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J. Nesbø, Sole di mezzanotte

Jo Nesbø, l’amore che vince

di Antonio Stanca

    Presso Mondadori Libri, su licenza Einaudi, è comparsa una nuova edizione di Sole di mezzanotte, un thriller dello scrittore norvegese Jo Nesbø. La traduzione è di Eva Kampmann. L’opera risale al 2015 quando Nesbø aveva cinquantacinque anni. Nato a Oslo nel 1960, era cresciuto a Molde dove aveva fatto parte della squadra di calcio Under-19. È stato giornalista, ha lavorato in borsa, per la televisione, per il cinema dove ha collaborato per la trasposizione di alcuni suoi romanzi. Anche come musicista, compositore e cantante si applica nella band Di Derre. L’esordio in narrativa è avvenuto nel 1997 col romanzo giallo Il pipistrello. Era stato un successo immediato, era risultato il miglior romanzo norvegese di quell’anno. Ne era seguita la serie di romanzi gialli, poi quella dei thriller, dei romanzi per ragazzi, dei racconti, dei saggi. Molti premi gli sarebbero stati riconosciuti. A sessantaquattro anni Nesbø è un personaggio noto nell’ambito letterario, musicale, televisivo, cinematografico non solo del suo paese. In molti sensi ha mostrato di volersi applicare fin dall’inizio e ci è riuscito. Ha avuto successo, molto seguito, molto apprezzato è stato giacché l’impegno che si è assunto, le aspirazioni che persegue mirano a risolvere i problemi, le complicazioni che la modernità ha comportato nei rapporti individuali e sociali, nella vita di ogni giorno, negli ambienti di sempre. In crisi si è arrivati a stare in casa e fuori, vittime si è diventati di un sistema che ha annullato ogni riferimento, ogni principio utile a star bene con sé stessi e con gli altri, ha cancellato quei valori interiori, spirituali che aiutavano a superare un problema, una sconfitta. Si è entrati a far parte di un meccanismo mosso da regole proprie, ignaro di qualunque altra, si è giunti alla vita, alla società moderna, a quella che avrebbe dovuto assicurare una condizione migliore rispetto al passato, più sicura, più riuscita, e che, invece, si è rivelata una sconfitta nella quale non s’intravede possibilità di salvezza. 

   Il Nesbø scrittore insiste nella narrazione di una vita che ha perso il bene, l’amore, l’equilibrio ed ha accettato di guastarsi, rovinarsi. Anche in Sole di mezzanotte si dice di una brutta vicenda, di un uomo, Ulf Hansen, che, inseguito dai sicari di un pericoloso killer, il Pescatore, è in fuga da molto tempo e attraverso molti luoghi. Spacciava per conto del killer ma a causa di una grave incombenza, la malattia e poi la morte della sorella, aveva usato il denaro ricavato, non lo aveva corrisposto al capo e questi gli dava la caccia per avere i soldi ed eliminare il colpevole. Ora era giunto a Kåsund, estremo nord della Norvegia e della Terra, dove alto è “il sole di mezzanotte” e gelata l’aria. Aveva trovato rifugio in un capanno di caccia ma non aveva smesso di aver paura, di entrare in allarme ad ogni minimo rumore, di sospettare della circostanza più futile. Verrà, tuttavia, a contatto con la gente del posto, entrerà a far parte di quell’ambiente, intratterrà i suoi rapporti ma non gli riuscirà di superare l’agitazione che lo perseguita. Era spaventato, sapeva che nessun ostacolo poteva esserci per il Pescatore, che ovunque sarebbe stato capace di scovarlo e vendicarsi. Una situazione surreale gli sembra di vivere. Accentuata da un linguaggio scarno, quasi appuntato. Di pericolo, di morte sembra che tutto parli e così sarebbe successo se non ci fosse stata una donna, Lea, che di Ulf si era innamorata, che da lui era stata aiutata e che lo avrebbe fatto sfuggire all’agguato del Pescatore. Aveva voluto ripagare l’uomo del bene ricevuto, mostrare aveva voluto che Ulf poteva fare del bene, che era ingiustamente perseguitato. Insieme al bambino di lei, avuto in precedenza da un matrimonio finito male, fuggiranno lontano da quel posto, vivranno la vita che sempre avevano desiderato, mostreranno come sia possibile star bene, amarsi pur quando tutt’intorno è male.

   Un modo vuol essere quello dello scrittore che si aggiunge ai tanti altri dei suoi libri e che finiscono col formare una concezione, una convinzione, col provare che l’amore è possibile anche quando non lo sembra. Un romanzo d’amore? Anche, viste le tante volte che di amore si dice, si discute, vista la tanta fede religiosa che percorre l’opera e che non accetta di venire a patti con il male, di perdonarlo. Un thriller dove sempre possibile rimane la speranza!

Avventure in Terza Elementare

Avventure in Terza Elementare

di Bruno Lorenzo Castrovinci

All’interno di un istituto dalle pareti color pastello, nel cuore vibrante di una piccola città, la classe terza elementare era un microcosmo di entusiasmo e fantasia. Al timone di questo piccolo mondo c’era Marie, la maestra di Scienze, la cui bellezza non era solo nel suo aspetto solare, con i capelli castani fluenti e gli occhi luminosi, ma brillava anche nel suo amore per l’insegnamento, che trasmetteva ai suoi alunni con ogni lezione.

Accanto a lei, a contrastare il suo calore, stava la maestra Cannolo, una figura alta e slanciata, la cui presenza imponeva un silenzioso rispetto. I bambini, con la loro innocente crudeltà, avevano trovato nel suo soprannome un gioco, ma dietro quella facciata di rigore si celava un cuore pulsante di passione per l’educazione e una tenera dolcezza.

I banchi della classe erano animati da bambini che erano ognuno un universo a sé: c’era Tommy, il piccolo furfante dal sorriso malizioso, Mafalda, la cui serietà nello studio era pari solo alla sua generosità, Maria, che trovava rifugio nell’ombra del suo banco, una timidezza che nascondeva una mente arguta, e Giuseppe, il cui caos era fonte di gioia e qualche disastro divertente.

Marie, nel suo ruolo di guida e musa, li portava a esplorare i segreti del mondo naturale, conducendoli in escursioni tra i prati verdi che circondavano la scuola, dove i piccoli potevano toccare, sentire e vivere la scienza. Ma nelle giornate in cui il vento di avventura soffiava meno forte e Cannolo prendeva il timone, la classe si trasformava in un teatro dell’immaginazione. Con la sua voce, trasportava i bambini in terre lontane, dove le storie erano semi che germogliavano in mente.

La vicepreside, signora Ducati, il cui approccio era tanto diretto quanto il rombo di un motore di una macchina da corsa, aveva introdotto nella scuola un vento di modernità, con tecnologie avveniristiche seminate dal precedente preside e coltivate con cura dal nuovo preside Gatto, il saggio gigante.

La magia della conoscenza si materializzava attraverso una lavagna interattiva, che diventava finestra su mondi sconosciuti, e piccoli terrari, dove le lumache erano diventate simboli di un apprendimento lento ma costante.

E fu in una giornata tinteggiata di ordinaria magia che Marie, ricevendo la visita di una fata madrina, vide la sua classe trasformarsi in un teatro dell’incanto. Con un tocco di polvere stellare, la lezione di scienze divenne un’esperienza viva, un’avventura tra i segreti del mondo naturale che si svelavano davanti agli occhi meravigliati dei bambini.

Cannolo, testimone di quella gioia pura, trovò la chiave per aprirsi a un nuovo modo di insegnare. E con l’aiuto di Lory, l’amica viaggiatrice, impreziosì le sue lezioni con racconti di terre lontane, trasformando le ore in classe in un viaggio senza confini.

Così, con la sinfonia delle risate, la classe terza diventò il cuore pulsante della scuola, un luogo dove ogni giorno si apprendeva che l’educazione era più di semplici lezioni; era un’avventura da vivere con tutto il cuore, una storia da scrivere insieme. La lezione più grande, che Tommy, Mafalda, Maria e Giuseppe portarono con sé, era che ognuno, con il proprio modo unico e speciale, aveva qualcosa di incredibile da offrire al mondo. E così, tra lezioni al parco, esperimenti magici e viaggi immaginari, il mondo incantato della classe terza dimostrò che l’apprendimento poteva essere la più grande avventura di tutte.

M. Murgia, Chirù

Michela Murgia, un vento nuovo

di Antonio Stanca

   Una nuova edizione ha avuto di recente presso Mondadori Libri, su licenza Einaudi, Chirú, un romanzo di Michela Murgia che risale al 2015 quando era diventata nota con Accabadora e con i riconoscimenti che le aveva procurato. Di formazione cattolica la Murgia era agli inizi di un’attività che non sarebbe stata solo narrativa.

   Nata a Cabras nel 1972, sarebbe morta a Roma nel 2023 quando aveva cinquantuno anni. Non è vissuta molto ma molto ha fatto. Ha cominciato con lo studio di Scienze Religiose presso la Diocesi di Oristano, ha insegnato religione per alcuni anni, ha fatto la guida turistica, l’impiegata in aziende, si è applicata senza perdere di vista quanto avveniva o si profilava nella realtà del momento. Non è mai rimasta lontana dai problemi del suo tempo. Ne ha fatto motivo di narrativa, di teatro, è stata saggista, giornalista, ha condotto trasmissioni televisive, radiofoniche finalizzate, tra l’altro, a fornire aggiornamenti, indicazioni, consigli di lettura riguardo al panorama culturale, letterario, artistico contemporaneo. L’hanno vista altre manifestazioni pubbliche, è stata la prima donna a tenere nel 2020, alla Scala di Milano, il discorso inaugurale. Avvenne a porte chiuse per il Covid.  Una presenza attiva la sua, chiara, lucida negli interventi, orali o scritti, circa i tanti problemi che la modernità ha accumulato. Un’attivista può essere definita la Murgia: il suo spirito di partecipazione, la sua passione sono quelli che nelle sue opere, romanzi, teatro, vanno alla ricerca della regola, della misura, dell’equilibrio pur in vicende complicate. Sembra che interpreti quell’antico bisogno di giustizia, di riscatto proprio della sua Sardegna. Non a caso si era messa in politica per l’Indipendenza dell’isola. È un animo accesso e così nelle opere. Spesso sono storie d’amore molto sofferte per le quali la scrittrice cerca una via d’uscita. Anche in Chirú succede così: un giovane, che studia al Conservatorio, si rivolge a Eleonora, maestra di musica e attrice di teatro impegnata a rappresentare il suo repertorio in Italia e all’estero, affinché lo aiuti ad acquisire una solida preparazione musicale. Eleonora accetta e tra i due avviene un fenomeno di attrazione al quale nemmeno lei riesce a sfuggire. Anche se non si vedono si pensano in continuazione finché Eleonora non incontra Martin, un ricco svedese proprietario di un teatro e organizzatore di spettacoli. Anche l’uomo è attirato dalla sua bellezza e la donna pensa sia giunto il momento di staccarsi da Chirú. Lo farà nonostante il travaglio e il dolore che si rende conto di procurare al ragazzo e a sé stessa. Soffriranno entrambi ma è più giusto così.

   Abile sarà la scrittrice a procedere con sicurezza, chiarezza nello svolgimento e nella soluzione di un rapporto diventato così difficile. Niente le sfuggirà di quanto avvenuto in breve tempo tra il ragazzo e la donna. Non ci sarà particolare che rimanga privo di evidenza, che non si aggiunga al già detto. Ricca di qualità è la Murgia e non rinuncia a mostrarle nei contenuti e nella forma. A muoverla, sostenerla sono le ragioni dello spirito, le considera superiori a tutte, le persegue, le rappresenta, ne scrive convinta che valgano ovunque e per sempre. La sua prima formazione cattolica è servita ad orientarla in questo senso ma poi sono venute le sue convinzioni, si sono formati i suoi principi, quelli che volevano essere regole per la vita, per l’umanità, per la storia. Una delle ultime grandi umaniste può essere considerata Michela Murgia, della sua religione da bambina ha fatto un messaggio aperto a tutte le forme della sua attività fossero di scrittrice o di drammaturga, di giornalista o di saggista. In molti sensi si è impegnata perché il suo era un vento nuovo e ovunque pensava che dovesse farlo giungere!

F. Lusito, Un marxista galileiano

La scienza per gli uomini e la loro libertà/liber-azione: le idee e le prassi di Lucio Lombardo Radice, matematico, pedagogista e comunista

di Carlo De Nitti

Nell’ormai remoto 1959, il fisico inglese Charles Percy Snow (1905 – 1980) un saggio che fece scalpore sulle “due culture”, che fu immediatamente tradotto in italiano dalla casa editrice Giangiacomo Feltrinelli, prefato da Ludovico Geymonat (1908 – 1991) con Le due culture. L’autore lamentava una forma di cesura e di incomunicabilità tra la cultura umanistica e la cultura scientifica che solo in misura parziale si può dire superata.

Postulare il superamento di quella cesura ed agire affinché essa cadesse è stato uno degli obiettivi prioritari dell’esperienza scientifica, culturale, politica e sociale di Lucio Lombardo Radice (d’ora in avanti LLR). Riflettere oggi sul suo pensiero – di matematico e di pedagogista insieme, di militante e dirigente politico, di storico della scienza e di divulgatore della medesima – ad oltre quaranta anni dal suo prematuro decesso significa connettere in un unico orizzonte la scienza, la società, la politica e la soggettività umana, che, nel pensiero di LLR, furono sempre interconnesse in un unicum originale.

La corposa e documentata monografia del giovane studioso Fabio Lusito, Un marxista galileiano. Scienza e società in Lucio Lombardo Radice che ha recentemente visto la luce a Milano per i tipi di Meltemi, colma un vuoto: la conoscenza del pensiero e dell’azione politico-culturale di un grande uomo di scienza e di politica, capace di vivere contestualmente al servizio della polis e della sua trasformazione. La definizione di LLR come “marxista galileiano”, che dà il titolo al volume, è mutuata da un altro grande intellettuale e pedagogista comunista Mario Alighiero Manacorda (1914 – 2013). Galilei scienziato, filosofo, uomo di cultura del suo tempo, che lotta contro l’oscurantismo è certamente molto vicino alla figura di LLR, come il testo mostra ampiamente.

L’interessante volume di Fabio Lusito, prefato da Francesco Paolo de Ceglia (Il matematico come intellettuale, pp. 7 – 10), si articola in un’Introduzione, sette capitoli che scandiscono i tratti salienti della vita e dell’impegno di LLR – Nel nome del padre, La più potente ‘carica’ innovatrice del pensiero, L’unità della cultura tra marxismo e scienza, La rivoluzione dal basso: diffondere il sapere scientifico, La neutralità della scienza, Gli ultimi anni tra dissenso e impegno militante –  ed una Conclusione.

LLR era figlio ed, in un certo senso, erede spirituale del pedagogista Giuseppe Lombardo Radice (1879 – 1938), amico e corregionale del filosofo neoidealista Giovanni Gentile (1875 – 1944) e suo sodale nell’architettura della riforma scolastica che da lui prese nome, sebbene dal fascismo si tenne discosto (ma non al punto da non prestare il giuramento che il regime pretese da tutti i docenti universitari nel 1931): non a caso, in terra di Puglia, fu amico ed estimatore del pedagogista bitontino Giovanni Modugno (1880 – 1957), cattolico,  rigorosamente e coerentemente antifascista.

LLR militò, da comunista, nell’antifascismo romano e nella Resistenza: fu arrestato e patì il carcere. Il coniugare l’impegno politico e civile con quello culturale e scientifico è stata la cifra precisa della sua personalità. “Ricongiungere uomo e storia, cultura e scienza non aveva soltanto un valore simbolico da assumere astrattamente, ma un peso materiale. Ricalibrare la cultura italiana su una misura inedita in cui scienza e umanismo potessero avanzare le stesse pretese di legittimità non si esauriva in un esercizio vuoto e dilettevole. Dire che fosse possibile cercare nuovi margini interpretativi erano i bisogni di una nazione lacerata dal conflitto mondiale: per sensibilità culturale Lombardo Radice, come tanti altri intellettuali della seconda metà del Novecento, puntò i riflettori sul problema dell’unità della cultura” (p. 119).

L’unità tra storia e sapere scientifico si realizza al meglio, nella prospettiva di LLR, nello studio della storia della scienza – non va dimenticato, a tal proposito, che egli era stato allievo di Federigo Enriques (1871 – 1946) – e nella sua divulgazione ai livelli più alti. In questo senso, decisiva é anche la figura di Galileo Galilei, scienziato rivoluzionario: a lui si avvicina, da marxista aperto. “Convinto sostenitore dell’unità tra le culture, desiderò condizionare e rinnovare la cultura italiana del suo tempo: Nella storia della scienza LLR aveva intravisto il punto di congiunzione in cui far convergere umanismo e scientificità. L’impegno per rendere la cultura scientifica condiviso si manifestò, perciò, con ogni mezzo” (p. 198).  

La divulgazione del sapere scientifico di cui LLR si fa convinto antesignano non può che essere una forma di rivoluzione “dal basso”, a cominciare, quindi, dai bambini e da chi anche in età adulta non aveva gli strumenti culturali necessari per accedervi, i lavoratori: essa si configura come la forma la più importante di educazione. Egli si fece educatore scientifico a tutto tondo sui giornali a cominciare da l’Unità, il giornale ufficiale del suo partito, diretto all’epoca da Pietro Ingrao (1915 – 2015) un altro grande eretico, peraltro cognato di LLR, avendone sposato la sorella maggiore Laura Lombardo Radice (1913 – 2003) – ma anche, negli anni ’70, sulla televisione di Stato in Italia e non soltanto.

La meditata lettura del suo volume L’educazione della mente (la cui prima edizione risale al lontano 1962), un vero e proprio classico della pedagogia laica del ‘900, ha costituito per chi scrive queste righe un momento importante della propria formazione tanto civico-politica quanto filosofico-pedagogica. In quel testo, LLR sosteneva la necessità dell’educare i bambini all’uso della ragione, senza indottrinamenti, in modo libero ed aperto, polemizzando con gli allora programmi della scuola elementare del 1955, i cosiddetti Programmi Ermini, dal nome dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione, Giuseppe Ermini (1900 – 1981) che vaticinavano un bambino “tutto fantasia e sentimento”.

L’impegno divulgativo di LLR culminò con la direzione / coordinamento di un’enciclopedia di alta divulgazione negli anni 1976/80: Ulisse, non a caso pubblicata dagli Editori Riuniti, la casa editrice ufficiale del Partito Comunista Italiano. L’enciclopedia, un termine che riecheggia il pensiero illuminista, era composta da ben undici volumi (cfr. p. 227). Chi scrive queste righe ritiene di aver avuto la fortuna di entrarne in possesso nella domus avita. “Nonostante le diverse enciclopedie presenti all’orizzonte; Ulisse di Lombardo Radice risultò innovativa per due motivi: era Innanzitutto il primo lavoro sulla scienza per l’infanzia di matrice completamente nostrana, e in più non era pensata in stretta connessione con il mondo della scuola – seppure ne poteva essere ovvio complemento […] Ulisse poteva essere ritenuta un gioiello editoriale per via dei contenuti grafici: La scienza era mostrata e illustrata, e questo arrecava un valore propedeutico alla comprensione; ma questa, di per sé, non rappresentava una specificità, quanto l’insinuarsi in una precisa tradizione che le enciclopedie precedenti avevano già percorso” (pp. 225 – 226). 

Leggendo questo interessante volume, chi scrive non può, ripensando alla sua autobiografia intellettuale, non sentire la consonanza, l’idem sentire tra le tematiche del pensiero di LLR e quelle, coeve, di Giuseppe Semerari (1922 – 1996): come non pensare, in particolare, al suo volume La lotta per la scienza (1965), confluito poi in Civiltà dei mezzi civiltà dei fini. Per un razionalismo politico-filosofico (1979), ed a quello da lui promosso e curato, guidando un folto gruppo di giovani ricercatori, La scienza come problema. Dai modelli teorici alla produzione di tecnologie: una ricerca interdisciplinare (1980)?

Ed ancora: come non pensare LLR, eretico per definizione, in quanto comunista italiano, “marxista aperto” (cfr. p. 115), amico di Robert Havemann (1910 – 1982), scienziato della DDR, e di Andreij Sacharov (1921 – 1989), premio Nobel per la pace nel 1975, inventore della bomba all’idrogeno sovietica e simbolo dei dissidenti in epoca brezneviana, molto vicino al ‘marxismo aperto’ ed antidogmatico di Giuseppe Semerari? Vale la pena di sottolineare che il suo Filosofia e potere – che ha compiuto cinquanta anni ma sempre attualissimo, a modesto parere di chi scrive – è nella ricca bibliografia che accompagna il volume (p. 379) di Fabio Lusito.

Un volume indispensabile che colma un vuoto, da leggere e meditare in un‘ottica contestualmente storiografica e teoretica: le istanze di valorizzazione dello studio della scienza sono ancora oggi attuali: basti pensare, nel mondo della scuola alle cosiddette STEM.  

 

C. Keegan, Un’estate

Claire Keegan, la bambina dei problemi

 di Antonio Stanca

   Da poco è comparsa, presso Einaudi nella serie “Stile Libero Big”, l’edizione italiana di Un’estate, romanzo breve della scrittrice irlandese Claire Keegan. La traduzione è di Monica Pareschi.

   La Keegan è nata nel 1968 nella Contea di Wicklow, ha studiato all’Università di New Orleans, del Galles e al Trinity College. Insegna scrittura creativa e nel 1999, a trentuno anni, ha esordito nella narrativa con la raccolta di racconti Dove l’acqua è più profonda, alla quale è stato assegnato il Premio Rooney. Una seconda raccolta, Nei campi azzurri, è venuta nel 2007. Un’estate nel 2010 è stato il primo romanzo breve. Ha avuto una riduzione cinematografica, A quiet girl. Anche per il secondo romanzo breve, Piccole cose da nulla, del 2021 c’è stato un riconoscimento al Booker Prize. Da quando è comparsa sempre apprezzata, sempre premiata è stata la Keegan, un personaggio di rilievo è diventato nel contesto della letteratura irlandese. La narrativa breve è il genere col quale si è fatta conoscere fin dall’inizio. Un’estate ha confermato le sue qualità in questo senso. Il “Times” l’ha considerata una delle migliori opere della letteratura contemporanea. In verità particolarmente interessante è l’effetto che la sua lettura suscita dal momento che in uno spazio abbastanza ridotto e con un linguaggio quanto mai semplice e chiaro riesce a costruire una vicenda che, pur se di ambiente quotidiano, è carica di situazioni che ne estendono la portata, che vi fanno rientrare tanti aspetti, tanti problemi dell’attuale condizione umana e sociale. A tante cose allude il piccolo romanzo, a tante cose fa pensare, carico di significati diventa nel suo procedere. Di tutto vuol dire la scrittrice mentre si muove nella vita quotidiana, tra persone comuni.

   Nell’Irlanda della lontana contea di Wexford in tempi piuttosto recenti una bambina viene affidata dal padre ad una famiglia di amici, i Kinsella, perché vi rimanga per il tempo richiesto dall’imminente parto della madre. I Kinsella sono vicini, non hanno figli mentre quella della bambina è una famiglia numerosa dove lei è la più piccola. È estate e rimarrà nell’altra casa per il tempo richiesto dalle condizioni della madre che è anche quello delle vacanze estive. Si troverà bene con le nuove persone, si adatterà presto all’ambiente, collaborerà, aiuterà, sarà ben voluta e vorrà bene. S’intratterrà a parlare con i Kinsella, si diranno delle loro cose e ci si soffermerà ogni volta che queste sembreranno diventare strane, ambigue. Così avverrà quando il discorso riguarderà la famiglia della bambina e questa, senza alcuna remora, dirà di quanto soffre la madre perché suo è il carico intero della casa, dell’azienda, degli operai nei campi e dei tanti figli mentre il padre rimane lontano, non se ne cura. Entrambe sono famiglie di piccoli proprietari terrieri, di allevatori e potrebbero godere di un certo benessere ma entrambe sono agitate da problemi, sono esposte a disagi, pericoli, sia all’interno sia all’esterno. Non godono di molta stima e sarà una vicina di casa, un’amica della signora Kinsella, a dire alla bambina che la signora aveva avuto un figlio molto tempo prima e che era morto quando era piccolo perché annegato nel pozzo di casa dove senza alcuna prudenza era stato mandato. Era diventato il tragico segreto di quella famiglia, la sua colpa nascosta, la si sapeva ma non se ne parlava. Neanche la famiglia della bambina era molto stimata a causa della cattiva condotta del padre, dei suoi oscuri interessi. La stessa bambina a volte risultava strana per certi discorsi, certo comportamento. Non si capirà mai che tipo di rapporto stava per nascere tra lei e il signor Kinsella, quali segreti ci fossero tra i capifamiglia e di tanto altro si rimarrà all’oscuro perché solo per accenni, per allusioni ci si riferirà. A molte altre storie, a molta altra vita fa pensare la lettura del libro, alle complicazioni che oggi possono sopraggiungere nelle famiglie, ai segreti, ai misteri che possono diventare e rimanere per sempre. Non limitata alla vicenda di una contea irlandese rimane la narrazione della Keegan ma si estende fino a comprendere gli attuali sistemi, ambienti, modi di vivere, quelli che si sono caricati di problemi in ogni senso, in ogni posto, quelli che tutti, grandi e piccoli, uomini e donne, possono coinvolgere.

S. Guidotti e A. Di Pietro, Un occhio verde e uno blu

UN OCCHIO VERDE E UNO BLU di Sabina Guidotti e Alma Di Pietro
con illustrazioni di Rita Cardelli

UN RACCONTO DI AMICIZIA TRA BIMBI E ANIMALI
CON UN PENSIERO DI FRANCESCO E RAFFAELLA GUCCINI
CONTRIBUTO DI ANTONIO FAETI
PREFAZIONE DI LUCA RAFFAELLI

Minerva Soluzioni Editoriali srl

Giulio ha un occhio verde e uno blu. Vede il mondo soltanto di due colori e pensa di essere l’unico a vederlo così. Lia invece è una cagnolina anziana che ha trascorso tutta la sua vita in canile, in attesa. Vede il mondo un po’ verde e un po’ blu, ma di come vede il mondo Lia a nessuno interessa.

Così Lia decide di chiudere gli occhi. Ma quando un giorno Giulio, guidato dall’istinto la sceglierà, Lia aprirà gli occhi e finalmente si riconosceranno. Le loro lacrime di gioia si trasformeranno in coriandoli colorati e tutti i colori entreranno nella loro vita.

“Un occhio verde e uno blu” narra l’amicizia tra un bambino e una cagnolina da sempre chiusa in canile.
Una cagnolina anziana, di quelle che nessuno adotterebbe mai. Una cagnolina diversa, ma accomunata dalla stessa particolarità del piccolo Giulio, nel vedere il mondo verde e blu.
Ma cosa significa vedere il mondo un po’ verde e un po’ blu? Giulio e Lia, protagonisti del racconto, ce lo insegnano.

E’ infatti un bambino, diverso dagli altri, a spiegare agli adulti la compassione e la pietas, ascoltando coraggiosamente la voce del cuore, ed è la cagnolina Lia ad insegnare agli esseri umani il perdono.

Giulio è un bambino diverso dagli altri, vive in un universo di solitudine per quel dettaglio, generato dall’assioma del verde e del blu, che è il filo conduttore di tutta la fiaba e ne diventerà la chiave di volta. Ma pur potendo vedere due soli colori, Giulio riesce a vedere quello che gli altri non vedono da troppo tempo. Il bambino, infatti, non si pone le domande degli adulti, non si chiede se un cane anziano saprà giocare con lui o per quanto tempo. Il bambino riconosce e sceglie un dono prezioso, tutto l’amore che soltanto un cane che ha conosciuto l’attesa può regalare e che negli anni è rimasto custodito nel suo cuore per quella carezza mai arrivata.

“Nella caotica quotidianità, le emozioni semplici paiono essere perdute; il mondo è pieno di colori, ma gli adulti non sono più in grado di vederli – affermano le autrici del libro – Che cosa accadrebbe se dipingessimo il mondo con questi due colori? Verde, come il colore della natura, dell’erba, dei prati incontaminati. Blu, come il colore del mare e del cielo pulito. Verde, come la speranza per la rinascita. Blu, come il coraggio delle buone azioni. ”

“Le fiabe sono un potente strumento pedagogico – prosegue Sabina Guidotti – perché solo attraverso la fiaba i bambini imparano che i mostri possono essere sconfitti. Colorare le pareti di verde e blu, giocare con il verde e blu, ideare laboratori verdi e blu, per insegnare a tutti che è possibile cambiare, è il nuovo progetto collegato alla fiaba. Così come se n’erano andati via, i colori tornano nella vita, metafora allegorica della felicità e del tutto che si unisce in un unicum all’insegna dei sentimenti belli, puliti, innocenti. Perché se il Male è contagioso, allora anche il Bene può esserlo.”

Un occhio verde e uno blu a livello narratologico, è stata costruita con il gioco delle scatole: apri una scatola e trovi una storia, poi quella storia condurrà verso un’altra scatola e da lì un’altra ancora. Il lettore può anche scegliere di fare il percorso inverso, salendo e scendendo dal ponte dell’arcobaleno che collega tutti gli esseri viventi.
Insieme all’illustratrice Rita Cardelli, Sabina Guidotti e Alma Di Pietro hanno disseminato all’interno della fiaba molti simboli che, uniti ai colori, permettono un’ulteriore chiave di lettura.
Il verde è il colore dell’io, della speranza, dell’equilibrio totale, ma è anche il colore della natura e dell’erba che Lia non ha mai calpestato, perché da sempre rinchiusa in una gabbia.
Il blu è il colore della verità, dell’infinito, dell’armonia, ma è anche il colore della notte senza stelle e di un cielo intravisto da dietro le sbarre.
L’abbandono, la solitudine, la privazione della libertà, la paura. E ancora il tempo, la diversità, l’inclusione, l’amore, la speranza e la forza del coraggio, sono solo alcuni degli argomenti racchiusi in questa fiaba.

Ecco allora che un bambino armato di innocenza – nel viaggio dell’eroe che tutti i personaggi compiono all’interno di un libro – compie il suo viaggio modificando gli eventi attorno a sé.
Alla fine della fiaba Giulio non sarà più il bambino delle prime pagine e Lia avrà intrapreso il viaggio sul ponte dell’arcobaleno, ma la fine è soltanto un nuovo inizio.

“In qualità di autrici, abbiamo voluto raccontare un sogno e portare i bambini con noi, dentro a quel sogno costruito sulla presenza di due soli colori” – concludono le autrici – “I bambini hanno risposto con entusiasmo a quella che apparentemente poteva sembrare una sfida perché hanno perfettamente capito il messaggio di Giulio e Lia. Ancora oggi, i bambini a cui è stata letta la fiaba hanno continuato a stupirci, lavorando sulle nostre piccole parole colorate, riempendoci di disegni, lettere e temi, perché Giulio e Lia sono diventati parte del loro quotidiano.
«Il mondo si può guardare ad altezza d’uomo, ma anche dall’alto di una nuvola. Nella realtà si può entrare dalla porta principale o infilarvisi da un finestrino.» Parlava così Rodari dei bambini.
Questa lectio, perfettamente intrinsecata nella nostra fiaba, ci ha dato la possibilità di aprire una piccola finestra su un mondo buio, tenuto volutamente lontano dai bambini.”

LE AUTRICI

SABINA GUIDOTTI
Scrittrice, editor, docente.
Dopo il diploma di Sceneggiatrice col massimo dei voti all’Accademia Nazionale del cinema, con nua gli studi di cinema con rancesco Scardamaglia, onino uerra e ean- laude arrière. Lavora con Vincenzo Cerami che diventa suo maestro e mentore. Per il teatro collabora con Ascanio Celestini ai laboratori che porteranno in scena lo spettacolo La pecora nera. Pubblica L’Ipotesi, con prefazione di Alda Merini alla quale è profondamente legata. Il testo viene presentato su Rai 1 da Vincenzo Mollica nella rubrica di approfondimento “Do Re Ciak Gulp”. Nel campo della narrativa ha svolto diversi ruoli tra i quali consulente editoriale, ghostwriter e editor. Diventa stretta collaboratrice di Sergio Altieri sia per le collane Urania e Segretissimo, sia nello sviluppo di sceneggiature. Con lo scrittore fonda la collana Epix che si occupa del fantastico italiano. Come autrice scrive insieme a Danilo Arona il romanzo fantastico Land’s end, edito da Meridiano Zero. Da diversi anni insegna tecniche della narrazione.

ALMA DI PIETRO
Scrittrice e poetessa. Coltiva la passione della scrittura fin da bambina. Dopo gli studi, si occupa di scrittura creativa e di comunicazione. Crede nelle virtù terapiche della lettura e della scrittura e si specializza nella memorialistica, sia in prosa che in poesia. In occasione di diversi viaggi effettuati in India studia il patrimonio di fiabe del continente indiano, trasmesse oralmente da generazione in generazione. Lavora come content editor e blogger. Dedita da anni al volontariato animalista è Presidente dell’associazione “Una cuccia per la vita”, impegnata a salvare gli ultimi e i dimenticati.

RITA CARDELLI
Nasce a Bologna nel 1957. Nei primi anni Settanta segue il corso di “ rafica Pubblicitaria” presso l’istituto Elisabetta Sirani di Bologna e dopo alcune collaborazioni con società private, Rita si cimenta con attitudine nel campo dell’illustrazione dei libri per ragazzi e affina la tecnica del disegno che più avanti utilizzerà con successo nella pittura. Nel 1998 inizia l’attività pittorica e, in poco tempo, si fa particolarmente apprezzare per le sue delicatissime “Nature morte” e per le suggestive “ igure femminili”. Nel 2008 crea un personaggio “la Nasuta”, che ancora oggi illustra, rivelando una molteplicità di sfaccettature che la pongono al centro di un territorio sterminato. Quello della sua fantasia, al confine di quello della sua storia di vita, al confine di quello della sua attività onirica.

Per maggiori informazioni:
https://unocchioverdeeunoblu.it
https://www.facebook.com/unocchioverdeeunoblu/

P. Handke, Infelicità senza desideri

Peter Handke, in fondo all’anima

di Antonio Stanca

   Infelicità senza desideri è un romanzo dello scrittore austriaco Peter Handke. Risale al 1972 e di recente ha avuto una nuova edizione per conto di Guanda Editore nella serie “Narratori della Fenice”. La traduzione è di Bruna Bianchi.

   Handke è nato a Griffen, Carinzia, nel 1942. Nel 2019, quando aveva settantasette anni, ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura dopo che altri riconoscimenti gli erano stati attribuiti. Ora ha ottantadue anni e molto ha fatto durante la lunga carriera di autore. Aveva cominciato giovanissimo, intorno agli anni ’60, e suo primo interesse era stato il teatro, era venuta poi la narrativa, quindi la poesia, la saggistica, la diaristica ed infine la sceneggiatura e la regia. Contrario, ribelle a quanto giungeva dalla tradizione si era mostrato all’inizio sia come drammaturgo sia come scrittore e poeta. Soprattutto riguardo ai modi espressivi, al linguaggio, ci aveva tenuto a sperimentare nuove forme, aveva rinunciato a quelle convenzionali convinto che non erano adatte ad esprimere la profonda interiorità, la segreta intimità dell’animo umano. Altri mezzi, altri sistemi servivano per verità tanto insolite, tanto fuori dal comune. Era giunto a pensare, Handke, che le parole non fossero sufficienti a tale scopo e che più adatti fossero i suoni, i colori, le immagini, le visioni. Da qui il suo amore per il cinema. Sarebbe stato il regista delle riduzioni cinematografiche di alcuni suoi romanzi.

   Col tempo, però, ridurrà questo atteggiamento polemico nei riguardi della tradizione culturale, letteraria o altra, e accetterà, anche se non completamente, quanto da essa proveniva. Il suo spirito, tuttavia, rimarrà inquieto, ribelle. Convinto, ad esempio, sarà sempre che a far sapere dei problemi dell’anima, dei travagli dello spirito nessuno può riuscire meglio di chi li patisce. Da qui la maniera, propria di questo autore, di fare dei personaggi, degli interpreti dei suoi romanzi, del suo teatro, del suo cinema, gli osservatori, i giudici di sé stessi. Sono loro a rivelare, confessare, valutare quanto avviene al loro interno, i propri pensieri, i propri sentimenti, e modo migliore per farli conoscere a chi legge un libro o assiste ad uno spettacolo non sembra possibile all’Handke. Secondo lui è il più autentico, il più convincente e famosi sono diventati così i personaggi di tante sue opere. Possono essere uomini o donne, quel che conta è la pena venuta loro dalla vita, il pericolo nel quale sono andati a finire, i rischi che stanno correndo, l’inutilità dei rimedi. Dei loro drammi vuole far sapere Handke e in un modo quanto mai aderente a quel che è successo o sta succedendo. Così sarà pure in Infelicità senza desideridove la situazione è autobiografica. Quando aveva ventinove anni, nel 1971, Handke aveva perso la madre perché morta suicida. Era rimasto così sconvolto da pensare subito di scrivere dell’accaduto, di ricavarne una narrazione. Lo farà con quest’opera dell’anno successivo, ricostruirà per intero la vita della madre dalle origini, nella Carinzia slovena, alla fine. Comincerà da quando era bambina e finirà quando era diventata madre di quattro figli, dei quali uno alcolizzato come il padre che era in sanatorio, quando aveva cinquantuno anni e continui problemi economici, quando un caso disperato era ormai il suo. Come in altri casi dell’Handke autore anche lei aveva creduto molto nella vita, nella forza d’animo, nella volontà, nel successo. Era convinta che le spettassero situazioni, relazioni, persone di rilievo, lontane dalle ristrettezze, dalla povertà della sua casa. Per questo era andata in città quando era giovanissima. Si era adattata a svolgere lavori molto modesti ma non aveva smesso di nutrire le aspirazioni che le erano proprie, quelle che ora la portavano a partecipare della vita, del movimento intorno a lei, a coltivare amicizie, frequentare locali pubblici, stare in compagnia, fare tardi la sera. Era giovane, era bella, si sentiva animata, spinta dalla situazione che stava vivendo in città, dai posti, dalle persone che frequentava, dai loro discorsi, dai loro modi di fare. Era l’inizio di quella vita che voleva, che non avrebbe mai smesso di perseguire e per la quale avrebbe affrontato qualunque sacrificio considerandolo un ostacolo momentaneo, un arresto provvisorio in quello che doveva essere il suo vero percorso. Succederà, invece, che di ostacoli, di arresti se ne presentino tanti, che diventino molti, che la guastino nel corpo e nello spirito, che la portino a voler stare sola, lontana dal marito, dai figli, ad ammalarsi, a farneticare, a darsi la morte. Diventerà un altro dei tormentati personaggi di questo scrittore e come quelli la si vedrà bisognosa di confessare i suoi dolori, di farli sapere a tutti, di mostrarsi disperata per quanto non aveva ottenuto, delusa, offesa da circostanze che non aveva previsto. Sola era rimasta, spaventata, atterrita, niente aveva avuto di quanto sperato. Nessuna differenza c’era ormai tra il suo stato e quello proprio della morte. Sceglierà questo.

   Neppure come figlio Handke aveva rinunciato a fare da spettatore dei suoi personaggi. Così gli è sembrato di riuscire meglio a dire della vita, di quanto di grave vi può succedere, lo fa dire a chi la vive, fa come in quel cinema che tanto ama.

L. Lafranceschina, Dopo la vendemmia: pensieri e ricordi

Gli spazi ed i tempi della memoria di Luigi Lafranceschina, poeta (in) bitontino

di Carlo De Nitti

L’attività noetica e mnesica in tutte le sue forme è nell’essenza degli esseri umani: pensare e ricordare, ma anche – lo sottolineava già Platone (428 a. C. – 348 a. C.) – pensare è ricordare. Tutto il conoscere è ricordare, sosteneva il filosofo ateniese: il mondo primigenio a cui ogni persona attinge in tutta la sua vita i ricordi non è certo quello platonico delle idee, ma quello archetipo dell’infanzia, dell’adolescenza e dei propri vissuti.

Così Luigi Lafranceschina – stimato studioso di pedagogia, della cui bibliografia a chi scrive piace rammemorare, tra gli altri, il suo testo su don Gino Corallo (Randazzo, CT, 1911 – Roma, 2003), La Pedagogia Italiana del Secondo Dopoguerra e la Proposta Pedagogica di Don Gino Corallo, che ha visto la luce a Bitonto nel 2014, presso Cortese – ha pubblicato a Bari per i tipi delle Edizioni Dal Sud, una sua silloge poetica, intitolata Dòppe la vennégne: penzìire è arrecùrde. Dopo la vendemmia: pensieri e ricordi (pp. 317), in vernacolo bitontino e la relativa traduzione a fronte in lingua.

Felice è la scelta di Luigi Lafranceschina di “ricostruire”, nelle quattro parti che compongono la raccolta (I Arrecùrde d’attaneme – Ricordi di mio padre, II Arrecùrde de màmme – Ricordi di mia madre, III Arrecùrde de quànne jère menùnne – Ricordi della mia infanzia, IV Penzìire – Pensieri), il proprio vissuto infantile, immerso nella civiltà contadina pugliese, murgiana in particolare, dagli anni successivi alla seconda guerra mondiale agli anni ’60, allorquando quel mondo premoderno, apparentemente sempre uguale a se stesso, si trasforma radicalmente, perdendo, in un certo senso, la sua “anima”. E’ stato questo anche l’insegnamento di un grande pedagogista pugliese molto caro a Lafranceschina, conosciuto e studiato all’Università di Bari, Gaetano Santomauro (Minervino Murge, BA, 1923 – Bari 1976).

La sua idea di poesia, espressa in versi, è sita al termine del volume, nell’ultimo componimento, che si riporta per intero: “Ce còse jé a la bùune la pelesòje / Na u sàcce próprie dòice! / Sàcce skìtte ca jé na còse / Ca te descetésce la nòtte a la ‘mbrevóise / E’ nan te féuce dremmóje! Nàsce jìnde a la chéupe / E’ se chiànde còme a nu cendràune / E’ nan s’appapàzza / Peffinghe ca nanm t’alze / E’ nan la sciétte fòure / E’ nam la stiénne recriéute / Sòpre a nU pìizze de càrte / Ca t’arrecàpete mméenze a re méune. / La  pelesòje jé na còse / Dòlce è améure / Te féuce chiànge è presciàje / T’accàlme è te strapàzze / Te féuce cambéue è sennéue/ / La pelesòje jé na còse / Ca te pòrte spìsse / A spàsse mbra re nùvue / E’ te spénge ngoché è vòrte / A vuéue chiù darràsse! Che cosa sia davvero la poesia / Non lo so proprio dire! / So solo che è una cosa /che ti sveglia all’improvviso / E non ti fa più dormire! / Nasce in testa / E si pianta come un bullone / E non si addormenta / Fino a che non ti alzi / E non la tiri fuori / E non la stendi soddisfatta / Su un pezzo di carta / Che ti capita tra le mani. / La poesia è una cosa / Dolce e amara / Ti fa piangere e gioire / Ti calma e ti strapazza / Ti fa vivere e sognare! / La poesia è una cosa / Che ti porta spesso / A spasso tra le nuvole / E ti spinge qualche volta / A volare più lontano!” (La pelesòje – La poesia, pp. 316 – 317). 

Il poeta vola “più lontano” e rivive, facendolo rivivere ai lettori, che è da augurare tantissimi, il “piccolo mondo antico” della civiltà contadina – le sue pratiche, i suoi valori, le sue regole, la sua pedagogia – nella lingua madre che quella civiltà conosceva ed utilizzava, tramandandola di generazione in generazione attraverso l’oralità: il vernacolo. Esso è utilizzato in tutta la sua potenza espressiva dal poeta per raccontare il mondo dell’anima, scrivere gli anni dell’infanzia e narrare in versi il passato. Non certamente per rimpiangerlo come un eden irenistico, sottolinea nella sua Prefazione Daniele Giancane, ma per osservarne le trasformazioni intervenute nel corso dei decenni. Il dialetto – come le lingue classiche – non è morto, e non è solo una lingua ma una cultura, un veicolo di espressione, una civiltà ed, attraverso di esso, si diffonde e si tramanda. È il portato della tradizione che é in noi, rivissuta, rinnovata, portata oltre, i.e. trans-ducta.

Scultoreo l’incipit della raccolta: “Attàname nan u pòzze screddèue / Càmbe angòure jìnde a r’arrecùrde – Mio padre non lo posso dimenticare / Vive ancora nei miei ricordi!” (Arrecùrde d’attaneme – Ricordi di mio padre, pp. 10 – 11) cui il poeta fa seguire la descrizione del padre: “Piene di uva e di calli / Sporche di terra / Le mani di mio padre / E sempre vuote di monete! Dure come l’acciaio […] Ma come una noce di burro / A farmi una carezza / O a stringermi al petto” (Re mèune d’attàneme – Le mani di mio padre, pp. 18 – 19).

Lafranceschina descrive in diverse poesie il suo carattere e l‘orgoglio della sua attività lavorativa: “Jère chendénde de jèsse chezzèule! –  Andava fiero di essere contadino!” (La grannenèute – La grandinata, pp. 52 – 53). Imponente moralmente con la sua probità, ma mai prepotente, la figura paterna: “Me’acchesegghiéive da granne / De fadeghéue onéste onéste / De jèsse sémbre recriéute / du mestìire ca avissa féue / E’ de vreghegnàmme sckitte d’arrebbéue – Mi raccomandava da grande / Di essere sempre orgoglioso / Del mestiere che avrei fatto / E di vergognarmi solo di rubare!” (La fatòiche adèrsce – Il lavoro nobilita, pp. 22 – 23)

Dolce ma non sottomessa quella della madre, nell’archetipa divisione dei ruoli di genere nella società contadina (accudiva i figli, amministrava la cucina ed i prodotti della terra, preparava il pane ed i dolci): ella esprimeva una ‘filosofia di vita’ “Ajìre jòie còme sì tuù jòuce / Vécchie è brùtte. / Cùsse u giòire de la vòite / Ca nan cànosce appattòime / Tùtte u réste skìtte ngandèseme! – Ieri io come sei tu oggi / Giovane e bello / Domani tu come sono io oggi / Vecchia e brutta. / Questo il ciclo della vita / Che non conosce fermate / Tutto il resto è solo illusione!” (Penzìire de màmme – Filosofia di mia madre, pp. 76 – 77).

E’ interessante rilevare che Luigi Lafranceschina non scrive nel vernacolo della sua città natale, Corato, individuabile nella poesia, La fèste de San Catàlle – La festa di San Cataldo, alle pp. 148 – 149, ma anche in alcuni toponimi citati (ad esempio, Lama Cupa, San Magno), ma in quello della città da cui ha scelto di farsi adottare parecchi decenni orsono, con il matrimonio, vivendoci stabilmente con la famiglia (felicemente nonno): Bitonto.  Che il suo sia un vero e proprio atto d’amore verso la famiglia, i concittadini e la città … pensare e scrivere nel vernacolo di un luogo acquisito ma introiettato profondamente?

Chi ha scritto queste righe, da barese, nel suo infinitamente piccolo, si è sforzato di leggere il volume nella sua metà sinistra per cogliere suoni, rime, ritmi e cadenze di antiche voci, piuttosto che scorrere agevolmente le pagine, leggendone la parte destra. Un meraviglioso esercizio di memoria di vissuti di antico adolescente: “Nu petrudde càmbe angòure jìnde a re pàlde / Scambeute o ngusscie du tìimbe – Un sassolino vive ancora nelle tasche / Scampato all’incuria del tempo” (pp. 228 – 229), chiosa Luigi Lafranceschina, poeta da leggere e meditare.

AA.VV., Capodanno in giallo

Tanti autori, tanti lettori

di Antonio Stanca

   Con Capodanno in giallo, riedito l’anno scorso da Sellerio nella serie “Promemoria”, la casa editrice siciliana ha voluto continuare un progetto iniziato da tempo che consiste nella pubblicazione periodica di una breve antologia di racconti “gialli”. Ha avuto molto successo, vi hanno aderito scrittori di questo genere, ognuno con un racconto, e attirati sono stati i lettori dalla possibilità, dalla facilità di venire a contatto, tramite una lettura unica, con autori diversi, col loro diverso modo di scrivere, costruire una vicenda, con vicende diverse.

   Un’iniziativa riuscita si può dire! Una finalità didattica, sociale ha assunto!

   Anche in Capodanno in giallo ci sono autori tra i più noti del genere quali Aykol, Camilleri, Costa, Malvaldi, Manzini, Recami. Nell’antologia compare un loro racconto. Ogni racconto è un caso poliziesco, ogni caso un enigma da risolvere, in ognuno tra chi è colpevole, chi indaga, chi assiste, chi partecipa, chi sa, chi non sa, chi parla, chi tace, tra uomini e donne, innamorati e amanti, sono tante le persone che compaiono, si muovono, tanti i luoghi che le vedono, tanti i motivi, gli interessi, i rapporti che tra loro corrono. Se alla varietà propria di un singolo racconto si aggiunge quella di ogni altro, quella che li fa diversi tra loro, si capisce l’interesse che queste pubblicazioni stanno suscitando tra i lettori. Li incuriosiscono per le tante cose che fanno loro scoprire, sapere. Come la promessa di un piacere si presentano e da qui il loro successo. Permettono di passare con una sola lettura da una città ad un’altra, da un reato ad un altro, da un investigatore ad un altro, di trovarsi tra ambienti, persone, usi, costumi completamente diversi, di partecipare di vite diverse. In uno spettacolo variamente composito si trasformano queste antologie, uno spettacolo ricco di sorprese, rivelazioni e tutto tramite un solo libro.

   È un progetto che sta riuscendo bene e non poteva andare diversamente. C’è d’ammirarlo sia per quanto fa conoscere sia perché in una maniera utile a promuovere la lettura si è trasformato. Si pensa tanto a come fare, Sellerio lo sta facendo!

A. Ammirati, Bullismo (cosa fare e non)

Antonella Ammirati, Bullismo (cosa fare e non). Guida rapida per insegnanti, Pagine: 128

Il termine bullismo (dall’inglese bullying, tiranneggiare, spadroneggiare, intimidire) indica un abuso di potere fisico, verbale o psicologico, attuato in modo ripetuto e organizzato contro qualcuno che non è in grado di difendersi.

Secondo i dati dell’ultimo Monitoraggio dei fenomeni di bullismo e cyberbullismo (2021), a cura del Ministero dell’Istruzione in collaborazione con l’Università di Firenze, su un campione di 314.500 studenti e studentesse di 765 scuole statali secondarie di secondo grado e di 46.250 docenti afferenti a 1.849 Istituti scolastici statali, il 22,3% degli studenti e delle studentesse è stato vittima di bullismo da parte dei pari (19,4% in modo occasionale e 2,9% in modo sistematico); il 18,2% ha preso parte attivamente a episodi di bullismo verso un compagno o una compagna (16,6% in modo occasionale e 1,6% in modo sistematico); l’8,4% ha subito episodi di cyberbullismo (7,4% in modo occasionale e 1% in modo sistematico); il 7% ha preso parte attivamente a episodi di cyberbullismo (6,1% in modo occasionale e 0,9% in modo sistematico).

L’ultima uscita della serie Erickson “Cosa fare e non” – collana di guide pratiche e approfondite per insegnanti ed educatori – dedicata appunto ai fenomeni del bullismo e del cyberbullismo, nasce come un manuale di sostegno per insegnanti che mantengono la capacità di osservare e di sospettare disagio negli sguardi bassi e nei non detti di alcuni studenti. Insegnanti che vogliono farsi carico della dilagante povertà relazionale prima che si connoti come violenza, e che hanno a cuore la salute della Scuola come ambiente di relazione, luogo di confronto e di crescita per i ragazzi, ma anche per loro stessi.

Dopo una ricca introduzione al contesto di studi e di sviluppo del fenomeno, Bullismo (cosa fare e non) si suddivide in quattro ampi capitoli dedicati: al bullo, alla vittima, al gruppo e al contesto (familiare e non solo). Per ciascuno, si evidenziano le ragioni alla base del comportamento e le modalità di interazione e reazione che insegnanti ed educatori in genere possono mettere in atto per fronteggiare la situazione, nel rispetto e nel migliore interesse di tutte le parti.

In occasione della Giornata nazionale contro il bullismo e il Cyberbullismo, Erickson propone un decalogo estratto dai consigli contenuti nel manuale:

  1. Tenere a mente che il bullo vorrebbe essere parte attiva delle situazioni.
  2. NON chiamare sempre in causa l’autorevolezza del proprio ruolo di insegnanti/educatori.
  3. Valorizzate l’esigenza del bullo di ricercare relazioni, seppur con modalità disfunzionali.
  4. NON avallare l’idea che essere forti significhi non provare sentimenti.
  5. NON giudicare la persona, ma i comportamenti.
  6. NON schierarsi apertamente dalla parte della vittima: anche il bullo è una vittima e ha bisogno di aiuto.
  7. NON fare riferimento a carenze nell’ambiente familiare del bullo.
  8. NON fare presente alla vittima le sue difficoltà relazionali prima di averla protetta dalle prepotenze.
  9. NON lavorare con il gruppetto di alunni (autori e vittime) della dinamica senza coinvolgere l’intero gruppo classe.
  10. NON colpevolizzare i genitori.

*Antonella Ammirati, neuropsicologa e psicoterapeuta a indirizzo psicodinamico, libera professionista tra studio clinico e scuola. Ha alle spalle una collaborazione decennale con ODFlab – Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università degli Studi di Trento, dove si è specializzata nell’ambito della diagnosi e dell’intervento sui disturbi evolutivi e dell’età adulta e ha contribuito a costruire collaborazioni con gli Istituti Comprensivi, l’Ateneo di Trento e diversi enti del territorio per promuovere, attraverso la formazione, contesti inclusivi. Con la Cooperativa Sociale «Il Ponte», invece, si è occupata di psicologia scolastica, gestendo lo Spazio Ascolto di diversi Istituti Comprensivi della Vallagarina, coordinando progetti di supporto allo studio promossi da iniziative comunali o dal Fondo Sociale Europeo nonché supervisionando l’équipe del servizio Mystart – area difficoltà e DSA. Attualmente è consulente di Edizioni Centro Studi Erickson per l’area psicologia e professioni sanitarie, autrice della pubblicazione Il mio primo anno da… psicologo scolastico e curatrice del testo DSA dopo la Linea Guida ISS 2022.

G. Colombo e L. Segre, La sola colpa di essere nati

Insieme nella Giornata della Memoria

di Antonio Stanca

   Ultimamente in occasione della Giornata della Memoria è comparsa, allegata a “TV Sorrisi e Canzoni”- Periodici Mondadori- e su licenza Garzanti, un’edizione speciale dell’opera La sola colpa di essere nati di Gherardo Colombo e Liliana Segre. È un lungo dialogo che si svolge tra i due e che vede lui impegnato a chiedere di momenti particolari nella vita della Segre, e lei intenta a ricordare le gravi situazioni patite, insieme ai suoi familiari, a causa delle Leggi Razziali del 1938 e della deportazione ad Auschwitz nel 1944. La loro condizione di ebrei li aveva fatti diventare vittime di quegli eventi.

   Colombo è stato magistrato per molti anni e dal 2007 è entrato a far parte dell’associazione “Sulle regole”. La sua collaborazione consiste nel promuovere momenti di osservazione, di riflessione sull’importanza, il significato delle leggi, della giustizia. Ha settantotto anni mentre la Segre ne ha novantaquattro. Entrambi provengono dal Nord Italia, Colombo da Briosco (Monza-Brianza), Segre da Milano. Non era la prima volta che s’incontravano, che si fermavano a parlare ma stavolta il loro incontro è durato più a lungo, i loro discorsi sono stati più completi, hanno seguito un percorso più preciso, hanno rispettato tempi e luoghi, sono stati motivo di un’opera vera e propria. Di questa si può dire come di una ricostruzione storica di quanto è avvenuto in Italia e fuori dal momento delle Leggi Razziali (1938) alla fine della seconda guerra mondiale e dopo. Che si sia ottenuto tanto tramite una conversazione tra due amici non è da poco. Facili, semplici sono i loro discorsi, a chiunque permettono di accedere a quella fase della storia d’Italia e d’Europa che tanto travagliata è stata. È questo il merito maggiore dell’opera: si parla di grandi e gravi avvenimenti, li si chiarisce, li si spiega in ogni loro aspetto e con un linguaggio che non diventa mai difficile, che mai si complica. È il risultato positivo dell’ennesima testimonianza che la Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, rende riguardo alla sua vita. Mentre dice di sé dice della storia che le si verificava intorno. Nel 1938, quando aveva quattro anni e viveva con il padre e i nonni a Milano, era stata espulsa dalla scuola elementare a causa delle Leggi Razziali; nel 1943-44 era fuggita da Milano insieme al padre, erano stati scoperti, arrestati e mandati ad Auschwitz dove lui sarà ucciso; anche per i nonni, arrivati dopo, sarebbe stato così mentre per puro caso lei sarà più volte risparmiata e malvestita, malnutrita, continuamente umiliata, sempre utilizzata in una fabbrica di armi, riuscirà a resistere alla tremenda situazione finché, ai primi del 1945, non arriveranno le forze alleate e i tedeschi fuggiranno portando i prigionieri in Germania, in un altro campo di concentramento. Sarà un viaggio a piedi, lunghissimo, durissimo, molto faticoso per la piccola Segre. Lo aveva, però, affrontato con un certo entusiasmo, con quel coraggio che a volte emerge nei momenti estremi. Nel 1945 era finalmente rientrata in Italia, a Milano, fra i parenti. Aveva quindici anni ma ce ne sarebbero voluti molti altri perché si ambientasse, si ritrovasse tra la sua gente, i suoi posti, le sue cose. L’esperienza vissuta era stata così grave da averla sconvolta, da non permetterle un facile recupero delle sue capacità fisiche e mentali. Non ci riusciranno neanche eventi come il matrimonio, i figli, i nipoti, e solo dopo molto tempo, intorno al 1960, mostrerà segni di ripresa. Fino allora aveva pure evitato di parlare di quanto sofferto poiché la faceva star male. Poi le attenzioni di chi le era vicino, le cure di medici specialisti, l’avevano convinta della necessità di aprirsi agli altri, confidarsi. Lo avrebbe fatto, avrebbe parlato del suo passato, agli inizi con molte difficoltà, dopo con sempre maggiore sicurezza. Sarebbe successo in molti posti, scuole, università, centri di studio italiani e stranieri, biblioteche, locali pubblici, sedi di associazioni politiche. Molto seguita, molto rispettata, molto onorata sarebbe stata. Molti riconoscimenti avrebbe ottenuto. Nel 2018 sarebbe stata nominata senatrice a vita.

   Ogni volta, però, dopo ogni intervento, ogni testimonianza, si riprometteva di non accettare nessun altro invito. Anche per quest’ultima tenuta di fronte al giudice Colombo non si era mostrata particolarmente propensa. Ma ancora una volta aveva ceduto, aveva accettato di parlare, di dire di sé. Colombo l’ha ascoltata, l’ha sollecitata, le ha posto molte domande, ha puntualizzato molti argomenti, ha apportato il contorno necessario a fare delle rivelazioni di lei un quadro ordinato, completo.

    In verità, ha spiegato la Segre nel libro, se prima dire della sua vita la faceva soffrire ora la fa stare meglio. È come se si fosse accorta che le sue confessioni possono essere utili, possono far capire quanto sia importante la solidarietà, la partecipazione, l’aiuto, a quanti vantaggi possono portare e a quanti svantaggi l’odio, la violenza. Lei è stata vittima dell’odio, della violenza e parlarne, farlo sapere, può convincere a rifiutare, condannare simili comportamenti, a non imitarli, a fare del bene al posto del male.

    Sempre umile, modesta, generosa è la sua posizione, sempre al bene che si può ricavare è rivolta anche quando c’è stato tanto male, quando lo ha sofferto direttamente.

A. Manzini, Riusciranno i nostri eroi…

Manzini tra l’anima e il noir

di Antonio Stanca

    Di recente, per conto di Sellerio, nella collana “La memoria”, è comparso l’ultimo romanzo di Antonio Manzini, Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Sud America?. È un’altra opera che Manzini aggiunge a quelle della lunga serie dedicata al commissario Rocco Schiavone, il vice questore diventato famoso per un modo di fare, d’indagare molto particolare, molto fuori dal comune. La serie era iniziata nel 2013 con Pista nera ed è giunta ai giorni nostri con ELP, che ha preceduto di poco quest’ultimo romanzo. Altre opere, generalmente di genere poliziesco, erano venute prima di quella serie, altre l’avevano accompagnata. 

    Manzini è nato a Roma nel 1964, ha sessant’anni, attore televisivo, cinematografico, sceneggiatore, regista e scrittore è stato ed ancora lo è. Nel 2005 ha esordito nella narrativa con Sangue marcio, un giallo col quale aveva avviato il genere letterario suo preferito. Ne sono una prova i romanzi del commissario Schiavone che durano da dieci anni e che non accennano a fermarsi. Nel loro esempio più recente, Riusciranno i nostri eroi…?, Manzini mostra ancora una volta come intende il romanzo giallo. Non lo limita all’evento criminoso e alle conseguenti indagini ma vi fa rientrare tanta altra vita. Fa posto a tanti pensieri, tanti sentimenti, quelli delle persone che nell’evento sono coinvolte, di esso sono entrate a far parte accanto ai colpevoli veri e propri. Lo scrittore cerca quanto avviene nell’animo di quelle persone, non distingue tra colpevoli e innocenti, alla stessa umanità li fa appartenere, cosa ha mosso gli uni e cosa gli altri vuole sapere, spiegare, altri casi vuole aggiungere ai tanti che compongono la vita, la storia dell’uomo. La voce dei tempi vuol’essere la sua, quella che si alza sulle cose del mondo, quella del vero scrittore. Così succede pure in Riusciranno i nostri eroi…?, dove tra quattro amici, dei quali fa parte Rocco Schiavone, c’è stato qualcosa di molto grave. Erano amici fin da bambini, giocavano insieme a Trastevere e di quanto è successo una volta diventati adulti non si saprà mai con chiarezza. Era stato, però, il motivo della scomparsa di uno di loro, Sebastiano, motivo che lo aveva fatto ritenere colpevole. Da Roma era fuggito in Sud America, si erano perse le tracce. Offesi si sentivano Rocco e soprattutto Furio mentre l’altro, Brizio, non si curava molto. Furio non aveva perdonato Sebastiano ed era andato in Sud America a cercarlo, a vendicarsi. Temendo che potesse succedere altro danno Rocco e Brizio penseranno di raggiungerli e riportarli alla ragione, riappacificarli. Inizieranno il viaggio senza avere alcun riferimento, alcuna notizia precisa. Una volta arrivati si muoveranno a tentoni tra ambienti, paesi mai visti, tra Argentina, Messico, Costa Rica, tra spazi sterminati, milioni di persone, tra strade, case, lingue sconosciute. Non sapranno come fare, dove andare, tutto era nuovo, diverso, ignoto, pericoloso. S’imbatteranno nelle situazioni più strane, vivranno le più diverse avventure ma non si arrenderanno, chiederanno, s’informeranno, useranno ogni piccolo dettaglio, ogni minimo indizio. Incoraggiati, animati si sentono dall’idea che lo stanno facendo per il bene di due amici, che devono trovare Furio prima che lui trovi Sebastiano e compia la sua vendetta. Di questo dicono sempre nei loro discorsi, di questo sono fatti i loro pensieri, i loro sentimenti. A tanto li ha portati un semplice spirito di amicizia: solo amici sono di Sebastiano e Furio e solo per questo stanno affrontando tanti ostacoli. Oltre al commissario che indaga sulla sorte dei due, Schiavone è soprattutto l’amico che li vuole ricondurre all’ordine. Anche Brizio è mosso da questo intento, anche lui si sta mostrando capace di un’azione così generosa, così nobile, così difficile da pensare in tempi come i nostri. Manzini l’ha pensata, ci ha creduto e gli si deve rendere merito per averne fatto opera di scrittura, per essere andato oltre i limiti di un giallo, per aver mostrato quanto può l’animo, lo spirito dell’uomo. Ha fatto vedere come diverso sia per lui questo genere di romanzo. Anche nella sua costruzione è stato abile, è così ben articolato che fin dall’inizio coinvolge il lettore.

     Gli sforzi compiuti da Rocco e Brizio saranno premiati, troveranno Furio e Sebastiano e basterà questo, basterà che si rivedano tutti insieme perché ogni rancore, ogni rivalità, ogni proposito di vendetta si riduca, si cancelli. Si conclude l’opera con quest’ultimo risvolto di carattere morale, con quest’ultima affermazione dei valori dell’anima.

    Amici come prima sono tornati ad essere anche quelli che non lo credevano possibile!

P. Perretti, Perché (non) andare a scuola

Pierpaolo Perretti, Perché (non) andare a scuola
Introduzione di Annalisa Cuzzocrea Postfazione di Sergio Labate

“Un J’accuse contro la scuola, una dichiarazione d’amore per la Scuola: voglio insegnare, non mettere voti!”

C’è un filo che lega tutti alla Scuola: per gli studenti è il loro pre- sente, per gli adulti è dato dalla nostalgia di un periodo unico o semplicemente dai figli alle prese con lo studio. Gli insegnanti intrecciano questo filo: per loro la Scuola è un luogo dove passa- to, presente e futuro si compenetrano. Questo “saggio narrativo” nasce dall’esperienza e dal profondo disincanto che essa provoca. L’autore mette a nudo impietosamente i meccanismi con i quali molte scuole di oggi, alla ricerca di iscrizioni e successo, tradisco- no la loro missione, ingannano studenti e genitori, opprimono il cuore di chi ancora crede nella formazione. Si smascherano dun- que le valutazioni, il marketing scolastico e le false motivazioni con cui molti ragazzi, su suggerimento degli adulti, scelgono e vi- vono la Scuola, ma, in vista di un orizzonte non rassegnato, l’au- tore propone nuovi percorsi di senso e di “studiosa meraviglia” per gli studenti e per i professori. Soprattutto per quanti sono alla ricerca del significato dello studio e per quanti, ancora innamorati dell’essenza dell’insegnamento, non possono adattarsi alla realtà attuale.

Pierpaolo Perretti è nato nel 1975, si è Laureato in Lettere Classiche con una tesi sulle finalità pedagogiche della traduzione. Ha poi conseguito la Licenza in Scienze Patristiche presso l’Augustinianum di Roma e il Dottorato in Storia Religiosa presso l’Università di Roma-La Sapienza. Ha pubblicato il volume Teodoreto di Cirro. Commento alle Lettere di Paolo (Paoline 2017) del quale ha curato introduzione, traduzione e note. Da venti anni insegna materie letterarie nei licei.

M. Stramaglia, Pedagogia e alta sensibilità

Massimiliano Stramaglia, Pedagogia e alta sensibilità. Una nuova sfida per l’educazione, Educazioni Studium, Roma, 2023 p. 138

di Maria Buccolo

L’alta sensibilità è un tratto del temperamento che coinvolge il 15-20 per cento della popolazione mondiale. Le domande più comuni che ognuno di noi si è posto nella propria vita riguardano la sensibilità come problema da gestire associato a volte anche alla vulnerabilità e alla fragilità.  La risposta a questo interrogativo, con riflessioni, teorie e strategie di lavoro pratico nei contesti scolastici sono contenuti nel libro dove Massimiliano Stramaglia ci mostra come sia possibile riconoscere le Persone Altamente Sensibili (PAS) sin dalla prima infanzia ed apre una prospettiva pedagogica, psicologica e neuroscientifica sulle strategie che la scuola deve mettere in campo per educare e formare. Il libro parte proprio dall’analisi introspettiva dell’autore nel rintracciare l’alta sensibilità presente nella propria vita sin dall’ infanzia (infra p. 10) e la constatazione di averlo scoperto solo tre anni fa attraverso gli studi e le ricerche in campo psico-pedagogico. Il volume si propone come uno strumento utile per i genitori, gli educatori e i docenti   per aiutare ad individuare, riconoscere e valorizzare i PAS,  poiché la società ancora oggi interpreta la sensibilità come un limite e non un vantaggio.  Se ci fermiamo e riflettiamo, possiamo capire bene come tutto ciò che impariamo nella vita sia influenzato dalle nostre dinamiche emotive e come queste siano in grado di determinare il modo in cui costruiamo le nostre idee e quindi il nostro comportamento con gli altri nel quotidiano. Infatti, i PAS presentano caratteristiche uniche come l’attenta osservazione e la percezione dei dettagli, molti di loro hanno un carattere chiuso e introverso mentre il 30% risulta essere estroverso. L’alta sensibilità non rappresenta un disturbo, pertanto, non è diagnosticabile ma si può identificare attraverso una attenta osservazione in famiglia e a scuola creando così un’alleanza educativa che ponga delle basi sicure nel processo di apprendimento che si deve centrare soprattutto sulla comprensione e l’empatia per accogliere gli interessi del bambino o della bambina.  Quello che dobbiamo capire dalla lettura di questo libro, è proprio il fatto che l’Autore ci consegna una visione positiva della sensibilità, considerata come un valore aggiunto, come una risorsa che serve per conoscere, agire attraverso un sentire più profondo che si lega all’empatia e cioè alla capacità di connettersi all’altro.   Molto utili risultano, infine, le indicazioni relative all’educazione a misura di bambino altamente sensibile (infra p. 96) e il ricorso alle arti e alla natura per dare la possibilità di esprimere il potenziale emotivo presente che può dar vita ad una rifioritura facendo acquisire maggiore sicurezza su se stesso e sul proprio modo di comunicare il proprio “sentire”.

A fine secolo

A fine secolo

di Antonio Stanca

   Quando finisce un avvenimento, un fenomeno, quando si conclude una vicenda, una manifestazione, un’operazione, si è portati a riflettere su quanto c’è stato, su come si è svolto, a formulare giudizi, trarre conclusioni. Così pure quando finisce un’epoca, un secolo anche se in questo caso non è necessario attendere fino alla fine ché già molto tempo prima s’inizia a considerare, valutare. Così è stato per il ventesimo secolo che è finito di recente. Anche di esso si era iniziato a parlare prima della fine. Più fondati, più convincenti diventano, però, i giudizi a conclusione avvenuta, quando veramente finito è il tempo in questione. È quanto sta succedendo in questi giorni. In tanti modi, con tanti mezzi, televisione, radio, Internet, stampa, dibattiti pubblici, conferenze, convegni, si parla, si discute su quanto è avvenuto nel mondo del Novecento, su quali sono stati i vantaggi e quali gli svantaggi, sugli sviluppi, i progressi e i danni, i pericoli, sulle conquiste e le perdite. In verità abbastanza contrastanti risultano i giudizi e se a quelli decisamente negativi circa la prima metà del secolo, l’età delle guerre mondiali, seguono giudizi positivi riguardo ai tempi venuti dopo, quelli caratterizzati da un progresso sempre crescente, da continue scoperte scientifiche, dalle loro applicazioni tecniche, dal miglioramento delle generali condizioni economiche, da una modernità divenuta possibile a larghi strati della popolazione mondiale, divenuta capace di risultati eccezionali, determinanti, fondamentali nel moderno ambito dell’attività narrativa, lirica, filosofica, figurativa, musicale, del cinema, del teatro, dello sport, di ogni genere di eccellenza, non altrettanto si può dire dei giudizi circa la fine del secolo quando ad un progressivo imbarbarimento dei costumi privati e pubblici si è assistito, ad una perdita sempre più grave, sempre più estesa dei principi, dei valori costitutivi della persona umana, delle sue istituzioni fondamentali, degli ideali che erano stati alla base, quando ai problemi interni dei singoli stati si sono aggiunti altri esterni, di carattere più vasto, mondiale quali il surriscaldamento climatico, la deforestazione, la desertificazione, i disastri ambientali, i pericoli spaziali, gli inquinamenti, le epidemie, l’immigrazione, le guerre, la povertà, la mortalità. Sono problemi che vedono coinvolto l’intero pianeta. E tutti gravi sono poiché non si intravedono soluzioni né per i primi né per i secondi, né per quelli di una nazione, di un popolo né per quelli del mondo, dell’umanità. Sono diventati quasi una parte costitutiva, integrante del sistema attuale, ci si è arresi, adattati ad essi fino a farne uno spettacolo tra gli altri della moderna barbarie.

   È questa l’eredità del secolo scorso, per arrivarci sono serviti anni, decenni d’incuria, disordine, confusione, di mancate osservazioni delle regole, di frequenti concessioni ai difetti, ai vizi, di tutto quello che è andato a formare l’attuale stato delle cose. Ne è così caratterizzato che sembra diventato modificarlo. Non si saprebbe da dove cominciare, chi dovrebbe farlo, come, visto che a diversi livelli, in diversi modi coinvolti siamo tutti. Questa è la vita che ci è giunta dal secolo scorso, è allarmante, è priva di un futuro, è completamente diversa da quella che ci si aspettava. Il progresso, la modernità, la civiltà avevano fatto pensare a ben altro!