

L’agente assicurativo e il broker: le differenze

Andiamo quindi a verificare, incominciando da un parere del Consiglio di Stato, quali sono le differenze fra un Agente di Assicurazione ed un broker assicurativo.

“Il broker assicurativo è un mediatore professionale che organizza una transazione tra un acquirente e un venditore, svolgendo la propria attività su incarico fiduciario del cliente, generalmente allo scopo di reperire sul mercato le soluzioni assicurative rispondenti alle esigenze di coloro che si affidano al suo servizio, remunerato poi alla conclusione dell’affare dalle compagnie di assicurazioni mediante provvigioni commisurate ai premi intermediati”.

In particolare, secondo il Regolamento Isvap n. 5 del 2006 “si intendono per mediatori o broker gli intermediari che agiscono su incarico del cliente e che non hanno poteri di rappresentanza di imprese di assicurazione o di riassicurazione”.

Si individuano, dunque, due diverse figure: quella dell’agente, che agisce quale mandatario di una o più imprese assicurative, e quella del broker che agisce su incarico del cliente.

Fondamentale appare il contenuto del parere n. 576 del 3 marzo 2017 pronunciato dal Consiglio di Stato.

“Dal combinato disposto degli artt. 106, 108 e 109 del CAP si ricava: (i) la definizione di attività di intermediazione assicurativa (“consiste nel presentare o proporre prodotti assicurativi … o nel prestare assistenza o consulenza finalizzate a tale attività e, se previsto dall’incarico intermediativo, nella conclusione dei contratti ovvero nella collaborazione alla gestione … dei contratti stipulati” (art. 106), (ii) che “L’attività di intermediazione assicurativa … è riservata agli iscritti nel registro di cui all’articolo 109” (art. 108), (iii) “Nel registro sono iscritti in sezioni distinte: a) gli agenti di assicurazione, in qualità di intermediari che agiscono in nome e per conto di una o più imprese di assicurazione o di riassicurazione …”; “b) i mediatori di assicurazione o di riassicurazione, altresì denominati broker, in qualità di intermediari che agiscono su incarico del cliente e senza potere di rappresentanza di imprese di assicurazione …”;…..).

L’ANAC, nei documenti di consultazione, ha evidenziato come l’attività dei brokers possa garantire un ausilio fondamentale per le pubbliche amministrazioni nell’attività di riduzione dei rischi e gestione dei contratti assicurativi.

In un contesto generale di profonda complessità come quello attuale – caratterizzato da “policrisi” in atto (pandemica, finanziaria, energetica, geopolitica, ecc..) – anche la Pubblica Amministrazione si trova esposta a un numero crescente e sempre più diversificato di rischi. La difficoltà crescente nel valutare le diverse potenziali situazioni di rischio impone, con sempre maggior frequenza, la necessità di affiancare le Istituzioni con professionalità adeguate a individuare, comprendere, mitigare (ove possibile), trasferire e gestire i rischi rilevati.

La nostra società è in profondo cambiamento, dal punto di vista economico e culturale e la Scuola, in particolare, è il contesto e il luogo dove, prima rispetto ad altri, si manifestano le nuove tendenze. La Scuola, all’interno della P.A. conta un sesto della popolazione nazionale. Negli ultimi decenni è tra i soggetti che hanno subito e attivato la maggiore innovazione, non solo tecnica ma anche strutturale. Le attività “pratiche”, fino all’inizio del secolo circoscritte ai soli istituti professionali, oggi, con l’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro e dei PCTO, coinvolgono tutti gli studenti degli istituti superiori.

L’aumento del rischio è tangibile e concreto: prova ne è la recente previsione di legge che dispone l’estensione della copertura assicurativa prestata dall’INAIL. La Pubblica Amministrazione in generale e quella scolastica in particolare non contempla, all’interno della propria organizzazione, la figura professione del risk manager e non ha, come abbiamo già rilevato, personale specializzato a trattare la gestione del rischio sotto il profilo assicurativo. Inoltre, attività gestite direttamente o attraverso il ricorso a soggetti esterni che millantano condizioni favorevoli e mirano ad evitare il ricorso alla figura professionale del broker potrebbero portare a conseguenze personali di responsabilità amministrativa, venendo nel contempo a mancare il dedicato, quanto necessario e competente, supporto professionale.

A differenza degli altri intermediari assicurativi, il Broker opera come consulente diretto del cliente (nel caso di interesse, la stessa Scuola) ed è tenuto a mantenere, anche attraverso opportuni presidi di carattere normativo che ne garantiscono la dovuta trasparenza, una posizione di terzietà rispetto alle compagnie di assicurazione con le quali si trovi ad operare per collocare nel modo più opportuno i rischi rilevati attraverso la propria analisi consulenziale e professionale.

Le migliori soluzioni assicurative possono essere individuate e proposte, infatti, solo dopo l’esame di un consulente specializzato che sia costantemente a conoscenza degli orientamenti delle imprese di assicurazione, tenuto conto delle specifiche esigenze del cliente, e che sia anche in grado di proporre soluzioni assicurative quanto più efficaci, efficienti, trasparenti ed economiche in funzione di quanto il Mercato possa offrire e recepire, giungendo così a una sintesi efficace tra le innumerevoli e diversificate proposte di polizze e di servizi disponibili.

In una seconda fase il Broker collabora alla gestione delle polizze e dei sinistri relativi alle polizze sottoscritte. Allo stesso tempo, l’evoluzione delle complessive esigenze di gestione dei rischi, unitamente ad una crescente necessità di economicità nella gestione degli stessi, ha progressivamente ampliato il ruolo del Broker, valorizzandone sempre più le competenze. Il Broker oggi, dunque, assume sempre più la veste di vero e proprio “consulente aziendale” e può essere chiamato a fornire servizi aggiuntivi anche indipendentemente dalla sottoscrizione delle polizze assicurative, innanzitutto, in chiave di prevenzione dei rischi, ma anche per la gestione di «sinistri» non assicurati e non ricompresi nella copertura.

Cruciale poi non è unicamente l’azione ex-post ma anche la messa in atto di specifiche azioni preventive nell’assicurabilità dei rischi, attività che, peraltro, viene sempre con maggior vigore enfatizzata dalla stessa EiOPA (Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali), che ne sottolinea l’importanza anche in un’ottica di sviluppo più diffuso di partnership pubblico-private.

Inoltre, l’importante supporto del Broker può essere acquisito dalla PA per lo più senza ulteriori oneri economici aggiuntivi, giacché la sua remunerazione deriva (in)direttamente dalle imprese di assicurazione con la quale vengono sottoscritte le polizze e tale remunerazione è parte integrante dei “caricamenti” già

In un contesto in continua evoluzione è oltremodo auspicabile che la prevenzione dal verificarsi dei rischi, sia sempre più “centrale” per la PA e, in generale, per tutti i cittadini al fine di mitigare, per quanto possibile le conseguenze economiche e sociali, spesso molto “onerose” che gli eventi dannosi recano con sé. La consulenza di un Broker può fare la differenza nel rendere la Scuola un luogo più “sicuro”, concentrando ogni sforzo sulla cura e la formazione delle generazioni future.

La regolazione comportamentale del dirigente nell’attività negoziale e la previsione dell’intermediario

L’azione amministrativa e gestionale dei dirigenti pubblici ha costituito il punto di partenza per la riforma Brunetta del 2009 che ha avuto come scopo principale la responsabilizzazione dei dirigenti e, di conseguenza, il controllo sulla spesa pubblica. La qualità dei servizi pubblici fa da corollario e da fine comprimario a tutto ciò. Ma è stata la legge 190 del 2012 a definire in modo più organico le azioni di prevenzione e contrasto alla corruzione attraverso l’adozione del concetto di maladministration che va oltre il concetto penalistico delle figure corruttive.  È ovvio che l’ambito privilegiato entro il quale si alimenta la maladministration è costituito dall’attività negoziale. Se pensiamo all’ambito assicurativo, la rete di relazioni extracontrattuali, amicali e commerciali, genera effetti sull’azione negoziale che non corrispondono al dettato normativo comportamentale ed etico. Ne vedremo il richiamo specifico.

Le norme regolative dell’attività negoziale sono già codificate nelle leggi primarie, nei regolamenti ministeriali, nelle norme comunitarie. Ma il legislatore ha (correttamente) ritenuto di intervenire anche a livello etico e comportamentale. Ecco perché il codice di comportamento generale per i dipendenti pubblici e i singoli codici di comportamento richiamato il comportamento specifico da tenere nell’attività negoziale. Ne vedremo degli esempi.

È indubbio che non si sia dato seguito alle raccomandazioni che l’Italia ha ricevuto dal Gruppo di Stati contro la Corruzione del Consiglio d’Europa (c.d. “GRECO”) al termine del V ciclo di valutazione che quest’organismo ha svolto. Il Rapporto da esso adottato il 25 marzo 2024 ha chiesto infatti al nostro Paese di dotarsi di un sistema credibile (efficace) di supervisione e di sanzione dei comportamenti che risultano essere inadempimenti degli obblighi contenuti nei codici di comportamento adottati dai vari enti pubblici. Perseguire questa via contribuirebbe in misura determinante a garantire un ambiente integro nella pubblica amministrazione, ricorrendo appunto a misure di tipo amministrativo e disciplinari.

Pima di illustrare qualche esempio occorre fare un cenno al legame tra il codice di comportamento e il codice disciplinare. Quest’ultimo prevede infrazioni e sanzioni collegati, entrambi, alle prescrizioni del codice di comportamento generale, il d.p.r. 62/2013, e al codice di comportamento specifico dell’amministrazione.

Il sistema scolastico è in questa condizione: solo per il personale ATA e per i dirigenti il CCNL prevede il codice disciplinare, mentre per i docenti siamo all’ennesimo rinvio ad uno specifico accordo contrattuale.

Per tutto il personale vale il Codice di comportamento per i dipendenti pubblici, ma non è previsto alcuno codice specifico.

La norma del Codice di comportamento che richiama il comportamento nell’attività negoziale è l’art. 14:

“Nella conclusione di accordi e negozi e nella stipulazione di contratti per conto dell’amministrazione, nonché nella fase di esecuzione degli stessi, il dipendente non ricorre a mediazione di terzi, né corrisponde o promette ad alcuno utilità a titolo di intermediazione, né per facilitare o aver facilitato la conclusione o l’esecuzione del contratto. Il presente comma non si applica ai casi in cui l’amministrazione abbia deciso di ricorrere all’attività di intermediazione professionale”.

Tra tutti gli esempi di codici specifici che si possono fare, prendiamo la previsione del Codice di comportamento dei dipendenti della Presidenza del consiglio dei Ministri:

Codice di comportamento e di tutela della dignità e dell’etica dei dirigenti e dei dipendenti della PCM

Art. 14 – Contratti e altri atti negoziali e rapporti privati del dipendente

È  fatto divieto al dipendente di concordare incontri, se non nei casi previsti dalle procedure di gara, con i concorrenti, anche potenziali, alle procedure medesime o dare loro appuntamenti informali. Eventuali richieste di chiarimento per procedure di gara, che non attengano ad aspetti meramente formali delle procedure stesse, devono essere formalizzate per iscritto dai soggetti interessati ed i contenuti delle relative risposte, se di interesse generale, vengono resi noti mediante pubblicazione sul sito istituzionale dell’Amministrazione nella medesima sezione ove sono riportati gli atti di avvio della procedura di gara. Nelle risposte a quesiti occorre rispettare la parità di trattamento e garantire uguale accesso alle informazioni da parte di tutti i soggetti potenzialmente interessati a partecipare alla procedura di gara.

Come si nota, sono previsti tutti quei comportamenti prodromici alla fase contrattuale che possono viziare il processo decisionale di un dirigente che dovrebbe esercitare la sua discrezionalità alla luce dei criteri di efficienza e di efficacia che non possono essere asserviti all’interesse commerciale degli interlocutori occasionali. Ecco, dunque, la previsione della massima trasparenza delle relazioni formali e informali che, addirittura, vengono formalizzate e pubblicizzate.

Vediamo la regolazione nel sistema ministeriale dell’istruzione.

Codice di comportamento dei dipendenti del Ministero dell’istruzione

All’art. Articolo 21 “Contratti, appalti ed altri atti negoziali”, comma 2 riporta “2. Nella conclusione di accordi e negozi e nella stipulazione di contratti per conto dell’Amministrazione, nonché nella fase di esecuzione degli stessi, il dipendente non ricorre a mediazione di terzi né corrisponde o promette ad alcuno utilità a titolo di intermediazione, per facilitare o aver facilitato la conclusione o l’esecuzione del contratto.”  

Tra i destinatari di cui all’art. 2, comma 3, non sono previsti i dirigenti scolastici

Resta l’obbligo, per I dipendenti scolastici, di adempiere all’art. 14 del d.p.r. 62/2013, così come viene richiamato da tutti I PTPCT degli Uffici scolastici regionali per le scuole del proprio territorio. Un esempio per tutti il  PTPCT dell’usr emilia romagna 2025: “Tutti i dipendenti sono tenuti: − alla conoscenza del piano di prevenzione della corruzione a seguito della pubblicazione sul sito istituzionale nonché alla sua osservanza ed altresì a provvedere, per quanto di competenza, alla sua esecuzione; − alla conoscenza ed all’osservanza del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici di cui al DPR n. 62/2013 ed a successive modificazioni normative e regolamentari al fine di assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni corruttivi, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità, buona condotta e servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico…..”

Quanti dirigenti scolastici ricostruiscono tale percorso di adempimenti, e quanti estendono la conoscenza al personale, in particolare ai Direttori sga?

La regolazione etica per i dirigenti scolastici

CCNL 2016-2018

Per la categoria dei dirigenti scolastici, ad oggi, pertanto, l’unico riferimento è al d.p.r. 62/2013 che prevede la regolazione del comportamento nell’attività negoziale all’art. 14 il quale recita “Contratti ed altri atti negoziali»

1.Nella conclusione di accordi e negozi e nella stipulazione di contratti per conto dell’amministrazione, nonché nella fase di esecuzione degli stessi, il dipendente non ricorre a mediazione di terzi, né corrisponde o promette ad alcuno utilità a titolo di intermediazione, né per facilitare o aver facilitato la conclusione o l’esecuzione del contratto. Il presente comma non si applica ai casi in cui l’amministrazione abbia deciso di ricorrere all’attività di intermediazione professionale”.

All’art. 26 del CCNL 2016 – 2018, titolato “Obblighi del dirigente”-, è previsto che il dirigente osserva il codice di comportamento di cui all’art. 54 del d.lgs. n. 165/2001, nonché lo specifico codice di comportamento adottato dall’amministrazione nella quale presta servizio

Alla luce di queste due prospettive, quella giurisprudenziale e quella (cogente) etica comportamentale, i dirigenti scolastici sono chiamati a garantire la trasparenza e la correttezza dell’azione amministrativa, contrastando quei comportamenti estranei che, anche se non rilevano penalmente, assumono rilievo sanzionatorio per i dirigenti stessi e minano le basi del buon andamento della PA.

La scuola che apprende

La scuola che apprende

La professione docente tra riflessione, ricerca e narrazione

di Bruno Lorenzo Castrovinci

Maestre, maestri, professoresse e professori. Figure un tempo dai contorni netti, ruoli chiari e riconosciuti, oggi si ritrovano a navigare in un mondo che cambia, che si evolve e si trasforma incessantemente. In un tempo come il nostro, in cui la tecnologia ha ridefinito le coordinate della conoscenza e dell’apprendimento, anche l’identità dell’insegnante si apre a nuove dimensioni, ancora in via di definizione.

Un tempo erano i depositari del sapere, guide insostituibili insieme ai libri di testo, alle polverose enciclopedie che campeggiavano nelle case, e alle biblioteche che profumavano di carta e silenzio. Oggi, quegli spazi sono stati affiancati – talvolta sostituiti – da schermi digitali, da motori di ricerca che permettono l’accesso immediato a ogni tipo di informazione, in ogni luogo e in ogni momento. Il sapere, un tempo lento, scandito da rituali ben definiti, si muove ora a ritmi accelerati, e ciascuno diventa inevitabilmente ricercatore, immerso nei meandri infiniti di una rete sempre più densa e interconnessa. L’intelligenza artificiale semplifica, guida, suggerisce, ridisegna il nostro modo di comprendere il mondo.

In questo tempo di rapide trasformazioni sociali, culturali e tecnologiche, la scuola è chiamata a un compito che va oltre la semplice trasmissione dei saperi. Deve diventare essa stessa un luogo di apprendimento continuo, consapevole della propria missione educativa in un contesto in costante mutamento. L’orizzonte della complessità impone un ripensamento profondo delle strutture, dei ruoli, delle relazioni che abitano l’istituzione scolastica. Non basta che l’allievo impari, se la scuola rimane ferma nelle sue certezze. È l’intero sistema che deve interrogarsi, accogliere l’incertezza, trasformarla in occasione di crescita, di rinnovamento autentico.

In questo scenario, il docente non è più soltanto colui che insegna, ma colui che apprende insegnando. Rinnova continuamente la propria identità professionale, si fa artigiano del pensiero educativo, intreccia riflessione, ricerca e narrazione. È un costruttore di senso, capace di dare forma a una scuola viva, sensibile, plurale, capace di rispondere ai bisogni reali delle persone che la abitano.

Ripensare, oggi, il ruolo dell’insegnante significa tornare al significato più profondo dell’educare: un atto di relazione, di ascolto, di responsabilità condivisa. Ma anche uno spazio generativo, in cui l’apprendimento non è solo trasmissione, ma co-costruzione, scoperta reciproca, possibilità aperta. È tempo di riconoscere l’insegnamento come un’arte in movimento, che cresce insieme a chi la pratica e a chi la riceve.

Una scuola che cresce mentre insegna

L’idea di una scuola che apprende non è un paradosso, ma un’aspirazione pedagogica concreta e urgente, capace di rinnovare profondamente il senso stesso dell’istituzione scolastica nel XXI secolo. In un’epoca in cui le conoscenze si moltiplicano, si aggiornano e si trasformano in tempi sempre più rapidi, la scuola non può più limitarsi a essere un contenitore di saperi preconfezionati o un luogo di mera trasmissione verticale. Deve, piuttosto, proporsi come un ambiente dinamico, relazionale e dialogico, capace di autorigenerarsi attraverso l’interazione continua tra teoria e prassi, tra intenzionalità educativa e risposta al contesto. Questo significa ripensare tempi, spazi, linguaggi, ruoli e curricoli, aprendo la scuola a nuove forme di apprendimento collaborativo, esperienziale e transdisciplinare. Non si tratta soltanto di insegnare, ma di farlo in modo tale che l’intera comunità scolastica si configuri come un laboratorio di apprendimento diffuso e generativo, in cui ogni membro, docente o discente, contribuisce attivamente alla costruzione del sapere e del senso. In questo scenario, il docente non è un semplice trasmettitore di nozioni, ma un intellettuale riflessivo, un ricercatore in azione, un mediatore culturale, un attivatore di processi e un narratore di esperienze educative. La scuola che apprende è una scuola che si interroga continuamente, che accoglie il cambiamento come risorsa e come sfida, che si forma mentre forma, e che fonda il suo progetto educativo sulla consapevolezza della propria evoluzione, sul dialogo tra memoria e innovazione, tra esperienza e visione, tra identità e futuro.

Il docente come soggetto riflessivo

Il primo passo verso una scuola che apprende è la riflessione del docente sul proprio operato, intesa come una forma profonda di consapevolezza, responsabilità pedagogica e apertura etica. Riflettere significa osservare con lucidità e coraggio il proprio modo di insegnare, interrogarsi sulle scelte metodologiche adottate, sugli esiti educativi raggiunti, sulle dinamiche relazionali attivate in aula, sulle emozioni che si muovono silenziosamente tra i banchi e sulle attese disattese che rivelano fragilità e bisogni inespressi. Non si tratta di un atto episodico, né di un’abitudine tecnica, ma di una pratica sistematica, un’attitudine mentale e umana che richiede tempo, sospensione del giudizio, silenzio interiore, disponibilità all’ascolto e radicale onestà intellettuale. La riflessione autentica si nutre del dubbio, accetta l’incompiutezza, riconosce gli errori come opportunità di apprendimento trasformativo, superando la logica della performance per abbracciare quella della crescita. È nella riflessione che si annidano le domande più profonde sull’efficacia dell’insegnamento, sul senso della relazione educativa, sulla legittimità delle aspettative, sul valore della conoscenza condivisa e sulla capacità di generare ambienti di apprendimento equi e significativi. L’insegnante che riflette abbandona la posizione di chi sa tutto e si apre alla possibilità di apprendere insieme ai suoi alunni, accogliendone lo sguardo, le domande, le resistenze, e costruendo una pedagogia dell’incontro, in cui la mente e il cuore trovano spazio per coesistere e cooperare, generando un sapere che è sempre anche relazione, apertura e trasformazione reciproca.

La dimensione della ricerca come fondamento professionale

Accanto alla riflessione si colloca l’esigenza della ricerca, intesa non in senso accademico e distaccato, ma come ricerca-azione che si innesta profondamente nella pratica quotidiana e si alimenta di osservazione, sperimentazione e trasformazione. Il docente ricercatore non è un teorico isolato, ma un professionista immerso nel contesto reale della classe, dove ogni gesto didattico diventa oggetto di indagine e possibilità di rinnovamento. La sua postura è quella di chi si interroga costantemente, non si accontenta delle routine e si confronta con l’imprevedibilità dell’insegnamento come terreno vivo di scoperta. Egli sperimenta, documenta, analizza, rielabora, con l’umiltà di chi sa che ogni risposta apre nuove domande e che ogni soluzione è sempre provvisoria, radicata nel qui e ora dell’esperienza educativa. La didattica si fa così terreno di esplorazione e cambiamento, nella consapevolezza che ogni aula rappresenta un microcosmo irripetibile, con dinamiche, storie, potenzialità uniche, e che ogni proposta pedagogica richiede attenzione, flessibilità, responsabilità. Le strategie didattiche non si applicano meccanicamente, ma si adattano, si modellano, si trasformano in risposta ai bisogni mutevoli degli studenti, spesso in modo imprevedibile e creativo, attraversando talvolta la fragilità, l’errore, il tentativo non riuscito. Il docente che fa ricerca si muove tra teorie e contesti reali, tra ipotesi e riscontri, tra intuizioni e verifiche sul campo, e nel farlo rinnova costantemente il proprio ruolo, riscoprendosi protagonista attivo del cambiamento educativo e custode di un sapere in continua evoluzione. In tal senso, la ricerca-azione non è una tecnica, ma una forma di pensiero educativo, una pratica riflessiva incarnata che pone l’insegnante al centro di un processo generativo capace di produrre trasformazioni significative non solo nella scuola, ma nella società tutta.

Il rischio dell’autoreferenzialità

Nel percorso verso una scuola che apprende si annida tuttavia una possibile deriva, spesso sottovalutata ma estremamente pericolosa: l’autoreferenzialità del docente. Questa si manifesta quando l’insegnante smette di interrogarsi realmente, trasformando la riflessione in un esercizio autoreferenziale e compiaciuto, che più che aprire varchi di consapevolezza tende a rafforzare certezze già consolidate. La ricerca, in tale prospettiva, si riduce a un formalismo sterile, uno schema vuoto da ripetere più per dovere che per reale spinta trasformativa. In questo modo, il rischio è quello di perdere completamente il contatto con la realtà viva e mutevole della classe. Parlare di didattica senza ascoltare davvero gli studenti, narrare la propria esperienza senza confrontarsi con quella altrui, costruire percorsi chiusi che non si aprono al dubbio, alla revisione, alla contaminazione, tutto questo conduce a una stagnazione travestita da innovazione. L’autoreferenzialità produce l’illusione di un cambiamento, quando in realtà genera autocelebrazione e irrigidimento. Una scuola autoreferenziale smette di apprendere, si ripiega su se stessa, si chiude nel proprio linguaggio tecnico, e si cristallizza in pratiche che sembrano nuove solo perché cambiano la forma ma non la sostanza. Solo un costante confronto tra pari, l’ascolto critico, il dialogo autentico tra teoria e prassi, e l’umiltà epistemologica possono contrastare questa deriva e mantenere viva l’autenticità dell’agire educativo, restituendo alla scuola la sua capacità generativa e trasformativa.

Narrazione e memoria pedagogica

Ogni insegnamento ha in sé un valore narrativo, perché l’educazione non è mai un atto neutro, ma sempre una storia che si scrive insieme, giorno dopo giorno, tra chi guida e chi si lascia guidare, tra chi ascolta e chi si racconta. L’insegnante non è solo colui che spiega, ma colui che racconta, che dà voce al sapere, lo incarna, lo fa vibrare attraverso le storie, gli esempi, le immagini che parlano al cuore prima che alla mente. Egli costruisce ponti tra il sapere e l’esperienza vissuta, trasforma concetti in vissuti, teoria in tracce di vita concreta, e rende visibile ciò che spesso resta invisibile: i desideri, le paure, le intuizioni dei suoi studenti. Racconta la conoscenza, le esperienze, i fallimenti, i successi, i percorsi che si sono snodati tra i banchi e nelle relazioni, narrando anche ciò che non può essere misurato: le emozioni, i silenzi, le trasformazioni interiori, i momenti di svolta. Narrare significa tessere legami tra passato e presente, tra emozione e cognizione, tra singolarità e collettività, ma anche tra ciò che accade in aula e ciò che avviene nel mondo, restituendo all’apprendimento la sua dimensione umana e situata. La narrazione pedagogica è uno strumento potente di consapevolezza, condivisione e rigenerazione, che permette alla scuola di autoriflettersi, di custodire la propria memoria e di orientare il proprio futuro. Attraverso la scrittura, il racconto orale, la documentazione narrativa, il docente costruisce una memoria viva della scuola, una sorta di diario collettivo che valorizza il senso di appartenenza, custodisce le tracce dell’apprendimento e genera cultura. Narrare non è solo raccontare ciò che si è fatto, ma interpretarlo, dargli senso, renderlo patrimonio comune, trasformarlo in parola condivisa e fertile. La narrazione permette anche di rendere visibile il pensiero educativo, di restituire dignità ai processi e non solo ai prodotti, di trasmettere il significato profondo dell’atto di insegnare come gesto umano, intellettuale ed etico, ma anche poetico, visionario e capace di generare nuove possibilità di esistenza.

Una professione che evolve con la scuola

In una scuola che apprende, il docente non può più essere pensato come un esecutore solitario, vincolato a curriculi rigidi e a un sapere trasmesso in modo unidirezionale. La sua figura si arricchisce di sfumature, responsabilità e consapevolezze, divenendo mediatore di significati, custode di visioni, costruttore di ambienti di apprendimento inclusivi e promotore di comunità educanti. È un ponte tra il sapere e la crescita umana, tra l’innovazione e la tradizione, tra l’individuo e la comunità, tra ciò che è stato e ciò che ancora può essere, con la capacità di tessere connessioni tra discipline, esperienze, storie personali e orizzonti collettivi. In tale prospettiva, la professionalità docente non si limita all’applicazione di metodologie collaudate o all’osservanza delle normative, ma si espande in una continua attività di ricerca, riflessione, documentazione e narrazione condivisa, dove teoria e pratica si intrecciano in modo fecondo e dialogico. L’identità professionale non si cristallizza in un titolo, in una funzione o in una carriera prestabilita, ma si costruisce nel tempo, giorno dopo giorno, nella relazione viva con colleghi, studenti, famiglie e territorio, attraverso la sperimentazione continua, l’ascolto autentico e una costante ridefinizione del proprio ruolo alla luce dei bisogni educativi emergenti, delle trasformazioni sociali e culturali in atto e delle nuove sfide che la contemporaneità pone alla scuola pubblica. Il docente della scuola che apprende è dunque un soggetto in divenire, un agente di cambiamento che educa mentre si educa, e che costruisce la propria autorevolezza non su una posizione acquisita, ma su un’etica della responsabilità, della cura e del servizio.

Conclusione

La scuola che apprende è un organismo dinamico, fragile nella sua esposizione al cambiamento ma potente nella capacità di rigenerarsi attraverso la consapevolezza e l’azione educativa. È un luogo dove il sapere non è mai statico, ma in continuo divenire, alimentato dall’incontro tra pensiero critico, esperienza vissuta e progettualità condivisa. In questa prospettiva, ogni errore si trasforma in una preziosa occasione di crescita, ogni dubbio in una spinta verso la ricerca, ogni relazione educativa in uno spazio generativo di senso. L’insegnamento non è solo trasmissione, ma diventa atto creativo, responsabile, profondamente umano. Riflettere, ricercare e narrare non sono gesti accessori né atti secondari, ma costituiscono la linfa vitale di una professionalità docente capace di rinnovarsi e di rinnovare la scuola. Contro le derive dell’autoreferenzialità, contro il rischio di una scuola chiusa, autoreplicante e disconnessa dal reale, la vera sfida è quella di restare aperti. Aperta alla vita, alla complessità, agli altri e al futuro. Perché si apprende davvero solo là dove qualcuno ha il coraggio di pensare insieme, di mettersi in discussione, di restare vulnerabile e nello stesso tempo creativo, in un cammino educativo che non ha mai fine.