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M. Corona, Le altalene

Mauro Corona tra prima e dopo

di Antonio Stanca

È appena comparsa presso Mondadori nella serie Oscar Absolute l’ennesima ristampa de Le altalene, romanzo di Mauro Corona uscito la prima volta nel 2023. Personaggio televisivo, scultore, alpinista, scrittore, Corona è nato a Baselga di Piné, in provincia di Trento, nel 1950. Si stabilirà poi con la madre, che si è separata dal marito, e gli altri due fratelli, più piccoli di lui, ad Erto, in provincia di Pordenone. Qui trascorrerà i tempi dell’infanzia e dell’adolescenza e qui, ad Erto, dichiarerà sempre di essere nato poiché molto importante, molto sentito era risultato per Mauro il rapporto, il contatto con quel piccolo centro tra le montagne, i boschi, la neve e con la gente che vi abitava, molto determinante lo aveva considerato per la sua formazione. Da quei posti sarebbe provenuta l’idea di farne motivo di scultura, di scrittura, l’inclinazione a scalare le montagne, a diventare un abile alpinista. Era vissuto con la gente della valle del Vajont dove si trovava Erto, con persone che vivevano in stato di arretratezza, di bisogno, di povertà, che si adattavano alle circostanze più difficili, le sopportavano, si impegnavano fin dall’infanzia a procurarsi il necessario, a svolgere più mestieri, a dividersi tra la casa, la campagna, i boschi, le montagne, il torrente, le piante, le erbe, gli animali, imparavano a stare con tutto questo, a rispettarlo e viverlo come parte, aspetto essenziale, inalterabile della loro vita. Da qui era venuto prima lo scultore in legno poi lo scalatore ed infine lo scrittore, a quei luoghi, a quelle terre, a quella gente, a quell’ambiente lui faceva risalire tutto quanto era servito a costituire il suo modo di pensare e di fare, la sua anima e il suo corpo, la sua opera e la sua vita. Da qui sarebbero venute pure le forme, le figure delle sue sculture, sia di quelle degli inizi sia delle altre, le vicende, gli ambienti, i personaggi dei suoi romanzi, di tutta la sua narrativa. Erano stati così importanti quei primi anni in quei posti da diventare motivo fondamentale, tema ricorrente nelle sue opere. Numerose saranno le mostre che lo scultore allestirà, molti i riconoscimenti riservati alla sua narrativa. Molto avrebbe scolpito, molto avrebbe scritto e in nessuna delle sue opere, di qualunque genere fosse stata, sarebbe mancato quel richiamo, quel collegamento con i tempi trascorsi ad Erto, con quanto di sano, di giusto, di valido, di sicuro gli era provenuto, con quanto gli era rimasto e per sempre. Non ci sarà opera del Corona dove quei tempi, quegli ambienti non tornino a farsi vedere. A volte tra due narrazioni le somiglianze saranno tante da far pensare ad una ripetizione. Succederà così tra I misteri della montagna del 2015 e Le altalene del 2023, romanzi nei quali molti aspetti, molte circostanze torneranno uguali senza, però, scadere di tono, di livello, di significato. Ne Le altalene più marcato, più evidente risulterà il carattere autobiografico, più vicini, più legati alla vita dello scrittore saranno tanti risvolti dell’opera. Diffuso, continuo sarà il motivo del tempo trascorso e del personaggio che lo ripercorre ora, a settantatré anni, e lo confronta con il tempo presente, quello dell’attualità più recente. È lui il personaggio, è il maggiore dei tre fratelli che nel romanzo saranno abbandonati dai genitori, sua è la voce narrante, suo il dolore di chi non riesce a liberarsi del ricordo delle gravi situazioni vissute insieme ai fratelli. Il loro era stato un disagio non solo materiale ma soprattutto morale, non avevano sofferto solo nel corpo ma soprattutto nell’anima. Avevano dovuto accontentarsi non solo di poco cibo ma anche di poco affetto, di poco amore. Il padre, persona irascibile, collerica, alcolizzata, li aveva maltrattati fin dalla più piccola età, era stato violento con loro e con la moglie, era giunto ad abbandonarli tutti, lei e loro. Anche la donna se n’era poi andata aggravando lo stato di paura, di pericolo nel quale i bambini ormai vivevano. I nonni paterni e una zia sordomuta avevano provveduto ad accoglierli nella loro casa, ad assisterli, a soddisfare i loro bisogni. In casa dei nonni avrebbero trascorso l’infanzia e l’adolescenza, qui sarebbero cresciuti, si sarebbero formati a contatto con quegli elementi naturali, con quei sistemi, quei modi che facevano parte della vita di tutti e che per loro sarebbero stati, avrebbero rappresentato il periodo migliore della loro vita, quello più felice perché finalmente liberi, spensierati si erano sentiti, capaci si erano mostrati di saper parlare, pensare, fare, di avere compagni, amici, di saper stare, giocare con questi come tutti gli altri bambini. Avevano cominciato ad andare a scuola ma non rifiutavano di collaborare, di prendere parte al lavoro che il nonno svolgeva in casa dove scolpiva il legno, nella stalla dove badava agli animali e in campagna dove c’era la terra da zappare e seminare. Si erano tanto immedesimati con queste attività, con gli ambienti naturali dove le svolgevano e dove trascorrevano anche parte del tempo libero da preferirli alle aule scolastiche limitate, chiuse, all’impegno richiesto dallo studio. Crescevano intanto ed erano contenti ma anche quella età felice della loro vita era destinata a finire: il fratello medio sarebbe morto a causa di un incidente in Germania dove si era recato poiché piuttosto irrequieto e nel 1963, quando il maggiore aveva tredici anni, ci sarebbe stato il disastro della diga del Vajont, della valanga di terra ed acqua che si sarebbe rovesciata sui paesi di quella valle compreso Erto, provocando la morte di duemila persone delle quali quattrocentottantasette erano bambini. Avrebbe distrutto tutto quanto c’era in quei paesi e intorno ad essi. Era crollata la diga eretta per fermare l’acqua che scorreva e utilizzarla per scopi industriali. Col tempo quell’acqua arrestata l’aveva corrosa, la natura s’era ripreso quello che le apparteneva e nei modi di un disastro senza precedenti. Case e strade, boschi e prati, persone e cose, tutto travolse, devastò, seppellì quella valanga. Sepolti vivi nelle loro case coperte dalla terra rimasero alcuni. Pochi furono i superstiti e i loro furono casi di fortuna, momenti, frangenti particolari. Tra questi rientrarono anche i casi dei nonni, della zia sordomuta e dei piccoli fratelli. In seguito sarebbero cominciati i lavori di ricostruzione, di ristrutturazione ma lunghissimi e a volte inutili si sarebbero rivelati. Intanto la vita di quei superstiti procedeva nei modi più difficili giacché tra le rovine di quanto era rimasto si muovevano, con esse dovevano stare, di esse dovevano servirsi. Il fratello piccolo non si sarebbe adattato, avrebbe pensato ad andarsene altrove, a cercare fortuna e ad Erto sarebbe rimasto solo il maggiore che adesso, a settantatré anni, sposato e con figli maturi, si è lasciato andare ai ricordi. È rimasto soltanto lui di quella famiglia, i nonni e la zia erano morti e morti erano pure tanti suoi amici, coetanei e non, molti nel disastro della diga crollata. Lui era uno dei pochi superstiti, era sempre attraversato da un senso di malinconia, di tristezza, di abbandono, aveva cominciato a bere ma, nonostante tutto, un dovere gli era sembrato ricordare, portare alla luce quei parenti, quelle altre persone e tutto quanto c’era stato, era successo intorno a loro in un passato del quale avevano fatto parte pure i tre fratelli da piccoli. Di esso era uno dei pochi testimoni rimasti e perciò si sentiva quasi chiamato a riesumarlo. Doveva farlo anche perché un personaggio noto era stato, sempre spinto in avanti, sempre alla ricerca di nuove esperienze si era dimostrato, molte sculture in legno aveva realizzato continuando, migliorando quegli apprendimenti che gli erano provenuti dal nonno, anche prove di scrittura aveva fatto. Una memoria autorevole sarebbero risultati i suoi ricordi perché chiamato era stato ad assistere alla crisi, alla fine di quei valori morali, spirituali, di quegli ideali che lo avevano sempre sorretto, che sempre aveva perseguito, che un artista lo avevano fatto diventare. Finita era quella vita di prima, quella che aveva visto da bambino e nella quale si era formato. Altri modi di pensare, di fare erano sopravvenuti, altri valori di carattere materiale, contingente avevano sostituito quelli precedenti di carattere ideale, eterno. Non riesce a rassegnarsi a questa sconfitta né a dimenticare i tempi che c’erano stati, i principi che li avevano alimentati, i valori che avevano rappresentato. Tutto il romanzo sarà un interminabile andare tra prima e dopo, passato e presente, vecchio e nuovo, antico e moderno, bene e male, salita e discesa, conquista e perdita, successo e sconfitta, vita e morte. Dello scorrere tra questi estremi, tra avanti e indietro, saranno simbolo “le altalene” alle quali l’opera è intitolata e delle quali, però, ora, al giorno d’oggi, non c’è più traccia. Ne è rimasta solo una e pure rotta quasi a significare che la loro epoca, quella che ne aveva visto tante oscillare, fare su e giù tra le grida festose dei bambini e la gioia dei grandi, era finita poiché finito era nella vita, nella storia quel movimento.

E. De Luca, Montedidio

Erri De Luca, ancora Napoli, ancora amore

di Antonio Stanca

   Nella nuova collana, “Universale Economica” -70° anniversario, della Feltrinelli è comparsa la ristampa di un altro noto romanzo, Montedidio, dello scrittore napoletano Erri De Luca che lo aveva pubblicato la prima volta nel 2001 e col quale nel 2002 aveva vinto il Prix Femina étranger. Allora De Luca aveva poco più di cinquant’anni e alla narrativa si dedicava da quando ne aveva quaranta. Era nato a Napoli nel 1950, qui era cresciuto, si era formato e molti interessi aveva coltivato prima di rivelarsi uno scrittore molto prolifico. Si era applicato nel giornalismo, nella traduzione di lingue antiche, nell’apprendimento di lingue straniere, nel teatro, nella poesia. Di uno studioso oltre che di un autore si può dire a proposito del De Luca fin quando, però, non sono comparsi quegli impegni per la narrativa che avrebbero superato tutti gli altri e fatto di lui uno scrittore instancabile, sempre pronto ad avviare, comporre una narrazione, costruire una trama, dire di casi eccezionali, di personaggi esemplari. Quella che De Luca scrittore persegue è la via del bene. Calata è la sua narrativa in particolari momenti della storia, della vita della sua città. Di Napoli, dei napoletani, della loro lingua, ha fatto l’ambiente, i personaggi, l’espressione di tante sue opere. Non si è arreso all’idea che i tempi nuovi, la modernità abbiano guastato, annullato i valori della tradizione, quelli che venivano dall’anima, dallo spirito. Non ha creduto finita quella morale che aveva alimentato tanta storia, tanta cultura, tanta civiltà. Ha ritenuto ancora possibili principi, sentimenti quali l’amore, il rispetto, la fiducia, la partecipazione, la collaborazione, il bene. Li ha perseguiti nei romanzi, li ha fatti interpretare dai protagonisti, ha fatto di questi degli eroi positivi, capaci di risolvere i problemi più gravi, le difficoltà peggiori. Sempre De Luca fa vincere, nelle sue opere, il bene sul male a riprova delle sue convinzioni che di bene si deve ancora parlare, che il bene è ancora possibile, ancora esiste e può essere raggiunto e diffuso. Così succede pure in Montedidio, romanzo che deriva il titolo dal quartiere di Napoli dove è ambientato. È uno dei più antichi della città, dei più sopraelevati, dei più popolati, dei più complicati nelle case, nelle strade, nei vicoli. Ancora più in alto si va a Montedidio con le sue terrazze adibite a pubblici lavatoi e asciugatoi. Sarà qui, su queste terrazze, che s’incontreranno, si conosceranno, si ritroveranno, si frequenteranno, s’innamoreranno il povero ragazzo che aiuta maestro Errico nella sua falegnameria e Maria, pure lei giovanissima. Hanno entrambi tredici anni, provengono da famiglie povere. Hanno lasciato la scuola e si sono messi a lavorare nei modi e nei posti più diversi. Lei è più matura, più sicura di lui, ha vissuto di più, sa di più. In breve diventerà la sua guida anche in quelli che sono gli atti dell’amore. Lui si sentirà aiutato, rassicurato, protetto da lei, dai suoi pensieri, dalle sue parole, dalle sue azioni. Si legheranno, si uniranno in modo da non riuscire a stare lontani se non per poco tempo, da sistemarsi in casa di lui quando sarà rimasto solo col padre dopo la morte della madre. Anche allora continuerà a lavorare nella bottega del falegname dove percepisce una modesta paga e dove ha conosciuto Rafaniello, che pure in quella bottega fa il suo lavoro di calzolaio. È rimasto a Napoli dopo la guerra Rafaniello, non è riuscito a tornare in Palestina, la sua terra d’origine. È diventato noto a tutte le persone del quartiere perché molto bravo è nel suo mestiere, molto utile, molto economico si è mostrato. Tra lui e il ragazzo si avvierà un rapporto fatto di confidenze, di confessioni, si scopriranno entrambi appassionati degli spazi celesti, della loro ampiezza, entrambi presi dal desiderio di attraversarli, di volare in essi, Rafaniello con le ali che gli sono comparse sulle spalle, il ragazzo con il “bumeràn” che gli ha regalato il padre quando era bambino. Sarà un progetto, un’aspirazione che perseguiranno per l’intero romanzo e che rimanderanno all’ultima notte dell’anno in corso. Intanto il ragazzo riporta ogni sera su una specie di diario e con la scrittura che gli è possibile tutto quanto succede a lui e intorno a lui durante il giorno. È convinto che sarà il migliore dei suoi ricordi. Maria, più concreta, non presterà molta attenzione a questi sogni e baderà già da piccola a formare una famiglia sua propria, a fondarla sull’affetto, sull’amore vissuto e scambiato col suo compagno. Si farà ammirare, apprezzare da tutti a Montedidio per essere riuscita a liberare se stessa e il ragazzo dai ricordi, dal peso delle cattive esperienze vissute e per aver saputo costruire la loro felicità nonostante i limiti, i problemi provenienti dalle loro famiglie e dall’ambiente. Sarà una felicità che si trasmetterà, si diffonderà anche intorno a loro, che coinvolgerà anche gli altri. Un’opera di bene diventerà il loro amore. Sarà lei l’eroe positivo di questo romanzo, quello che vincerà su tutti gli ostacoli per seguire il richiamo dell’anima. Prima di lei anche altri, il padre, la madre del ragazzo, il maestro falegname, il calzolaio, erano stati spiriti buoni, si erano mostrati capaci di bene ma sarà soprattutto con l’evidenza acquisita dal bene tramite Maria che si potrà dire della sua come di una conquista raggiunta e dispensata. Sarà la figura, la funzione della ragazza ad essere riconosciuta tramite il premio ricevuto da quest’opera. Un altro successo ha ottenuto De Luca con Montedidio, un’altra volta ha fatto di un semplice sentimento il vincitore di un confronto così difficile come quello con i nuovi tempi, i nuovi modi.       Niente dei luoghi, degli ambienti di quel confronto è sfuggito allo scrittore, nessun particolare compreso quello della lingua, di ogni suo aspetto compreso quello del procedimento per immagini o improvvisazioni o frammenti, è stato trascurato. Completa, totale è riuscita la vita rappresentata, tutto di essa, persone e cose, vi ha trovato posto. Ad una favola è sembrato di assistere, ad una vicenda dove già dall’inizio i buoni sono destinati a vincere sui cattivi senza, però, che si sappia quanto servirà per farlo.

L. Ravera, Più dell’amore

Ravera scrive della “roba d’altri”

  di Antonio Stanca

   Altri tre romanzi brevi di tre note scrittrici italiane sono usciti a partire dallo scorso Settembre per conto della casa editrice Rizzoli su licenza Mondadori Libri. Le scrittrici sono Viola Di Grado con Questo mondo non è casa, Lidia Ravera con Più dell’amore e Jennifer Guerra con La fabbrica di bottoni. Fanno parte le loro opere della collana “Dieci Comandamenti” promossa ultimamente dalla Rizzoli, composta da dieci romanzi brevi finalizzati ognuno a rappresentare, interpretare in chiave moderna e per mano femminile uno dei Comandamenti dell’Antico Testamento. Alcuni di questi romanzi sono già usciti, gli altri usciranno dopo quelli di Settembre. È in preparazione anche una serie televisiva intitolata “Undici” e dedicata a questo progetto. Un progetto editoriale abbastanza originale: dieci scrittrici si sono impegnate a rielaborare i Dieci Comandamenti, a commentarli, chiarirli, dare loro forma, figura tramite vicende presentate in una narrazione, tramite lo svolgimento di una trama, lo sviluppo di un romanzo. Molto originale e molto moderno il progetto della Rizzoli se si pensa che sono interessate soltanto donne e che spetta a loro saper dire di un tema così antico in tempi così recenti. Questo ci si attende dalle dieci opere della collana, scoprire in che modo la contemporaneità possa stare accanto alla più remota antichità, come possa una scrittrice d’oggi riportare a regole, principi problemi così lontani. Nonostante le difficoltà previste si può dire che abbastanza bene sono riuscite le opere finora comparse, che capaci si sono mostrate ognuna di una trama che lascia intravedere l’antico Comandamento al quale s’ispira e lo collega con la moderna situazione alla quale è giunto. Quella combinazione tra passato e presente, che sembrava tanto complicata, sta avvenendo e con un certo successo. Così è stato pure per Lidia Ravera in Più dell’amore, il suo romanzo breve che vuole commentare, esemplificare il Decimo Comandamento “Non desiderare la roba d’altri”.

    Ravera è una giornalista e scrittrice torinese, ha settantaquattro anni e molto e di molti argomenti ha scritto. Ha esordito nel 1976, quando aveva venticinque anni, col romanzo Porci con le ali. Diario sessuo-politico di due adolescenti. Lo scrisse insieme a Marco Lombardo Radice e fu un successo straordinario. L’opera vendette tre milioni di copie, fu molto tradotta e avviò, nell’ampia produzione di romanzi e racconti della Ravera, quella prima fase dedicata alla giovinezza, ai suoi problemi. Sarà seguita da altre opere dove si dirà soprattutto della difficile emancipazione femminile, dei problemi che ha comportato e ancora comporta, degli ostacoli che sono rimasti. Sarà il motivo fondamentale della produzione narrativa della Ravera, il tema di tante opere della sua maturità, quello nel quale sarà possibile riconoscerla. Col tempo, però, sarebbe tornata a scrivere degli adolescenti, dei giovani. Anche giornalista sarebbe stata nonché sceneggiatrice per il cinema e la televisione. Molto premiata e apprezzata sarebbe risultata per la convinzione, la sicurezza, la precisione con la quale avrebbe sostenuto le sue posizioni riguardo a tanti problemi, a tanti fenomeni dell’attualità più recente. Uno tra i migliori esempi del moderno intellettuale impegnato nell’opera e nella vita, nell’arte e nella storia, è il suo. Non poteva, quindi, mancare la Ravera in un’operazione come quella dei “Dieci Comandamenti” tanto carica d’impegno sociale, morale e letterario. In Più dell’amore intende dar vita, voce, movimento a quanto enunciato nel Decimo Comandamento, animare intende quanto si era detto allora e confrontarlo con quanto si può dire ora a tal proposito. Lo farà tramite un’opera che mostra la vita di due quarantenni nella Roma dei nostri tempi. Hanno una figlia adolescente, Sara, ma nessuno dei due ha un lavoro stabile che garantisca una qualche certezza. Entrambi, Tom e Betta, hanno nutrito aspirazioni artistiche, lui come regista, lei come attrice, ma nessuno ha avuto successo e dopo qualche breve periodo sono stati licenziati. Hanno seri problemi di sussistenza, stanno in una casa molto piccola e scomoda soprattutto per la figlia e le sue esigenze. Anche per l’alimentazione hanno problemi, sono molto poveri, hanno debiti presso negozi e altri posti. Spesso marito e moglie giungono a litigare e in quei casi lui va a stare per qualche tempo da sua madre. Sarà in uno di quei periodi che lei, donna ancora bella e attraente, s’imbatterà in un nobiluomo di altri tempi, il conte Paolo von Arnim. Betta non lo sa ancora, lo saprà dopo e intanto è meravigliata dal garbo, dalle attenzioni, dalle galanterie che quell’uomo le rivolge e che giungeranno al punto da farli incontrare spesso, da farli stare in casa di lui e pranzare serviti dai domestici e per un certo tempo. Lui è vecchio rispetto a lei ma molto attento nel portamento, molto curato nel vestire, molto ricca è la sua casa nell’arredamento, negli ornamenti, nel personale di servizio, nelle stanze, nei locali e in tutto quanto la compone. Betta gli farà sapere delle condizioni sue, della sua famiglia e lui provvederà a offrirle dei regali, ad aiutarla economicamente. Per lei sarà come entrare a far parte di un’altra vita, non le sembrerà possibile, vera quella situazione. Ne parlerà al marito che s’insospettirà, saprà della nobiltà di Paolo, della sua ricchezza, lo vedrà innamorarsi di lei, le sembrerà giusto accettare i suoi regali, i suoi soldi fino al punto da approfittare, da “desiderare la roba d’altri”, da trafugarla. Sarà allora che Paolo darà ai poveri tutto quello che possiede compresa la casa che aveva pensato di dare a lei, sarà allora che non si farà trovare per molto tempo e che morirà solo e malato lasciando ricadere Betta tra le sue miserie.

    Così ha creduto la Ravera di dare forma al Decimo Comandamento, mostrando come il desiderio finisca col venire punito quando diventa smodato, senza regole, quando diventa invidia, cupidigia. È tratto dalla vita moderna questo evento, è dei nostri giorni ma lascia trapelare anche il clima di quel Comandamento di tanto tempo fa. Niente dei due momenti ha negato la scrittrice, li ha composti, li ha richiamati, ha fatto vedere come possano stare insieme, come possano valere entrambi, come di entrambi si possa fare un’opera sola, un’opera che invita a riflettere su quanto è accaduto prima e quanto accade adesso riguardo allo stesso problema, su come sia possibile trovare delle somiglianze nonostante il tanto tempo trascorso.

F. Dürrenmatt, La panne

Dürrenmatt, il caso, la finzione, la realtà…

di Antonio Stanca

   Ultimamente, per conto di Adelphi nella serie “Piccola Biblioteca”, è comparsa una nuova edizione di La panne (Una storia ancora possibile), breve romanzo dello scrittore svizzero di lingua tedesca Friedrich Dürrenmatt. La traduzione è quella nota di Eugenio Bernardi che, però, è stata rivista. L’opera, che esiste anche come commedia, risale al 1956 e si può dire che da allora abbia continuato ad avere successo. Nel 1972 il regista Ettore Scola ne ha tratto il film La più bella serata della mia vita, interpretato da Alberto Sordi.

   Nato a Konolfingen, Berna, nel 1921, Dürrenmatt è morto a Neuchâtel nel 1990. Aveva sessantanove anni e aveva cominciato applicandosi nella pittura ma poi si era rivolto ad una saggistica di genere teatrale. Di questo genere erano state anche le sue prime opere. Ne avrebbe prodotto molte, lo avrebbero impegnato al punto da farlo conoscere soprattutto come drammaturgo anche se non meno importante e folta sarebbe risultata la produzione narrativa. Si sarebbe combinata con quella teatrale, l’avrebbe continuata nei temi e nei problemi. I più importanti, quelli che sarebbero tornati quasi in continuazione, sarebbero stati la solitudine dell’uomo contemporaneo, la crisi dei valori ideali, spirituali, morali, di quelli che erano unici, universali, eterni e che con i tempi moderni si erano visti sostituiti da altri di carattere materiale, contingente quali l’affermazione, la vittoria del caso sui progetti, sui programmi più arditi, la combinazione tra realtà e immaginazione, verità e finzione al punto da non farle più distinguere. Di questi ed altri problemi, di altre perdite soffre il mondo contemporaneo, soprattutto quello occidentale dove maggiore è stato lo sviluppo della scienza, della tecnica che è all’origine di tale fenomeno. In verità sono propri di molta letteratura moderna questi temi e se con Dürrenmatt hanno avuto maggiore diffusione, maggiore successo è stato per i modi espressivi che vanno dall’espressionismo al surrealismo, dall’umoristico al grottesco, dal comico all’orrido. Nessuno dei sistemi di scrittura, di comunicazione viene risparmiato, di tutti si mostra capace l’autore poiché molto importante è per lui raggiungere, coinvolgere chi assiste al suo teatro o legge i suoi libri. Molte traduzioni, molti riconoscimenti ha ottenuto, un autore moderno tra i più importanti è diventato. In ambito stilistico era stato favorito dal momento culturale, artistico nel quale visse, quello tra Ottocento e Novecento che si rivelò uno dei più fervidi, dei più ricchi di nuove correnti, di nuove tendenze, di nuova cultura, di nuova scrittura, di nuova arte. Molte situazioni, nelle opere del Dürrenmatt, sono a sorpresa, ad effetto, molte sono preparate in modo da risultare necessarie anche quando sono assurde. Molta critica viene mossa agli usi, ai costumi di certe classi sociali, di certe figure intellettuali, molto sarcasmo viene usato nei loro riguardi. È un contestatore Dürrenmatt, un autore polemico, rivoluzionario, un anticonformista che si serve pure della comicità ma che non rinuncia ad una morale inflessibile, rigorosa, dalla quale si sente mosso a protestare, discutere, ironizzare. Tutto questo avviene ne La visita della vecchia signora, opera teatrale del 1956 considerata il suo capolavoro. Qui dice della signora Claire Zachanassian che, diventata ricchissima, torna nel suo paese d’origine e viene accolta con grandi onori. In verità è venuta perché vuole eliminare, far uccidere quell’Alfredo III che da ragazza l’aveva messa incinta e poi lo aveva negato. Era stato il suo primo amante, ne avrebbe avuti molti altri, pure da sposata. Dopo molti tentativi, molte promesse di grossi compensi la signora riuscirà a far uccidere Alfredo III. Non contenta, tuttavia, era rimasta per aver dovuto attendere tanto tempo. Tutto è avvenuto tra il passato e il presente, il tragico e il comico, la realtà e l’invenzione e così sarebbe stato pure in La panne, il breve romanzo dello stesso anno dell’opera teatrale. In esso il caso fa sì che il rappresentante generale della ditta “Efestion”, produttrice dei moderni e tanto richiesti tessuti sintetici, subisca un guasto alla sua lussuosa automobile mentre torna a casa in città. Trainato nel paese più vicino è ormai sera ed è costretto a cercare una locanda dove cenare e rimanere per la notte. Viene indirizzato ad una villa piuttosto lussuosa che fa pure da albergo per forestieri e dove s’imbatte nel proprietario e in tre altri strani personaggi. Non ha, tuttavia, difficoltà a intrattenersi, a scambiare con loro le proprie opinioni. Attirato dalla situazione e contento del posto, l’ambiente rurale, il verde dei prati, le siepi fiorite, la chiesa in collina, la vista in lontananza dei boschi e delle montagne, non si cura nemmeno di avvertire la moglie e i bambini del suo mancato rientro. Si chiama Alfredo Traps, ha quarantasei anni, è un bell’uomo. Si è affermato nel suo lavoro, con la sua azienda è pervenuto a posizioni di prestigio abbastanza lucrose. La sua famiglia era stata povera, aveva cominciato come venditore ambulante ed ora godeva di quanto era riuscito a raggiungere. Di questo farà sapere ai nuovi amici mentre da loro saprà che tutti e quattro, compreso il padrone della villa, prima di andare in pensione avevano lavorato in ambito giudiziario, erano stati rispettivamente un giudice, un pubblico ministero, un avvocato difensore e un boia. Saprà pure che quando si trovavano in quella villa avevano molto piacere a giocare al tribunale, a fingere, cioè, di rifare, di rivivere quanto accaduto in antichi e famosi processi. Ancora più piacere avrebbero avuto, pertanto, se lui, Alfredo, avesse accettato di partecipare, quella sera, al loro gioco, al loro processo nelle vesti dell’imputato. Alfredo accetterà, sarà contento di far parte di quella comitiva, di quel processo intentato a lui che si svolgerà nel corso della ricca cena che li attendeva. Sarà lunghissima, lo comprenderà tutto, riempirà l’intera narrazione giacché infiniti saranno gli aspetti che il processo assumerà, moltissime le verità private e pubbliche, vicine e lontane, reali e immaginarie, che farà emergere. Proverranno da ognuno dei suoi cinque protagonisti ma più interessanti, più cercate saranno quelle di Alfredo poiché personaggio nuovo, sconosciuto in una situazione che per gli altri era solita. Sottoposto ad interrogatorio dal pubblico ministero, Alfredo non avrà problemi a parlare di sé, della sua vita privata, delle sue cose più intime anche perché è convinto che si tratti di un gioco. Dirà, quindi, dell’impegno profuso per fare carriera nel suo campo, delle illegalità commesse allo stesso scopo. Non si tratterrà dal farvi rientrare quelle circa la morte del precedente direttore generale da lui provocata per raggiungere lo stato del quale adesso gode. Era stata un’azione quasi involontaria ma era pur sempre una colpa e con la sua confessione il loro finiva di essere un gioco e diventava realtà, vita. Faceva sapere di un reato, del suo autore, chiedeva giustizia e non si saprà più come comportarsi visto che giustizia non era stata ancora fatta. Si era arrivati ormai alle ultime battute di quella strana situazione, agli ultimi preziosi alimenti di quell’interminabile cena. Erano quasi tutti ubriachi, quasi tutti cercavano la propria camera da letto tranne due che avevano pensato di passare da quella di Alfredo prima di ritirarsi nella loro. Lo avrebbero trovato morto suicida, aveva pensato di scontare così la pena che gli sarebbe spettata, aveva completato, concluso quell’oscuro rapporto tra realtà e finzione che era stato il motivo segreto della narrazione, che ne aveva fatto una delle migliori opere di Dürrenmatt e di lui uno dei maggiori autori dei nostri tempi. Un caso, quello di un’auto in panne, aveva cambiato una vita, quella di Alfredo Traps, l’aveva annullata, l’aveva fatta finire.

Geometria nello spazio

Seconda pubblicazione curata dall’Istituto “Gatti-Manzoni-Augruso” 
Sarà distribuita gratuitamente a tutte le scuole 

 E’ stato pubblicata sul sito dell’istituto Gatti-Manzoni-Augruso la notizia ufficiale della seconda pubblicazione curata dalla scuola, dal titolo “Geometrie nello spazio”, che sarà distribuita gratuitamente agli studenti interessati di tutte le scuole registrandosi attraverso un apposito link.

“La riscoperta della scrittura amanuense è una cosa interessante, trovo molto bello che gli studenti riscoprano la bellezza dello scrivere a mano”. E’ il commento del dirigente scolastico dell’IC San Francesco di Palmi Ferdinando Rotolo, alla notizia del progetto sperimentale di riscoperta della scrittura a mano, riguardo all’iniziativa della collega Antonella Mongiardo di rilanciare la scrittura a penna. 

La preside dell’Istituto lametino “Gatti-Manzoni-Augruso” ha realizzato una dispensa di matematica scritta interamente con carta e penna dal titolo “Geometria nello spazio”, che sarà pubblicata dalla sua scuola e messa a disposizione gratuitamente per tutti gli studenti. 

“Anche la nostra scuola tempo fa ha partecipato ad un concorso di calligrafia, riservato agli istituti comprensivi d’Italia – riferisce il preside Rotolo – non dimentichiamo che in Italia si eccelleva nella produzione di penne di altissima qualità, stilografiche, a inchiostro, a spirito, etc. Valorizzare la scrittura a mano è un’iniziativa molto appropriata, riscoprire il gusto di quei sapori antichi che non passano mai di moda”. 

L’intento è valorizzare la scrittura a mano, soprattutto tra i più giovani, sempre più disabituati all’uso della penna, ormai sostituita da tastiere digitali e programmi di videoscrittura. E in questa sfida, la Mongiardo si allinea alla nuova tendenza lanciata da pedagogisti e psicologi sull’importante ruolo che la scrittura può avere nello sviluppo cognitivo dei bambini e degli adolescenti.  

Antonella Mongiardo, che condivide con il collega Ferdinando Rotolo idee ed interessi culturali anche di genere mediatico-divulgativo, ha sempre coltivato un particolare interesse per i processi cognitivi legati alla scrittura, sotto l’influenza culturale di suo padre, Paolino Mongiardo, saggista e docente di psicologia della scrittura all’Università internazionale della nuova medicina (UIM), fondata a Milano nel 1947 da Marco e Rolando Marchesan con il nome di Istituto di indagini psicologiche. Paolino Mongiardo (scomparso nel 2024) fu per molti anni consulente tecnico per i tribunali prima di Roma e poi di Lamezia Terme, nonché rappresentante regionale per il Lazio dell’Albo nazionale dei periti grafici a base psicologica, che annoverava importanti esponenti del mondo della cultura, tra cui il prof. Vincenzo Mastronardi, direttore dell’istituto di psichiatria dell’Università “La Sapienza”. Uno dei sui libri più noti è Tendenze al crimine e all’illegalità dalla scrittura, una guida per inquirenti, psichiatri e psicologi, dove Mongiardo chiarisce anche la differenza tra la grafologia e la psicologia della scrittura, disciplina che ha elaborato un sistema di interpretazione della dinamica grafica, attraverso leggi e relazioni tra segni riscontrabili in ogni scrittura, dando una descrizione completa e approfondita della personalità. 

Mongiardo ha condiviso il suo progetto sperimentale, consistente in un testo scritto a penna su argomenti di geometria tridimensionale, con la Fondazione Luigi Einaudi, che ha costituito un “Osservatorio permanente Carta, Penna & Digitale” aperto al contributo di esperti, associazioni e operatori del settore. 

“L’obiettivo – dice la dirigente scolastica Antonella Mongiardo – è non soltanto riscoprire la bellezza della scrittura a mano, ma soprattutto sensibilizzare gli operatori scolastici sull’importanza della lettura su carta e della scrittura a mano in quanto pratiche imprescindibili per la crescita della persona. Talvolta, per migliorare il nostro modo di andare avanti, si deve avere il coraggio di fare un passo indietro, riscoprendo quei valori e quei piaceri del passato che, nella loro semplicità, possono rendere la vita più umana e suggestiva, evocando ricordi e sensazioni. Come può esserlo, appunto, una lettera scritta a penna o una dispensa scritta a mano, in cui pare di leggere anche qualcosa di non scritto. L’ideale sarebbe unire scrittura manuale e digitale, per integrare gli stimoli multisensoriali della scrittura a mano con le utili funzioni dell’innovazione digitale”.

M. Serra, Cerimonie

Michele Serra tra le sue Cerimonie

di Antonio Stanca

   Nella nuova serie della Feltrinelli, “Universale Economica” – 70° anniversario, dedicata alla ristampa di opere già pubblicate da questa casa editrice, è comparsa Cerimonie, una raccolta di racconti di Michele Serra, che risale al 2002 e che gli aveva procurato i Premi Procida e Gradara Ludens. Era la sua seconda raccolta di racconti, la prima, Il nuovo che avanza, era stata del 1989, quando aveva trentacinque anni e con quella aveva esordito nella narrativa. Di romanzi ha scritto due, nel 1997 Il ragazzo mucca e nel 2013 Gli sdraiati. Ora Serra ha settantuno anni e oltre che alla narrativa a molte altre attività, di altro genere, si è dedicato e si dedica.  

   È nato a Roma nel 1954 ma ha studiato a Milano dove la famiglia si era in seguito trasferita e dove, già a vent’anni, aveva cominciato a scrivere per l’Unità. Adesso vive tra Milano e Bologna e quella del giornalista, dell’opinionista, del polemista, dello scrittore satirico, di costume su giornali e riviste, continua ad essere la sua attività preferita. Lo ha distinto, ha fatto di lui uno degli intellettuali di sinistra più noti, più impegnati, più apprezzati. Anche la poesia, il teatro, la televisione hanno attirato i suoi interessi e di una figura di rilievo nell’attuale contesto culturale si può dire a proposito del Serra visto che sempre importanti, puntuali, decisivi risultano i suoi interventi di qualunque genere siano, ovunque si verifichino. Sempre traspare in essi la sua capacità di osservare, valutare, giudicare quanto succede oggi nella vita del singolo e della collettività, nella storia di una nazione e del mondo, quanto è cambiato riguardo ai valori della tradizione, quanto si è perso e non è più possibile recuperare. Polemico è il suo atteggiamento, soprattutto quello del giornalista e del personaggio televisivo, circa i nuovi costumi, i nuovi sistemi, i nuovi modi di pensare, di fare, di vivere. Sconfitti, persi vede i valori della morale, dello spirito, dell’idea, i principi che erano stati alla base di tanta storia, di tanta umanità, di tanta cultura, di tanta civiltà. È questo scontento la nota caratteristica della sua figura, quella che traspare anche nella produzione narrativa, teatrale, poetica, in ogni ambito del suo operare. E non solo polemica vuole fare Serra ma anche satira. Anche da questa si mostra attirato, anche di questa è capace e così succede pure in Cerimonie. Qui come altrove lo si scopre molto colto, molto ricco nei contenuti, molto abile nei modi espressivi, nell’uso della lingua, capace di aderire perfettamente a quanto rappresentato, di coinvolgere il lettore fin dall’inizio. Nell’opera s’impegna a ricavare una serie di racconti da quelle che erano state particolari circostanze della sua e della vita di altre persone spesso vicine. Di quelle circostanze lo scrittore ha fatto gli argomenti dei racconti, le occasioni, le “cerimonie” le ha chiamate poiché simili a dei riti, a delle celebrazioni gli sono sembrati quelli che erano strani modi di essere, di comportarsi, strane abitudini, convinzioni, condotte, strane vicende. Di queste a volte è stato partecipe, ad altre ha assistito, di altre ha saputo e tutte gli sono servite a fargli costruire, nei racconti, delle situazioni dalle quali fosse possibile trarre pensieri utili, insegnamenti. Non c’è un racconto che non tenda a raggiungere, ad ottenere un buon risultato, ad avere una funzione positiva, che non serva a far capire, a far imparare. Ritorna anche qui il Serra che condanna i vizi, i difetti, la cattiva condotta, il malcostume che si è andato costituendo nel passaggio dal vecchio al nuovo e che non lascia intravedere possibilità di recupero, di riabilitazione di quanto di buono c’era stato. Sono tanti i casi che vengono rappresentati, osservati, è una vita, una società, una storia, è un’epoca intera che con essi viene mostrata. Ne fanno parte, la caratterizzano, sono i suoi errori, i suoi aspetti negativi, sono criticati, accusati dal Serra ma come altre volte sono pure motivo di satira, di ironia quasi si volesse ridurre in tal modo il danno che hanno rappresentato. In verità non tanto questa intenzione ha fatto del Serra un autore anche satirico quanto la volontà di cogliere pure nelle disgrazie la possibilità di superarle.

M. Galante, Ma tu che lavoro fai?

“Ma tu che lavoro fai?”

– Il libro che fa riflettere i giovani sul futuro: parte da Lozzo Atestino il tour nelle scuole

L’Istituto Comprensivo Statale di Lozzo Atestino ospiterà l’evento di lancio del tour scolastico di “Ma tu che lavoro fai?”, il libro di Mariangela Galante, da pochissimo in tutte le librerie d’Italia e store digitali, con la sua capacità di unire ironia, introspezione e orientamento.

“Ma tu che lavoro fai? – Storia di una partita iva ironica e divertita” è una narrazione vivace che racconta la vita di una partita IVA con molteplici sogni, altrettanti ostacoli e piccole grandi conquiste quotidiane.

Con uno stile diretto e autentico, Mariangela Galante restituisce al lettore uno spaccato del lavoro contemporaneo, fatto di passione, resilienza e continua ricerca di equilibrio tra sé e ciò che si fa…e la domanda quotidiana che non ti abbandona mai.

«Ho scritto questo libro per raccontare il lavoro in modo sincero e umano», spiega Mariangela Galante. «Non volevo fare un saggio o un manuale, ma condividere emozioni e dubbi che molti vivono ogni giorno. Portarlo nelle scuole significa dare ai ragazzi la possibilità di guardarsi dentro e capire che la vera scelta non è solo che lavoro fare, ma che persona diventare.»

Il progetto prevede una serie di incontri con studenti e docenti, con letture guidate, laboratori e momenti di riflessione. Il libro, così, diventa uno strumento didattico di orientamento e di educazione alla consapevolezza, utile per stimolare nei ragazzi una visione più ampia e personale del futuro.

Durante l’evento lancio del 22 gennaio, l’autrice dialogherà con gli studenti dell’Istituto Comprensivo Statale di Lozzo Atestino, offrendo spunti su come affrontare le proprie scelte con curiosità, spirito critico e un pizzico di ironia.

Perché proporlo a scuola «L’orientamento non è solo scegliere una scuola o un mestiere», sottolinea il Dirigente Scolastico dell’Istituto Comprensivo di Lozzo Atestino, Alfonso D’Ambrosio. «È un percorso di crescita che parte dalla conoscenza di sé. Il libro di Mariangela Galante aiuta i ragazzi a porsi domande, a riflettere sui propri talenti e ad aprirsi alla complessità del mondo del lavoro con uno sguardo nuovo e consapevole. Ed è per questo motivo che abbiamo scelto di acquistare delle copie per regalarlo ai più meritevoli; non solo faremo questo primo incontro di gennaio con le classi terze ma ne è previsto un secondo a marzo, in occasione della nostra settimana dei club, in cui l’autrice dialogherà con le seconde e le prime classi.»

L’incontro del 22 gennaio rappresenta il primo appuntamento di un tour che toccherà altre scuole del territorio nazionale, on line e off line, costruendo un dialogo concreto tra formazione, cultura e realtà professionale. L’evento, organizzato con il supporto della casa editrice SimplyBook, nasce dal desiderio di creare spazi di confronto reali tra giovani e adulti, insegnanti e professionisti.

La domanda che dà il titolo al libro – “Ma tu che lavoro fai?” – diventa così una chiave per parlare di identità, aspirazioni e cambiamento in un tempo in cui il lavoro è sempre più fluido

per maggiori informazioni: 

C.S. Lewis, Diario di un dolore

Clive Staples Lewis, nel dolore della morte

di Antonio Stanca

   Da Adelphi è stato riedito Diario di un dolore, ennesima ristampa di una breve opera autobiografica dello scrittore inglese C. S. Lewis. La traduzione è di Anna Ravano. Nato a Belfast nel 1898, Lewis è morto a Oxford nel 1963. Aveva sessantacinque anni e molto aveva fatto, in molti modi si era applicato, di diversi generi era stata la sua produzione. Da piccolo era vissuto e aveva studiato in collegio poiché morti erano i genitori. Poi si era laureato all’Università di Oxford e qui aveva insegnato Lingua e letteratura inglese dal 1924 al 1953. Dal 1954 era stato professore di Storia e letteratura medievale al “Magdalene College” di Cambridge. Già dagli anni degli studi universitari aveva mostrato interessi per discipline particolari quali l’Occultismo e la Filosofia Ermetica che ricompariranno in seguito nella sua produzione letteraria. A quando insegnava ad Oxford, al 1919 e dopo, risalgono le sue prime opere, saranno in versi e di carattere mitologico mentre durante la maturità si convertirà alla fede cristiana e scriverà romanzi ad essa ispirati. Diventerà noto come polemista e apologeta del Cristianesimo. Sono gli anni ’40 e saranno seguiti da un’importante attività saggistica che riuscirà molto utile alla comprensione della poesia medievale sull’amore cortese e della letteratura rinascimentale. Un medievalista di alto livello sarebbe stato Lewis, un noto docente di Storia e letteratura medievale. Un momento centrale della cultura europea sarebbe diventata nei suoi studi quell’epoca, un esempio unico di unità spirituale. Anche ad opere di fantascienza si sarebbe dedicato e tra queste rientrerà, negli anni ’50, una serie di romanzi per bambini e ragazzi nonché altri a sfondo religioso dove ricorrente sarà il tema della lotta tra bene e male. Anche riduzioni cinematografiche e televisive avrebbero avuto alcune sue opere. Conosciuto, famoso sarebbe diventato Lewis, non ci sarebbe stato momento, aspetto della cultura, dell’arte dei suoi e dei tempi passati al quale non si sarebbe interessato in qualità di scrittore, di polemista o di saggista. Sempre avrebbe avuto da dire e sempre bene sarebbe riuscito ché notevoli erano le sue qualità di produzione letteraria, artistica e di osservazione critica.

   Ampia, varia risulterà la sua opera, molte traduzioni, molti riconoscimenti le saranno attribuiti. Fondamentale sarà nel contesto culturale non solo inglese poiché un punto di approdo, di verifica, un momento di analisi, di valutazione rappresenterà. Antico e nuovo, passato e presente scorrono senza sosta tra le pagine del Lewis disponendole verso gli esiti più diversi e impedendo che si riducano a pochi temi ricorrenti. Anche di genere autobiografico saranno e tra queste rientreranno le pagine del Diario di un dolore, dove lo scrittore raccoglierà tanti appunti, tante annotazioni fatte in precedenza su piccoli quaderni e le ordinerà per dire della morte prematura dell’amatissima moglie. Saranno così appassionate, così sentite, così vissute da non sembrare separate da lui ma a lui congiunte, unite quasi fossero fatte di parole dette non scritte. Tante altre, del resto, sono le somiglianze col parlato da far assomigliare l’opera ad una rivelazione, una confessione. Continue sono le pause, le riprese, le esclamazioni e tutto quanto è proprio di un discorso. Sono molte le cose che ha in mente, che vuol dire Lewis, era tanto importante quella donna per lui, lo era già prima che stessero insieme, che si sposassero. Una volta conosciuta non aveva più pensato di poter stare senza di lei e così per lei. Un processo di completamento che, però, era stato maggiore per l’uomo giacché più completa, più ricca, più sicura di sé si era rivelata la donna. Il bene, il piacere raggiunti sembravano senza fine. Erano sicuri, erano convinti che si potesse vivere di bene, solo di bene. Invece non era stato così, un’improvvisa, grave malattia e la morte di lei avevano interrotto quella che vivevano come una favola. Fino ad allora niente altro oltre a loro era rientrato in essa ma ora c’era posto per molte cose, per la fede, la religione, la divinità, la preghiera, l’oltretomba, l’eternità e soprattutto per il dolore. Saranno questi gli argomenti intorno ai quali lo scrittore si muoverà per l’intera opera. Non finirà mai di riprenderli, di tornarci, sembreranno impossibili di una definizione, di una sistemazione, di una conclusione. Mai sicuro del loro valore, del loro significato, della loro funzione, si mostrerà Lewis e così rimarrà fino alla fine dopo che tanto ha pensato, riflettuto, osservato. Niente di stabilito, di assicurato sarà raggiunto, sarà comparso né si sarà profilato un modo che lo renda possibile. Pure alla fine si starà tra le ipotesi, le domande, le incomprensioni degli inizi, tra i dubbi, i problemi di allora, pure alla fine ci si troverà in quella vita che è stata di sempre e della quale fa parte anche la morte.

A. Tabucchi, Requiem (un’allucinazione)

Antonio Tabucchi e la sua totalità

di Antonio Stanca

   Nella nuova serie promossa dalla Feltrinelli, intitolata “Universale Economica” – 70° Anniversario e impegnata a ristampare importanti opere letterarie pubblicate in precedenza dalla stessa casa editrice, è comparso il romanzo Requiem (un’allucinazione) di Antonio Tabucchi. È uscito lo scorso Maggio con la traduzione di Sergio Vecchio dal momento che l’originale, quello del 1991, è in lingua portoghese come l’aveva scritto l’autore. Abbastanza articolato il movimento intorno a quest’opera ma diversamente non poteva andare secondo quanto dichiarato nel libro dall’autore e dal traduttore. Entrambi hanno operato sentendosi legati il primo al Portogallo, alla sua storia, alla sua vita, ai suoi ambienti, ai suoi costumi, alla sua gente, il secondo a Tabucchi, alla sua figura, alla sua importanza nell’ambito letterario. 

   Nato a Pisa nel 1943, Tabucchi è morto a Lisbona nel 2012. Aveva sessantanove anni e tanto aveva fatto da essere considerato uno dei maggiori scrittori del Novecento italiano ed europeo. Nella narrativa aveva esordito nel 1975 con Piazza d’Italia, romanzo che era stato seguito da racconti e da altri romanzi, tra i quali Notturno indiano del 1984, Sostiene Pereira del 1994 e Tristano muore del 2004 erano diventati dei veri e propri casi letterari. Anche per il teatro ha scritto Tabucchi, anche saggista e traduttore è stato nonché docente di Lingua e Letteratura portoghese nelle Università di Roma, Genova e Siena. Non aveva rinunciato ad assumere posizioni di polemica civile, politica tramite interventi su giornali italiani e stranieri. Un autore ma pure un intellettuale impegnato si sarebbe rivelato, molto tradotti, molto premiati sarebbero risultati alcuni suoi testi.

    Diventato professore di Lingua e Letteratura portoghese si era tanto innamorato del Portogallo da dedicargli molta parte dei suoi interessi, della sua produzione, da andarci spesso, risiedervi e voler sapere della sua storia, delle sue tradizioni, della sua cultura, della sua letteratura. Imparerà a parlare, a scrivere in portoghese e tra l’altro sarà uno dei maggiori traduttori e commentatori del famoso poeta portoghese Antonio Fernando Pessoa (1888-1935). Dai suoi versi sembra gli sia provenuta quella tendenza, tanto spesso rinvenibile nelle sue opere, ad aumentare, moltiplicare i piani del narrato, del rappresentato, del vissuto, a farvi rientrare altre presenze, figure che non vi appartenevano, che addirittura non esistevano più, che erano morte ma con le quali c’era ancora qualcosa da chiarire, da discutere, da trattare. Con l’altro mondo, quello dei defunti, Tabucchi si mostra spesso a contatto nelle sue opere, lo riporta in vita per quanto, per come gli serve. Allarga, così, quella che è la dimensione, la misura comune, solita, vi fa rientrare anche quanto è finito, quanto non si vede, non si sente. Lo fa vedere, lo fa sentire, lo fa esistere. Una vita più piena, più completa, una vita dove niente finisce, si perde è quella del Tabucchi scrittore. Pure in Requiem succede: qui il protagonista, che stava trascorrendo un periodo di vacanza ad Azeitāo, in casa di amici, viene chiamato a Lisbona per un incontro con un personaggio molto importante, un artista, un poeta, forse il maggiore del ventesimo secolo col quale dovrà tenere una conversazione, parlare di certi argomenti. L’incontro è fissato per mezzogiorno di una domenica di Luglio degli ultimi anni Novanta in una piazza di Lisbona. Ma così non era stato perché chi lo aveva chiamato non si era fatto vedere e molto probabilmente aveva voluto dire a mezzanotte anche perché si trattava di una persona estinta da tempo, di un fantasma, e a mezzanotte è più logico che i fantasmi si facciano vedere. C’era molto da attendere, un intero pomeriggio, un’intera serata, la giornata era caldissima e il protagonista la passerà inseguendo alcuni dei ricordi più importanti di quella Lisbona che tanto cara gli era stata. Tra i ricordi ci saranno anche quelli di persone scomparse, persone amiche che erano ormai dei fantasmi e che gli sarà possibile evocare anche di giorno. La narrazione diventerà sempre più estesa, si popolerà di tante altre presenze, di tante altre vicende, di tanti altri luoghi, tempi, eventi. La storia, passata e presente, di un’intera nazione emergerà dagli scambi, dalle parole tra quel protagonista e i fantasmi. Figura, forma prenderanno i suoi ricordi, di pensieri, sentimenti, di coscienza, ragione si mostreranno capaci i fantasmi, valutare, giudicare sapranno quanto di grave hanno comportato i tempi moderni, il progresso scientifico, la tecnologia, la società dei consumi per i valori dello spirito, dell’idea, per quel che aveva costituito la tradizione. Di un’epoca intera, della sua fine, di una simile totalità si arriverà a dire tramite rapporti occasionali, mai completati, rimasti spesso accennati, sospesi perché tra vivi e morti. Per salti, passaggi improvvisi, frammenti, abbozzi procede anche qui Tabucchi ché solo in questo modo può far posto a tanta storia, a tanta vita. E stavolta vi riesce nel giro di una sola giornata tale è la perizia linguistica che ha acquisito da poterglielo permettere.

R. Catalano, Patto di fedeltà

PATTO DI FEDELTA’ … L’AUTOBIOGRAFIA DI UNA GENERAZIONE?

di Carlo De Nitti

Intrigante fin dal titolo, Patto di fedeltà, questo primo romanzo della scrittrice barese Roberta Catalano, edito a Lecce, per i tipi di Besa, nella collana “Nuove lune”. L’Autrice, un’eccellente e stimata docente liceale di lettere moderne, invero, è già ben nota per le sue due raccolte di poesie: L’amore di una donna (Firenze 2008) e Ritratto di umana materia (Firenze 2010). I due termini – ‘patto’ e ‘fedeltà’ – che Roberta Catalano mette in relazione (una sorta di genitivo soggettivo), sono consustanziali tra loro: se c’è fedeltà, di cui va ricordato l’etimo nella parola latina fides, fede, non può che esserci un patto/pactum (il patto può essere non scritto, se no, sarebbe un contratto), come suo punto di imputazione. Esso rafforza la dimensione etica dell’empatia tra i ‘contraenti’ (in primo luogo, se stessi/e, fratelli/sorelle, cugini/cugine, genitori/figli, amici, maestri/discepoli, colleghi, alleati, perfino avversari).

Attraverso i dieci capitoli, non numerati e non disposti in ordine cronologico rispetto alla narrazione, del volume (Zona di confine, Due sorelle, Saper leggere la realtà, Via Venezia, Terra, sei troppo prodigiosa perché, Qualcuno ti comprenda, Gemma a Parigi, Areski Laroum, La vita sognata, Elena), la protagonista del romanzo, Gemma, racconta in prima persona la storia della sua famiglia prima che la sua ed, in particolare, quella dell’infanzia della sua mamma, Elena Iolanda (due nomi non casuali, regnando la dinastia dei Savoia) Carmela, vissuta in una ‘zona di confine’ tra la porta di casa di una famiglia semplice, quella di Peppino e Rocca, suoi genitori, nel borgo antico di Bari ed il cortile – luogo archetipo, ormai scomparso, dell’educazione / socializzazione delle bambine e dei bambini – “Il cortile era una specie di agorà, la piazza pubblica della popolazione dei bambini […] Il cortile era la libertà dall’ordine che vigeva nella comunità familiare, ma anche la disciplina dettata dalla legge stabilita dai bambini, che esigeva rispetto e adattamento, pena la denigrazione o addirittura l’esclusione dal gruppo” (pp. 27 – 28). Come spesso i bambini, anche Gemma vuole scomparire per far focalizzare su di sé le attenzioni della famiglia: “La sola idea che mia madre mi stesse cercando, che fosse in ansia per me, che le mancassi, mi rendeva una felicità che non mi era mai balenata prima, e si stava realizzando senza che io lo avessi immaginato […] Scomparire significava smontare tutta l’impalcatura di me stessa, consentirmi di farla crollare per lasciarmi andare verso una deriva, come se naufragassi dopo una tempesta” (pp. 30 – 31).

Elena Iolanda Carmela dà una svolta alla sua vita vissuta in una ‘zona di confine’ intorno ai diciassette anni “quando suo fratello Alfredo, era entrato nell’Arma dell’Aeronautica Militare, la portò ad una festa organizzata nel salone dei ricevimenti dell’aeroporto di Bari” (p. 16). In quella circostanza, incontrò l’uomo della sua vita, il padre di Gemma, con cui si sposò dopo sei mesi: “Dopo un anno sposati dai miei genitori nacque una bambina. Io non c’ero, ma quella bambina sì. Venne alla luce dopo molte ore di travaglio e non pianse, perché qualcosa non era andato per il verso giusto […] la testa era rimasta là, stretta in una morsa che l’aveva tenuta bloccata troppo a lungo, interrompendo anche quel flusso di materia stellare che scatena il pianto, quando esci dall’involucro di un grembo e inizi a respirare da solo” (pp. 19 – 20).

 Personaggio psicologicamente complesso e di grande fascino, quello della protagonista del romanzo, Gemma: nei rapporti con la sorella, con il fratello più piccolo, con la madre, con il padre, con la città natale, con la città di elezione, con il fidanzato ‘parigino’ Areski, di origine berbera della Cabilia, con la nonna. Anche tutti i deuteragonisti hanno una loro notevole complessità: la madre, felice solo nell’inatteso explicit del volume, il padre con un comportamento ed una vita ancipite (serio militare e marito violento), il fidanzato, intimamente diviso tra la vita parigina e la cultura berbera di provenienza.

Gemma vive pienamente il suo tempo di vita, che ella, figlia dei postumi del ’68, fa coincidere con suggestioni marcusiane: “Erano gli anni ’70: gli anni della contestazione giovanile, della musica pop e rock, dei figli dei fiori, in Europa si votava il primo Parlamento europeo, veniva varata la legge sul divorzio. Erano gli anni del compromesso storico e del rapimento di Aldo Moro ed erano gli anni di Marcuse, del suo concetto di ‘uomo multidimensionale’ che affermava che ci sono altre dimensioni dell’esistenza umana oltre a quella al servizio della produttività e del lavoro. Dimensioni come il piacere e il godimento insieme agli altri, che dovrebbero essere gli obiettivi naturali dell’essere umano” (pp. 62 – 63).  In questo contesto, Gemma matura la propria decisione di e-vadere dalla sua città natale, trasferendosi in quel di Parigi come jeune fille au pair, per completare la sua crescita umana e personale e per maturare la capacità di leggere la realtà in modo autonomo e critico. Dopo il ritorno nella sua Bari e la delusione del fidanzato mai arrivato in città a raggiungerla, Gemma decide di ricominciare, ritornando a Parigi e ripartendone subito, dopo aver subito un tentativo di violenza sessuale: ”Sentivo la necessità di un bosco, un’altra sconosciuta, ma questa volta senza alcun confine. Non avevo tenuto fede al mio proposito di seguire la forma delle nuvole […] Ma questa volta no sarei tornata indietro, piuttosto mi sarei smarrita definitivamente nel bosco” (p. 142). E’ in una dimensione onirica tra passato e futuro, tra Bari e Parigi, la Gemma che si ferma in un bosco dell’Alta Savoia ed in cui vede in sogno un orso che la abbraccia. “Era venuto dalla profondità del tempo a portarmi il potere degli antenati […] Una voce familiare mi parlava, confusa tra le voci del bosco” (p. 145). Era la voce dell’amata nonna Rocca che, nel bosco di Modane, le propone un gioco di immaginazione/guarigione (si vedano le affascinanti pp. 146 – 149). “Raggiunsi la stazione di Modane e aspettai il primo treno per Bari. Le persone mi guardavano come se fossi uno yeti, ma lo yeti ha nello sguardo una tristezza indicibile, pari soltanto alla desolazione delle terre inospitali in cui si muove. Invece io, nonostante il mio aspetto, sentivo come sente un essere umano che ha oltrepassato la zona di confine del suo passato e finalmente sente di poter accogliere tutto […] Ero pronta a decidere quale direzione dare a me stessa. Il cielo era di un azzurro limpido, senza nuvole. Ed io, nel mio aspetto da yeti sorridevo alla realtà” (pp. 149 – 150). Gemma tiene fede al suo ‘patto di fedeltà’ con se stessa, con la sua vita e con le sue idee…

Leggere Patto di fedeltà di Roberta Catalano mi ha particolarmente coinvolto anche perché la storia mi è prossima: è ambientata nella città in cui sono nato, vivo da sessantacinque anni ed opero nel mondo della scuola da quaranta. La protagonista, Gemma, è una mia coetanea, che ha vissuto la città nei miei medesimi anni giovanili e che ha frequentato il milieu universitario che ho vissuto io nello stesso tornio di tempo (si veda p. 93). Gemma avrei potuto incontrarla in ogni luogo della nostra città, ma soprattutto in quello spazio più circoscritto ed identitario delle aule e dei corridoi del Palazzo Ateneo.

Gemma, nella mia esperienza di lettore ‘semplice’, non è solo un personaggio profondo, venuto fuori dalla feconda creatività di Roberta Catalano, ma potrebbe essere stata una mia vicina di casa, una mia conoscente, una mia compagna di studi universitari (con cui mi sarebbe piaciuto discutere di francofortesi, ma anche di ‘filosofare dal basso’, di fenomenologie e di marxismi ‘aperti’), una collega, una mia amica …

Sempre grato a chi meritoriamente me l’ha fatta incontrare nelle pagine di questo bellissimo volume, tutto da leggere e meditare!

#ioleggoperché

#ioleggoperché

Leggere per crescere, leggere per capire

di Bruno Lorenzo Castrovinci

Leggere non è un gesto semplice né un’abitudine scontata: è un atto di libertà che apre la mente, affina la sensibilità e nutre la coscienza. Ogni libro che prendiamo in mano ci invita a varcare i confini dell’esperienza, a entrare in dialogo con il pensiero di un altro e, allo stesso tempo, con le zone più profonde di noi stessi. In un’epoca dominata dalla rapidità, dalla distrazione e dalla frammentazione delle informazioni, la lettura rappresenta un atto rivoluzionario, il tempo dedicato a un libro è tempo dedicato alla riflessione, alla lentezza, alla profondità.

L’iniziativa #ioleggoperché, promossa dall’Associazione Italiana Editori con il sostegno del Ministero dell’Istruzione e del Merito e del Ministero della Cultura, incarna pienamente questa missione: diffondere la lettura come strumento di crescita individuale e collettiva. Ogni anno, grazie alla collaborazione tra scuole, famiglie e librerie, migliaia di libri arricchiscono le biblioteche scolastiche, rendendole spazi di dialogo e conoscenza condivisa.

Il valore educativo della lettura

La lettura è un processo complesso che unisce mente, cuore e corpo, coinvolgendo il cervello in una danza di connessioni tra ragione ed emozione. Le neuroscienze hanno dimostrato che leggere attiva aree cerebrali legate non solo alla memoria e al linguaggio, ma anche all’immaginazione, alla creatività e all’empatia. Ogni storia letta ci consente di vivere esperienze altrui come se fossero nostre, stimolando gli stessi circuiti neuronali di chi agisce o prova davvero quelle emozioni. Leggere non è, quindi, un atto passivo, ma un esercizio dinamico di immedesimazione, di apertura e di costruzione di sé, un’azione che fortifica la mente e affina la sensibilità.

Dal punto di vista pedagogico, la lettura rappresenta una palestra cognitiva e affettiva. Essa sviluppa la concentrazione, amplia il lessico, migliora la capacità di argomentare e potenzia il pensiero critico, ma va oltre, in quanto forma la consapevolezza, stimola la creatività e rafforza l’autostima. Attraverso la lettura, gli studenti imparano a collegare, ad analizzare, a interpretare, a formulare ipotesi e a confrontare prospettive differenti, allenando così le competenze trasversali fondamentali per la vita, quali empatia, comunicazione efficace, problem solving, cooperazione e autonomia.

Leggere insegna la complessità, il dubbio e la sfumatura; educa alla pazienza e alla riflessione, contrastando la superficialità del mondo digitale. Chi legge impara a pensare con la propria testa, a esercitare il giudizio e a guardare il mondo con occhi più attenti, empatici e compassionevoli, scoprendo nella parola scritta uno strumento di libertà interiore e di crescita personale.

Leggere per crescere

Ogni libro è un cammino di formazione, un viaggio che unisce conoscenza ed emozione, stimolando la crescita morale, cognitiva ed emotiva del lettore. Attraverso i personaggi e le vicende, il lettore entra in un universo simbolico in cui può riconoscere i propri conflitti interiori e scoprirne il significato. Ogni lettura è, dunque, un dialogo tra mente e cuore, tra esperienza e immaginazione, che aiuta a comprendere la realtà e a costruire la propria identità. In questa prospettiva, leggere diventa un laboratorio interiore di scoperta e di trasformazione, dove la riflessione si unisce alla sensibilità, la curiosità alla consapevolezza.

La scuola rappresenta il luogo privilegiato in cui questa crescita si compie in modo collettivo e guidato. Qui la lettura si fa esperienza condivisa, leggere insieme significa dialogare, confrontarsi, costruire senso comune e sviluppare il pensiero critico. Nei circoli di lettura, nei laboratori e nelle attività interdisciplinari, le parole diventano ponti che collegano generazioni e culture diverse. Ogni lettore, inserito in questa comunità, impara ad ascoltare e a rispettare l’altro, scoprendo che ogni interpretazione è un contributo prezioso alla comprensione del mondo.

All’interno di questo percorso, il Service Learning assume un ruolo fondamentale, unendo l’apprendimento allo spirito di servizio, trasformando il sapere in azione e in responsabilità. Leggere per crescere significa anche leggere per donare, per restituire ciò che si apprende alla comunità e promuovere la solidarietà, la cooperazione e la cittadinanza attiva. In questo modo, la lettura non è soltanto un atto individuale, ma un gesto civico che costruisce legami, rafforza la coscienza sociale e genera cultura condivisa.

Leggere per capire

Capire significa saper decifrare il mondo, e la lettura è lo strumento più potente per farlo. Ogni testo chiede di essere interpretato, collegato, discusso, ricondotto a un orizzonte di senso più ampio. Leggere è, dunque, un esercizio di pensiero critico e creativo, una forma di resistenza all’omologazione e alla superficialità, ma anche un atto di costruzione attiva della conoscenza.

Come affermava Paulo Freire, “Non si può leggere la parola senza leggere il mondo”, in quanto il testo scritto è sempre intrecciato alla vita, alle strutture sociali, alle esperienze umane che gli danno origine. Ogni libro è una finestra sulla realtà e, al tempo stesso, uno specchio in cui si riflettono le nostre inquietudini, i nostri sogni e le nostre contraddizioni. Leggere significa imparare a riflettere, a dialogare con la complessità, a comprendere le differenze e ad accogliere l’altro come parte di sé.

Le neuroscienze confermano che, quando leggiamo, il cervello “vive” le azioni e le emozioni dei protagonisti attivando aree sensoriali, motorie e affettive e generando un’esperienza quasi tangibile. È ciò che gli studiosi chiamano empatia cognitiva, la capacità di immedesimarsi nell’altro mantenendo però la consapevolezza della propria identità. Questo processo neurocognitivo spiega perché la lettura non solo arricchisce la mente, ma trasforma il modo in cui percepiamo e abitiamo il mondo. Leggere, dunque, è un atto di umanità profonda, che educa al rispetto, alla sensibilità e al pensiero consapevole.

#ioleggoperché 2025 – Una rete che unisce scuole e territorio

Nel decimo anniversario dell’iniziativa, #ioleggoperché continua a rappresentare la più grande campagna italiana di promozione della lettura. Con oltre 21.000 scuole e 3.400 librerie gemellate, il progetto crea una rete diffusa di partecipazione e solidarietà.

Dal 18 giugno 2025 scuole e librerie possono registrarsi sulla piattaforma ufficiale. Il periodo di gemellaggio, tra l’8 settembre e il 13 ottobre, consente di creare collaborazioni concrete tra istituzioni educative e librerie locali. La Settimana delle donazioni, dal 7 al 16 novembre 2025, rappresenta il cuore del progetto: chiunque può donare un libro alla biblioteca scolastica, contribuendo ad arricchire il patrimonio culturale dei ragazzi. A fine campagna, gli editori aderiscono con un’ulteriore donazione nazionale di oltre 100.000 volumi.

Ogni libro donato è un gesto di fiducia nella cultura come bene comune, ma anche un atto di responsabilità sociale che trasmette alle nuove generazioni il valore della conoscenza condivisa. Donare un libro significa credere nel potere della parola come strumento di emancipazione, di libertà e di incontro. Ogni volume che entra in una biblioteca scolastica diventa un seme che potrà germogliare nella mente di uno studente, dando vita a nuove idee, a nuovi sogni e a nuovi legami.

Le attività collegate all’iniziativa, che le scuole realizzano, ampliano il significato del progetto, trasformandolo in un autentico laboratorio di cittadinanza e creatività. In questi contesti, i ragazzi imparano che la lettura non è solo un atto individuale ma un’esperienza collettiva, che costruisce senso di appartenenza, spirito critico e consapevolezza culturale. Attraverso il dialogo con autori, l’analisi dei testi, la scrittura collaborativa e lo scambio di volumi come nel book swap, si sviluppano competenze comunicative, relazionali e civiche, in linea con i traguardi dell’educazione alla cittadinanza.

In questo modo, la scuola non solo si apre al territorio ma diventa una comunità viva, un centro pulsante di cultura che interagisce con le librerie, con le famiglie e con le istituzioni. Essa si trasforma in un presidio educativo in cui la lettura assume un valore formativo, affettivo e sociale, capace di unire le generazioni e di rendere la cultura un bene realmente condiviso.

La scuola come comunità che legge

Una scuola che legge è una scuola che cresce, che respira cultura e la trasmette come linfa vitale. Le biblioteche scolastiche, lontane dall’essere semplici depositi di libri, diventano veri e propri centri di aggregazione, spazi inclusivi dove ogni studente può sentirsi accolto, libero di cercare, esplorare e sognare. Qui la curiosità trova casa, la parola diventa dialogo, e la lettura si trasforma in un’esperienza comunitaria.

Attraverso iniziative come #ioleggoperché, la scuola assume un ruolo di promotrice culturale, tessendo relazioni con il territorio e creando una rete di significati condivisi tra docenti, studenti, famiglie e librerie gemellate. Ogni attività di lettura collettiva, ogni laboratorio, ogni scambio di libri diventa un’occasione per imparare l’ascolto, l’empatia e il valore della pluralità delle voci.

Leggere a scuola significa imparare a pensare criticamente, a confrontarsi con idee diverse, a rispettare le opinioni altrui. Significa anche educare alla cittadinanza attiva, alla curiosità intellettuale e al desiderio di comprendere il mondo. In questo modo la scuola che legge diventa una palestra di democrazia, dove si formano cittadini consapevoli, capaci di leggere non solo i testi ma anche la vita e le sue sfumature.

Conclusione

Ogni libro è una vita in più vissuta, ogni lettura è un passo verso la libertà. Leggere per crescere e leggere per capire significa formare menti aperte, curiose e solidali. L’iniziativa #ioleggoperché mostra come la lettura possa diventare una forza collettiva, un movimento capace di unire persone, generazioni e territori.

In un’epoca segnata da crisi e disorientamento, il libro resta un porto sicuro, una bussola, una speranza. Come scriveva Umberto Eco: “Chi non legge, a settant’anni avrà vissuto una sola vita. Chi legge, avrà vissuto cinquemila anni.”

Ogni pagina letta è un frammento di umanità custodito nel tempo, un seme che continua a germogliare nel futuro.

F. Scarpelli, Cuore di mafioso

Scarpelli ancora scoperto e pubblicato

di Antonio Stanca

     È successo altre volte e altre succederà che si scopra un inedito di Furio Scarpelli e si provveda immediatamente alla sua pubblicazione. La storia degli inediti dello Scarpelli risale a quella che era stata la sua attività principale, la sceneggiatura. Non tanto scrittore quanto sceneggiatore è stato in quell’Italia venuta fuori così malridotta dalla seconda guerra mondiale, in quel cinema che le era stato proprio e che dal Neorealismo era giunto alla rinnovata Commedia dell’Arte. E in Italia lo sceneggiatore è anche colui che crea la vicenda del film, che inventa la trama, la scrive, è il suo autore, il suo scrittore senza che i testi narrativi, una volta diventati film, abbiano altro seguito. Molte volte rimangono inediti siano racconti o romanzi, altre vengono scoperti e pubblicati dopo molto tempo. Dello Scarpelli famose sono state le sceneggiature di I soliti ignoti, L’armata Brancaleone, C’eravamo tanto amati e di tanti altri film. Riguardo ai manoscritti rimasti inediti recente è la scoperta di uno degli anni 1993-94, s’intitola Cuore di mafioso e immediata, dello scorso Luglio, è stata la pubblicazione presso Sellerio. Anche questo era stato il soggetto per un film ma non si era più parlato. È il figlio Giacomo che ultimamente sta provvedendo ad un’operazione di riscoperta, di recupero, e che in Cuore di mafioso ha inserito una postfazione abbastanza illuminante circa la figura, il lavoro, i tempi, gli ambienti del padre. Anche schizzi e disegni comprende questa pubblicazione ché pure disegnatore, pittore, vignettista, caricaturista era stato Furio. Quello della satira ottenuta mediante disegni su giornali e riviste era stato uno dei suoi primi modi per farsi conoscere e non vi aveva mai rinunciato.

    Nato a Roma nel 1919 qui era morto nel 2010, aveva novantuno anni, un’epoca intera aveva percorso la sua vita, l’epoca di una nazione che ambiva a sollevarsi, sistemarsi dopo i gravi scompensi, i grossi problemi comportati dalla guerra. Tutto quanto, eventi, personaggi, cultura, letteratura, spettacolo, arte, costume, società, era stato di quell’epoca sarebbe stato anche di Furio Scarpelli, delle sue narrazioni, delle sue sceneggiature realizzate da solo o con collaboratori tra i quali il figlio Giacomo. Era un mondo, una vita che ambiva a migliorare, a colmare i propri bisogni e la letteratura, il cinema, l’arte erano la voce di questo mondo, di questa vita. Da qui la corrente del Neorealismo che allora si affermò in ambito culturale, artistico a riprova di quanto fosse importante che quei tempi, quella storia si riflettesse in esso. Cuore di mafioso, opera degli anni ’90, dice di quella realtà, di un fenomeno che allora la mafia stava vivendo, la conversione che voleva operare al suo interno per liberarsi dei sistemi violenti sempre usati e diventare un’istituzione come le altre pur se di carattere criminale. La vicenda del vicecommissario Alberto Bandini scambiato per il nipote di un capo mafioso farà da sfondo ad una narrazione ambientata in Sicilia e carica, come al solito in Scarpelli, di effetti satirici, drammatici, di movimenti incalzanti, di risvolti improvvisi. Tutto quanto c’era nel film c’era stato pure nel testo che lo aveva preceduto compresa la confessione finale del capo mafioso che si dichiara pentito di quanto fatto finora e intenzionato a cambiare il modo e lo scopo delle sue azioni. Era un’epoca che si stava concludendo e con queste vicende Scarpelli mostrava di aver assistito anche a quella conclusione oltre che all’intera epoca. Lo aveva fatto più come sceneggiatore che come scrittore si è detto ma senza alcuna intenzione di ridurre il valore, la funzione, il significato delle narrazioni rispetto ai film dal momento che i testi scritti non erano stati soltanto delle anticipazioni ma avevano avuto una propria autonomia, una propria indipendenza, un valore proprio.

J. Fosse, Un bagliore

Jon Fosse e la vita dell’anima

di Antonio Stanca

   Un altro esempio della scrittura di Jon Fosse, autore norvegese Nobel per la Letteratura nel 2023, è comparso di recente con il breve romanzo Un bagliore, edito da La nave di Teseo e tradotto da Margherita Podestà Heir. L’edizione originale è del 2023 e rientra tra le tante opere di narrativa scritte dal Fosse insieme ad altre di teatro, di poesia, di saggistica, di traduzione, di letteratura per ragazzi. Ha sessantasei anni e molto e di diverso genere ha scritto.

   Nato a Strandebarm nel 1959, ha esordito nella narrativa nel 1983 e in questa ha continuato aggiungendovi altri generi. Prima del Nobel ha ottenuto notevoli riconoscimenti tra i quali quello di risiedere con la famiglia, moglie e figli, nella sede reale di Grotten a Oslo. Una figura importante è diventata la sua nel contesto culturale e artistico internazionale. Uno spazio proprio si è creato tra le personalità d’eccezione di tale contesto. A procurargli tanto successo è stata l’attualità degli argomenti trattati, la capacità di aderire ai problemi della vita, della società, della storia contemporanea, problemi legati soprattutto al passaggio dalla vecchia alla nuova generazione, alle difficoltà a volte insormontabili che ha comportato, all’incomprensione, all’incomunicabilità che ne sono conseguite, alla crisi dei rapporti famigliari, sociali, alla difficoltà di recuperare il passato, all’accettazione in molti casi di una condizione sospesa tra prima e dopo, incapace di stabilirsi perché continuamente esposta a quel flusso di coscienza che non le permette di farlo. Un flusso, cioè un movimento che tiene il pensiero sempre diviso tra passato e presente, tra quanto ricordato e quanto vissuto, quanto avvenuto e quanto avviene senza mai definirlo. A rendere questa instabilità, questa vastità interviene in Fosse un linguaggio non di espressioni compiute, ben costruite, ben collegate ma di parole isolate, scarne, essenziali, di parole che non vogliono spiegare, chiarire ma cogliere l’attimo, penetrare nell’intimo, rendere l’invisibile, l’indicibile, l’impossibile. Altra è la vita che Fosse si propone di rappresentare, è una vita più vasta, più ampia, una vita completa, totale perché dell’anima, dello spirito, è la vita del pensiero, quella che comprende anche il sogno, l’immaginazione, la visione, l’apparizione quando non il delirio. E quello delle parole essenziali è sembrato allo scrittore il modo più idoneo per dire di essa. Anche in Un bagliore si assiste a situazioni simili, a linguaggi simili. Qui si tratta, fin dagli inizi, di una vicenda strana, irreale, incomprensibile della quale si rende conto pure il protagonista senza, però, riuscire a porvi rimedio e rimanendone vittima. È un uomo che vive da solo, un uomo che è uscito con la macchina e si è inoltrato per strade poco frequentate alla periferia della città. È finito in un bosco, ha proceduto finché la macchina non si è impantanata tra solchi profondi. Impossibile liberarla, serve trainarla con una macchina più potente o un trattore. Alla ricerca di questi mezzi si mette quell’uomo, di una casa con una macchina o di una fattoria con un trattore. Si è incamminato sulle strade che crede di aver percorso poco prima senza rendersi conto che l’ora è tarda, che tra poco sarà buio completo, che nessuna casa, nessuna fattoria aveva notato prima e che intanto ha cominciato a nevicare. Si perderà in un bosco fitto di alberi e di sterpaglie, non saprà orientarsi tra il buio e la neve che cancelleranno ogni indizio. Avrà freddo, molto freddo, si scoprirà solo, senza nessun aiuto, nessun riferimento, solo e lontano dalla macchina in una oscurità senza limiti. Sarà allora che cominceranno a comparirgli delle immagini, delle figure: la prima sarà quella di un “bagliore” intenso, di forma umana o quasi, poi quella di un uomo con un vestito nero, senza volto e scalzo ed infine quelle dei genitori. Soprattutto la madre parlerà con lui, lo inviterà a muoversi, a seguirla, a tornare a casa. Glielo farà dire anche dal padre, cercherà di coinvolgere anche l’uomo in nero, di farli rientrare tutti in quel bagliore che era stata la prima apparizione e che sarebbe stata anche l’ultima nel senso che li avrebbe compresi, assorbiti e annullati tutti facendo di ognuno una parte, un aspetto di quell’anima infinita.    Sarà tra questi elementi e tra altri, ai quali alluderà senza farli vedere, che lo scrittore si muoverà nell’opera con parole accennate, abbozzate, appena capaci di farsi capire, di far capire se quelle presenze sono vere o inventate, immaginate, sognate, se le distanze tra loro o col protagonista sono lunghe o brevi, se di quanto dicono sono convinte. Si finirà di leggere senza distinguere tra vero e falso, senza sapere se credere o negare. Non ci sarà niente del quale non varrà pure il contrario. Tutto, anche il falso, l’ingiusto avrà motivo, ragione di esserci e in questo modo, con queste figure, concrete e astratte, con queste parole, dette e non dette, ha pensato Fosse di poter rappresentare quella totalità che per lui è propria dell’anima, della sua vita.

E. Franco, Usodimare

Ernesto Franco, per una vita intera

di Antonio Stanca

   Di Ernesto Franco, nato a Genova nel 1956 e qui morto nel 2024 a sessantotto anni dopo una lunga e grave malattia, è uscita un’altra edizione di Usodimare (Un racconto per voce sola). È della Einaudi, serie “ET Scrittori”. La prima edizione Einaudi è stata dell’anno scorso mentre al 2007 risale l’edizione originale avvenuta presso Il Nuovo Melangolo, collana “Nugae”. In precedenza Franco aveva scritto Isolario, Vite senza fine, col quale nel 1999 aveva vinto il Premio Viareggio. In seguito verranno Donna cometa, Storie fantastiche di isole vere, Sono stato. Sarà pure poeta con la raccolta Lontano io e curerà e tradurrà alcuni noti autori della letteratura ispano-americana. Particolare sarà l’attenzione per quelli che hanno trattato di fenomeni immaginari, surreali, fantastici. Anche lui, nella sua narrativa, si era interessato a questi. Il racconto Usodimare vi rientra a pieno titolo ma non rimane completamente nella dimensione surreale poiché tanto posto concede pure alla realtà, alla storia.

   Di Franco va detto anche che una volta laureatosi in Lettere presso l’Università di Genova aveva lavorato per le case editrici Marietti e Garzanti e che dal 1998 alla morte era stato prima direttore editoriale e poi direttore generale della Einaudi. Docente lo avevano visto le Università di Genova e di Siena. Tanto aveva fatto pur in un tempo piuttosto ridotto. Spirito acceso, inquieto si era rivelato, sempre alla ricerca d’altro, a volte anche di quello che, come in Usodimare, non si sa o non si vuole sapere né dire. Tutto il racconto è percorso da questo mistero, da questo segreto che la bella Nenè ha confidato al suo amico e innamorato Pepe Usodimare, Capitano per l’ultima volta del vecchio mercantile Bahía Inútil. Glielo ha detto sulla nave in un momento di pericolo per loro e per l’equipaggio, lo ha fatto prima di morire e dopo essere riuscita a mettere in salvo MG, il suo vero uomo. Da allora Usodimare sa che sulla nave c’è qualcosa di nascosto ma non sa se si tratta di un tesoro o di una rivelazione, di un messaggio. Da allora ha messo in allerta tutti i suoi uomini perché cercassero quanto si nascondeva. Non hanno molto tempo a disposizione perché il Bahía Inútil è in navigazione, sta compiendo, al comando di Usodimare, il suo ultimo viaggio. È diretto verso il Bangladesh, verso l’infinita spiaggia fangosa di Chittagong dove ci sono i cantieri di demolizione. La nave è vecchia, ha molti problemi, è stata venduta all’asta e i nuovi padroni hanno pensato di abbatterla. Il tempo per raggiungere Chittagong è quello che rimane per la ricerca, per la scoperta che il Capitano si è proposto di compiere. Non è molto ma molti sono i pericoli, gli imprevisti, i rischi, i disagi compresi quelli dei pirati, ai quali il vecchio bastimento va incontro. Non si finirà mai di sospettare, di dubitare, di aver paura giacché sempre esposti, sempre vicini a disgrazie ci si troverà, sempre minacciati da queste.

   Si giungerà, infine, a Chittagong, alla fine del viaggio, alla fine della nave, alle ultime annotazioni riportate da Usodimare sul suo computer, alla conclusione del racconto per la quale serviranno anche le testimonianze del nostromo e di un povero diavolo di Chittagong che ha assistito da lontano agli ultimi risvolti della vicenda compresi quelli della scomparsa improvvisa del Capitano e del mancato ritrovamento di quanto cercato.   C’è stata, nell’opera, una vasta e varia combinazione di persone e cose, pensieri e azioni, intenzioni e previsioni, c’è stato un interminabile alternarsi di tempi e luoghi, ambienti privati e pubblici, sacri e profani. Un intero continente, un’intera umanità sono diventati i luoghi e i personaggi del racconto. Ancora capace si è mostrato Franco di saper procedere con facilità, con chiarezza pur tra i torbidi del pensiero, le complicazioni della realtà, l’inspiegabile, l’invisibile. È una maniera che lo ha distinto poiché dà voce a chi non ne ha, fa luce dove non c’è. Da qui il rapporto che lo scrittore ha sempre sentito vicino con i grandi della letteratura fantastica quali Jorge Luis Borges, Silvina Ocampo, Adolfo Bioy Casares, Octavio Paz ed altri. Di essi nel 2007 aveva curato per Einaudi un’antologia, com’essi Franco non dubita della realtà ma non la ritiene sufficiente a dire tutto della vita, a completare quello che fa parte della storia, a comprendere quanto vi rientra senza che lo si veda.

G. Strada, Una persona alla volta

Strada non fa autobiografia

di Antonio Stanca

   È uscita, a Maggio, la terza edizione di Una persona alla volta di Gino Strada, personaggio diventato molto noto in questi ultimi anni per essersi dedicato alla salvezza, alla cura, all’assistenza dei feriti, dei reduci di guerra in un mondo che di guerre ne ha tante. L’opera risale al 2022 e consiste in una raccolta di memorie, notizie, osservazioni, commenti circa le esperienze vissute dall’autore nelle diverse zone di guerra dove si è trovato. Strada si era specializzato prima in Chirurgia d’urgenza, poi in Chirurgia Cardiopolmonare, Chirurgia Traumatologica e Cura delle vittime di guerra. Durante gli anni Novanta era stato all’estero e nel 1994, insieme ad altri colleghi specialisti, aveva creato Emergency, un’Associazione Umanitaria Internazionale impegnata a fornire cure e assistenza alle vittime della guerra e della povertà che si verificavano nel mondo. Con Emergency Strada è stato in molti paesi, in tutti quelli che erano in guerra, e notate sono state la sua dedizione, la sua volontà di partecipazione ai problemi degli altri, la sua solidarietà ai casi, alle situazioni più gravi, più estreme. In un mondo di orrori è vissuto senza mai esitare di fronte al bisogno. Ha sempre agito, sempre ha operato convinto che solo così si potessero ottenere risultati positivi. Era la sua educazione religiosa che lo spingeva e che continuerà a farlo anche quando sarà diventato ateo.

   Nato a Sesto San Giovanni nel 1948, Strada è morto a Rouen, Francia, nel 2021. Aveva settantatré anni. Si era laureato all’Università di Milano e al Policlinico si era specializzato. Durante gli anni Sessanta aveva fatto parte della contestazione giovanile, della quale aveva condiviso gli ideali di giustizia e libertà. Diventato medico aveva aderito alla Croce Rossa Internazionale ed era stato in tante parti del mondo, in tutte quelle che si trovavano in stato di pericolo, di allarme, di tensione, di guerra. Aveva mostrato di sapersi prodigare per aiutare quanti avevano bisogno, fossero feriti o poveri, uomini o donne, vecchi o bambini. Era sempre stato d’aiuto e riconosciuta sarebbe stata questa sua volontà di bene, di conforto, di cura. Strada non era solo il chirurgo che interveniva sulle lacerazioni del corpo ma anche l’amico che incoraggiava, consolava, consigliava. Era stata anche questa sua tendenza a convincerlo a scrivere delle sue esperienze. Una volta arrivato in certe zone si era accorto che la maggior parte dei feriti se non dei morti non erano militari ma civili e soprattutto donne e bambini, persone, cioè, rimaste nelle case, nei paesi, nelle città, sole, indifese ed esposte alle esplosioni di ordigni che gli avversari avevano disseminato e che spesso venivano scambiati per giocattoli. In tal modo i civili, le loro case, le loro strade, le loro vite erano diventate le maggiori vittime delle guerre moderne e il bisogno di denunciare questo e altri gravi comportamenti tra stati belligeranti ha mosso Strada a farne motivo di scrittura. Ha voluto protestare, dichiarare apertamente ha voluto che i civili, quelli che conducono una vita pacifica nelle loro case, nei loro posti, siano urbani o campestri o boschivi o alpini, non possono essere considerati avversari, nemici di guerra e, perciò, attaccati, assaliti, bombardati. Molto gravi ha definito queste azioni perché disumane, violente e condotte contro persone indifese. Ha invitato, pertanto, gli Organismi nazionali e internazionali, soprattutto quelli delle nazioni in guerra, a prendere i provvedimenti necessari a tutelare la salute pubblica, ad evitare che certe situazioni si verifichino, che si spari, si bombardi contro persone che in posti diversi dalle loro case, dalle loro strade non possono stare pur in tempi di guerra.

    È stata l’inalterabile volontà di bene ad orientare Strada verso l’attività letteraria, verso il recupero delle sue memorie. Non ha voluto fare autobiografia, lo ha detto all’inizio di quest’opera, ha voluto richiamare l’attenzione su quanto di ingiusto, di grave succede durante una guerra, sollecitare ha voluto perché si provveda a riparare quelli che sono grossi danni e rischiano di passare inosservati. Era un uomo di azione ma anche di pensiero. Non gli sfuggiva niente di quanto gli succedeva intorno, non gli era difficile cogliere situazioni contraddittorie, contrastanti, né gli era faticoso pensare di porvi rimedio. Non sempre, però, i risultati corrispondevano alle intenzioni e a volte queste rimanevano incompiute.