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Modugno e Santomauro

GIOVANNI MODUGNO E GAETANO SANTOMAURO NEL PERSONALISMO PUGLIESE, ITALIANO ED EUROPEO DEL ‘900

di Carlo De Nitti

Maestri di umanità. Maestri di compassione. Maestri di nuove opportunità per il pianeta e i suoi abitanti. Maestri di speranza PAPA FRANCESCO

1. ABBRIVO

In un’epoca, come quella che viviamo caratterizzata da una sempre più forte caratterizzazione digitale in ogni aspetto della vita – personale, sociale, civile economico, politico – e delle sue relazioni, non è anacronistico parlare di educazione ‘integrale’, ovvero che un’educazione che programmaticamente abbracci nel processo educativo l’uomo/la donna, la persona, in ogni età della vita ed in tutte le sue dimensioni.

A chi scrive sembra interessante incentrare il proprio intervento sul pensiero di Giovanni Modugno e di Gaetano Santomauro, pedagogisti del ‘900 pugliese, italiano, europeo.

Non come esperto dei due Autori nel senso accademico della parola, ma come chi, uomo di scuola, da molti anni, con le storia di vita e di pensiero dei due autori ha avuto una frequentazione generata dall’aristotelico “thaumazein”. Sì, perché personalità siffatte non possono non sé-durre, a prescindere dalle idee di chi si accosti, purché lo faccia con onestà intellettuale e sprito teoretico scevro da pre-giudizi. 

E’ di sicuro interesse interrogare le figure di Giovanni Modugno e di Gaetano Santomauro per cogliere – provando a suggere l’essenza del loro pensiero – quanto essi possanodire (rectius: insegnare) a noi, persone di scuola del XXI secolo, che operano nelle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado. Il ri-pensare le istanze di Giovanni Modugno e di Gaetano Santomauro nella scuola di oggi non può, né deve, essere un mero esercizio di erudizione storiografica, ma un interesse squisitamente teoretico che interroghi i due pedagogisti, a partire dagli interrogativi del presente che scaturiscono, ovviamente, da bisogni didattici, educativi e pedagogici che urgono alle persone di scuola.

2. I “MAESTRI DEL SENSO”

E’ possibile connotare Giovanni Modugno e Gaetano Santomauro – per utilizzare il lessico della pedagogia di Papa Francesco – nell’espressione “maestro del senso”. Chi scrive non trova migliore sintetica definizione se non quella delle parole usate dal Pontefice nel 2022 a Lisbona, parlando ai giovani per definirli: <<Maestri di umanità. Maestri di compassione. Maestri di nuove opportunità per il pianeta e i suoi abitanti. Maestri di speranza>>. 

Giovanni Modugno e Gaetano Santomauro lo sono stati, di sicuro, ante litteram, … e lo sono ancora oggi per noieducatori e le giovani generazioni affidate alle nostre cure!Leggere contestualmente oggi Modugno e Santomauro oggi significa affrontare in modo efficace le urgenze educative del mondo contemporaneo. Al centro del processo educativo – come sostenevano nel loro tempo i pedagogisti dell’attivismo pedagogico – non possono che esserci gli educandi con i loro vissuti, le loro storie interiori, i loro bisogni. Nel processo di educazione, non si può che “ascendere insieme”, per riprendere il titolo di un testo del 1943 dello stesso Modugno, per cambiare se stessi e,contestualmente, la società in cui si vive.

3. GIOVANNI MODUGNO 

La vita, la ricerca culturale, l’insegnamento di Giovanni Modugno incarnano l’anelito verso una società più giusta e più libera, nella quale ogni persona, consapevole della sua dignità, possa recuperare e vivere il significato dei valori fondamentali, in primis, la vita e la libertà, senza dei quali non è possibile praticare alcun altro valore. L’attualità del suo messaggio si focalizza prioritariamente intorno alla finalità dell’educazione, riprendendo le istanze più significative della tradizione pedagogica cristiana, arricchita dal dialogo fecondo con autori contemporanei. A partire dalla fine degli anni Venti, intensa fu la relazione di Giovanni Modugno con il gruppo di pedagogisti cattolici che si raccoglieva in quel di Brescia intorno alla casa editrice La Scuola, fondata nel 1904, ed alla rivista Scuola Italiana Moderna, nata nel 1893. Il medesimo milieu cattolico in cui, com’è noto, si formò il giovane don Giovanni Battista Montini (1897 – 1978) – Pontefice con il nome di Paolo VI – che alle posizioni di Giovanni Modugno fu certamente vicino, attraverso la filosofia della persona di Jacques Maritain (1882 – 1973).  

Nel gruppo di docenti e pedagogisti cattolici bresciani e nelle loro iniziative, di cui fu ispiratore e sodale anche attraverso il suo discepolo e figlioccio Matteo Perrini (1925 – 2007), Giovanni Modugno trovò quella consonanza intellettuale e religiosa che spesso gli mancò in Puglia, una sorta di accogliente “rifugio”, ma anche la possibilità di incidere nella scuola militante: basti pensare alla comunanza di interessi e alla sua consonanza intellettuale con Laura Bianchini (1903 – 1983), docente liceale bresciana di filosofia e madre Costituente.  

Anche dopo la seconda guerra mondiale, Giovanni Modugno continua a collaborare con Scuola Italiana Moderna, la rivista scolastica più diffusa tra i docenti di scuola elementare, ed ispirò anche una filiazione diretta del gruppo bresciano: il “gruppo di maestri sperimentatori” di Pietralba (BZ), che si riunì per la prima volta nel 1948, cui partecipò anche un altro grande pedagogista pugliese, appena venticinquenne, suo allievo all’Istituto Magistrale di Bari: Gaetano Santomauro.  

Giovanni Modugno riconosce che la pedagogia è la “scienza della vita”: si preoccupa di affinare una riflessione rigorosa ma anche che manifesti un’efficacia pratica, fondata su principi e valori saldi, applicabili sia alla prassi quotidiana, scolastica e non. Per Modugno, la scienza della vita costituisce la risposta più significativa all’esigenza di riaffermare il primato della moralità, della razionalità e della spiritualità, come qualità peculiari di ogni persona che impara a riconoscerle come espressioni ineludibili della propria dignità e della propria coscienza morale.

Giovanni Modugno ricerca sempre il “perfezionamento interiore” anche nei momenti più drammatici della sua vita personale, come, con la precoce morte della figlia Pina. Evento – collegato con altri lutti familiari (i genitori) – che interroga la coscienza del pedagogista. Quando la figlia si ammala, il progetto di Giovanni Modugno è di lavorare per ‘cristianizzare la vita’, in lui e attorno a lui. E’ convinto che le disuguaglianze sociali e le miserie non si eliminano soltanto con le leggi e le riforme, ma con l’amore. La vera riforma interiore consiste nel disporsi a comprendere i bisogni di ciascuna persona in difficoltà e nel sentirsi responsabili se manca il necessario per vivere.

I motivi fondamentali che accompagnano la vita di Modugno sono quelli di ‘ascendere insieme’, ‘salire alla sublime vetta’, ‘aiutare gli altri a salire’: l’insegnamento gli consente di adempiere a questa sua idea. Nella prospettiva del suo pensiero, la religione costituisce il principale centro d’interesse dell’intero curricolo scolastico, oltre che il contenuto più significativo della scienza della vita. Essa è la guida per cogliere nella vita concreta le relazioni tra le singole azioni ed i principi della ragione e della morale. Con la didattica della ‘provocazione riflessiva’, stimolata dal docente, la pratica del riflettere durante le lezioni li sollecita nella chiarificazione dei criteri direttivi e li pome nelle condizioni di osservare, giungendo a scoprire le istanze più profonde della vita. Come non ritenere queste suggestioni attuali e praticabili nel XXI secolo

4. GIOVANNI MODUGNO VIVANT

Riflettere oggi, nel terzo decennio del XXI secolo, sulla figura, sul pensiero e sulla storia di Giovanni Modugno, “cercatore di Cristo” ed “apostolo dell’educazione” è un atto “rivoluzionario” nella sua essenza, che modifica radicalmente i paradigmi del pensiero corrente, spesso incentrato sui tecnicismi della pedagogia – declinati in tutte le sue branche – e della scuola, piuttosto che sulla persona, quale punto di imputazione ultimo di ogni azione educativa.

Questo è il continuum che attraversa la vita di Giovanni Modugno, anche prima di insegnare, quando, da giovanissimo, iniziò ad impegnarsi nelle vicende della politica della sua città, Bitonto, in solido con lo storico molfettese Gaetano Salvemini (1873 – 1957), cui lo unì un lunghissimo sodalizio intellettuale e politico, nonostante le diverse posizioni, che ha attraversato la storia italiana di mezzo secolo. Pressocché coetanei, furono entrambi “figli”, diversi tra loro, della temperie culturale positivistica, da cui furono entrambi alieni, giungendo a posizioni politiche diverse che avevano in comune l’impegno per il riscatto dei contadini meridionali rispetto ai soprusi dei latifondisti, attraverso la conquista del più fondamentale dei diritti, quello all’istruzione.   

Il fulcro dell’attività di Giovanni Modugno – che volle essere sempre “maestro di maestri” – fu sempre l’educazione dei giovani al pensiero critico, lontano da ogni possibile strumentalizzazione. Egli non fu mai uomo “di parte”, rifiutò sempre per se stesso incarichi, cariche ed onori di ogni tipo, proprio per conservare la sua libertà di pensiero. Non a caso, nel 1923, al pedagogista, ed amico, Giuseppe Lombardo Radice (1879 – 1938) che gli offriva, a nome del Ministero della Pubblica Istruzione, la nomina a Provveditore di Bari, egli oppose un fermo diniego, come fece, alla stessa maniera, quando la carica gli fu offerta, nel 1944, da Tommaso Fiore (1884 – 1973) a nome del Comitato di Liberazione Nazionale. Parimenti, non a caso, nel 1929, fu assordante il suo silenzio – in un’Italia osannante – di fronte alla firma dei Patti Lateranensi.

Questa missione educativa – cui adempì senza maideroga alcuna – non gli impedì di mantenere relazioni intellettuali con i più sensibili ed insigni pedagogisti del suo tempo, a cominciare dalla “scoperta” di Friedrich Wilhelm Foerster (1869 – 1966) e Josiah Royce (1855 – 1916). Con ed attraverso di loro, Giovanni Modugno difese la persona umana, la sua dignità e la sua libertà interiore, trovando nel Cristianesimo, inteso ome “fede nella Resurrezione”, il miglior fondamento per conseguire questo obiettivo. In quest’opera educativa, massima era la sintonia del pedagogista con Mons. Marcello Mimmi (1882 – 1961), Arcivescovo di Bari dal 1933 al 1952, di cui condivideva in toto il metodo pastorale.

La cifra di tutta l’esistenza del pedagogista che si può compendiare nel titolo del volume – pubblicato dieci anni dopo la sua scomparsa, a cura dell’amatissima moglie, Maria Spinelli Modugno – Giovanni Modugno. Io cerco l’Eterno: mediante un’ascesa interiore, mai disgiunta dall’adempimento del dovere della missione educativa, indirizzata alla conquista, da rinnovare continuamente, della libertà, della coscienza critica e della dignità della persona umana. Un’eredità pedagogica e morale da raccogliere e praticare con rinnovata lena anche, se non soprattutto, nelle scuole di ogni ordine e grado.

5. GAETANO SANTOMAURO

Le tematiche del pensiero di Modugno, si ritrovano, a parere di chi scrive, con semantica diversa, nel pensiero di Gaetano Santomauro. Rimeditare sul pensiero di questo autore, mediante la costruzione di un itinerario di ricerca all’interno di alcune tra le sue opere, significa accostarsi al pensiero di un Maestro della pedagogia italiana di ispirazione meridionalista e personalista: di un personalismo peculiare che “non è dogmatico ma neanche tendenzialmente scettico o relativista. E’ un personalismo realistico, che ha nella persona la misura delle cose e che nella persona ritrova il giusto equilibrio tra l’ansia del trascendente ed il qui ed ora “. 

Chi scrive pensa che esista un modello ‘protagoreo’ della pedagogia, al pari di quello della filosofia, come magistralmente teorizzato da Giuseppe Semerari. Tale modello è, di certo, invenibile in quel personalismo realistico che trova nella persona il giusto equilibrio tra l’ ‘hic et nunc’ e l’ansia del trascendente: esso legittima e sostiene la ‘pedagogia in situazione’ che è ermeneutica allorché sollecita a trovare i principi categoriali con i quali ‘comprendere’ le situazioni.

Il qui ed ora, per Santomauro, erano fondamentalmente la scuola e la società meridionali del dopoguerra ed il ruolo che la prima aveva il dovere di svolgere per il riscatto culturale, sociale, civile e, conseguentemente, economico della seconda. Il suo impegno sociale in favore del Mezzogiorno fu costante ed accompagnò la sua riflessione teoretica e la sua azione pedagogica a tutto tondo: non a caso, intrattenne rapporti, anche epistolari con uno dei più grandi Statisti, meridionale e meridionalista anch’egli, che l’Italia nei suoi centocinquanta anni di vita unitaria abbia mai avuto, Aldo Moro (1916 – 1978).

Il lascito migliore della riflessione pedagogica di Gaetano Santomauro, la cui prematura scomparsa ne ha tragicamente impedito ulteriori e fecondi sviluppi – un’eredità che lo fa essere nostro contemporaneo di persone di scuola del Terzo Millennio – è, “la sua fiducia inconcussa nell’educazione e nel suo ruolo positivo e propulsivo nella società, la sua speranza nell’educazione non in maniera fideistica né in forma ingenuamente ottimistica, ma in forma consapevole, responsabile, lucidamente ancorata al tempo storico e alla condizione umana” . 

Particolarmente interessante ed euristica è, a distanza di oltre cinquantacinque anni dalla sua prima pubblicazione, in quest’ottica, la rilettura dell’opera principale della pur vasta produzione scientifica di Santomauro, Per una pedagogia in situazione, purché la si affronti utilizzandola come chiave di lettura critica e propositiva delle problematiche pedagogiche del XXI secolo. 

La pedagogia in situazione non è una pedagogia relativistica (se non addirittura nichilistica) che si smarrisce nella realtà o la ratifica sic et simpliciter, ma è una pedagogia ermeneutica, in quanto – spiega ancora Pagano – assume il carattere, da un lato, ‘noetico’ perché sollecita la ricerca pedagogica a trovare i principi categoriali con i quali ‘leggere’, ‘spiegare’, ‘comprendere’ le cose, i fatti, le situazioni, e, dall’altro lato, storico-dialettico, perché spinge il pedagogista ad uscire dalle assolutizzazioni e a cercare mediazioni, a cogliere le reali possibilità di un processo educativo. E‟ una pedagogia forte nei suoi principi, ma pronta a mettersi in discussione quando avverte i limiti ed i rischi di una deriva integralista e fondamentalista. E‟ una pedagogia che vuole operare nel mondo e con esso continuamente rinnovarsi”. 

La ‘pedagogia in situazione’ è, a parere di chi scrive, la scommessa pedagogica che vive ogni giorno chi voglia operare con consapevolezza ed efficacia nella scuola del XXI secolo per formare persone, uomini e donne, competenti nell’umano, educando alla responsabilità, alla cittadinanza attiva, alla solidarietà, alla differenza, ma soprattutto al rispetto di tutt* e di ciascun*.

E’ la scommessa pedagogica che si trova a vivere ogni giorno chi voglia operare nella scuola del XXI secolo: formare persone, uomini e donne, competenti nell’umano significa educare “alla responsabilità, alla partecipazione, alla solidarietà, alla tolleranza, al rispetto della tradizione, all’inclusione contro l’esclusione, al dialogo, alla prossimità, al realismo, alla comprensione del sé storico”, in una parola, ai valori.

A parere di chi scrive, l’effettiva competenza nell’umano è, e deve essere, sostanziata di un’originaria responsabilità / libertà per … che contraddistingue la persona: “noi non siamo responsabili perché siamo socialmente impegnati, ma ci impegniamo socialmente perché siamo originariamente responsabili”, come insegnava, in quegli stessi anni, Giuseppe Semerari, in una prospettiva teoretica tutt’affatto diversa.

Negli anni ‘60/’70 del secolo scorso, per Santomauro, praticare una pedagogia in situazione significava difendere le peculiarità valoriali della civiltà contadina, segnatamente pugliese e meridionale, dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione spersonalizzante ed alienante. Non è difficile invenire nell’impegno mai disgiunto di ricerca teoretica e attività sociale da parte di Gaetano Santomauro, – consegnato a volumi come Civiltà ed educazione nel mondo contadino meridionale, Il senso di una pedagogia impegnata e Problemi educativi e programmazione nel Mezzogiorno ed alle azioni per la scuola pugliese e meridionale nei decenni di transizione dalla società contadina a quella agro-industriale ed industriale come Consulente tecnico dell’Ente Riforma e come membro della delegazione italiana presso l’UNESCO – i fondamenti teoretici e sociali per un impegno odierno di donne ed uomini di scuola contro la spersonalizzazione di una società postindustriale, globalizzata, che tende ad omologare idee, comportamenti, usi, costumi, linguaggi, impoverendo o, addirittura, svellendo le tradizioni e modificando gli stili di vita degli uomini, delle donne e dei bambini nella prospettiva sempre ‘allettante’ dell’incremento dei consumi finalizzato alla produzione ed ad un profitto spesso fuori controllo.

6. GAETANO SANTOMAURO VIVANT

A parere di chi scrive, praticare oggi una pedagogia in situazione significa riconoscere nelle azioni concrete la dignità di ogni persona umana e determinare la necessità di elaborare e di definire itinerari operativi di “educazione compensativa”, ossia di recupero delle situazioni di emarginazione e di insuccesso negli istituti scolastici di ogni ordine e grado. Tale riconoscimento è la cifra caratterizzante la cultura occidentale dal mondo greco fino al nostro tempo. La dignità dell’uomo definisce il suo essere persona ed il fine dell’educazione di cui è protagonista: in particolare, per la scuola, non è possibile leggere, conoscere ed educare le varie condizioni umane se non nell’ottica dell’accoglienza e della promozione di ogni persona, di tutti e di ciascuno, soprattutto di quelle contrassegnate dall’emarginazione e dell’insuccesso, che non sono soltanto scolastici, ma anche e soprattutto sociali e civili, anche, se non soprattutto, per una serie di ragioni sociali, storiche, economiche e politiche, che non è, in questa sede, dato di indagare ed approfondire, nel Mezzogiorno d’Italia.

In questo senso, operare quotidianamente nella scuola sta a significare porre in essere ogni giorno la pedagogia impegnata in situazione, che non è né può diventare pedagogia della situazione.

La pedagogia in situazione trova la sua massima espressione nella pratica dei laboratori e nella didattica incentrata su di essi, che non sono soltanto uno spazio didattico diverso dall’aula tradizionale, ma una modalità di apprendimento fondata su dimensioni altre dell’insegnare, consente di conseguire in modo efficace tanto gli obiettivi formativi quanto gli obiettivi specifici di apprendimento, afferenti il sapere (conoscenze), il saper fare (abilità) il saper essere (comportamenti e competenze) poiché essa promuove linguaggi plurimi e non soltanto quelli “dal collo in su”, quelli dimidiati, per dirla con Papa Francesco, poiché non coniugano la mente con il cuore e con le mani.

Questa opzione teoretica per la laboratorialità a trecentosessanta gradi colloca la prospettiva delle scuole, soprattutto del primo ciclo di cui massimamente si è occupato, già nel 1954, Gaetano Santomauro – a parere di chi scrive – sulla medesima linea pedagogica e metodologica che, all’inizio del Novecento, era proposta in modo dirompente, in ben altro contesto culturale, dall’attivismo pedagogico: da John Dewey, alle sorelle Agazzi, da Maria Montessori ad Edouard Claparède, da Céléstin Freinet a Ovide Decroly (a cui Gaetano Santomauro, peraltro, dedicò una specifica monografia) nella direzione dell’ampliamento dell’offerta formativa e delle opportunità di apprendimento per i bambini, i ragazzi, i giovani ma anche gli adulti di tutte le età interessati a crescere, a migliorare se stessi ed a riqualificarsi in un mondo del lavoro in continua trasformazione. 

7. LEGAMI ED APPRODI

Nel 1959, in un articolo comparso su “Rassegna Pugliese”, su cui, probabilmente, non è inutile soffermarsi in questo contesto, dal titolo Il pensiero di Giovanni Modugno attraverso i suoi inediti, Gaetano Santomauro ricostruisce il pensiero del pedagogista bitontino recentemente scomparso: la sua non è mera storiografia pedagogica delle fonti cui si è “abbeverato” il pensiero di Giovanni Modugno e dei passaggi cruciali del suo itinerarium 

G. Santomauro, da insigne pedagogista, ci fa toccare con mano la grandezza di Modugno, che, come tutti i grandi, ha pensato, in forme e modalità diverse, un solo grande tema: l’educazione morale, declinandola come civile e religiosa. Non è un caso che, in quegli stessi anni, l’educazione morale, civile e religiosa fosse al centro degli interessi teoretici del medesimo Santomauro, come si evince dalla bibliografia dei suoi scritti.

Entrambi fecero i conti, in tempi diversi, con il neoidealismo, sia nella versione storicistica crociana che in quella attualistica gentiliana. Basti pensare a due scelte fondamentali delle loro esperienze biografiche.

Giovanni Modugno non fece mai parte a Bari del gruppo di antifascisti che si riuniva intorno a Benedetto Croce presso la casa editrice Laterza, sebbene il suo volume su Foerster fu pubblicato nel 1931 proprio da Giovanni Laterza, quindi è ipotizzabile non senza l’assenso di Benedetto Croce. Né il pedagogista bitontino alcun ruolo nell’organizzazione del congresso del Comitato di Liberazione Nazionale che si svolse a Bari dal 28 al 30 gennaio 1944, e fu aperto proprio da un discorso del filosofo partenopeo (di adozione).

Al pensiero di Benedetto Croce e dalla sua concezione della storia, il giovanissimo Gaetano Santomauro dedicò addirittura la sua tesi di laurea che discusse nel 1946 (quindi con Croce ancora vivente) presso l’Università degli Studi di Urbino, avendo come relatore il filosofo neotomista cattolico Gustavo Bontadini (1903 – 1990). Senza considerare l’influenza di Giuseppe Flores d’Arcais (1908 – 2004), di Mario Casotti (1896 – 1975), di Vittorio Chizzolini(1907 – 1984) e del gruppo bresciano con cui era in stretta e feconda relazione anche Giovanni Modugno, che in quel consesso lo aveva introdotto.

Ciò che contraddistingue entrambi, in una linea teoretica che si potrebbe definire di continuità ideale, è il perseguire una concezione personalistica ed un’ascesa umana che li conduce all’elaborazione di un pensiero coerente ed originale: la connotazione geografica che è nel titolo non è, ovviamente, l’indicazione di un limite, ma di una precipua specificità che non arricchisce il Gotha del personalismo italiano ed europeo, quale quello che negli stessi decenni elaboravano Oltralpe Emmanuel Mounier (1905 – 1950, Jacques Maritain (1882 – 1973), Paul Ricoeur (1913 – 2005).

8. BIBLIOGRAFIA

I volumi qui citati non sono, di certo, una bibliografia esaustiva sugli argomenti cui si è avuto modo di argomentare, ma hanno costituito certamente un faro per chi si è cimentato nella scrittura.

• AA.VV., Maestri del senso: competenze e passione per una scuola migliore, a cura di CARLO DE NITTI e CARLO LAVERMICOCCA, Bari 2023, Ecumenica editrice;

• AA.VV., “Mente – Cuore – Mani”: la proposta educativa di Papa Francesco per la scuola di oggi. Riflessioni teoriche e prassi educative, a cura di CARLO DE NITTI e CARLO LAVERMICOCCA, Bari 2022, Ecumenica editrice;

• CAPORALE, VITTORIANO, Educazione e politica in Giovanni Modugno, Bari 1988, Cacucci; 

• CAPORALE, VITTORIANO, Giovanni Modugno. Un pedagogista del Sud, Bari 1995, Cacucci; 

• CAPORALE, VITTORIANO, Giovanni Modugno. Pedagogia Scienza della Vita, Bari, 1997, Cacucci; 

• CAPORALE, VITTORIANO, La proposta pedagogica di Giovanni Modugno, Bari, 2004, Cacucci;                                                                        

• CAPORALE, VITTORIANO, Pedagogia e vita di Giovanni Modugno, Bari 2006, Cacucci;

• CAPORALE, VITTORIANO, Santomauro Gaetano, in “Enciclopedia pedagogica”, 1994, pag. 10277-10283;

• CAPURSO, GIOVANNI, Due Maestri per il Sud: Gaetano Salvemini e Giovanni Modugno, Corato, 2022, SECOP;

• CHIOSSO, GIORGIO, Novecento pedagogico italiano, Brescia 19 , La Scuola editrice;

• LAENG, MAURO, (a cura di), Gaetano Santomauro, “I contemporanei”, Giunti-Barbera, Firenze 1979, pp. 890-893;

• LAFRANCESCHINA, LUIGI, La Pedagogia Italiana del Secondo Dopoguerra e la Proposta Pedagogica di Don Gino Corallo, Bitonto 2014, Arti Grafiche Cortese; 

• MODUGNO, GIOVANNI, Il problema morale e l’educazione morale, Firenze 1924, Vallecchi;

• MODUGNO, GIOVANNI, F.W. Foerster e la crisi dell’anima contemporanea, Bari 1931, Laterza;

• PAGANO, RICCARDO, Il pensiero pedagogico di Gaetano Santomauro, Brescia 2008, La Scuola;

• PERRINI, MATTEO, Pedagogia e Vita di Giovanni Modugno, Brescia 1961, La Scuola;

• ROBLES, VINCENZO, Giovanni Modugno. Il volto umano del Vangelo, Bari 2020, Edizioni Dal Sud;

• ROBLES, VINCENZO, Giovanni Modugno e il suo “rifugio” bresciano, Bari 2022, Edizioni Dal Sud;

• SANTOMAURO, GAETANO, Giovanni Modugno attraverso gli inediti, «La Rassegna pugliese», 1969, 4-5, pp. 3 – 22;

• SANTOMAURO, GAETANO, Civiltà ed educazione nel mondo contadino meridionale, Padova 1959, Liviana;

• SANTOMAURO, GAETANO, Il senso di una pedagogia impegnata, Lecce 1963, Milella;

• SANTOMAURO, GAETANO, Problemi educativi e programmazione nel Mezzogiorno, Lecce 1964, Milella;

• SANTOMAURO, GAETANO, Per una pedagogia in situazione, Brescia 1967, La Scuola;

• SANTOMAURO, MARIA TIZIANA,

• SARACINO, DOMENICO, Politica, cultura e spiritualità in un cercatore di Cristo, Bari 2006, Stilo editrice;

• SEMERARI, GIUSEPPE, Responsabilità e comunità umana, Manduria 1960, Lacaita.

 

Et si parva licet componere magnis, precedenti brevi testi di chi ha scritto questo:

a) Un pedagogista meridionale e meridionalista: Gaetano Santomauro, “Tempopieno”, VI, gennaio – giugno 2011, 1-2, pp. 9 – 13;

b) Introduzione. Il pensiero pedagogico di Gaetano Santomauro nella scuola del XXI secolo, in Il pensiero pedagogico di Gaetano Santomauro nella scuola del XXI secolo, a cura di CARLO DE NITTI, “Educazione & Scuola”, XVII, marzo 2012, 1015, pp. 4-8;

c) La missione educativa di Giovanni Modugno e la sua attualità nel XXI secolo. Nota a margine di una recente biografia del pedagogista bitontino, ”Educazione & Scuola”, XXVI, marzo 2021, 1123;

d) In difesa del Sud: storia di un’amicizia tra due grandi Maestri tra Molfetta e Bitonto, “Educazione & Scuola”, XXVII, settembre 2022, 1141;

e) Giovanni Modugno: un “cercatore di Cristo”, apostolo dell’educazione, in VINCENZO ROBLES, Giovanni Modugno e il suo “rifugio” bresciano, Bari 2023, Edizioni Dal Sud, pp. 9 – 12; 

f) La ‘pedagogia in situazione’ oggi: Gaetano Santomauro vivant, “Educazione & Scuola”, XXVIII, marzo 2023, 1147;

g) Giovanni Modugno: un “maestro di senso” per la scuola italiana di oggi, “Educazione  Scuola”, XXVIII, dicembre 2023, 1156.

 

E. Mujčić, La buona condotta

Elvira Mujčić, in cerca di giustizia

di Antonio Stanca

   Lo scorso Maggio nella “Universale Economica” della Feltrinelli è comparsa una nuova edizione de La buona condotta, romanzo della scrittrice Elvira Mujčić. Nata nel 1980 in un piccolo paese della Serbia, a causa della guerra nei Balcani era fuggita con la famiglia prima in Bosnia, poi in Croazia ed infine in Italia dove tuttora, a Roma, vive e lavora come scrittrice e traduttrice. Ha quarantaquattro anni e dell’anno scorso è stata, presso Crocetti Editore-IF- Idee Editoriali Feltrinelli, la prima edizione di questo romanzo. Poco più che ventenne era la Mujčić quando ha cominciato a dedicarsi alla narrativa, era stato dopo la laurea in Lingue e letterature straniere conseguita a ventiquattro anni. Era il periodo della sua giovinezza, sarebbe stato anche quello dei suoi studi, dell’inizio della sua attività letteraria che della guerra dei Balcani avrebbe soprattutto detto. L’aveva vista da bambina, si era spaventata, era fuggita, ne sarebbe stata una delle migliori testimoni. Farà anche opera di traduzione, di teatro, farà conoscere in Italia importanti autori dell’Est europeo. Ma nota diventerà per la sua tendenza a rappresentare quelle condizioni di disagio morale, spirituale che la guerra balcanica ha comportato, per aver fatto dei problemi dell’anima i motivi principali della sua scrittura, gli argomenti centrali delle sue storie. Erano state tante e così gravi le circostanze occorse nella Jugoslavia di quegli anni che non le si poteva tacere, non si poteva trascurare il segno che avevano lasciato nel ricordo, nel pensiero di chi le aveva vissute. Erano diventate il simbolo di un’umanità che si era persa e non aveva saputo ritrovarsi. Di anime in pena avrebbe scritto la Mujčić, delle loro vicende durante una guerra che non avrebbero voluto, che non avevano capito e che non per questo era diventata meno crudele, aveva provocato danni minori. Era durata anni, c’erano stati morti, disastri e di quei tempi, di quelle terre e soprattutto di quelle anime scriverà la Mujčić. Loro era stato il danno maggiore, scoraggiate, disorientate, private di ogni riferimento si erano viste, costrette erano state a rinunciare ad ogni certezza, ad esporsi a pericoli di ogni genere, ad abbandonare persone e cose senza sapere come sarebbe finita. Così succede ne La buona condotta, dove in un paesino del Kosovo di allora, di quello diventato indipendente, si sta votando per eleggere il sindaco e nonostante la maggioranza degli elettori sia albanese vince il candidato serbo Miroslav, che, però, non piace a Belgrado perché poco sicuro di sé, poco capace di muoversi tra due etnie così diverse e contrarie. Miroslav preferisce le buone maniere agli scontri compresi quelli verbali e Belgrado invia sul posto perché lo sostituisca Nebojša, un ex detenuto in cerca di riabilitazione. Poi c’è Ludmila, la donna ancora giovane e bella che vorrebbe legare con qualcuno ma non ci riesce perché non ispira fiducia, è imprevedibile, strana, malata e quasi pazza è considerata. Sa tutto di tutti, custodisce il passato di ognuno e sa predire il futuro ma non è tenuta in considerazione. Tra parenti, amici e vicini saranno tanti i personaggi del romanzo, saranno tutti gli abitanti del paese e altri di paesi vicini. Ognuno con la storia sua se non della sua casa, della sua famiglia e tutte la scrittrice saprà combinare, sistemare in modo che sembri naturale il loro svolgimento. L’idea dell’opera era venuta alla Mujčić da un fatto di cronaca ma poi era riuscita a far sembrare tutto come realmente accaduto. Le riesce facile scrivere della sua gente, dei suoi posti, della loro vita, della loro storia. E altrettanto facile diventa la sua lettura, ci si appassiona. Sono tante, tantissime le situazioni attraverso le quali conduce, generalmente sono di quelle che si verificano in tempi difficili anche se a lei importa il modo col quale vengono vissute, la sofferenza, il dolore che le accompagna e sembra non volerle mai lasciare. Pure quella di Miroslav, il sindaco eletto e subito sostituito, era diventata per lui una pena. Ovunque si sentiva in pericolo, si vedeva spiato, accusato, non c’era famiglia, casa, non c’era nessuno che lo volesse aiutare, difendere. Finito, perso si sentiva. Era questa la sua pena e gli era toccata solo perché incerto nel prendere posizione, debole nello spirito si era mostrato. Era stato battuto da Nebojša che si presentava deciso, sicuro nonostante i gravi precedenti della sua vita. Ma non sarà sempre così, non si vivrà sempre di falso, di menzogna, giungerà pure il tempo della verità, della giustizia, quello che vedrà scoperto, accusato Nebojša e rivalutato Miroslav. E non solo a questo ma a molti altri torti metterà riparo quel tempo, l’importante è non perdere la fiducia, continuare a credere, addurre delle prove. Non ci sarà torto che tenga di fronte a ciò che è “buona condotta”. Non ci sarà menzogna che possa resistere alla verità. Opera di verità, di giustizia vuol essere quella della Mujčić scrittrice, valore civile, sociale vuole assumere. Per la sua scrittura questa è una funzione molto importante e da qui viene quella misura di vita quotidiana nella quale l’opera rimane fino alla fine, quel tono semplice, dimesso di racconto riferito da chi c’è stato, ha visto, ha saputo e solo per questo lo sta dicendo.

S. Casati Modignani, Segreti e ipocrisie

Sveva Casati Modignani, non si finisce di valere

di Antonio Stanca

   Un’edizione speciale Pickwick, per conto della Sperling & Kupfer, è comparsa lo scorso Gennaio di Segreti e ipocrisie, romanzo di Sveva Casati Modignani. Era uscito nel 2019 presso Mondadori Libri e aveva confermato quello che tante altre opere della scrittrice hanno stabilito come il tema fondamentale, il leit-motiv della sua scrittura, il confronto, cioè, tra passato e presente, tra i tempi, gli ambienti, gli usi, i costumi di prima improntati ai valori dello spirito, alle regole della morale e quelli di adesso devastati dalla diffusione, dall’invasione di una vita fatta solo di interessi materiali, attenta soltanto a quanto vale, a quanto serve per i bisogni del corpo, per le necessità concrete, immediate. 

   Nata a Milano nel 1938, la Modignani, a ottantasei anni, sta ancora qui nella casa dove è nata che era della nonna. A Milano è cresciuta, si è formata e da quando aveva quarantanni, dopo essersi applicata in vario modo, aveva cominciato a dedicarsi alla scrittura, prima giornalistica, poi narrativa. Anche gli ambienti dello spettacolo l’avevano vista impegnata ma l’attività di scrittrice sarebbe stata la sua preferita. Anche il marito l’avrebbe aiutata finché sarebbe vissuto e molti sarebbero stati i romanzi prodotti, molte le traduzioni ottenute. Una delle più prolifiche, delle più importanti autrici contemporanee sarebbe risultata.

   In Segreti e ipocrisie quattro sono i personaggi principali, gli interpreti delle vicende narrate. Sono successe nel periodo delle feste natalizie, di Capodanno, dell’Epifania. Le quattro donne protagoniste, Carlotta, Andreina, Gloria e Maria Sole, sono ancora giovani e belle anche se reduci da difficili rapporti con i loro uomini. Tutte sono colte in un momento di passaggio, di cambiamento, in uno stato di sospensione, d’indecisione tra come era stata e come vorrebbe o potrebbe essere la loro vita, tra quanto era successo e quanto poteva succedere. Vivono a Milano, in ambienti agiati, conducono una vita libera da problemi economici, sono affermate nel privato e nel pubblico, dividono il loro tempo tra case in città e altre in campagna, al mare. Ovunque si muovono tra servitù. Austeri, rigorosi come appunto quelli della vecchia aristocrazia erano stati i tempi, i luoghi della loro formazione, regolati da principi, valori di carattere morale e per questo non riescono a superare le crisi che hanno investito le loro vite. Non capiscono come sia stato possibile che quanto veniva dalla tradizione, dal passato, dalla buona condotta, abbia cessato di valere, come sia stato annullato da verità, sistemi completamente diversi quali quelli apportati dalla modernità. Nessuna di loro è stata risparmiata dalla nuova maniera, nessuna sa come fare per rimediare al problema sopravvenuto, per risolvere il disagio, il danno che sta soffrendo. Tutte si sono trovate di fronte ad una svolta, chi ad una gravidanza inattesa, chi al ritorno di una vecchia passione, chi ad un nuovo amore, chi ad un grave inganno. Tutte vedono finiti i vecchi modi di pensare, di fare, quelli che erano stati delle loro case, tutte vedono stabilirsi, definirsi altri, diversi modi per i quali non si sentono, non sono preparate. In questo stato di mancata convinzione, di difficile decisione mostrano di rimanere ed alla rappresentazione di una simile condizione dell’anima, di un senso perenne di sfiducia, di incapacità, la Modignani dedica lo svolgimento dell’intero romanzo. Farà scorrere le storie, le vite di quelle donne tra quanto richiesto dal passato e quanto dal presente. Continuo, interminabile sarà il movimento tra i due estremi, non si finirà mai di assistere al loro confronto, non si arriverà mai a vederlo risolto. Se questi erano stati i temi propri della Modignani scrittrice non ci poteva essere modo migliore per rappresentarli in una delle ultime opere se non lasciandoli divisi, incompiuti, lasciando ognuno libero di valere, di riconoscere l’altro.                                                                                

E. Audisio, Vite in gioco

Emanuela Audisio, dallo sport al progresso

di Antonio Stanca

   Allegato a la Repubblica è uscito di recente Vite in gioco (Lo sport che cambia il mondo) di Emanuela Audisio. Nata a Roma nel 1953, l’Audisio si è laureata in Scienze Politiche e dal 1976 si occupa di sport per il quotidiano la Repubblica. Ha scritto quattro libri di argomento sportivo e diretto numerosi documentari di carattere storico e sportivo. Molti riconoscimenti ha ottenuto per questi e per altri lavori. Ha inoltre seguito undici Olimpiadi estive e dieci Campionati di calcio. Nel 2019 è stata la prima donna a vincere il Premio Internazionale di Giornalismo Manuel Vázquez Montalbán per la sezione sportiva.

   In Vite in gioco ha dato corpo ad un progetto piuttosto originale, ha raccontato quarantuno storie di uomini, donne, eventi che sono state eccezionali in ambito sportivo, le ha derivate dalla sua newsletter settimanale S-Print per Repubblica e ne ha ricavato quanto in un mondo come il moderno così carico di contraddizioni, d’incomprensioni, serve a risolvere certi problemi, eliminare certi contrasti, recuperare certi svantaggi, correggere certe ingiustizie. Dallo sport, meglio che da qualsiasi altra attività, può venire l’indicazione, il suggerimento, l’esempio perché quanto ancora rimane di irrisolto, di non acquisito, di non ottenuto, di non migliorato possa finalmente esserlo. Quel progresso, quello sviluppo, quell’emancipazione che in certe situazioni stenta ancora ad affermarsi, può diventare possibile grazie a quanto di buono, di utile può provenire dallo sport. Da qui, pensa l’Audisio, possono giungere quegli insegnamenti capaci di favorire, realizzare quel che ancora nel mondo, nella vita sta tardando a succedere. Dai casi che la giornalista riporta nell’opera diviene molto facile trarre ispirazione, rimanere convinti del bene che possono apportare. Un modo per vivere meglio, per stare meglio, per superare ostacoli, per progredire vuole diventare lo sport grazie a questo lavoro della Audisio. Quanto ancora c’è di difficile da pensare, da capire, da fare, può risultare facile dopo l’impresa, il gesto, la parola di uno sportivo.

   Davvero singolare è l’opera, molta attenzione merita, molta ammirazione visto che nel movimento proprio dello sport vuole cercare quanto serve per il movimento richiesto dal progresso.

C. Bukowski, Post Office

Charles Bukowski, come nella vita

di Antonio Stanca

   Per conto della casa editrice TEA, su licenza dell’editore Guanda, è da poco comparsa, tradotta da Simona Viciani, un’edizione speciale di Post Office, primo romanzo dello scrittore e poeta statunitense Charles Bukowski. Lo pubblicò nel 1971 quando, a cinquantuno anni, aveva lasciato definitivamente il suo lavoro presso gli Uffici Postali della periferia di Los Angeles ed era stato assunto per sempre dalla casa editrice Black Sparrow.  Il romanzo avrebbe avuto molto successo e con questa casa editrice Bukowski avrebbe pubblicato in volume non solo le opere venute dopo, altri romanzi, racconti, poesie, ma anche quanto, brevi lavori, appunti, riflessioni, ricordi, note, saggi, era comparso in precedenza su giornali locali.

   Bukowski è nato ad Andernach, Germania, nel 1920 ed è morto a San Pedro, California, nel 1994. Qui, nella periferia di Los Angeles, i genitori, lei tedesca, lui americano, si erano trasferiti quando Charles aveva due anni. Qui era cresciuto, aveva studiato fino all’Università e nel 1944, a ventiquattro anni, aveva cominciato a scrivere, soprattutto racconti. Non erano stati notati e l’autore si era messo a vagabondare tra diversi stati americani. Aveva svolto diversi mestieri, aveva cominciato a darsi all’alcol, al sesso e non si era fermato neanche quando, rientrato a Los Angeles, aveva fatto il postino. Irregolare, ribelle era risultato il suo rapporto con l’ufficio, spesso ripreso, ammonito, multato era stato finché non si era giunti, intorno agli anni ’70, al licenziamento. Il nuovo lavoro presso la casa editrice sembrerà apportare qualche beneficio nella vita, nella condotta di Bukowski ma si tratterà di una fase transitoria e ben presto l’alcol, le donne, con le quali sarà sempre difficile distinguere il tipo di legame che correva, e il gioco alle corse dei cavalli torneranno a riprendersi gli spazi principali della sua vita. Una vita disordinata, improvvisata, priva di certezze anche se altra, diversa l’avrebbe voluta. Soffriva Bukowski per quanto non riusciva ad ottenere, per quella pace, quella stabilità che continuavano a mancargli ma che non aveva modo di procurarsi, di far rientrare tra le sue cose e rimasto sarebbe a desiderarle invano, a vivere d’altro. Ne avrebbe patito ma non al punto da negare la sua condizione. L’avrebbe accettata come la più vera fino a farne il motivo, il tema principale della sua scrittura, il carattere dei suoi personaggi. L’intera opera, composta soprattutto da racconti e poesie, i romanzi sarebbero stati soltanto sei, è impegnata a dire di quella che in realtà era stata la sua vita, delle difficoltà delle quali non aveva saputo liberarsi, delle abitudini, dei vizi che aveva accumulato quasi fossero delle scelte, delle volgarità nelle quali era caduto, dei piaceri ai quali non aveva saputo rinunciare. È la vita di quella periferia americana dove Bukowski era cresciuto: tanto di volgare, di violento, di aggressivo vi faceva parte e tanto ha trovato posto nelle sue opere. Non si può negare che non siano percorse da aspirazioni diverse, da propositi, credenze di altro genere ma lo stato nel quale hanno preferito rimanere è soprattutto quello del mondo, della vita che avviene ai margini, che va alla deriva. E Post Office, proprio perché il primo romanzo di questo autore, sembra voglia preannunciare la sua maniera, la sua tendenza, la sua scrittura. Vi si dice di quanto lungo e complicato era stato il suo rapporto con le poste di quella periferia, di come gli risultassero difficili i modi, i tempi, gli scambi con l’ufficio, con il personale, di come l’alcol e il sesso avessero finito col rappresentare una soluzione o almeno un sollievo. Di sé scrive non solo in questa ma in tutte le sue opere Bukowski. Autobiografico è il suo genere narrativo. Ha sempre molto da dire, rimane sempre un disagiato, un escluso, non si acquieta mai il suo scontento, non si colma mai il suo vuoto. Non c’è, però, una lingua che si dispera ad esprimere tanto travaglio poiché facile, chiara vuole essere la lingua di chi scrive, scorrere vuole, far apparire un fenomeno naturale quanto sta dicendo. Non c’è alterazione nella forma espressiva, è una lettura che piace quella di Bukowski, è abilità la sua: letteratura riesce a fare anche di quanto non lo è!

L. Pepe, Ulisse e Penelope

Ulisse, dal mito al simbolo

di Antonio Stanca

    È appena uscito il primo volume, Ulisse e Penelope (L’amore oltre le distanze), della collana “Amori Mitici” promossa da Corriere della Sera, Oggi e curata da Laura Pepe. La serie si comporrà di venti volumi dedicati, ognuno, a grandi storie d’amore dell’antichità mitica e impegnati nella loro rappresentazione, nella loro ricostruzione.  Ricca sarà ogni opera di testimonianze, citazioni, osservazioni, commenti, valutazioni, confronti, dell’analisi critica circa quanto nel tempo, nella cultura, può collegarsi con essa.

   Laura Pepe è una storica dell’antichità. Insegna Istituzioni di Diritto Romano e Diritto Greco all’Università di Milano, collabora come divulgatrice scientifica con il canale televisivo “Focus” e da tempo si dedica alla pubblicazione di saggi e manuali per la scuola. Anche Roberto Capel Badino, docente di ricerca in Filologia classica e in Discipline Storiche, ha collaborato alla realizzazione di “Amori Mitici”. È lui il direttore della collana.

   In Ulisse e Penelope tra tante introduzioni e tante conclusioni, peraltro sempre ricche di riferimenti, di notizie utili a riportare all’attenzione la famosa Odissea omerica, la parte che prende maggiore spazio e rilievo è quella centrale, s’intitola “La storia” e consiste in un’esposizione così ampia e completa da attirare il lettore quasi subito, incuriosirlo, coinvolgerlo. Quella che succede leggendo è una rivisitazione del mito, sono tante e tanto gradite le riscoperte alle quali si è chiamati ad assistere. La Grecia antica è il tempo, il mondo della scuola, della vita, è la storia, la letteratura, l’arte che, per prime, si sono conosciute e amate. Non si può non rimanere sorpresi, stupefatti dalla possibilità di poterle rivedere, ripercorrere nelle loro figure, nei loro ambienti, nelle loro parole con la facilità, la chiarezza, la sicurezza proprie dell’opera della Pepe. Ogni rigo diventa motivo di ricordo, ogni situazione momento di piacere. Se poi si tiene conto che oltre alla vicenda conosciuta della lunga e complicata separazione avvenuta tra Ulisse e Penelope, tante altre, molte sono le parti che vi vengono aggiunte e che finora erano rimaste sconosciute, se si considera che l’opera di Omero viene inserita, valutata nel contesto della produzione mitologica, letteraria, della cultura del suo tempo e dei tempi seguenti fino ai più moderni quando ancora continua ad essere ripresa, si può dedurre quanto importante sia questo libro, quanto utile possa riuscire non solo per gli  adulti ma anche per i giovani, per gli studenti. Una preziosa funzione di recupero dovrebbe rappresentare per questi. Servire dovrebbe a correggere quell’atteggiamento di sfiducia, di rifiuto verso quanto li ha preceduto, specie se molto lontano, a ridurre l’idea di una modernità diventata esclusiva, definitiva, insostituibile e far posto ad un passato che può ancora servire. In verità così è successo con l’Odissea, quello di Ulisse è diventato un luogo comune, un motivo ricorrente nell’ambito del pensiero letterario, filosofico, artistico, un esempio, un simbolo che ha percorso i secoli per dire del coraggio, dell’intraprendenza, del bisogno, della volontà di sapere, di fare anche se aiutata dall’astuzia. Ha assunto altre espressioni, altri modi, ha dato origine ad altre opere ma non ha smesso di far pensare al suo primo apparire. La vera storia è quella che continua anche se cambia. In questo caso è stata storia letteraria ma non diversamente dovrebbe essere per quella civile, sociale, politica o altra. Non si dovrebbe negare il passato ma riferirsi si dovrebbe assimilandolo, assorbendolo nelle sue parti migliori fino a fare anche di queste un motivo nuovo, fino a farle valere ancora.

V. Robles, Il fascismo dietro le quinte

Quando la storia “locale” invera ed arricchisce la storia “generale” …

di Carlo De Nitti

È con vero e sincero piacere che ho voracemente letto quest’ultima fatica storiografica che Vincenzo Robles, storico e studioso di alto profilo, regala ai suoi affezionati lettori (certamente molti di più dei venticinque che si augurava Alessandro Manzoni). Questo suo Il fascismo dietro le quinte. Il caso Bitonto ha visto luce in queste settimane a Bari per i tipi della Edizioni Dal Sud.

A chi scrive non appare possibile non connettere le vicende storiche bitontine qui studiate narrate senza potesse la nobile figura di antifascista del pedagogista Giovanni Modugno (1880-1957). A lui Vincenzo Robles ha già dedicato due eccellenti volumi: Giovanni Modugno Il volto umano del Vangelo e Giovanni Modugno Il rifugio bresciano, rispettivamente pubblicati nel 2020 e nel 2022 dalla medesima casa editrice barese, non a caso nella medesima collana dal titolo ” Memoria”.

Com’è ampiamente noto, Giovanni Modugno, nel trentennio studiato in questo volume, non viveva nella città di Bitonto, abitando egli, dal 1920 fino alla morte, nel “quartiere umbertino” di Bari, in via Cardassi, poiché insegnava nell’allora Istituto Magistrale Statale “Giordano Bianchi-Dottula”. La sua figura, le sue idee, le sue azioni sono efficacemente presenti nche in questo volume, a cominciare dalla citazione di un suo pensiero nella nota n° 2 della Premessa

Il volume si snoda attraverso la Premessa, nove capitoli (Il locale brodo primordiale: il giolittismo; Il 1920: la svolta; Il biennio 1922-23; Verso l’amministrazione podestarile; L’amministrazione del Podestà Achille Lorenzo; L’amministrazione del Podestà Serafino Santoro; Il Podestà Giovanni Dragone 1938-1943; La città verso la fine dell’amministrazione podestarile; La lenta ripresa democratica) e la Conclusione.

In questo itinerario, l’Autore analizza con puntualità le vicende politiche cittadine dalle origini del fascismo in Bitonto fino alle prime elezioni democratiche a suffragio universale, maschile e femminile, del 1946 (non quello giolittiano del 1912)!

Perché “dietro le quinte”? Cosa sta a dire la metafora teatrale utilizzata dall’Autore? Nel suo volume, Vincenzo Robles scrive: “una storia ‘dietro le quinte’, una storia che non ha voluto raccontare il fascismo scenografico, ma il fascismo come è stato interpretato e vissuto dai nostri concittadini Da noi mancò un iniziale entusiasmo, il fascismo fu accettato con calma e senza una completa adesione: I nostri concittadini lo vollero e pian piano si adeguarono e si lasciarono convincere (p. 15).

Nei capitoli centrali del suo volume, Robles ricostruisce con grande acume storiografico e con ricchezza di documentazione, riveniente da un profondo lavoro di archivio, come il fascismo a Bitonto si sia inserito nel brodo di coltura costituito dal notabilato giolittiano ed abbia attraversato varie e conflittuali fasi nel biennio 1922-23 ed attraverso le esperienze podestarili di Achille Lorenzo, di Serafino Santoro e di Giovanni Dragone.

Non è questa la sede – quella modesta di una recensione – per rendere conto di tutta la ricchezza documentaria su cui si fonda la ricostruzione storica dell’Autore che, con questo volume, persegue un fine eminentemente educativo, come sottolinea nell’epilogo della sua trattazione: “Il fascismo non è qualcosa di astratto, non è soltanto un’idea e un movimento politico del passato, il suo posto non è soltanto nei libri scolastici, dove appare sempre meno. Per questo si è voluto raccontare la storia del fascismo a Bitonto come fosse la cronaca di tante giornate, la cronaca di tante amministrazioni che si sono succedute […] una storia che si è insinuata nel quotidiano di tanta gente distratta o forse occupata a gestire il proprio interesse” (p. 199) 

Non é per caso che la narrazione di Vincenzo Robles non si concluda con la fine del ventennio ma giunga alle prime elezioni democratiche del 1946: il “disorientamento che aveva accompagnato la fine del fascismo continuò a caratterizzare il nuovo che avanzava. Diventava conveniente dimenticare il passato per poter più facilmente accettare e vivere il nuovo presente” (p.16). A Bitonto, come altrove. il nuovo presente non era esente da conversioni e gattopardismi, come la storia di ogni epoca ci insegna

Del resto, già nell’ormai remoto 1987, il decano dei sociologi italiani Franco Ferrarotti, nel suo volume laterziano, Il ricordo e la temporalità – ovviamente tutt’affatto diverso da quello di cui qui si discorre -scriveva che l’amnesia favorisce l’amnistia. L’assonanza tra i due vocaboli e la comune origine nel medesimo verbo greco dice una verità da non sottovalutare né nascondere.

Il volume di Vincenzo Robles di cui qui si discorre è completato da una preziosa appendice documentaria ed è arricchito dalla prefazione di Ferdinando Pappalardo, letterato, docente illustre dell’Università degli studi di Bari, e storico esponente dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Egli sottolinea in modo inequivocabile la valenza pedagogica attuale dell’indagine condotta da Vincenzo Robles e consegnata a questo volume tutto da leggere e da meditare. “La sincera passione civile che anima Robles, e che lo induce a rivendicare la funzione pedagogica di ogni (e dunque anche del suo) impegno teso al restauro e alla conservazione della memoria collettiva, spesso abrasa o rimossa per ipocrita perbenismo, è temperata da una vigile acribia, che lo tiene distante da atteggiamenti inquisitori e che lo induce a dichiarare con sincerità i limiti della sua ricostruzione storica, dovuti alla parzialità delle fonti documentarie disponibili” (pp. 9 – 10).

Il sigillo dell’intenzione pedagogica dell’Aurore non può che essere invenuto nella dedica del volume: “Ai miei nipoti”.

Cos’altro aggiungere ai lettori – bitontini e non (al pari di chi scrive) – che hanno avuto la pazienza di leggere sin qui, se non il sincero augurio di buona (ed educativa) lettura dell’interessantissimo volume!  

B. Bove Angeretti, Il Sonno dei Bambini

“Il Sonno dei Bambini”, il libro della psicologa Barbara Bove Angeretti da mettere in valigia: perché i genitori non vanno (realmente) mai in vacanza

Non esistono metodi miracolosi o scorciatoie per gestire il sonno dei bambini. Ecco alcuni suggerimenti, frutto della ricerca della psicologa, perfetti da portare sotto l’ombrellone, basati sui concetti di abitudine ed empatia

“Il sonno dei bambini è un momento significativo in cui la genitorialità ha un ruolo fondamentale. A maggior ragione in vacanza, quando saltano le abitudini e vengono meno i riti rassicuranti della quotidianità. E allora la soluzione è una e una soltanto: “aumentare il tempo che si trascorre insieme, i genitori non vanno “realmente” mai in vacanza”.

Ad affermarlo è Barbara Bove Angeretti, ricercatrice, laureata in Psicologia dello Sviluppo, Consulente per il sonno infantile e per l’educazione empatica. Autrice del libro “Il Sonno dei Bambini” che spiega come i genitori possano rispondere in modo positivo ai bisogni dei bambini anche di notte, momento critico che ogni genitore ha dovuto affrontare perché i bambini si svegliano di notte e spesso chiedono il contatto con i genitori.

Con le vacanze alle porte molte famiglie si preparano a gestire i cambiamenti nelle abitudini e nel sonno dei propri bambini. Bove Angeretti spiega come sia molto diffusa la tendenza a credere che esistano metodi efficaci e senza controindicazioni, dispositivi o oggetti specifici per gestire facilmente il sonno dei nostri figli ma nulla come delle corrette abitudini, unite alla rassicurazione e alla vicinanza dei genitori, può essere più efficace per gestire  il sonno dei piccoli e anche quello degli adulti perché, diciamolo, se addormentamento e risveglio del piccolo vengono gestiti con serenità, anche la qualità del sonno dei genitori migliora indicibilmente!

Durante l’estate poi, in particolare quando iniziano le ferie, semplici consuetudini (che consentono di scandire a gestire meglio i piccoli come mangiare e dormire sempre alla stessa ora) risultano utili a regolarizzare e rendere più semplice l’organizzazione della vita della famiglia.

Durante le vacanze, aggiunge la psicologa, è più che mai importante passare la maggior parte del tempo con i piccoli, anche senza fare niente di speciale, solo dedicandosi alla relazione familiare.

I consigli di Barbara Bove Angeretti da portare in spiaggia:

  • Da 0 a 6 mesi. E’ importante identificare e soddisfare il bisogno del bambino, bisogno di contatto e di dormire (finestre di veglia) e mangiare (allattamento al seno o artificiale) quando lo richiede.
  • Dopo i 6 mesi. E’ possibile iniziare a introdurre buone abitudini che consentano agli adulti di organizzare la giornata conoscendo gli orari in cui il bimbo dorma, mangia, ecc…
  • Il tempo di qualità non esiste: Il concetto di “tempo di qualità” è definito dagli adulti senza considerare la prospettiva dei bambini. Questo può creare un’illusione soprattutto nei primi anni di vita di un bambino, da 0 a 3 anni, quando è di cruciale importanza la presenza costante di un adulto per sviluppare un legame di attaccamento sicuro come lo definisce lo psicologo John Bowlby.
  • Meno metodi, più abitudini sane: Sia per l’educazione, sia per il sonno i metodi hanno poco valore. Molti genitori vorrebbero avere un bel manuale sul comodino ma le relazioni non si basano su procedure e vanno costruite da persone sulla base dei propri valori. Parlare di metodi educativi può essere fuorviante, come per esempio quando si tratta di sleep training, una serie di pratiche che mirano a rendere il bambino autonomo dal supporto del genitore per l’addormentamento e per i risvegli. Viceversa le abitudini sono fondamentali: fare le stesse cose ogni giorno alla stessa ora crea una stabilità necessaria per i bambini.
  • L’eccezione solo in vacanza:. Per garantire il benessere dei bambini, è utile cercare di mantenere comunque una certa continuità in abitudini e comportamenti. Quando si devia da questo sentiero, è importante sottolineare il fatto che si tratta di un’eccezione: allontanarsi troppo dai bisogni dei bambini rischia di compromettere la qualità delle giornate, con conseguenze come disturbi del sonno o comportamenti problematici, rendendo la situazione difficile da gestire anche a vacanze finite.
  • L’empatia, la competenza essenziale dell’educazione: In linea generale l’empatia dovrebbe essere la chiave di ogni processo educativo ed è proprio durante l’infanzia che si apprende e si tramanda: essere trattati con empatia crea futuri genitori empatici. La presenza di questa capacità nei primi anni di vita permette al bambino di crescere in maniera equilibrata e imparare a gestire, in età adulta, le proprie emozioni. Al contrario l’assenza di empatia durante lo sviluppo apre la strada a comportamenti problematici.

Il bagaglio ideale per andare in vacanza con i figli è la conoscenza

Marsupi, fasce, doudou sono sicuramente importanti se il bambino li gradisce ma se, come sottolineato dalla psicologa Bove Angeretti, “l’essenziale è invisibile agli occhi”, il bagaglio principale da portare in vacanza è la conoscenza. Nei suoi libri, la dottoressa offre una guida completa comprendente vari aspetti cruciali per lo sviluppo, come il legame di attaccamento, l’empatia come strumento educativo e bisogni primari ed universali di ogni bambino.

  • Rivolto a genitori di bambini tra 0 e 3 anni, educatori e caregiver, il libro “Il Sonno dei Bambini” combina esperienza professionale e ricerche scientifiche per fornire consigli pratici su risvegli, addormentamenti difficili e gestione dell’allattamento notturno. Lo scopo è quello di essere una guida per affrontare le sfide del sonno infantile e favorire una crescita sana.
  • Nell’altra opera “Il Circolo Virtuoso dell’Attaccamento” si sottolinea l’unicità di ogni bambino, rifiutando così qualsiasi metodo universalistico per crescere i propri figli, vista l’impossibilità di replicare esattamente le esperienze altrui. Si invita a riflettere sulla centralità della famiglia, rivalutare le aspettative sociali e sviluppare competenze personali. Si critica l’anticipazione dell’autonomia nei bambini, sostenendo che la dipendenza dal caregiver durante l’infanzia è naturale e benefica. Si analizzano i bisogni primari e il legame di attaccamento, trattando temi come empatia, allattamento, sonno e comunicazione, con lo scopo di dimostrare che rispondere ai bisogni affettivi non vizia i bambini, ma è fondamentale per il loro sviluppo.

S. Benni, Il bar sotto il mare

Stefano Benni, una condizione dell’anima

di Antonio Stanca

    Aveva quarant’anni Stefano Benni quando pubblicò la prima volta Il bar sotto il mare. Era il 1987 e quella comparsa adesso, ancora presso Feltrinelli, è la sessantesima edizione dell’opera. In verità l’idea di un bar, dove dei quasi sconosciuti s’incontrano e si raccontano storie tra le più strane, era stata attuata dallo scrittore già prima, nel 1976, quando aveva pubblicato Bar Sport. Allora, però, si era trattato di un’opera soprattutto umoristica mentre in quest’altra va notata un’intenzione, un’aspirazione che non si limita a pochi risultati ma ambisce a verità più ampie, a significati più estesi. E l’altra differenza sta nell’ambientazione giacché stavolta il bar con le persone che narrano si trova sotto il mare ed in esso lo scrittore ha immaginato di far entrare da un ingresso particolare il personaggio che sarà la voce narrante del romanzo, che dirà tutto quanto avrà visto e sentito. 

     Benni è nato a Bologna nel 1947. Ha vissuto fino a giovane in ambienti di campagna lontani dai grossi centri urbani. Si è formato all’insegna dei valori, dei principi che in quegli ambienti vigevano e valevano. Erano regole di carattere morale, spirituale, non ammettevano alterazioni, erano il segno di una vita, di un’umanità sicura dei suoi propositi, convinta delle sue azioni. Si viveva di pensiero, di sentimento, d’idea, non c’era posto per trasgressioni. Benni rimpiangerà quegli ambienti quando, diventato maturo, trasferitosi in importanti città e conosciuto ormai come scrittore, poeta, giornalista, si accorgerà che c’era una vita diversa da quella dei suoi primi posti, una vita che aveva perso tanti dei suoi aspetti morali, spirituali perché annullati da altri di carattere materiale. Era la vita moderna, quella dei tempi nuovi che avanzavano senza sosta con le loro conquiste, le loro trasformazioni. Non si sarebbe, tuttavia, arreso ai nuovi sistemi, non avrebbe rinunciato a quanto aveva creduto durante gli anni della sua formazione, agli ideali che lo avevano sostenuto, ispirato. Protesterà contro quanto della nuova storia, della nuova vita tendeva a combatterli, eliminarli. Sarà nelle sue opere, di qualunque genere fossero state, che questa protesta troverà la sua maggiore espressione. Scriverà molti romanzi Benni, alcuni diventeranno famosi e saranno molto tradotti, sarà autore di molte poesie, farà molto giornalismo, produrrà opere teatrali, libri per ragazzi, fumetti e ovunque sarà possibile rintracciare un senso di amarezza, di delusione, quasi di sconforto per un tempo che era finito per sempre, che non poteva essere recuperato. Erano stati due i tempi della sua vita ma uno, il primo, sarebbe valso di più, alla sua fine non si sarebbe mai rassegnato.

     Anche Il bar sotto il mare sarà percorso da quest’aria di perdita, anche i racconti degli avventori che in quel bar si susseguiranno la lasceranno intravedere. Saranno tanti perché tanti saranno i narratori, diversi saranno come questi, di diversi luoghi, di diversi tempi, di diverse persone, di diversi eventi diranno. Ma pur tra una varietà così articolata sarà sempre possibile rintracciare quella pena che ogni cambiamento, ogni passaggio comporta, quel rimpianto per quanto si è lasciato, si è perduto senza che possa essere sostituito. È il problema, il motivo che ha caratterizzato questo autore fin dalle prime opere, è la sua difficoltà a trovare elementi, aspetti della modernità nei quali possa egli riconoscersi, con i quali possa identificare quanto ancora crede che sia unico, assoluto. Impossibile è diventato dal momento che tutto ormai è esposto a cambiamenti, modifiche, niente può rimanere inalterato. Una constatazione quasi tragica è stata questa per il Benni, è stato come accettare che di tutto si deve dubitare, che di nulla si può essere sicuri.

   È il mondo moderno, il mondo nuovo dove quelli che prima erano errori sono diventati la norma al punto da non ammettere altra maniera. Questo il significato che Benni ha perseguito tramite i racconti strani degli strani personaggi del romanzo. Stavolta, però, è diventato più difficile scoprirlo dal momento che non è una la vicenda impegnata a mostrarlo ma tante sono le situazioni, le persone, le circostanze alle quali quei racconti si riferiscono. Più difficile da cogliere ma più esteso, più ampio è risultato quel significato, quel senso di sfiducia proprio del Benni autore. Dell’uomo è diventato, non dell’uomo di un particolare momento ma dell’uomo di ogni momento, di ogni tempo, di ogni luogo, dell’uomo proprio dei racconti che è sempre cambiato, sempre ha rinunciato a quanto aveva acquisito, sempre ha saputo di non poterlo più avere. È una condizione dell’anima, è quella che Benni ancora vive, ancora soffre e che ha voluto mostrare come propria dell’umanità.

G. Genisi, Gioco pericoloso

La Genisi continua a sorprendere

di Antonio Stanca

   Una nuova edizione di Gioco pericoloso, quarto romanzo dei dieci che compongono la serie intitolata “Le indagini di Lolita Lobosco” della scrittrice Gabriella Genisi, è comparsa di recente presso Feltrinelli su licenza Marsilio. L’opera è del 2014 e rientra nella prima serie “gialla” della scrittrice, quella iniziata nel 2010, ambientata in Puglia e pubblicata da Sonzogno, mentre la seconda serie avrà inizio nel 2019, sarà ambientata nel Salento, avrà come protagonista Chicca Lopez e sarà pubblicata da Rizzoli. Anche altre opere di genere “giallo” ha scritto la Genisi ma a renderla famosa sono state quelle dedicate al personaggio di Lolita Lobosco, il commissario-donna che ha origini napoletane, lavora presso la questura di Bari, dirige la sezione Omicidi, e molto nuovo, molto diverso dal solito si è rivelato, molto capace di attirare i lettori, coinvolgerli sia per le circostanze che lo vedono impegnato sia per i modi che le narrano. La serie di Lolita Lobosco avrà una riduzione televisiva, tante traduzioni e farà della protagonista un personaggio conosciuto e amato. Famosa diventerà anche la scrittrice, la creatrice del personaggio, quella ragazza che, nata a Bari nel 1965, in molti modi, in molti sensi si era applicata prima di iniziare a scrivere. Aveva passato i quarant’anni quando lo aveva fatto, molto vi si sarebbe applicata, molte opere avrebbe prodotto, molto successo avrebbe ottenuto. Ora vive tra Bari e Parigi, ha cinquantanove anni e sempre intensa, sempre riuscita è la sua attività. A far valere la Genisi, a distinguerla è una maniera sua propria, un procedimento, una visione che non comprende solo quanto di particolare, di criminale ogni volta succede ma anche quanto si verifica vicino, intorno, nel tempo, nello spazio circostante e in ogni altro risvolto. Per molto, per tutto c’è posto nella sua scrittura, per quanto c’era prima dell’accaduto, per quanto c’è dopo, per quegli abusi linguistici, quelle libertà lessicali necessarie a rendere più vera la vicenda rappresentata. È come se stesse parlando, come se la si stesse ascoltando mentre la si legge, è difficile distrarsi da quanto sta dicendo, da come lo sta dicendo. Molto di storia, di cultura, di vita, di passato e di presente, di verità e d’invenzione, c’è nei romanzi di Gabriella Genisi specie in quelli interpretati da Lolita Lobosco e ambientati in Puglia.  È come se procurassero un’anima, uno spirito a luoghi che non ce l’avevano, che erano rimasti esclusi, privi di evidenza. Non c’è posto dove non giungano le sue indagini, non c’è ambiente, usanza, costume che non rilevino, che non colleghino col caso in questione. Molto ampia, molto mossa, molto dinamica è la narrazione della Genisi, riflette il carattere della commissaria che non agisce solo come organo di polizia ma che tanti ruoli sa assumere, in tanti posti sa trovarsi, tante cose sa fare convinta che solo l’azione, il movimento sia conoscenza, conquista, vita. Così pure in Gioco pericoloso, dove la Lobosco è impegnata ad indagare su un grosso complotto che col tempo si è costituito nell’ambito del Calcioscommesse e tanto si è esteso da coinvolgere non solo gli ambienti sportivi baresi ma anche quelli di altre città e nazioni, da tenere rapporti con la mafia, da giungere ad azioni criminali. Il quadro si è complicato al punto da diventare difficile e poco chiaro. Nonostante tutto ancora una volta sola vorrà essere la Lobosco nella sua indagine, ancora una volta instancabile sarà, seri pericoli correrà ma ci riuscirà con grande sollievo suo e di quanti la conoscono e la seguono. Molto alta era diventata stavolta la posta in gioco ma non aveva spaventato Lolita. Neanche il suo uomo le era rimasto vicino, in ambito internazionale, con colleghe straniere aveva dovuto confrontarsi e scoprire che vita moderna vuol dire ormai gravi pericoli, affari sporchi, giochi di denaro, commerci illeciti, abusi, contraffazioni e ogni altra illegalità. A molti rischi si vedrà esposta la Lolita, era la prima volta che una situazione si complicava a tal punto, assumeva tanti aspetti, coinvolgeva tanti ambienti. Esserne usciti vittoriosi non è merito suo ma della Genisi che tramite il suo personaggio ha confermato le sue qualità, le sue capacità di costruire casi tanto interessanti, tanto validi da farla ritenere una delle maggiori scrittrici del momento.

L. Gentile, La felicità è una storia semplice

Lorenza Gentile, quando si crede nella vita

di Antonio Stanca

   Nella “Universale Economica” della Feltrinelli è comparsa da poco una terza edizione de La felicità è una storia semplice, romanzo di Lorenza Gentile. Lo aveva pubblicato nel 2017 e già da prima aveva cominciato a farsi conoscere e apprezzare come scrittrice. Nel 2014 con Teo aveva vinto il Premio Edoardo Kihlgren, il Premio Seminara-Rhegium Julii e il Premio dei Giovani Critici della Literaturhaus di Vienna. Il romanzo era stato, inoltre, tradotto in Germania, Spagna e Corea. Di seguito, nel 2021, ne Le piccole libertà aveva ripercorso l’esperienza di lavoro che, giovanissima, aveva fatto nella famosa libreria parigina “Shakespeare and Company”. L’ultimo romanzo è dell’anno scorso e s’intitola Le cose che ci salvano.

   La Gentile è nata a Milano nel 1988 e tra Milano e Firenze ha trascorso gli anni dell’adolescenza. A Londra si è laureata in Arti dello Spettacolo alla “Goldsmiths University” e a Parigi ha frequentato la Scuola Internazionale di Arti Drammatiche “Jacques Lecod”. Ha cominciato a lavorare e a scrivere quando ancora studiava e dalla vita sua e degli altri ha tratto i motivi delle sue opere narrative. Scrittrice è diventata in maniera naturale, senza proporselo, senza farsene un compito. Di come si vive oggi, di dove, di quanto si vive, di cosa si pensa, si crede, si fa, dei sistemi che si sono costituiti, dei costumi che si sono diffusi in ambito privato e pubblico, individuale e sociale, dice la Gentile scrittrice. In verità tanto, tutto è cambiato nel giro di poco tempo, da quando si è cominciato a parlare di modernità. Si è passati a condizioni, concezioni completamente diverse da quelle di poco precedenti, concezioni non destinate a durare, a rappresentare un riferimento fondamentale, definitivo, a svolgere una funzione morale, ideale ma a cambiare, a rinnovarsi come succede con gli elementi di quell’enorme macchina detta della rivoluzione industriale che è diventata il segno, il simbolo dei tempi. Come quella anche la vita moderna ha assunto un aspetto soprattutto materiale, ha messo da parte i valori dello spirito ed anche di questo problema dice la Gentile nelle sue opere. Ma pur mostrandosi rassegnata ai nuovi modi non rinuncia a cercare una soluzione per la grave situazione che si è creata. Lei nella vita si muove, della vita riporta ma non vi rimane, non si arrende, non crede impossibile un modo, un mezzo per superare i problemi che senza sosta sopraggiungono, si creano nell’ambiente umano e sociale, che fanno di quella quotidiana, contingente l’unica vita possibile, che impediscono tant’altra di quella che era stata vita. Sarà così anche in La felicità è una storia semplice dove dopo aver mostrato come si possa caricare d’imprevisti, incomprensioni di ogni genere quello che sarebbe dovuto essere, negli anni ’80, un normale viaggio in treno da Milano a Gibellina, in Sicilia, compiuto alla ricerca delle proprie origini dalla vecchia nonna Elvira, che vive sola a Milano, e dall’attempato e scapolo nipote Vito, che vive solo, senza lavoro a Londra, fa giungere la soluzione dei loro casi in modo molto semplice. Con facilità annulla quelli che per entrambi sembravano ostacoli destinati ad aggravarsi, a non risolversi. Fa diventare i due più disposti a stare, a capirsi tra loro e con gli altri, ad adattarsi alle circostanze. Fa vedere come pur in tempi così difficili si possa star bene, quanto possano valere piccole rinunce, semplici parole di partecipazione, di conforto, come si possa ottenere altro anche quando, come per Vito ed Elvira, sembrava impossibile.

   Tanta altra vita, tanta altra scrittura entra nel romanzo dopo che tra infiniti impedimenti erano stati i suoi protagonisti. Si era arrivati a credere che non fossero capaci di salvarsi e proprio allora era giunta la soluzione, quella buona per loro, fatta per loro. Anche altre volte era stato così nelle opere della Gentile. È un procedimento che ricorre, che le viene spontaneo, dalla sua vita, da come è cresciuta, si è formata, da quanto ha creduto, che mostra come una donna semplice possa diventare una scrittrice.

S. Fiorella, L’Orabuca

Raccontare in parole la scuola: L’Orabuca di Savino Fiorella

di Renato Candia

       L’ambiente e il tempo che scandiscono i cicli scolastici appartengono alla memoria di tutti. Raccontarne gli aspetti più caratterizzanti o prenderne spunto per parlare di contesti più ampi che vivono attorno alla scuola, come possono essere per esempio gli spazi delle comunità sociali che esprimono un tempo storico ben preciso, un clima culturale fortemente connotato, la narrazione di personaggi-tipo che rappresentino una certa quotidianità del vivere, tutto questo è lavoro del narratore, che quegli ambienti conosce perché li ha frequentati o perché se ne è documentato.

La letteratura che parla di scuola, oggi, sta diventando piuttosto ricca di esempi significativi ma trova anche matrici non lontane capaci di raccontare per modelli come la Scuola italiana si sia evoluta nella percezione dei costumi e dei rapporti sociali, almeno a partire dal secondo dopoguerra.

 

Un primo modello è la scuola raccontata come micro-luogo sociale dentro cui si muovono personaggi tra il privato delle loro vite personali e il pubblico della propria professione. In questi romanzi c’è una scuola come sfondo privilegiato di un contesto sociale, dove agiscono personaggi che parlano di loro stessi, che esprimono la loro personale e complessa umanità e i modi delle loro relazioni con i coetanei, con la loro storia e con il loro tempo, così come fanno gli esempi che seguono. 

Lucio Mastronardi, Il maestro di Vigevano, (1962): il maestro Mombelli opera nella Vigevano degli anni del boom economico. Tuttavia il contesto sociale, le sfrenate ambizioni dalla moglie, una scuola sbatacchiata tra insegnanti demotivati e più o meno consapevolmente frustrati e genitori arricchiti dediti all’ostentazione di uno sfarzo frettolosamente acquisito, lo rendono sempre più un umiliato e un offeso, spaesato dentro uno spazio de-idealizzato dove anche le illusioni sono menzogne: “Lei in noi non deve vedere il superiore, ma il collaboratore. Noi siamo i collaboratori dei Maestri”, lo rimbrotta poco amichevolmente il Direttore didattico durante una visita alla sua classe.

Luciano Bianciardi, Il lavoro culturale, (1964): il professore Marcello Bianchi è incaricato dell’insegnamento di storia e filosofia in un liceo cittadino dell’Italia degli anni ’50. Qualche genitore si lamenta col Preside per un suo personale atteggiamento considerato un po’ troppo orientato politicamente: “…ed allora le raccomando di attenersi sempre, rigidamente, ai programmi ministeriali” lo ammonisce il Preside, facendosi promettere di non far più preoccupare certi genitori che potrebbero reagire con modi più decisi e scomodi.

Su questo modello, in attualizzata reciprocità con l’evoluzione dei tempi, altri lavori letterari significativi sono, per esempio, Virgilio Budini, La scuola si diverte, (1967); Gianni Celati, Comiche, (1971); Lidia Ravera – Marco Lombardo Radice, Porci con le ali (1976); Domenico Starnone, Ex cattedra, (1996); Gianantonio Stella, Il maestro magro (2005); Edoardo Albinati, La scuola cattolica (2017); Matteo Bussola, Sono puri i loro sogni (2017).

Un secondo modello riferisce invece di una visione più volutamente realistica, quasi diaristica, che parla della scuola vista dal di dentro, che vuole documentare una condizione, una quotidianità attraverso il punto di vista di una esperienza diretta, che vede in primo piano i protagonisti degli eventi che abitano giornalmente la scuola stessa.

Leonardo Sciascia, Cronache scolastiche, in Le Parrocchie di Regalpietra (1956). Il maestro Leonardo Sciascia descrive la sua esperienza nella scuola di un paese siciliano a metà degli anni ’50 del secolo scorso, dove regnano ancora fame, povertà e miseria sociale: “Qualche volta viene anche l’ispettore. (…). Quei trenta miei ragazzi sporchi e arruffati, che non sentono nemmeno la soggezione della sua presenza, e continuano a mormorare e a litigare tra loro, evidentemente non gli vanno giù”. Sulla stessa linea altre narrazioni come: Albino Bernardini, Un anno a Pietralata, (1968); Paola Mastrocola, La scuola raccontata al mio cane, 2004; Marco Lodoli, Il rosso e il blu (2009); Vanessa Ambrosecchio, Tutto un rimbalzar di neuroni, 2021; Alessandro Gazzoli, Estranei (2024)

C’è poi una narrazione che si colloca in forma visionaria tra illusione e disillusione, tra la ragione (di ciò che vorrebbe essere) e il rimpianto (di ciò che avrebbe voluto essere e ciò che realmente è, o quanto meno appare), tra le aspettative di vita e il disincanto del presente. Si tratta del racconto di insegnanti che nella professione portano ancora dentro una buona parte della condizione (mai del tutto superata) dello studente che sono stati, che vivono in una costante ansia (tutta scolastica) di omologazione/spersonalizzazione di sé, che vivono le contraddizioni del mondo della scuola nel timore che si consolidino in loro come definitivo e insanabile dramma esistenziale.

Questo modello di narrazione consente agli autori di mettersi in gioco con ironia, con sarcasmo (a volte anche violento), di utilizzare frequentemente un linguaggio caratterizzato da immediatezza e velocità, a volte anche stralunato e surreale, da un periodare contemporaneo e quotidiano, spesso molto stretto, breve, diretto e infarcito di frequenti intercalari che richiamano i contesti di vita dei loro studenti piuttosto che quelli più misurati dell’ambiente professionale dell’educatore. Si tratta di lavori come quello di Maurizio Salabelle (Il maestro Atomi, 2004), di Christian Raimo (Tranquillo prof., la richiamo io, 2015), di Marco Lodoli (Il preside, 2020). E volendo di questi trovare qualche riferimento viene forse in mente il Luigi Meneghello di Libera nos a Malo (1963) proprio per quella forma diretta e per quel ritmo di raccontare l’azione di un particolare tempo delle nostre vite: quello del ragazzo che sta provando a diventare uomo.

Un esempio che raccoglie assieme un po’ tutte queste considerazioni è il recente romanzo di Savino Fiorella L’orabuca (Bari, 2024), nel quale l’autore, attraverso i vari capitoli del libro, dipana tutta una serie di ricche istantanee delle varie fasi della vita e della carriera di un insegnante nella scuola d’oggi, attraverso incontri e personaggi diversi: il precario, il supplente temporaneo, il neo-assunto già pentito, il pendolare sbattuto in 24 ore dal mare del Sud alla neve del Nord, il carismatico professore di filosofia che cita Zeman, il preside senza empatia, la bidella che chiosa giudizi cinici con la scopa in mano, la giovane collega bella ma depressa, fino alla ricerca di un anziano mentore che spieghi le ragioni del fare questo mestiere e al funerale del collega morto a due anni dal pensionamento (e di cui le poche parole rimaste alla vedova sono: ‘Non aveva che la scuola…’).

Il titolo del romanzo prende spunto dall’idea di partenza dell’autore, ovvero che la scuola sia talmente oberata di vincoli e di orpelli che ne snaturano il senso, le potenzialità, la qualità e il valore della missione al punto da inquadrare inesorabilmente i suoi operatori dentro spazi privi di libertà e di umanità. Egli così tesse un elogio dell’ora-buca (tecnicamente il tempo morto dell’insegnante tra la fine di un’ora di lezione e l’attesa di quella che deve seguire e che non sempre è immediatamente successiva). È nell’ora-buca che gli insegnanti sono realmente liberi di essere se stessi, di ispirarsi, fuori dalle fatiche di classi distratte e irritanti e lontano dalla ripetitività mortificante di programmi e discipline: l’orabuca solleva tutti dall’obbligo di ritornare dentro le aule a fare la guardia agli alunni, e invita ad un altrove di pensieri e di coscienza.

Il rischio (il problema) di diventare insegnante è la dipendenza tossica che come un vortice ti risucchia in un contesto da cui non ci si salva più. Con raffinata e divertente ironia Fiorella cita un ben noto luogo comune (Chi sa fare fa, chi non sa fare insegna, chi non sa insegnare insegna agli insegnanti, a sua volta ricordato in American Pie, celebre cult-movie degli anni ’90), per dire che la percezione esterna al mondo scolastico è quella che l’insegnante, di base, non sa fare niente. Forse è proprio il dover vivere tutta la vita con la consapevolezza di questo giudizio che l’insegnante si porterà addosso come un abito, conferendogli un avvilente tono di frustrazione. Tuttavia la tentazione del mestiere è forte, anzi terribilmente forte, come un droga, che uccide ma è seducente e può essere a portata di mano facilmente, così che senza accorgertene quando ci sei dentro non ne esci più.

Nella serie di situazioni tipiche che l’autore sviluppa nel corso della narrazione, il tono alienato dell’ormai irrecuperabile prigioniero di se stesso, riesce tuttavia a trovare finestre di rinnovata consapevolezza. Se il meccanismo tende a stritolare, l’insegnante può e deve trovare sempre e comunque la luce della sua libertà, che non è libertà dalla sua frustrazione, ma al contrario scoperta del senso umano ed esistenziale del mestiere. E c’è quell’insegnante che incontra il disabile sedicenne dentro una scuola media a cui sta chiedendo qualcosa: poter fare una Scuola vera, che abbia davvero senso, che incida nelle vite degli altri, che accompagni all’ascolto, all’incontro, alla reciprocità, che insegni a contare, ad allacciare le scarpe, a prendere un autobus, ad aumentare la libertà.

Questa Scuola, sembra evidenziare l’autore, è quella che si smarca dal puro mestiere per diventare senso del reale, etica dei fatti e delle cose. Questa è la Scuola realmente libera dove la parola educazione non è luogo comune che giustifica i tranelli degli ordinamenti e delle istanze poste in modo vago e sbagliato. La Disabilità come principio di un limite o piuttosto come chiave di lettura dell’Educazione, di progetti di vita, di processi sociali che abbiano radici nel cuore e nelle coscienze degli uomini di scuola.

L’autore torna infine alla sua surreale ironia: la sua passione (in tutti sensi) per la Scuola, quella stessa che gli ha fatto scrivere questo libro, divertendosi (sicuramente lui) e facendo divertire tra il dolce e l’amaro i suoi lettori, si chiude sulla trasfigurazione della nuova collega (precaria) che arriva su incarico annuale, bellissima, innocente e ancora troppo giovane per comprendere i mali del tranello istituzionale: la professoressa Albertoni che diviene agli occhi del collegio già smaliziato e disilluso dei ‘vecchi’, la casta e inconsapevole icona di Teresa d’Avila.

La Scuola è il comune denominatore che tutti abbiamo dovuto attraversare: qualcuno si sente in diritto di parlarne (e di scriverne) soltanto per questo, qualcun altro sente il dovere di farlo perché la Scuola continua a viverla e farla da dentro. Savino Fiorella sembra voler dissuadere chiunque a volerci entrare, ma la sua feroce ironia tradisce in realtà le aspettative di volerci restare, magari anche soltanto (rispettosamente) a modo suo. 

F. Volo, Una vita nuova

Fabio Volo tra “i nuovi umanisti”

di Antonio Stanca

   Per conto di Mondadori Libri è uscita a Febbraio un’edizione speciale di Una vita nuova, romanzo di Fabio Volo pubblicato nel 2021. Era il suo dodicesimo, il primo, Esco a fare due passi, era comparso nel 2001 quando da tempo si cimentava con l’attività musicale e con quella di conduttore radiofonico e televisivo.

   Fabio Volo è lo pseudonimo di Fabio Luigi Bonetti. È nato a Calcinate, in provincia di Bergamo, nel 1972 e vive a Brescia con la moglie e i figli. Anche sceneggiatore, attore e doppiatore sarebbe stato: in molti sensi si sarebbe applicato, vasta e varia sarebbe risultata la sua produzione. Un personaggio noto era diventato quando aveva quarant’anni ed aveva venduto molte copie di suoi romanzi, di raccolte di racconti, era stato tradotto in molte lingue e gli erano stati attribuiti importanti riconoscimenti. Il suo è uno di quei casi dove difficile riesce stabilire con certezza quali siano i modi e i temi preferiti. Succede quando sono tanti e tutti sono praticati, tutti hanno una voce. È lo spirito dell’autore quello che in questi casi si fa sempre vedere o sentire anche se diverso è il genere dell’opera.  E per Volo parlare di spirito significa riconoscerlo nella tendenza, sua particolare, a cogliere, evidenziare quanto avviene in fondo all’anima, come si esce dal confronto con i nuovi ambienti che si sono creati e che sono assorbiti da interessi, valori completamente diversi, lontani da quelli tradizionali. È questa la battaglia che il Volo conduce nelle sue opere, qualunque sia il loro genere: è un personaggio della radio, della televisione, della comunicazione telematica, è immerso nell’attualità, nella vita, nella storia contemporanea. Non poteva sottrarsi al compito di rappresentarle, indagarle, confrontarle come autore, fosse di cinema, di teatro, di romanzi o di racconti o d’altro. Così succede anche in Una vita nuova, dove due amici di quarant’anni, Paolo e Andrea, fanno in macchina il viaggio di ritorno dalla Puglia alla Lombardia con molte soste ma soprattutto con molti argomenti dei quali parlano, discutono. Ampia e ben riuscita è la costruzione dell’opera, con facilità, con scioltezza accoglie nuovi problemi, vi fa rientrare situazioni diverse, si apre all’esterno di quello che poteva essere il rapporto, lo scambio tra i due. Saranno molte le deviazioni, le soste che si concederanno prima di rientrare a Milano e ogni volta riusciranno utili a quanto tra loro si stava dicendo, serviranno a confermare o negare ragioni, convinzioni dell’uno o dell’altro. Una storia diventa quel viaggio, la storia della loro vita e di altre vicine, quelle dei familiari, dei colleghi, o lontane, quelle di altre persone, del mondo. Di confronti, propositi, intenzioni, riflessioni sono formati i loro discorsi, estesi diventano, in un romanzo si trasformano dai risvolti sempre nuovi, sempre sorprendenti. Entrambi vivono in famiglia una situazione di crisi: dopo un inizio carico di affetto, passione, trasporto erano giunti a non capirsi più con le proprie mogli o compagne, ad evitarsi, a stare separati in casa e Paolo aveva pure un figlio. Anche suo fratello, Nicola, presso il quale si fermeranno per qualche giorno, si era lasciato con la moglie, anche lui aveva una figlia. In verità anche con i loro genitori, a loro tempo, i tre avevano avuto problemi. Di questi parleranno e di altri problemi di altri casi, di altre coppie incontrate, conosciute durante il viaggio. Tutto diventerà argomento dei discorsi che correranno tra Paolo e Andrea, tutto sarà più difficile da capire per Paolo, più facile per Andrea. A nessuno, però, sembrerà possibile un percorso comune, una maniera unica per uscire dalle loro e dalle altre crisi. I tempi nuovi, i tempi cambiati saranno addotti come causa di queste e delle loro difficili soluzioni. Quando, però, senza rimedio sembravano diventate, entrambi vedranno profilarsi un modo, un mezzo per risolverle: impegnarsi a recuperare quanto di bene c’era stato agli inizi della vita coniugale loro e degli altri, a rivivere i tempi che avevano preceduto i problemi, a coinvolgere in questa operazione tutti gli interessati riscoprendosi uniti, vicini.

    Ad una rivalutazione del bene perduto, qualunque sia stato il motivo, invita Volo, ad intraprendere “una vita nuova”. È un’aspirazione perseguita da molti autori contemporanei, è quella che rientra nel cosiddetto “nuovo umanesimo”, nella corrente di cultura, di arte sorta di recente e volta a promuovere, indicare i modi per uscire dalla crisi di valori che ha investito i costumi della moderna umanità. Anche quello dell’arte, della sua conoscenza, della sua pratica, è sembrato uno dei modi utili e Volo è tra gli artisti che vi hanno aderito.

Diario di un maestro

Diario di un maestro

di Lucio Garofalo

“Diario di un maestro” fu prodotto nel 1972 da Mamma Rai, che all’epoca assolveva ad un’inestimabile funzione pedagogica e culturale.

Trasmesso in TV l’anno seguente, lo sceneggiato fu girato dal regista Vittorio De Seta ed interpretato dal compianto Bruno Cirino (fratello maggiore di Paolo Cirino Pomicino, politico democristiano ed esponente della corrente andreottiana), un attore versatile ed impegnato, che lavorò anche con Eduardo De Filippo. Cirino veste i panni di un giovane maestro che si trova ad affrontare un’esperienza didattica, umana ed esistenziale con i ragazzi e gli abitanti di una delle borgate romane di Pietralata, Tiburtino 3° e La Torraccia.

Lo sceneggiato è liberamente ispirato al romanzo scritto dal maestro Albino Bernardini, “Un anno a Pietralata”, che racconta un’esperienza di carattere autobiografico. Al centro della narrazione si staglia la contraddizione tra una scuola conservatrice e retriva, gestita da ottusi burocrati, ed una scuola più viva, aderente alla realtà e all’ambiente sociale dei ragazzi.

Per tale motivo ritengo che il documentario, benché “datato”, sia attuale più che mai. Assai illuminante è la scena finale in cui emergono le divergenze, che sfociano in scontro, tra le idee e le proposte innovative messe in campo dal maestro e le posizioni antiquate del direttore didattico, che non riesce a riconoscere ed apprezzare il valore, le competenze e le ragioni del maestro. In questa sequenza si evidenzia l’atteggiamento ottuso e reazionario del burocrate.

“Diario di un maestro” è un’opera di alto valore pedagogico, che ci induce a rimpiangere addirittura la TV monocolore governata dalla DC di quegli anni.

Una Rai che sapeva produrre cultura ed educazione, mandando in onda questo tipo di prodotti, di sceneggiati e programmi televisivi, che erano all’avanguardia per quei tempi. Tale rimpianto è un po’ l’indice di come oggi si siano ridotte la TV “pubblica” e la cultura del nostro Paese.

Ricordo con enorme piacere, ad esempio, “Pinocchio” di Luigi Comencini con un cast di attori a dir poco magistrali: Nino Manfredi, nel ruolo di Geppetto, Gina Lollobrigida (la Fata Turchina), Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, nei panni del Gatto e la Volpe, fino ad una breve, quanto significativa apparizione di Vittorio De Sica, e tanti altri.

Né bisogna dimenticare alcuni sceneggiati che la Rai produsse ispirandosi a celebri romanzi di autori straordinari quali, ad esempio, Emilio Salgari: su tutti cito lo sceneggiato “Sandokan”, un autentico “cult” televisivo.

Sempre a proposito di TV di altri tempi, ricordo che qualche tempo fa, su Rai 3, misero in onda la replica di una puntata di “Blitz”, programma “alternativo” condotto da Gianni Minà durante la prima metà degli anni ’80.

Il tema centrale della trasmissione era la nuova cultura partenopea (la musica, il cinema, il teatro e via discorrendo) di quel periodo.

Non a caso, tutti gli ospiti di quella puntata, tranne Roberto Benigni, erano di origine napoletana: Massimo Troisi, Lello Arena, Lina Sastri, James Senese e Napoli Centrale, ed altri artisti della “nuova Napoli”.

Oggi avverto una profonda nostalgia verso quel tipo di programmi televisivi cosiddetti “alternativi”, che riuscivano a coniugare, con garbo e sapienza, intelligenza, raffinatezza e leggerezza, cultura ed intrattenimento, impegno ed ironia, senza scadere nella pedanteria noiosa o nell’esercizio sterile di una falsa ed accademica erudizione.

Oggi si avverte un’amara nostalgia per un periodo storico creativo ed entusiasmante, poiché la TV odierna dispensa perlopiù spazzatura, mediocrità e stupidità. Una tendenza che, purtroppo, investe l’intera società italiana. Benché “datato”, lo sceneggiato TV “Diario di un maestro” rappresenta un “classico”. E, come tutti i classici, ha ancora tanto da comunicarci, è un “evergreen”. Non a caso, è stato classificato tra i “cento capolavori” del cinema italiano, da conservare e salvare.

G. Bensoussan, Storia della Shoah

Georges Bensoussan tra i misteri della Shoah

di Antonio Stanca

   Allegata a Il Sole 24 Ore- Cultura, su licenza della casa editrice Giuntina che l’aveva pubblicata nel 2013, è uscita recentemente una nuova edizione di Storia della Shoah, ampio studio dello storico francese Georges Bensoussan. La traduzione è di Vanna Lucattini Vogelmann. L’opera risale al 1997, era stata tra le prime dell’autore ed era rientrata tra quelle che meglio avrebbero espresso i suoi interessi principali, la storia, la vita del popolo ebreo. Anche di cultura moderna e contemporanea si sarebbe interessato Bensoussan, anche di essa avrebbe scritto molto ma la sua origine ebraico-marocchina avrebbe fatto tendere i suoi studi verso quanto era successo al popolo dal quale proveniva.

   Nato in Marocco nel 1952, Bensoussan è ritenuto uno dei maggiori esperti di fenomeni quali l’antisemitismo, la Shoah, il sionismo. Molti studi ha compiuto a questi riguardi, molto ha scritto e molto è stato tradotto. Ha ottenuto notevoli riconoscimenti: è il responsabile editoriale del “Mémorial de la Shoah” di Parigi, dirige la Revue d’histoire de la Shoah.

   Come nelle altre opere anche in Storia della Shoah riesce molto chiaro, molto convincente pur trattando di un problema così complicato. Un problema che è durato a lungo, dagli ultimi anni ’30 ai primi anni ’40 del secolo scorso, si è combinato con la seconda guerra mondiale, ha coinvolto tante nazioni, assunto tanti aspetti, interessato tanti luoghi. È diventato il più grave della storia europea degli ultimi tempi. Tanto grave da tornare quasi in continuazione nel ricordo, nella memoria.

   Ampio, esteso è lo studio che Bensoussan compie nel libro riguardo alla Shoah, molto puntuale, molto preciso si mostra circa gli avvenimenti che allora si verificarono, i personaggi che ne furono responsabili, le vittime, i tempi, i luoghi, i modi della strage del popolo ebreo voluta dalla Germania nazista mentre combatteva una guerra che avrebbe dovuto procurarle il dominio del mondo e fare di quella tedesca l’unica umanità possibile. In tale prospettiva quella degli ebrei era un’impurità che andava eliminata, cancellata. Si trattò di un’operazione perpetrata, perseguita dai tedeschi di Hitler e da loro attuata soprattutto nelle zone dell’Europa orientale, quelle conquistate all’inizio delle ostilità e molto abitate dagli ebrei. Qui sorsero i campi di concentramento, le camere a gas con gli annessi forni crematori. Prima, però, che si arrivasse ad un’operazione ben determinata, rigorosamente eseguita, prima che partissero tanti treni carichi di deportati, prima che la si capisse come una vera e propria persecuzione contro gli ebrei, ovunque fossero, si era cominciato con provvedimenti restrittivi nei loro riguardi, con limitazioni, con modi che, però, non lasciavano sospettare dove si sarebbe giunti, non facevano pensare ad un piano prestabilito, lo sterminio di un popolo. In silenzio hanno cominciato i tedeschi, con la guerra hanno mascherato le loro intenzioni, nemmeno dopo le prime vittime si era sospettato il pericolo che incombeva, come lo si stava preparando. Sarebbero diventati sempre più crudeli, più feroci quei primi modi soprattutto quando le sorti della guerra avrebbero cominciato a volgere contro la Germania. Dappertutto, anche fuori dai campi di concentramento, ovunque ci sarebbe stata la morte per gli ebrei, per centinaia, migliaia di ebrei. Non si sarebbe distinto tra uomini e donne, madri e figli, vecchi e giovani, sani e malati. Sfiniti dalla fame, dal freddo, dai lavori forzati, dalle lunghe marce sarebbero diventati tutti prima di morire. Oggetti da eliminare, bruciare, distruggere e si sarebbe continuato così anche dopo un certo tempo dall’arrivo delle forze alleate. A sei milioni sarebbe giunto il numero degli ebrei uccisi durante la Shoah. Molte sarebbero state le condanne, le pene assegnate ai colpevoli dal processo di Norimberga nella sua lunga attività che, però, verso la fine si sarebbe mostrata incline ad una certa clemenza.

   Nessun particolare di un avvenimento che è durato tanto, che tante persone, tra perseguitati e persecutori, vittime e carnefici, ha visto coinvolte, sfugge al Bensoussan di quest’opera. Leggendo si ha l’impressione che abbia assistito personalmente a quelle vicende: tutto di esse riporta persino i pensieri più segreti, i discorsi più brevi, le parole più intime che possono essersi verificate nelle tantissime circostanze che della Shoah hanno fatto parte. Un documento importante va considerato il suo lavoro anche perché oltre allo storico che registra Bensoussan è il saggista che valuta, lo studioso che giudica. Stavolta più che mai molti sono i punti che lo muovono a riflettere: nella storia sono state commesse altre atrocità ma hanno avuto una causa, sono venute da una grave offesa, un torto, una colpa, un danno mentre gli ebrei non erano colpevoli, non avevano commesso misfatti, non erano “impuri”. Come spiegare tanto accanimento verso di loro? Come farlo rientrare in quel diffuso e sempre latente fenomeno dell’antisemitismo che dalla storia più antica è giunto fino ai giorni nostri? Perché così poco o niente si è fatto in quel momento da parte delle altre nazioni al fine di contenere la strage, aiutare gli ebrei, offrire loro un rifugio, un ricovero? Perché neanche la Chiesa lo ha fatto? Perché li si è lasciati così soli, li si è abbandonati? Come mai in tempi moderni quali quelli dell’Europa di metà Novecento c’è stato posto per tanto male? Come si può essere tanto primitivi, tanto barbari mentre si è tanto nuovi? Perché da parte dei colpevoli si è provveduto a cancellare, far perdere le tracce di quanto commesso? Perché tante colpe sono state occultate e tante pene ridotte?

   Sono queste mancate risposte ad aver fatto della Shoah un evento mai dimenticato, sempre pronto a rinascere. In quanto c’è d’incomprensibile, d’inspiegabile sta l’interesse che ancora suscita, nei problemi che neanche Bensoussan ha saputo risolvere. Tornerà lo studioso a scrivere della Shoah, tornerà su quanto è rimasto di non chiarito ma non lo chiarirà e accetterà il carattere di mistero che può assumere a volte la storia dell’umanità.