
Helga Schneider, la figlia negata
di Antonio Stanca
Un’altra edizione, ancora presso Adelphi, è comparsa di Lasciami andare, madre, romanzo della scrittrice tedesca, naturalizzata italiana, Helga Schneider. Vive in Italia, a Bologna, dal 1963, da quando aveva ventisei anni e in italiano ha scritto tutte le sue opere comprese quelle dell’esordio intorno agli anni ’90. La prima edizione di Lasciami andare, madre risale al 2001 e pure allora era stata curata da Adelphi.
La Schneider è nata in Germania, a Steinberg, nel 1937. Ha ottantotto anni e molte opere, soprattutto romanzi, ha scritto, molte traduzioni ha avuto, molti riconoscimenti ha ottenuto. Un caso singolare, unico, si potrebbe dire della sua vita, di quella precedente al trasferimento in Italia, giacché fin da bambina è stata in posti diversi, in nazioni diverse dell’Europa centrale, specie durante gli anni della seconda guerra mondiale. In verità non è stata solo lei la vittima di una situazione così precaria, così insicura, così pericolosa, ma anche il fratello Peter, più piccolo di pochi anni. Da quando Helga aveva quattro anni e Peter diciannove mesi, nel 1941 con il padre Stefan al fronte, in piena guerra, erano stati abbandonati dalla madre nella casa di Berlino perché si era arruolata nelle SS naziste come guardiana di un campo femminile prima di concentramento, poi di sterminio. Nel 1942, dopo che erano passati dalle cure di una zia a quelle dei nonni paterni, i due bambini si troveranno a vivere un difficile rapporto, specialmente Helga mandata prima in una casa di correzione e poi in collegio, con Ursula, la nuova moglie del padre. A molte altre esperienze, in molti altri posti, tra molte altre persone e situazioni, molti altri disagi materiali e morali, si vedranno esposti. Cresceranno senza essere sicuri di niente, né del cibo né dell’affetto necessario. Si faranno grandi a furia di continui spostamenti, di improvvisi cambiamenti e mentre la guerra divampa con una crudeltà, una ferocia senza precedenti. Nel 1944 succederà che la sorella della matrigna Ursula, Hilde, collaboratrice diretta di un alto funzionario del Reich, Joseph Goebbels, s’interessi di Helga e Peter, li faccia rientrare a Berlino e vivere, fino alla fine della guerra, in una cantina al riparo dai bombardamenti degli alleati ma non completamente liberi dai problemi della fame e del freddo. Sarà in quel periodo che Hilde li farà inserire tra “i piccoli ospiti del Führer” e insieme ad altri bambini li farà entrare nel bunker di Hitler. Lo visiteranno e incontreranno il Führer in persona, ormai piuttosto malandato. Si sta preparando alla fine, quella che già è stata scelta e attuata da Goebbels, mentre Berlino è un unico, immenso rogo.
Finita la guerra la famiglia, ormai ricomposta, rimarrà a Berlino qualche altro anno finché nel 1948 non rientrerà a Vienna accolta dai nonni paterni. Helga e Peter hanno adesso lei undici e lui quasi nove anni. Erano cresciuti, erano andati avanti nei luoghi dove più acceso era stato il conflitto, più vicino, più minaccioso il pericolo, più difficile evitarlo. Si faranno grandi senza che possano liberarsi di quei ricordi, neanche quando, come farà Helga, decideranno di stabilirsi altrove, di cambiare nazionalità. Nel 1963 lei sceglierà di stare, di vivere in Italia, a Bologna, dove a poco più di cinquant’anni esordirà in una narrativa che continuerà fino ad oggi e che si alimenterà sempre delle sue tristi esperienze. Così sarà anche in Lasciami andare, madre dove ritorna su quanto accaduto nel 1998, quando si era recata a Vienna, con la cugina Eva, per far visita a quella madre che l’aveva abbandonata insieme al fratellino. Già prima, nel 1971, quando aveva saputo che era ancora viva, che aveva scontato i sei anni di carcere ai quali era stata condannata dal Tribunale di Norimberga perché criminale di guerra e che viveva a Vienna, era andata a trovarla e delusa era rimasta per aver scoperto che non aveva rinunciato a quelle aspirazioni, quelle convinzioni proprie della Germania nazista, quelle che l’avevano fatta arruolare nelle SS e svolgere il suo lavoro nei campi femminili di Ravensbrück e di Auschwitz-Birkenau. Era stata rigorosa, quasi crudele e, quel che era stato più grave, aveva abbandonato i piccoli figli per un simile impegno. Nonostante tutto Helga vi sarebbe tornata nel 1998 e ne avrebbe scritto un romanzo anche perché stavolta quella madre non sarebbe stata così intransigente come prima, si sarebbe mostrata, pur tra sopraggiunti problemi di memoria, di ricostruzione, di ordine cronologico, più disposta, più vicina alle richieste, alle domande, ai bisogni della figlia. La capirà di più quando l’accuserà del danno provocato alla propria famiglia, quando la porterà a confessare gli orrori del nazismo, l’assurda convinzione della “soluzione finale”, dello sterminio degli ebrei, quando la farà parlare dell’uso spietato delle camere a gas, dei forni crematori.
Rimarrà sempre inflessibile, rigida nelle sue posizioni ma si mostrerà capace di capire quanto male aveva subito l’umanità solo perché si affermassero, si diffondessero, valessero ideali assurdi, progetti impossibili.
L’intero libro sarà un dialogo interminabile tra madre e figlia, sembrerà non voler mai finire soprattutto per volontà di quella madre che così cattiva era stata. Si era riusciti a migliorare se non le tragiche vicende almeno il loro giudizio, si erano ripercorsi, tramite la storia dei due bambini, i più gravi momenti della guerra, ci si era arresi ma non si era rimasti vittima dell’accaduto, si era giunti a dubitarne, a metterlo in discussione. A tanto aveva portato quella bambina, quella Helga abbandonata tra infiniti pericoli da una madre fanatica. Quella madre era riuscita a smuovere quella bambina, l’aveva portata a chiedere comprensione, aiuto, a non voler finire di parlare con la figlia.
È stato tanto il successo di questo romanzo che nel 2004 Lina Wertmüller ne ha tratto un’opera teatrale e nel 2017 Polly Steele ha fatto un film circa la figura, l’opera, la vita della Schneider.
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