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F. Uhlman, Trilogia del ritorno

Fred Uhlman, in nome dell’arte

di Antonio Stanca

   Ultimamente, su licenza del Corriere della Sera, è comparsa un’edizione speciale di Trilogia del ritorno dello scrittore tedesco, naturalizzato inglese, Fred Uhlman. Le traduzioni sono di Bruno Armando ed Elena Bona. Si tratta di tre racconti lunghi tenuti insieme da un filo conduttore e impegnati a dire della Germania prima e dopo la seconda guerra mondiale, a farne la storia tramite immagini, a mostrare quanto può diventare pericolosa una terra che ha dato i natali a Goethe, Schiller, Hölderlin, Beethoven, Bach. Non sembra possibile all’Uhlman che negli stessi posti ci siano stati eventi così diversi.

   Nato nel 1901 a Stoccarda in una famiglia agiata, aveva studiato medicina, si era laureato nel 1923, aveva esercitato la professione di medico ed era stato anche pittore prima di cominciare con la narrativa. Alcuni suoi dipinti sono esposti in molti musei del mondo poiché nelle loro città Uhlman era vissuto per qualche tempo. Durante la guerra era stato negli Stati Uniti e anche qui si era fatto conoscere soprattutto come medico e pittore. Il narratore sarebbe venuto dopo ed anche lui sarebbe stato largamente riconosciuto e premiato. Oltre che negli Stati Uniti sarebbe vissuto in Francia, Spagna, Inghilterra e a Londra sarebbe morto nel 1985. Molti altri posti, molta altra vita cercò e sopportò per sfuggire alle vicende della Germania di quegli anni.

    Trilogia del ritorno è la sua opera più nota ma anche la più discussa. I tre racconti che la compongono L’amico ritrovato, Un’anima non vile, Niente resurrezioni, per favore, sono ambientati nella Germania che si prepara alla seconda guerra mondiale e in quella della sconfitta. Nel primo si dice di un’intensa amicizia sorta tra due compagni di scuola di diversa classe sociale in un liceo di Stoccarda, nel secondo dei chiarimenti offerti da un compagno di scuola altamente aristocratico perché ritenuti necessari a salvare il rapporto d’amicizia con un compagno che pensava di essere stato rifiutato, nel terzo racconto si vede la rovina della Germania dopo la guerra e la si considera una giusta punizione. Un evento così drammatico, così tragico è stato percorso dall’inizio alla fine dell’opera tramite quanto gli è appartenuto, tramite la vita che vi avveniva nonostante tutto. Opera di scrittura ha fatto Uhlman di una sciagura, l’ha rappresentata in alcune delle sue parti: il compagno di scuola che crede di essere stato respinto dall’aristocratico quando questo ha già preparato le sue scuse, il ritorno del protagonista nel paese natale che, pur se di breve durata, è sufficiente a tenerlo lontano per sempre causa gli orrori che sono stati commessi.

   L’abilità dello scrittore e del pittore ha determinato un risultato eccellente. Il pittore Uhlman non ha mai denunciato, ha sempre mostrato. Ha voluto far vedere, far sentire. Ha fatto della verità un elemento capace di valere più di ogni altro, di assumere caratteri superiori a quelli contingenti, quotidiani, di diventare un linguaggio più esteso quale appunto quello artistico. Attira una scrittura che tende a raggiungere questo livello, che scorre con naturalezza pur tra gli orrori, che ne fa motivo di condanna. Questo voleva Uhlman, voleva salvare i valori dell’anima, dello spirito, voleva mostrarli come ancora validi, resistenti alle intemperie dei tempi. Ha scritto questi racconti perché emergessero, si sapesse che ancora esistono e che a scomparire deve essere la violenza. Di origine spirituale, di antica derivazione era il suo umanesimo, quello che alimentava la sua vita e il suo lavoro insieme alla volontà di diffonderlo. Lo ha fatto in ognuno dei posti dove è stato.

    In Germania da giovane aveva militato per il Partito Socialdemocratico ed era stato decisamente contrario alle posizioni naziste. Era rimasto molto rammaricato per non aver assistito ad una Germania in rivolta contro Hitler e i suoi, per non aver visto la Chiesa schierarsi a favore dei più poveri, dei più deboli. Era anche un uomo d’azione oltre che di cultura e d’arte e la sua vita ne offre testimonianza. Quello che intuiva, che concepiva, voleva che diventasse anche degli altri, che servisse a migliorarli fino a fargli pensare di poter ottenere così un mondo migliore. Era convinto che la pratica della pittura, quella della legge e l’altra della scrittura fossero tra le vie migliori per scopi simili.

Papa Francesco – E. Scalfari, Dialogo tra credenti e non credenti

Tra spiriti eletti

di Antonio Stanca

    Sabato scorso, dopo pochi giorni dalla morte di Papa Francesco allegato al quotidiano la Repubblica, è uscito il supplemento culturale Papa Francesco- Eugenio Scalfari Dialogo tra credenti e non credenti. È una nuova edizione del breve volume pubblicato dallo Scalfari nel 2013 e riferito ai risultati del rapporto di amicizia e stima che in quel tempo c’era stato tra il noto giornalista e il nuovo Papa. Proprio allora Bergoglio era stato eletto e Scalfari gli aveva chiesto di poter intrattenere con lui degli scambi, dei colloqui, orali o scritti, circa problemi di ordine religioso o di altro genere rimasti sempre poco chiari. Il Papa aveva acconsentito mostrandosi contento di poter conoscere da vicino un intellettuale del livello di Scalfari, scrittore, giornalista, uomo politico, che aveva fondato giornali così importanti come il settimanale L’Espresso e il quotidiano la Repubblica, che era stato un abile editorialista, che aveva assunto incarichi politici di rilievo e svolto importanti funzioni in ambito civile, sociale, culturale. Uno dei protagonisti della vita, della storia, del pensiero, del costume della nuova Italia può essere considerato, uno degli autori più impegnati nell’osservazione, valutazione, soluzione dei problemi che i nuovi tempi hanno comportato per il singolo e la collettività. Molto ha fatto Scalfari e molto ha pure scritto. Molte opere ha dedicato a quella che può essere detta la modernità e abbastanza distinta era diventata la sua posizione in Italia e all’estero. Era morto nel 2022. Aveva novantotto anni.

    In verità contento si era mostrato anche lui quando aveva visto accolta dal Papa la richiesta di loro incontri per scambi di opinione in tema di religione, di fede o altro. Era attirato Scalfari dalla figura di un Pontefice che aveva fatto parte della Compagnia di Gesù, che era il primo di provenienza latinoamericana, che in Argentina, dov’era nato, aveva ricoperto tanti incarichi religiosi e svolto tante funzioni, che per primo aveva assunto il nome di Francesco poiché per una Chiesa povera, missionaria, come quella del santo di Assisi, voleva impegnarsi. C’erano stati altri esempi di papi buoni, di papi che si proponevano di fare del bene, dell’amore, dell’aiuto materiale e morale per chi più ne aveva bisogno, il compito primo della Chiesa ma non erano stati come Papa Francesco. Innati erano in lui uno spirito, un ardore, una volontà di bene che volevano essere esauditi già da quando, in Argentina, era agli inizi della sua missione religiosa e che ora, venuto a capo del mondo cattolico, sentiva come dei doveri impellenti, dei compiti inderogabili. Scalfari non era credente ma attirato era da quelle figure della storia sacra che si erano rivelate eccellenti predicatori, profondi innovatori. Amava Gesù di Nazareth e Francesco d’Assisi, alle quali aggiungeva ora papa Bergoglio. Nuovo, rivoluzionario gli sembrava perché dei bisogni degli ultimi, dei poveri si dichiarava garante. Impegnato si mostrava a concepire opere di misericordia, di sollievo, di cura delle anime e dei corpi. Ammirato era rimasto Scalfari da Papa Francesco che faceva di questi progetti dei veri e propri comandamenti, che della religione, della fede faceva una condotta da seguire, una regola di vita, di pensiero, di azione, che non puniva il peccatore ma lo perdonava, che condannava la guerra, che in maniera semplice, chiara risolveva quelli che erano stati difficili problemi di interpretazione, di applicazione circa principi, concetti propri della religione cristiana. Tanto preso era rimasto il giornalista da tante novità da aver voluto mettersi in contatto con questo Papa per parlare, discutere di argomenti religiosi e non solo. Lo avevano fatto tramite le pagine de la Repubblica oppure con vere e proprie conversazioni. Molto interessanti erano stati i risultati di tali scambi, certe volte faranno vedere vicini i due interlocutori, altre li faranno rimanere lontani ma in nessun caso mancheranno di mostrare che molto valgono, molto interessano le loro opinioni, le loro convinzioni. Diffusa andrebbe, pertanto, l’opera dove raccolti sono stati dallo Scalfari questi risultati. Divulgata, insegnata, acquisita dovrebbe essere, elemento, parte del comune patrimonio culturale dovrebbe diventare e la scuola, più di qualunque altro organo, dovrebbe impegnarsi in tal senso. In un’operazione di edificazione morale andrebbe trasformato il breve volume, in un libretto di istruzione, di formazione. Parte della vita di ogni giorno, della vita di tutti, del loro modo di pensare, di fare dovrebbe diventare come sempre è successo quando eletti sono stati gli spiriti che hanno svolto una funzione così importante.

M. Bruckner, Verso destinazione ignota

Marco Bruckner, la sua storia

di Antonio Stanca

   A Gennaio è uscito, allegato al Corriere della Sera, primo numero delle “Storie Solferino”, Verso destinazione ignota (Croazia 1941: diario di una deportazione) di Marco Bruckner. È un’ampia narrazione dove l’autore ricostruisce quanto successo nel 1941 contro gli Ebrei della vecchia Jugoslavia, la persecuzione, la deportazione subite da parte dei militari tedeschi e italiani che avevano occupato quei territori, e degli Ustascia, milizie fasciste del posto.

   Bruckner si è laureato in Filosofia all’Università di Milano e gli studi di storia rientrano tra i suoi interessi insieme alla collaborazione con La Gazzetta dello Sport. In quest’opera dice di un’esperienza vissuta un giorno lontano da lui, ancora ragazzo, e dal nonno Bruno nella casa di questi a Ferrara. Su richiesta del nipote il nonno si era dilungato ad illustrare, ampliare quanto scritto su un vecchio diario, diventato patrimonio famigliare. Qui un’antenata, la bisnonna Medea, aveva riportato la triste vicenda vissuta da lei, dal marito Carlo e dai figli Bruno e Nada quando nel 1941 la Germania aveva occupato la Croazia e a Zagabria, dove la famiglia risiedeva, i tedeschi li avevano arrestati e portati all’interno della Jugoslavia in posti diversi, compresi campi di concentramento. Era l’inizio di una delle prime deportazioni inflitte a persone di origine ebrea. Tra gli antenati di Marco il bisnonno Carlo aveva ascendenze ebree. La sua famiglia, però, il suo lavoro, gli avevano permesso di raggiungere una condizione sociale di livello, una posizione abbastanza distinta e rispettata. Faceva parte, insieme alla moglie, della ricca borghesia del posto. Né lui né lei pensavano che avrebbero corso seri pericoli per sé o per i figli. Fidavano, se ci fosse stato bisogno, nell’aiuto di personaggi, di famiglie molto influenti con le quali erano in contatto. Intanto, però, i maltrattamenti nei loro riguardi da parte dei militari che li avevano arrestati erano uguali a quelli usati per gli altri deportati, non veniva risparmiato loro nessun sacrificio, nessuna fatica, sofferenza, pena. In vagoni sudici, su tradotte lentissime, a piedi, scalzi, svestiti, sotto il sole rovente o al freddo rigido, si videro costretti a viaggiare, camminare, correre per coprire le distanze tra i tanti luoghi dove sarebbero stati portati, ammassati e dove avrebbero dovuto mangiare e dormire. Avrebbero sofferto, invece, la fame, la sete, il sonno, la sporcizia, erano le torture peggiori, erano le condizioni che avrebbero portato all’insorgere, alla diffusione di contagi, di malattie, di morte.

   Dopo alcune delle tappe del lungo viaggio, Carlo era stato separato dalla famiglia, Medea aveva proceduto insieme ai figli che stentavano a reggersi causa le continue privazioni alle quali erano sottoposti. Anche lei stava poco bene, non poteva resistere ad uno sforzo simile, la sua famiglia, la sua condizione sociale l’aveva tenuta lontana da certe situazioni. Non solo a patirle in prima persona era chiamata ora insieme ai figli ma anche a vederle sofferte dai compagni di sventura, inflitte ai presunti colpevoli. Una storia di orrori era diventata in poco tempo la loro e quella di tutti gli altri deportati. Spesso sparivano interi gruppi di questi senza che si sapesse come era successo, dove erano finiti. Sconosciuti rimanevano tanti aspetti, tanti episodi di quella marcia che in tanti modi avveniva e della quale “ignota” fino alla fine sarebbe rimasta “la destinazione”. Si riduceva, inoltre, il numero dei prigionieri che la compivano giacché si moriva di stenti, di malattie, per crudeli punizioni. Con Carlo Medea e i figli si ritroveranno durante uno di quei continui traslochi tra piccoli centri, campi di concentramento o di lavoro già presenti nella Croazia, nella Slovenia, nella Bosnia, nella Serbia e in altre regioni della vecchia Jugoslavia. Qui le deportazioni erano cominciate prima del 1941, anche i campi di concentramento c’erano da prima. Una situazione di diffusa tensione ne era derivata e nel 1941 questa si era inasprita al punto da far vivere nella paura, nel terrore molte di quelle popolazioni. In uno dei tanti risvolti della sua particolare vicenda Carlo sarebbe sparito e della sua morte si sarebbe saputo dopo, ai tempi della liberazione. Soltanto allora, quando erano passati molti mesi dall’inizio della grave vicenda, prima i figli e poi Medea erano stati liberati e avevano potuto far ritorno a Trieste, riformare la loro famiglia, tornare a vivere. Nel 1944 Medea penserà di scrivere di quanto accaduto, di quanto vissuto, vorrà creare un diario che sarà quello dal quale erano partiti Marco e il nonno Bruno all’inizio di quest’opera, quello che l’aveva ispirata. Particolare la si può dire giacché a contatto diretto con un evento così grave, così ampio, con un tempo così prolungato, riesce a mettere, da vicino fa vedere com’era cominciata la Shoah. Semplice, chiaro è, inoltre, il linguaggio usato, un racconto sembra di leggere, uno di quelli capaci di far vedere, di far capire meglio quanto è successo.

M. Recalcati, La notte del Getsemani

Recalcati, tra umano e divino

di Antonio Stanca

   È appena comparso, allegato a la Repubblica su licenza Einaudi, La notte del Getsemani, breve volume del noto psicoanalista Massimo Recalcati. L’opera proviene da una conferenza tenuta dall’autore nel 2017 presso il Monastero di Bose, in provincia di Biella. La prima pubblicazione c’era stata nel 2019-2020 ed ora è il primo dei tre volumi col quale Recalcati intende comporre il piano di un’opera da allegare a la Repubblica. Un infaticabile studioso, un attivo ricercatore è Recalcati. Nato a Milano nel 1959, in questa città si è laureato in Filosofia. Gli interessi per la Psicologia e la Psicoanalisi sono venuti dopo la conoscenza delle opere del noto psicoanalista francese Jacques Lacan. Anche lui sarebbe diventato uno psicoanalista molto noto, avrebbe scritto molte opere e ottenuto molti riconoscimenti e traduzioni. Pure molti incarichi gli sono stati affidati presso importanti centri di studio quali l’IRPA (Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata), del quale è direttore, e l’Università di Verona dove insegna Psicoanalisi e Scienze Umane. È stato tra i fondatori del Jonas Onlus ed insegna anche alla IULM di Milano. Insieme a Maurizio Balsamo dirige la rivista “Frontiere della Psicoanalisi”.

   Molto s’impegna Recalcati nell’ambito degli studi psicologici e psicoanalitici. Molte ricerche, molte scoperte ha compiuto, molte opere vi ha dedicato, molto famoso è diventato lui e il suo metodo, la sua maniera chiara, sicura di indagare in ambito antico e moderno, di procedere tra fenomeni, avvenimenti storici, politici, sociali, culturali ed altri. Ampio, esteso vuole riuscire ogni volta, in ogni opera, ben confermata, ben documentata vuole che sia, a tutto quanto è rientrato durante il suo percorso dà voce e più di una volta torna a dire delle verità scoperte. Una lunga, interminabile azione di persuasione sembra compiere quando scrive. Cancellare sembra ogni dubbio, ogni incertezza. La sua scrittura fa posto a tutti gli aspetti di un fenomeno, dal più astratto al più concreto, dal più ideale al più reale. Una novità ha rappresentato la sua figura, una scoperta ogni sua opera. Ed ancora continuano ad esserlo se si pensa che tanto è l’interesse che suscitano dopo tanti anni. È da molto tempo che si parla di psicoanalisi, che si è cominciato a rimanere meravigliati, stupiti di fronte alle sue rivelazioni ma con Recalcati è come essere agli inizi di questa disciplina, alle sue novità ogni volta che lo si legge. Sempre sorprendente, sempre convincente riesce e così fino a quest’ultima ristampa dove ripercorre alcuni momenti della storia sacra, quella dei Vangeli, di Gesù, al fine di mostrare come anche la sua sia stata una dimensione umana, quanto abbia comportato nei frangenti ultimi della sua vita. Prima del supplizio del Calvario Gesù ne aveva patito un altro non meno doloroso, quello dell’“orto degli ulivi”, della “notte del Getsemani”. Recalcati lo ripercorre in ogni circostanza, in ogni presenza, in ogni pensiero, azione, parola, gesto e lo fa sulla scorta di testimonianze, citazioni tratte dai loro più fedeli documenti, i Vangeli. Da documenti muove, come ogni volta in ogni opera, per sostenere le sue convinzioni, per provare quanto si propone, per farne un’acquisizione definitiva, inalterabile. Furono tante le cose che avvennero quella notte, s’iniziò dalla sera, dall’ultima cena, e si finì con la morte di Gesù sul Golgota. Nessuna sfuggirà all’attenzione di un osservatore, di un pensatore, di uno scopritore quale Recalcati. Fra tutte egli si muoverà per dimostrare quelle che stavolta sono le sue tesi. Ce ne saranno altre di cose dette, più antiche o più moderne, altre di situazioni, altri di personaggi con i quali quelli della “notte del Getsemani” saranno confrontati ma sempre a questi ultimi lo studioso finirà col tornare. Sono quelli che più gli premono e dagli altri vuole solo trarre delle convalide alle sue convinzioni.

   Molto sofferta era stata, s’è detto, quella notte per Gesù, abbandonato, tradito si era visto da coloro ai quali più si era dato, più aveva insegnato, trasmesso, più bene aveva fatto, predicazione, miracoli. Il primo tradimento era stato quello di Giuda che lo aveva fatto scoprire ai soldati venuti per arrestarlo, il secondo quello di Pietro che lo aveva rinnegato per tre volte. A questi si erano aggiunti i tradimenti degli altri discepoli che lo avevano isolato presi dal sonno. Tutti avevano avuto una ragione, una spiegazione per il loro comportamento ma il tradito non la conosceva, non se l’aspettava. Non poteva supporre che quanto aveva fatto per loro con i pensieri e con le azioni, quanto aveva loro dato potesse finire, venire annullato per motivi così secondari come divergenze personali, politiche, sociali. Era convinto che la sua presenza, il suo messaggio, il suo esempio avesse fatto capire a tutti, discepoli e non, che la loro fosse una dimensione terrena, umana e la sua una celeste, divina la quale non poteva venire offesa, violata dall’altra. Afflitto, tormentato rimarrà per tutta quella notte, non riuscirà a convincersi di quanto gli sta succedendo, di come non potesse godere della sua natura divina e dovesse accettare le accuse, i torti, le pene di una qualunque condizione umana, accettare di essere tradito, processato, condannato. Si è ordito, cospirato contro di lui, niente ha potuto proteggerlo, difenderlo, salvarlo, neanche quanto di divino lo formava. Neanche Dio, il Padre, aveva ascoltato le sue preghiere quella notte, la sua richiesta di soccorso. Nessuno si era mosso a suo favore, solo, abbandonato, nel buio, nel silenzio più totale l’aveva trascorsa. Un uomo tra i tanti, tra gli altri, come gli altri, aveva dovuto accettare di essere anche se sarà la coscienza di questa condizione a fargli considerare quella divina come superiore. Non in una sconfitta si conclude l’opera del Recalcati ma in un’aspirazione ad elevarsi, distinguersi su quella che per Cristo era solo vita terrena senza che fosse necessario volerne una divina.

E. Fiorentino, Sull’arco dell’aurora

SULL’ARCO DELL’AURORA: APRIRSI PER UNIRE/UNIRSI NELLA NARRATIVA DI ENZO FIORENTINO

di CARLO DE NITTI

A due anni di distanza dalla sua prima fatica letteraria, Una breve stagione d’amore, Enzo Fiorentino ci conduce per mano, attraverso questo suo nuovo romanzo, Sull’arco dell’aurora, pubblicato sempre per i tipi della casa editrice romana Albatros: un romanzo avvincente, da leggere tutto d’un fiato, com’è occorso a chi sta scrivendo queste righe. Ancora una volta, per fortuna di noi lettori – verosimilmente in tanti – Enzo Fiorentino dismette, ma non del tutto, le vesti del saggista, del sociologo, del francesista, del sindacalista e del dirigente scolastico, per vestire quelle del narratore, dimensione in cui si trasfigurano tutte le altre della sua poliedrica personalità teste evocate.

Il romanzo si snoda attraverso sei capitoli: “L’amarezza”, “Il trasferimento”, “Amore e ricordi”, “Ripensamento e riesame”, “La felicità minacciata”, “L’alba s’indora”. Molto evocativo appare a chi scrive il titolo scelto, Sull’arco dell’aurora: un arco non può che indicare un’apertura, un ‘ponte’ per unire due persone, due luoghi, due mondi, due epoche, creando condivisione, come caratteristico di una città di frontiera come, da sempre, quella in cui il romanzo è ambientato, Trieste.

È in quella città che viene inviato, in qualità di direttore regionale di un imprecisato ministero, per una sorta di mobbing, Fulvio, ottimo dirigente ministeriale, di origine meridionale, le cui idee non sono sempre in linea con il ministro pro tempore: “Cerco un buon direttore in grado di svecchiare l’ufficio regionale del Friuli, volte a favorire ed assecondare il processo di trasformazione già in atto […] Mi piacerebbe conoscere le motivazioni vere che l’hanno spinto ad adottare una tale risoluzione. Mi sento perseguitato. Ritengo il provvedimento non già una promozione o, tanto meno, un gesto di fiducia, come lei sostiene, nei miei confronti” (p. 18). È, quindi, il capoluogo di regione, Trieste, il luogo in cui Fulvio incontra Edda, rectius, la signora Edda Martin, una competente e solerte funzionaria dell’ufficio, segretaria del direttore precedente, donna di elevata questa condizione sociale, con ascendenze caratteriali mitteleuropee, risalenti al tempo, nemmeno tanto lontano spiritualmente, degli Asburgo.

            La storia d’amore che si sviluppa tra Edda e Fulvio non è né semplice né banale tanto per i caratteri entrambi quanto per i loro vissuti pregressi. Edda è sicuramente la donna che ha bisogno di un uomo molto empatico che le consenta di aprire il suo cuore al fine di rielaborare il suo passato (i rapporti familiari: simbiotico con il padre, algido con la madre, mutualistico con il fratello Renzo): Fulvio è certamente, fin dal primo momento, l’uomo per lei, la sua anima gemella, l’altra metà della mela, l’androgino che si ricongiunge, pur avendo scontato passato la presenza di una madre eccessivamente possessiva (cfr. pp. 193 – 194).

È proprio nell’ultimo capitolo del volume che emerge a tutto tondo il rapporto di Edda con il fratello Renzo, figlio dello stesso padre ma non della medesima madre, allontanato da questa dalla casa avita e divenuto un affermato neurochirurgo: egli è sempre affettivamente presente fisicamente vicino alla sorella Edda colpita da problemi di tipo oncologico e al suo compagno Fulvio:
“si trattennero fino a notte inoltrata. Parlarono di quanto era accaduto dopo la partenza di Renzo. Fulvio si intrometteva di tanto in tanto per conoscere meglio situazioni da lui non risapute […] Ascoltandolo, nell’inesplorato scopriva aspetti di una personalità che appariva i suoi occhi al di fuori dall’ordinario […] Tanto, a dispetto della fanciullezza, allorchè aveva conosciuto l’affetto necessario e, invano, cercato, per crescere e vivere in tutta serenità le relazioni familiari” (pp. 218 – 219 passim).

              La loro relazione sentimentale si sviluppa contestualmente alle loro vicende professionali, in particolare, quelle di Fulvio, le cui idee in tema di leadership, forti ed innovative, sono dapprima osteggiate dal ministro, ma apprezzate al successivo cambiamento di Gabinetto: “Pensava alla formazione della squadra coinvolgendola e stimolandola verso il superamento  di antiquate strutture risalenti a tempi trascorsi, contraddistinte dalla netta separazione tra i diversi settori dell’organizzazione, cui non premeva il successo, perché sorda al cambiamento. Propendeva per una struttura agile il cui capo non fosse avulso dall’assetto strutturale, immaginandolo come il protagonista che deve stare in prima linea, disseminando progetti e motivando i componenti della squadra, i quali avrebbero dovuto partecipare non da passivi esecutori, ma come attori votati al successo e al conseguimento degli obiettivi inizialmente condivisi. Era, a suo parere, la via obbligata affinchè al capo fosse riconosciuto il carisma di leader indiscusso” (pp. 68 – 69).

Nella produzione narrativa di Enzo Fiorentino, torna la specifica ambientazione in Friuli – Venezia Giulia, regione al confine orientale della nostra penisola, in cui ha vissuto le sue prime esperienze da preside di istituti di istruzione secondaria negli anni Ottanta del secolo scorso, ma senza dimenticare il paese di origine di Fulvio, che appare a chi scrive non molto dissimile da quello di Zeno, ben più presente nel romanzo precedente. Della storia novecentesca di Trieste e del Friuli – Venezia Giulia, in questo romanzo, si avverte l’eco attraverso i vissuti pregressi dei personaggi: un esempio calzante è quello del dott. Enrico Montignan, il vicario di Fulvio, “un galantuomo di tempi passati per sempre che, ahimè, non torneranno mai più” (p. 77). Egli è figlio della drammatica storia del ‘900: “Mi sento straniero in questa striscia di terra e, al tempo stesso, estraneo alla mia patria […] A questa mia prima condizione di straniero, si è aggiunta negli anni la situazione di profugo, figlio di infoibato, che insieme hanno contribuito a scaraventarmi nel pessimismo più cupo, portandomi a credere che tutta la vita è assurda” (pp. 144 – 145).

Il Fulvio di Sull’arco dell’aurora, ma anche lo Zeno di Una breve stagione d’amore, vivono esperienze indimenticabili e formative della loro personalità in luoghi diversi della regione Friuli Venezia Giulia. Sono due personaggi che hanno sicuramente molte affinità tra loro accanto alle innegabili differenze: la solida preparazione culturale, le idee assolutamente innovative sulla leadership tanto in un’azienda privata (Zeno) piuttosto che in un ufficio pubblico (Fulvio), la schiena diritta da ‘hombre vertical’. Non è difficile invenire in loro tratti caratteriali e professionali peculiari del loro creatore, indimenticabile ed indimenticato dirigente scolastico: essi, a chi scrive queste righe, appaiono i suoi eteronimi.

Anche le donne che i protagonisti incontrano in Friuli – Venezia Giulia, Nanà in Una breve stagione d’amore ed Edda in Sull’arco dell’aurora manifestano peculiarità caratteriali tipiche della loro terra ed esercitano entrambe un grande charme, sia pure i modi e forme molto diversi tra di loro. I problematici vissuti esistenziali pregressi di Edda e di Fulvio non solo non fanno velo all’immediata simpatia con Fulvio prima, evoluta rapidamente in passione ed amore poi ed infine nella condivisione di un progetto di vita, ma consentono lore di vivere il presente ed il futuro che insieme stanno costruendo: “Anche se di diverse estrazione familiare di opposta formazione culturale, frasi vittime Innocenti di comportamenti, che ci hanno costretti, il nostro malgrado, a vivere traversie tanto simili, che hanno finito per sconvolgere la nostra esistenza. Opprimenti le madri per differenti motivazioni fino all’asfissia, ci hanno obbligato a sottostare alla loro intransigente e volontà. Un comportamento, quello delle madri, che mal si conciliava con la colla dolcezza e la condiscendenza dei nostri padri […] Ci hanno negato l’imprescindibile serenità nella delicata stagione della pubertà quando maturavano i tratti distintivi delle età adulta“ (p.113).

Il romanzo di Enzo Fiorentino è impreziosito dalla  splendida Prefazione del giornalista Duilio Paiano (pp. 7 – 11)  che ben lumeggia il mondo, letterario e non, dell’autore e dei suoi personaggi, protagonisti e deuteragonisti (eccellente il cane Corso): “Sull’arco dell’aurora è, soprattutto ma non solo, un viaggio che scorre fluido, accattivante, dispensatore di conoscenze e approfondimenti che si imprimono nella mente del lettore in forma di piacevole e utile bagaglio […] al di là delle pagine del romanzo il sogno può continuare, alimentato dall’intreccio ampio respiro e di sicuro impatto emotivo” (pp. 7 – 11).

L’epilogo del romanzo, unico e sicuramente non immaginabile dal lettore prima di leggerla, è aperto e rende ragione delle personalità di Edda e Fulvio, i due protagonisti, che si legano, senza rinunciare, nessuno dei due, alle sue peculiarità, che li rendono così reciprocamente affascinanti. Creano, insieme, un unicum familiare in cui Edda e Fulvio accolgono anche Ahmed, un piccolo orfano conosciuto da Edda nel centro raccolta migranti: ”Un esito che l’avrebbe, finalmente, sottratta alla solitudine, delle cui deleterie spire era stata prigioniera. La serenità, che sarebbe scaturita dalla sua nuova condizione esistenziale, le avrebbe giovato, anche nella lotta da lei ingaggiata contro il male del secolo, che lui era solito bollare con il marchio di drago infame e malefico […] L’alba si stava indorando“ (pp. 247 – 249).

L’arco dell’aurora è quello spazio immateriale che consente ai due protagonisti, provenienti da realtà assolutamente irrelate, di aprirsi reciprocamente all’altro da sé per unirsi in una nuova dimensione – di coppia, familiare e professionale – sino ad allora inesperita, che supera le loro vite pregresse con adulta consapevolezza e con un carico di speranza verso il comune domani.

M. Murgia, Tre ciotole (Rituali per un anno di crisi)

Michela Murgia, l’ultimo libro

di Antonio Stanca

   È uscita da poco, per Mondadori Libri, un’edizione speciale di Tre ciotole (Rituali per un anno di crisi) di Michela Murgia. L’opera era comparsa la prima volta nel 2023, era stata l’ultima della scrittrice in vita e di carattere autobiografico si era rivelata in alcune delle parti iniziali. Qui la Murgia aveva detto di quando, 2014-2016, le era stata diagnosticata una grave forma di tumore renale, di come l’aveva curata e di come, nel 2023, era ricomparsa tanto grave da portarla alla morte. Tre ciotole, tuttavia, è una serie infinita di “spaccati di vita”, uno scorrere interminabile di brevi episodi, piccoli eventi, particolari momenti non di una sola ma di tante persone in tanti posti.

   Nata a Cabras, Oristano, nel 1972, la Murgia è morta a Roma nel 2023. Aveva cinquantuno anni e tanto aveva fatto: diplomatasi in ragioneria, aveva frequentato, ad Oristano, l’Istituto di Scienze Religiose senza completarlo. Aveva iniziato a lavorare quale insegnante di Religione, lo aveva fatto per sei anni, poi si era dedicata ad altre attività compresa quella di portinaia notturna d’albergo. Nel 2006, a trentaquattro anni, aveva esordito nella narrativa col romanzo Il mondo deve sapere che ha avuto una riduzione teatrale ed una cinematografica. Ha continuato a scrivere muovendosi tra racconti e romanzi e approdando nel 2009 ad Accabadora, romanzo che tratta dei temi dell’eutanasia e dell’adozione e col quale vince quell’anno la sezione narrativa del Premio Dessì e l’anno successivo il SuperMondello e il Campiello. All’attenzione generale balza Michela Murgia anche perché il suo nome compare pure su giornali importanti a firma di interventi che possono essere saggi brevi, recensioni, opinioni. Un’intellettuale di rilievo, un personaggio pubblico si avvia a diventare soprattutto da quando, trasferitasi a Roma, i suoi impegni vanno oltre l’ambito puramente intellettuale e si rivolgono anche a quello sociale, politico, religioso, dove la sua formazione cattolica la porta a confrontare, valutare, discutere la modernità con un passato completamente diverso. Anche in televisione, a teatro la Murgia si fa vedere impegnata in questo senso, in ogni modo vuole intervenire perché si sappia quanto sia cambiata la vita e quanto ancora stia cambiando, come, dove, con chi si è giunti a stare, a fare, cosa serve per migliorare o correggere o cambiare. L’attualità è diventata un problema per tutti, la Murgia ne prende atto e ne scrive. In pubblico ne parla, lo fa come scrittrice, drammaturga, saggista, giornalista, opinionista, conduttrice televisiva, in tutti i modi che ritiene capaci di raggiungere un vasto pubblico. Una guida morale la fa sentire quella fede che aveva alimentato i suoi primi anni. Consigli, suggerimenti, indicazioni vuole trasmettere a chi privo di orientamenti, di riferimenti è giunto a trovarsi in un mondo che è finito col perderli. In verità non è facile contenere, arginare, recuperare una simile perdita, sono moltissime, infinite le situazioni che hanno bisogno di essere riparate e questo anche per chi lo aveva sempre fatto. Ma non per la Murgia che con Tre ciotole riesce a cogliere moltissimi, infiniti frangenti di vita quotidiana, quelli dove evidenti sono i segni della crisi sopravvenuta col tempo, del pericolo, della rovina che incombono su persone e cose, dell’impossibile soluzione di un problema individuale, famigliare, sociale, del danno apportato da una perdita improvvisa, imprevista. È un’opera intera che la scrittrice compone con frammenti di vita al negativo, di quelli che succedono ai nostri giorni, che lasciano senza risposta. Neanche la sua è una risposta sicura, definitiva ché non sarebbe possibile data la gravità, la vastità delle circostanze. È, comunque, un tentativo di svolgere il problema che si è creato, di procurare i mezzi necessari a scaricarne parte del peso, di cercare l’inizio di quella luce che ora manca completamente. Non c’è niente di preciso, a valere è soltanto il coraggio di queste proposte, la speranza di questo aiuto, la promessa di questo sollievo.

   Come altre volte, in altre opere, anche qui di fronte alle disgrazie a sostenere la Murgia è quell’antica religione cristiana che aveva fatto parte della sua prima vita, l’aveva fatta crescere sicura, capace pur tra pericoli.

G. Risari, Le più belle storie della tradizione ebraica

Guia Risari, gli Ebrei della tradizione

di Antonio Stanca

   Allegato a Il Sole 24 ORE è uscito tempo fa, per conto di Gribaudo, Le più belle storie della tradizione ebraica dove Guia Risari ha raccolto molte credenze del popolo ebreo dalle più antiche alle moderne. Le ha ordinate, divise per argomenti e le ha fatte illustrare da Cinzia Ghigliano. L’opera risale al 2021 quando la Risari aveva cinquant’anni.

   Nata a Milano nel 1971, qui si è laureata in Filosofia Morale e qui ha cominciato a lavorare come educatrice e giornalista. Andata in Francia si è dedicata all’insegnamento, alle traduzioni, a ricerche di carattere storico e letterario. Sempre più ampi sono diventati i suoi interessi, in molti centri di studio, italiani e stranieri, si è fatta notare per la sua attività di saggista, curatrice di opere importanti, traduttrice. A questi impegni, a questi studi, che spaziano tra autori e opere di diversa nazionalità, di diverso genere, vanno aggiunti i laboratori di scrittura, di lettura, le conferenze sulla filosofia, sulla letteratura tenute dalla Risari in molte università, scuole, biblioteche e altri posti. Anche scrittrice di racconti, di libri per l’infanzia, di romanzi si è rivelata col tempo, anche poetessa, e molti premi ha ottenuto come studiosa e come autrice. Una figura dagli interessi multipli è la sua, è quella propria dell’intellettuale moderno, capace di muoversi con destrezza tra il lavoro della ragione e l’altro del genio, tra l’erudizione e l’aspirazione artistica. Al primo appartiene la detta antologia circa “le storie della tradizione ebraica”. È un’opera che permette di sapere, tramite una facile lettura, tanto passato del popolo d’Israele, tanta sua vita, tanto suo modo di pensare, di fare. Sono storie brevi, leggende, racconti, favole, partono dall’antichità e giungono ai tempi moderni. La Risari ha scelto le più significative, le ha sistemate in modo da far vedere per intero il mondo al quale appartengono, dal quale provengono. Riesce la scrittrice a far conoscere, con le credenze che riporta, gli usi, i costumi, gli ambienti di vita, di lavoro di un popolo tra i più travagliati della storia. Liberato sembra da questo travaglio Israele quando si legge il libro giacché in ognuna delle sue “storie”, reale o immaginaria, comica o tragica, sappia di fantasia o di magia, risalga al mito o alla religione, dica di persone o di animali, di re o di mendicanti, di saggi o di empi, di uomini o di dei, di sogni o di desideri, di vizi o di virtù, in ognuna prende evidenza, risalta sempre l’aspetto positivo, la parte utile, giusta, migliore di quanto detto. Il fine ultimo delle situazioni presentate, delle “storie” che le contengono, è sempre quello del bene che vince sul male, dell’invito a perseguirlo, praticarlo. Ad una misura, una regola unica sembrano tutte obbedire. È la prova di una concezione, di una pratica di vita che è stata degli Ebrei fin dalle loro origini e che consiste nel sentire, perseguire principi, valori altamente spirituali, chiaramente segnati dalla loro religione. È stata la loro fede religiosa a tenerli uniti ovunque si siano trovati durante la diaspora, sono stati i loro modi di vivere, di credere, che a quella fede ubbidivano, a rimanere intatti nonostante i problemi, i pericoli, gli orrori sofferti perché perseguitati. È stato uno spirito di saggezza ad emergere sempre, a rivelarsi come il carattere distintivo dell’uomo ebreo. Queste “storie” ne sono la testimonianza più autentica.

   È il merito principale del libro della Risari: ha cercato, ha scoperto nelle credenze popolari i segni di riconoscimento del popolo ebreo, è risalita alle loro più remote origini, li ha fissati in maniera inequivocabile, definitiva.

Toshikazu Kawaguchi, Il primo caffè della giornata

Kawaguchi tra le sue caffetterie

di Antonio Stanca

   È uscita da poco, allegata al Corriere della Sera, un’edizione speciale del romanzo Il primo caffè della giornata dello scrittore giapponese Toshikazu Kawaguchi. È il primo di una nuova collana, “Giappone contemporaneo”, e la traduzione è di Claudia Marseguerra. L’opera risale al 2018 e la prima edizione italiana è stata curata da Garzanti nel 2022.

   Anche regista e sceneggiatore è Kawaguchi ma quella della narrativa è diventata la sua attività preferita. Nato a Osaka nel 1971, con la regia e la sceneggiatura aveva cominciato ad impegnarsi, a farsi conoscere e solo nel 2015, a quarantaquattro anni, aveva esordito come scrittore col romanzo Finché il caffè è caldo. La versione italiana era comparsa nel 2020 e come per quasi tutte le altre Garzanti ne era stata la casa editrice. Un caso letterario, un successo internazionale era risultata quell’opera, aveva vinto il Suginami Drama Festival, era arrivata prima in molte classifiche, più di un milione di copie aveva venduto in Giappone, tra i grandi scrittori giapponesi quali Murakami e Yoshimoto, aveva fatto rientrare il suo autore. Una posizione che gli sarebbe stata confermata dalle opere successive, da quei romanzi, cioè, che avrebbero rappresentato una saga letteraria perché nello stesso ambiente del primo, una piccola caffetteria, tra gli stessi personaggi, intorno agli stessi problemi si sarebbero svolti. Anche ne Il primo caffè della giornata tornano quei temi. Sono di carattere morale, sono problemi dell’anima, dello spirito, sono quelli che non si risolvono con facilità e che finiscono col diventare una vera e propria persecuzione, col trasformarsi in un senso di colpa inestinguibile.

    Ebbene la caffetteria di questo romanzo si trova ad Hakodate, è gestita da molti anni, da generazioni, dalla famiglia Tokita. Di recente si è sdoppiata giacché un’altra è sorta a Tokyo ad opera di eredi della stessa famiglia. Nota era stata quella di Hakodate, nota sarebbe stata quella di Tokyo perché in entrambe c’era una sedia particolare che permetteva alle persone che si fossero sedute e avessero bevuto un caffè di viaggiare nel tempo, passato o futuro. Viaggio che sarebbe durato fin quando il caffè fosse rimasto caldo e potesse essere bevuto dalla persona sulla sedia. C’erano pure altre regole da rispettare per poter ottenere il privilegio di un simile viaggio e la meno convincente era quella che niente della vita presente poteva essere cambiato da esso. Nonostante tutto rappresentava un modo per ritrovarsi con persone, familiari, amici, che non c’erano più e con le quali a volte era rimasto sospeso, non chiarito, non finito un discorso, un rapporto, uno scambio oppure non si era stati abbastanza garbati. Attirava, quindi, l’idea di poter rivedere quelle persone durante quei viaggi nel tempo perché ci si sarebbe potuti scusare di certe colpe, cancellarle, estinguerle. In verità questa del senso di colpa difficile se non impossibile da annullare è una situazione diffusa, la si riscontra ovunque e in particolare in Giappone dove la vita dell’anima, dello spirito occupa tanto spazio nei pensieri, nelle azioni della gente. Pertanto la notizia che in due caffetterie di due città giapponesi fosse possibile viaggiare nel tempo si era rapidamente diffusa, da tante parti si veniva nei due locali perché si aveva intenzione di fare quei viaggi, di ritrovare le persone che si credeva di non aver rispettato e porre riparo ai torti commessi. Era questo il bisogno che si voleva soddisfare e che niente riusciva a trattenere, a fermare. Così succede ne Il primo caffè della giornata dove nella caffetteria di Hakodate si assiste a quattro dei famosi viaggi, a come si svolgono, ai risultati che procurano e che generalmente sono positivi poiché migliorano la condizione spirituale delle persone interessate, servono a ristabilire quell’equilibrio che la loro mente aveva perso. Non un risultato concreto, evidente si ottiene ma astratto, ideale, non una migliore realtà si raggiunge ma un diverso, più sicuro, più completo stato d’animo. Ne risulta, nel romanzo, una condizione sempre sospesa tra la vita del corpo e quella dello spirito, tra verità e immaginazione. È l’atmosfera che percorre l’intera narrazione, che la fa rimanere tra la terra e il cielo, la realtà e l’idea: la caffetteria, le persone che la gestiscono, quelle che la frequentano, i loro familiari, i loro impegni, i loro problemi, i loro discorsi, quanto succede intorno a loro, nella città e altrove, rappresenta quella realtà del corpo che sistematicamente viene combinata con l’altra dello spirito, quella che i viaggi nel tempo fanno emergere. Sono due aspetti diversi di uno stesso ambiente, due parti che pur se distinte non cessano di incontrarsi, di stare insieme. Qui la qualità del Kawaguchi: essere riuscito a far apparire naturale una storia composta da elementi diversi, opposti, a far scorrere con facilità un discorso quanto mai complicato. In un tempo di crisi della scrittura narrativa quale il contemporaneo sono esempi importanti perché offrono delle indicazioni, dei suggerimenti per un’attività che ne ha tanto di bisogno.

G. Carofiglio, Elogio dell’ignoranza e dell’errore

Carofiglio, alla ricerca di un’altra sintesi

di Antonio Stanca

   Da Einaudi, nella serie Stile Libero Extra, è stato pubblicato lo scorso ottobre un altro saggio di Gianrico Carofiglio, Elogio dell’ignoranza e dell’errore.

   Nato a Bari nel 1961, dopo essersi laureato in Giurisprudenza Carofiglio ha svolto attività giudiziaria e politica, è stato professore a contratto all’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna, sede di Ravenna, e alla fine degli anni ’90 ha cominciato a dedicarsi alla narrativa. Notevole è stato il successo raggiunto con romanzi e racconti, molto premiati, molto tradotti sono stati. Anche nella saggistica si sarebbe applicato e anche qui, come nella narrativa, si sarebbe evidenziata una posizione di polemica, una tendenza a mettere in discussione i modi di pensare, di fare, di vivere apportati dalla modernità, dallo sviluppo, dal progresso. Da questi Carofiglio vede svalutati i principi, i valori del passato, quelli propri dell’anima, dello spirito, dell’idea, della morale, quelli che erano stati alla base di una lunga condizione umana. La storia moderna, la vita moderna aveva sostituito l’idea con la realtà, lo spirito con la materia, aveva messo da parte quanto era valso, durato per secoli. Se tanti erano stati i vantaggi di un simile cambiamento tanti erano stati pure gli svantaggi. Se molto si era guadagnato molto si era pure perso. A differenza, però, di altri opinionisti, di altri saggisti Carofiglio non propende per una delle due situazioni, rimane sospeso tra la vecchia e la nuova, opta per un processo d’integrazione tra loro, per una combinazione capace di salvare le parti migliori di ognuna e comporle in modo che entrambe valgano, funzionino, riescano utili, che di entrambe sia fatta quella che deve essere la nuova storia, la nuova vita.

   Anche in Elogio dell’ignoranza e dell’errore l’autore si mette alla ricerca di un equilibrio, di una giusta misura tra quell’atteggiamento autoritario, assoluto che ha caratterizzato tanto tempo, tanta cultura, che si è arrogato il diritto di conoscere, detenere la verità in ogni ambito, ad ogni costo, e quella maniera di procedere nella vita come nell’opera, senza essere, cioè, completamente sicuri di quanto raggiunto, dubitando sempre, non dando niente per scontato, per definitivo. Tantissimi sono nel libro gli esempi che il Carofiglio adduce circa i pericoli, i danni che possono comportare operazioni, procedimenti compiuti anche da eminenti personaggi, studiosi, scienziati, rimasti sempre sicuri di sé, delle loro convinzioni, lontani da qualunque dubbio, qualunque modifica. È pericoloso procedere a senso unico, non concedere nessuno spazio, nessuna possibilità ad elementi, risvolti diversi da quelli del proprio pensiero. Anche l’opera compiuta, l’invenzione effettuata in questo modo può, col tempo, risultare imperfetta, può fallire in quelli che dovevano essere i suoi scopi. Se, invece, ad operare è una mente, un’intelligenza che non accetta di rimanere rigorosamente entro i suoi confini, che è disposta ad accogliere suggerimenti, contributi diversi, ad essere mobile, non rigida, a non escludere l’errore ma ad accettarlo, correggerlo, sicuramente quanto ottenuto sarà più completo, più valido. Quel che poteva guastarlo è stato eliminato grazie alle correzioni effettuate, ad una mentalità libera, aperta che ha tenuto conto anche di altro, di molto altro rispetto a quanto le era proprio. Ha proceduto per tentativi, tra dubbi, incertezze, correzioni, modifiche, non è rimasta convinta solo dei propri programmi. Quante volte è successo che la maniera del dubbio abbia portato ad opere più importanti di quelle ottenute in altro modo! Quante volte il caso, la circostanza fortuita, la mancata conoscenza, l’ignoranza di certi problemi hanno prodotto scoperte sensazionali, di portata storica! Continui sono gli esempi citati dal Carofiglio a riprova di queste affermazioni e frequenti sono anche le volte che si sofferma ad evidenziare come sia stata negativa quella posizione di rifiuto, di condanna dell’errore, dell’ignoranza che ancora continua ad essere mantenuta quando, invece, tanti benefici sono provenuti dalla sua correzione, tanto ha contribuito questa alla formazione di quella mentalità mobile, così adatta ad una vita, una società quale la moderna diventata talmente complessa nei suoi elementi, nei suoi movimenti da richiedere uno stato di continua flessibilità nel pensiero e nell’azione.    Non fa, però, Carofiglio del procedimento per errori il solo degno di essere seguito ma, come altre volte per altri problemi, invita ad una combinazione tra quello e il procedimento per verità assolute. Non rifiuta né l’uno né l’altro perché entrambi utili possono essere ed una sintesi delle loro parti migliori si auspica.

Caudex – Visioni Letterarie

Caudex – Visioni Letterarie”  selezionato dal Salone internazionale del Libro di Torino per il progetto “Luci sui Festival”

Lamezia Terme, 19 marzo 2025 – La rassegna letteraria “Caudex – Visioni Letterarie” è stata selezionata dal Salone Internazionale del Libro di Torino per il progetto “Luci sui Festival”.

La kermesse lametina, ideata e diretta da Sabrina Pugliese e inserita nel progetto “Vacantiandu”, è stata infatti scelta tra i 50 festival dedicati alla lettura più importanti d’Italia e per questo sarà presente alla 38esima edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino, la più nota manifestazione dedicata al libro e alla cultura, in programma dal 15 al 19 maggio 2025 negli spazi del Lingotto Fiere.

La rassegna lametina, che non solo racconta ma fa vivere la letteratura nella sua forma più intensa e multisensoriale con il suo originale format che regala al pubblico un’esperienza fatta di parole, musica, teatro e ballo, capace di coinvolgere ed emozionare, è stata valutata positivamente tra le rassegne letterarie promosse in Italia, provenienti da realtà eterogenee tra loro.

Il progetto “Luci sui Festival”ha infatti l’obiettivo di mettere in connessione e dare visibilità a manifestazioni ed eventi culturali che ogni anno su tutto il territorio nazionale danno vita a momenti in cui lettrici e lettori, autrici e autori hanno la possibilità di ritrovarsi e di arricchirsi. Si tratta di uno spazio dedicato ai festival letterari piccoli, medi e grandi di tutta Italia. Il Salone accenderà i riflettori e darà spazio sui propri canali di comunicazione a tutti i festival che, da Nord a Sud e nelle Isole, in provincia, in città, al mare e in montagna, illuminano con la letteratura il nostro Paese.   

“E’ motivo di grande soddisfazione sapere di essere stati selezionati dal Salone Internazionale del Libro di Torino – afferma il direttore artistico Sabrina Pugliese – a testimonianza della valenza di “Caudex – Visioni Letterarie”, che ha conquisto apprezzamenti sempre maggiori che vanno oltre i confini regionali. Un riconoscimento che ci riempie di orgoglio e ci spinge a fare sempre di più nella promozione della cultura in genere e in particolare della lettura e del libro. In un mondo in cui la lettura rischia di essere relegata ai margini della quotidianità, Caudex si propone come una soglia, un varco, un rito che riporta la letteratura al centro dell’esperienza umana, rendendola viva, presente, urgente. È questo che lo rende unico e inimitabile”.

M. Brando, Medi@evo

IL MEDIOEVO TRA VERITA’ STORICA E MISINFORMATION MEDIATICA

di Carlo De Nitti

L’idea, di matrice umanistica prima ed illuministica poi, che il Medioevo – il periodo storico che, orientativamente, si suole fare incominciare, per convenzione, con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.) e concludere con la scoperta dell’America (1492) (ma ci sono anche altre periodizzazioni non meno storicamente fondate) – sia stato un tempo buio, caratterizzato da “oscurità” (con semantica idealistica, da ‘antitesi’ hegeliana) e da oscurantismo, da ignoranza e da superstizione, é certamente molto dura a morire, ancora nel XXI secolo. Non è inusuale imbattersi nella pubblicistica cosiddetta divulgativa e nella comune percezione in locuzioni che richiamano la cosiddetta ‘età di mezzo’ come di un unicum da rigettare o da utilizzare a fini non sempre scientificamente corretti.

I medievisti più avveduti hanno da tempo attivato un’opera iconoclastica verso certe immagini del Medioevo nel mondo di oggi: per chi scrive, da barese, non è possibile non ricordare le carismatiche figure di Giosuè Musca (1928 – 2005) e Raffaele Licinio (1945 – 2018) – alla cui memoria il volume è dedicato – in quest’opera di giusta valutazione del mondo medievale. Ancora nel 2025, riflettere su quello che sui media si dice o si scrive sul Medioevo non è pleonastico: per scoprirlo è indispensabile un documentato “virgilio”, come il giornalista e scrittore Marco Brando, che ha recentissimamente pubblicato, per i tipi della Salerno Editrice, il volume Medi@evo. L’età di mezzo nei media italiani, arricchito dalla Prefazione di Marina Gazzini, medievista e docente dell’Università degli studi statale di Milano, che ben precisa compiti e ruolo dello storico di professione: si legga, a tal proposito, p. 15.

Marco Brando, da tempo, si occupa del tema: l’uso, l’abuso ed il riuso del termine Medioevo nel nostro tempo da parte dei media. L’obiettivo dichiarato del volume è “il tentativo di svolgere una prima analisi della narrazione utilizzata dai numerosissimi giornalisti e comunicatori che accedono al passato, quindi anche al Medioevo, in modo routinario; cioè durante il lavoro quotidiano, anche quando affrontano temi che non c’entrano affatto con quel lontano passato” (p.19).

Attraverso i nove capitoli e la conclusione che compongono il suo documentatissimo (peraltro corredato da una ricca biblio-/siti-grafia), ma anche molto fruibile, volume, Marco Brando chiarisce che, accanto al medioevo storico, esiste un Medioevo comunicato ai profani che è possibile chiamare medievalismo ovvero “lo studio del processo continuo di creazione del Medioevo nella società post medievale; la sua data di nascita risale alla fine degli anni Settanta del Novecento, quando – soprattutto negli Stati Uniti – era diventato, come è stato già scritto, un campo di studi coerente” (p. 25). Il neologismo medi@evo, che compare nel titolo del volume qui recensito, è, probabilmente, il termine più corretto per parlare del medioevo, come riferito dai media del nostro tempo (cfr. p. 22).

Nell’ottica di una corretta lettura e percezione del Medioevo, a Bari, nel 1976, nacque la rivista <Quaderni medievali>, diretta da Giosuè Musca – erede della cattedra di Storia medievale della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Bari, che era stata di Gabriele Pepe (1899 – 1971) – presso la casa editrice Dedalo, sulla quale esisteva una rubrica intitolata L’Altro Medioevo, curata da un giovane Raffaele Licinio, sul Medioevo come visto e deformato dagli ‘altri’, i non specialisti, spesso soltanto per mera ignoranza di quanto citato.

Oltremodo ricco è il campionario delle inesattezze e delle vere e proprie falsificazioni sul Medioevo che corrono veloci e mai smentite nei media, nel web ed anche nelle istituzioni politiche, non escludendo neppure il Parlamento della Repubblica: molto fruibile e bipartisan – l’ignoranza, com’è ben noto, non è prerogativa esclusiva di questo o quel deputato/senatore o partito politico, insomma, non ha colore né odore – a tal riguardo, risulta il capitolo VI “La politica italiana tra Medioevo e media” (pp. 92 -110). I cosiddetti “quarto” e “quinto” potere, negli Stati democratici, dovrebbero esercitare una funzione di controllo del potere politico in tutti i sensi, anche in quello della manipolazione del passato: “il mondo del giornalismo dovrebbe essere consapevole del fatto che la manipolazione del passato è costante con gravi conseguenze a livello sociale e culturale […] Anche in questo contesto, servirebbe che gli organi di informazione svolgessero il ruolo di ‘controllori’; peccato che sia scarsa la competenza in campo storiografico da parte dei giornalisti” (pp. 109 – 110).

Che fare allora per evitare ogni forma di misinformation, attenendosi alla verità storica? A chi scrive queste righe paiono ottime le parole di Marina Gazzini a conclusione della sua Prefazione: ”Per risultare credibile, lo storico dovrà inoltre ricordare sempre di dare ragione delle proprie posizioni, delle proprie tesi, affinchè chi  lo legge sappia con chi ha a che fare. Allo storico, infatti, non si deve chiedere di essere imparziale, ma di essere garanzia di obiettività” (p. 15).

Che fare, allora, da parte dei giornalisti e delle loro competenze per scrivere di storia o fare citazioni storiche, facendo nascere o consolidando stereotipi? Scrive Marco Brando: “i professionisti dei media […] potrebbero e dovrebbero dare un contributo (una volta presa coscienza del loro ruolo nella formazione della memoria collettiva) in favore della consapevolezza della ‘mentalità storica’ (a cominciare da un aggiornamento delle loro competenze). Magari potrebbero farlo anche cominciando a evitare di abboccare, spesso senza alcuna verifica preliminare, a ogni esca pseudo-storica o fanta-storica” (p.154).

Post Scriptum – Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 del XX secolo, al tempo della prima creazione dei Dipartimenti universitari (1980) – prima le Facoltà si componevano di Istituti – c’era un ragazzo intorno ai vent’anni, studente di filosofia, che ha avuto il privilegio di ascoltare, le lezioni di medievistica e di metodologia storiografica di alcuni dei Maestri citati in questo interessante volume di Marco Brando ed ha cercato di farne tesoro nei decenni seguenti nelle sue successive attività di docente e, forse può apparire strano, di dirigente scolastico. Queste righe sono un modo per dire loro grazie.

 

J. Winterson, Non ci sono solo le arance

Jeanette Winterson agli esordi

di Antonio Stanca

   Di recente, nella serie Oscar Moderni della Mondadori, è comparso Non ci sono solo le arance, primo romanzo della scrittrice inglese Jeanette Winterson. La traduzione è di Maria Ludovica Petta. La Winterson lo aveva pubblicato quando aveva ventisei anni e viveva a Londra dopo essere fuggita da casa perché non accettata, non tollerata si sentiva da quelli che erano genitori adottivi dopo aver rivelato loro la sua natura omosessuale. Trattandosi di persone molto religiose non erano disposte a sopportare una situazione simile. Come un maleficio la intendevano, un’opera diabolica e così pensavano che l’avrebbe intesa l’intera congregazione religiosa alla quale la loro famiglia apparteneva.

   Jeanette era nata a Manchester nel 1959. Adottata da una coppia, era cresciuta ad Accrington, Lancashire, ed era stata destinata ad una vita da missionaria. Ben presto, però, si era vista costretta ad allontanarsi dalla famiglia. Tramite espedienti, sacrifici di ogni genere ce l’aveva fatta, era andata avanti, aveva studiato Inglese a Oxford, a Londra nel 1985 aveva pubblicato il suddetto primo romanzo. L’opera aveva vinto il Whitbread First Novel Award ed era diventata una serie televisiva tra le migliori. Altre opere diventate famose erano state Passione del 1987, Scritto sul corpo del 1992. Altri riconoscimenti le sono stati attribuiti nel 2005 e nel 2018: il primo quale Ufficiale, il secondo quale Commendatore dell’Ordine dell’Impero Britannico “Per i servizi resi alla letteratura”. Molte traduzioni ha avuto, nota a livello mondiale è diventata quella bambina tanto criticata. Tra l’altro ora insegna Nuova Scrittura all’Università di Manchester.

   Fin dalla prima opera è possibile risalire a quelli che saranno i temi e i modi dell’intera produzione della scrittrice. Ricorrente sarà il motivo dell’omofilia femminile, dei pensieri, dei sentimenti che l’accompagnano, la spiegano, la giustificano, delle situazioni che determina, della vita che avviene alla sua insegna. Anche per lo stile si può dire che la Winterson continuerà, nelle opere venute dopo, a mostrarsi riflessiva, attenta e insieme libera, discorsiva. Non è facile ottenere entrambi i risultati, sono il segnale di un’intelligenza molto attiva, molto capace di cogliere e soprattutto trattenere, di rappresentare e soprattutto collocare. Impressiona, attira la scrittrice per come procede, per la chiarezza, la spontaneità con la quale dice di problemi complicati, di argomenti difficili quali quelli dell’interiorità più profonda.

   In Non ci sono solo le arance percorre la sua vita, dalla nascita alla quasi maturità. Niente trascura di quell’Inghilterra di fine ‘900, dei centri e delle periferie, dei monti e dei boschi, delle città e dei sobborghi, delle strade e delle case, delle persone e delle cose, di sé e degli altri, di tutto quanto contribuiva a formare una vita, una società, una storia che si svolgeva tra associazioni, congregazioni di ogni genere. Potevano essere di genere religioso, civile, sociale, ma non mancavano mai di proporsi un servizio utile, di perseguire un bene per la comunità, di combattere l’eresia, la colpa, il reato. In un ambiente così rigoroso, così controllato, così puritano, Jeanette aveva fatto sapere della sua omosessualità e ne avrebbe scritto tanto a lungo. Animata, accesa si sentiva dalla sua passione, era quello il suo amore, come lo si poteva dire impuro? Anche quello era un bisogno dello spirito, era voluto dallo spirito, perché ritenerlo un peccato?

   Era naturale che nel primo romanzo della scrittrice molta parte fosse dedicata a quello che allora era il suo problema. In verità lo sarebbe stato anche dopo dal momento che erano i tempi, gli ambienti a mancare di comprensione riguardo a certe manifestazioni e in ogni opera la Winterson si sarebbe fatta vedere alle prese con quanto costituiva la sua pena maggiore, una condizione che la faceva ammirare ma anche biasimare.

   Nessuno dubiterà delle sue capacità, delle sue qualità ma molti avranno da ridire delle sue preferenze in materia sessuale: sarà un altro di quei casi dove difficile riuscirà giungere ad un giudizio definitivo, unico ma dove un errore sarebbe ridurre quanto è dell’arte a causa del resto.

C. Keegan, Quando ormai era tardi

Claire Keegan e la sua forma breve

 di Antonio Stanca

   Recente e della Einaudi, serie “Stile Libero Big”, è l’edizione italiana di Quando ormai era tardi (Storie di donne e uomini), una raccolta di racconti della scrittrice irlandese Claire Keegan. La traduzione è di Monica Pareschi. Dell’anno scorso è l’edizione originale, venuta dopo la pubblicazione di molte altre opere, romanzi e racconti.

   Nata nel 1968 nella contea di Wicklow, dopo gli studi nelle Università di New Orleans, del Galles e al Trinity College, si è dedicata all’insegnamento di scrittura creativa e a poco più di trent’anni ha esordito nella narrativa prima con due raccolte di racconti poi, nel 2010, col romanzo Un’estate. In entrambi i casi aveva prodotto un tipo di narrazione piuttosto breve, ridotta all’essenziale ma capace di far intravedere ben altro, di alludere a situazioni, circostanze, pensieri, azioni che rimanevano non detti, non scritti. Saranno molte le opere in forma breve che da quelle prime deriveranno nella Keegan. Sarà il modo che la distinguerà nel contesto culturale, letterario, artistico della sua e delle altre nazioni. Ora è una delle scrittrici più tradotte, non c’è sua opera che non abbia avuto un riconoscimento. Importanti onorificenze le sono state attribuite perché capace si è rivelata di portare all’attenzione generale, di far scoprire quanto di difficile, di oscuro, di segreto, di misterioso si crea, si forma, s’insinua nella vita, nei rapporti di tutti i giorni, nelle storie di donne, di uomini, di famiglie. Quanto vi rimane di taciuto, di non detto, di non chiarito e capace diventa di svolgere una funzione, di agire. Di quella parte di vita che, soprattutto oggi, sembra destinata a non avere voce, ad essere solo sentita e spesso sofferta, la Keegan scrittrice è ormai una delle migliori interpreti. Il suo non è il primo esempio letterario di forma breve ché altri, Čechov, Munro, ci sono stati. Nuova è la sua maniera di essere breve, di sottintendere molto. Lo si può notare anche nei tre racconti di quest’ultima raccolta, Quando ormai era tardi, che dà il titolo all’opera, Una morte lenta e dolorosa e Antartide.

   Nel primo la Keegan fa assistere ad uno strano rapporto tra due giovani colleghi, un uomo e una donna, entrambi impegnati in ufficio a Dublino. Si conoscono appena ma giungono a mettersi insieme, a stare insieme, a desiderare di sposarsi e stabilirsi nella casa di lui. Qui avrebbero dovuto incontrarsi il giorno stabilito per le nozze ma quel giorno lui in quella casa si ritroverà solo senza sapersi spiegare l’assenza di lei. Non si sposeranno e non si capirà perché.

   Nel secondo racconto sull’isola irlandese di Achill Island, contea di Mayo, dove si ritirava a volte il Nobel tedesco per la Letteratura Heinrich Böll, giunge una giovane scrittrice con l’intenzione di dedicarsi ad un suo lavoro. L’ambiente sembra ideale, si sta tra pescatori, qualche negozio, una chiesetta, nella luce fioca dei lampioni. A turbare tanta quiete viene un signore piuttosto strano che disturba notevolmente quanto pensato o programmato dalla scrittrice, che le farà capire di vivere una difficile situazione famigliare e che da lei sarà valutato, giudicato e condannato ad “una morte lenta e dolorosa”.

   Nel terzo racconto una giovane moglie decide di trascorrere qualche tempo lontano da casa, di provare a stare con un uomo diverso dal marito. Si sposta in città e si mette con un altro uomo. Stanno insieme a casa di lui e ci staranno fino al punto che non la lascerà più andare. Quando cercherà di farlo la seguirà e riporterà a casa dove, per evitare che succeda di nuovo mentre è al lavoro, la legherà al letto, la incatenerà rendendole impossibile ogni tentativo di fuga.

   In nessuna delle tre situazioni rappresentate c’è posto per una spiegazione. In tutte viene rimandata a quanto il lettore riesce ad intuire, dedurre dalle parole, dai pensieri dei protagonisti e soprattutto dalle allusioni della scrittrice, da quella vita che lascia intendere sia stata loro. Finora molto è stato l’interesse per la scrittura della Keegan probabilmente perché personaggi importanti fa diventare quelle che erano persone comuni, interpreti d’eccezione rende uomini o donne della vita quotidiana, un’altra dimensione procura a questa senza che se ne parli. Basta pensarla per ottenerla: questo vuole mostrare la scrittrice e vi riesce meglio di altri autori.

Kashiwai Hisashi, Le piccole storie della locanda Kamogawa

Kashiwai Hisashi tra gli “Scrittori di Kyoto”

di Antonio Stanca

   È uscito l’anno scorso, per conto della Einaudi nella serie “Stile Libero Big”, Le piccole storie della locanda Kamogawa, secondo libro dei dieci che compongono il ciclo del “Ristorante Kamogawa” prodotto dallo scrittore Kashiwai Hisashi. È il quarto autore che viene trattato nel progetto “Scrittori di Kyoto” ultimamente avviato per promuovere la loro conoscenza, diffondere le loro opere. In verità si è agli inizi del progetto e delle tante opere di Hisashi, narrativa, libri gialli, saggistica, giornalismo, soltanto questa seconda e la prima del “Ristorante Kamogawa” sono state finora tradotte in italiano, entrambe da Alessandro Passarella. Hanno avuto pure una riduzione televisiva. 

   Nato a Kyoto nel 1952, Hisashi è cresciuto, ha studiato, si è laureato in questa città del Giappone meridionale. Qui ha fondato una clinica odontoiatrica e qui continua a vivere a settantatré anni tra il lavoro di dentista e quello di scrittore. I suoi libri rientrano nella categoria delle “letture leggere”, di quelle che non richiedono molto impegno, che dicono di temi, di problemi comuni, quotidiani e anche per questo sembrano destinate ad avere una larga diffusione. Autore prolifico è Hisashi se si tiene conto che a settantatré anni molto ha scritto e di argomenti diversi, che è anche un operatore televisivo e che molto si è soffermato nei saggi ad illustrare, descrivere, giudicare la sua città, quella Kyoto che tanto fascino esercita, tanto attira per gli infiniti posti, locali pubblici, botteghe, negozi, luoghi di culto, di cultura, che la compongono, molte manifestazioni ospitano, molta storia contengono.

   Non solo in italiano ma anche in inglese sono stati tradotti i due libri ed entrambi nel 2024 mentre le edizioni originali risalgono al 2013 e 2014. In effetti erano nati come racconti isolati, distinti tra loro e solo in seguito l’autore ne aveva ricavato due opere. Ognuna è risultata composta da sei racconti che sono rimasti autonomi e nei quali molte cose, l’ambiente del famoso ristorante Kamogawa di Kyoto, i suoi gestori, il padre, Nagare, che è il cuoco, e la figlia Koishi, addetta all’ufficio investigativo, si ripetono. A cambiare sono i clienti e le loro richieste. In ognuna de Le piccole storie della locanda Kamogawa c’è un cliente nuovo, un personaggio diverso che si è messo alla ricerca del ristorante perché lo ha visto su un giornale o ne ha sentito parlare e una volta trovato vuole che gli sia preparato un piatto speciale perché ha fatto parte della sua vita trascorsa, perché vi sono legati certi ricordi o per altri motivi. Sono pietanze, gusti del passato, della tradizione, alcuni antichissimi, e non è facile ottenerli ma il cuoco Nagare si è tanto specializzato in queste ricerche, in questi recuperi da riuscire sempre in quelle che appaiono imprese impossibili. Soddisfatta rimane la persona che al ristorante è venuta anche da molto lontano per gustare un piatto speciale e ottenere quanto sperato per sé o per altri. Una funzione importante è quella svolta da Kamogawa Nagare e dalla figlia Koishi: questa passa al padre tutte le informazioni, le notizie circa il piatto richiesto, i tempi, i luoghi, le persone alle quali è collegato e lui si impegna a svolgere la ricerca e la preparazione. Riporta in vita quel che era scomparso e che ora veniva cercato per il bene di un singolo o di una comunità. In nessuna delle storie di questi libri si manca di perseguire degli scopi positivi, delle finalità che valgano, procurino dei vantaggi, siano utili, risolvano dei problemi. La preparazione del piatto finisce con l’avere una funzione superiore a quella soltanto alimentare, con l’assumere un valore morale, sociale, quello proprio del ricordo, del recupero di certi tempi, di certi luoghi, della vita che vi era connessa ed ora non c’è più. Un’operazione storica, culturale diventa, capace si mostra di riportare a principi, regole che insieme a quei piatti si sono perse e che molto utile sarebbe tornare a praticare.

    Un altro modo va considerato questo dello scrittore Hisashi per sapere della letteratura, della cultura, della storia di una nazione dalla quale tanto sta giungendo in questi ultimi tempi e che tanto serve in un momento di crisi morale, spirituale come quello che l’Occidente sta attraversando.

G. Capurso, Libertà a caro prezzo

Libertà va cercando”: Gioacchino Gesmundo da Terlizzi alle Fosse Ardeatine

di Carlo De Nitti

Meritoria e tutta da leggere, ancora una volta, è la feconda ricerca storiografica di Giovanni Capurso, storico e meridionalista, cui si debbono già molte pubblicazioni sull’antifascismo pugliese: La ghianda e la spiga. Giuseppe Di Vagno e le origini del fascismo (Bari, 2021), Due maestri per il Sud: Gaetano Salvemini e Giovanni Modugno (Corato, 2022), La passione e le idee. La Puglia antifascista da Giuseppe Di Vagno a Giacomo Matteotti (Bari, 2023), per citare a memoria d’uomo alcuni tra i suoi titoli più recenti.

In questa sua ultima fatica storiografica, Libertà a caro prezzo. Gioacchino Gesmundo e le Fosse Ardeatine, pubblicata a Bari, per i tipi di Edizione Radici Future nella collana “Storia e memoria”, Giovanni Capurso ricostruisce la storia di vita e la biografia intellettuale e politica di Gioacchino Gesmundo (1908 – 1944) fino alla sua tragica scomparsa ed, in contestuale controluce, anche quella del suo amico e compaesano don Pietro Pappagallo (1888 – 1944).

Gioacchino Gesmundo, terlizzese, nato in una umile famiglia contadina, ultimo di sei fratelli, diviene orfano dei genitori in tenerissima età. Studia a Bari nel neonato (con la riforma Gentile che aveva trasformato la vecchia Scuola Normale) Istituto Magistrale Statale “Giordano Bianchi – Dottula”, in cui gli è Maestro una grande figura dell’antifascismo pugliese (e non solo), il pedagogista bitontino Giovanni Modugno (1880 – 1957), che, in quella scuola, svolgeva il suo “apostolato” pedagogico e politico. “Egli per primo intravide in Gioacchino delle qualità importanti e iniziò a incoraggiarlo nel suo percorso di studi filosofici” (p. 21).

E’ proprio lui – cattolico, socialista umanitario, salveminiano, proclamato Servo di Dio – il primo maestro di filosofia, di etica e di politica, la prima “guida” di Gioacchino Gesmundo, il quale, diplomatosi del 1928, segue il consiglio del Maestro, iscrivendosi all’Istituto Superiore di Magistero di Roma, dove incontra alcuni grandi studiosi, tutti accomunati da sentimenti antifascisti, come il pedagogista Giuseppe Lombardo-Radice (1879 – 1938), lo storico Pietro Silva (1887 – 1954), lo storico della filosofia Guido De Ruggiero (1888 – 1948) con cui si laurea nel 1932, “discutendo con lui la tesi su ‘Mito e realtà’, un’appassionata e intelligente difesa dell’utopia del mito nel senso tradizionale del termine contro il mito di stampo soreliano” (p. 28).

A Roma, stringe profonda amicizia con un sacerdote suo compaesano, don Pietro Pappagallo, membro del Collegio dei Beneficiati e vice parroco della Basilica di San Giovanni in Laterano (la Cattedrale di Roma), anch’egli rinchiuso e torturato e trucidato nelle Fosse Ardeatine: alla sua figura ed alle sue vicende, Giovanni Capurso dedica il capitolo L’arresto e la prigionia di don Pietro alle pp. 95 – 102. Don Pietro – attivo, come molti altri sacerdoti, nella collaborazione con la Resistenza antinazifascista (nella Roma città aperta, come in tutta Italia) – fu arrestato e tradotto nel carcere di via Tasso, dove subì torture, senza mai cedere. “Comprendetemi: la mia coscienza mi vieta di rovinare un altro uomo. Ve ne prego: Non chiedetemelo” (p. 99).

Gioacchino Gesmundo, per mantenersi a Roma, insegna nelle scuole elementari; una volta conseguita la laurea, passa ad insegnare filosofia e storia, prima al liceo classico “Vitruvio Pollione” di Formia e poi al primo e più antico liceo scientifico di Roma, il “Cavour”, di cui divenne anche vicepreside. Uno dei suoi alunni di quegli anni formiani, divenuto un importante uomo politico dell’Italia Repubblicana e Presidente della Camera dei Deputati (1976 – 1979), Pietro Ingrao (1915 – 2015), lo ricorderà sempre, anche in pubblici discorsi, come un maestro di libertà e come una persona aperta e coerente, che faceva leggere in classe Benedetto Croce e Gaetano Salvemini, benché invisi al regime, e le cui lezioni non finivano con il suono della campanella, ma proseguivano con lunghe passeggiate o a casa del professore.

Da un iniziale, ingenuo idealismo di matrice gentiliana Gioacchino Gesmundo si avvicina al marxismo che studia per lunghi anni prima iscriversi, nel luglio del 1943, al partito comunista clandestino. “Questo sistema di pensiero ebbe presa nella sua vita, non tanto, o non solo, per l’impianto teorico in sé, quanto perché in quel momento storico rispondeva meglio alle vicessitudini che si andavano profilando da un punto di vista politico. Come egli ebbe a dire era arrivato al comunismo <per la via del cuore e non per quella della ragione> che in grandi linee ricorda il socialismo umanitario sostenuto da Giovanni Modugno negli anni in cui fu suo insegnante al Magistrale di Bari” (p. 58).

La sua militanza attiva – e spesso imprudente da un punto di vista cospirativo – nell’antifascismo comunista romano lo portò ad essere una figura di riferimento; vedasi, a tal proposito, il capitolo Il peggio deve ancora arrivare (pp. 67 – 79) dl volume. Sulla centralità dell’attività politica antinazifascista di Gesmundo è molto interessante leggere le parole che gli dedica uno dei massimi dirigenti del Partito Comunista Italiano, Giorgio Amendola (1907 – 1980), nel suo volumedel 1973 Lettere a Milano: ricordi e documenti (1939 – 1945), riprese da Giovanni Capurso (cfr. pp. 77 – 78).

Il 29 gennaio 1944 – lo stesso giorno di don Pietro Pappagallo – Gioacchino Gesmundo fu arrestato, tradotto in carcere e ripetutamente torturato: in quel contesto, i due amici si incontrano per l’ultima volta: “I due uomini finsero di non conoscersi, ma si rivolsero uno sguardo lungo, commovente, che fu il loro ultimo addio” (p. 89). Dotato di una forza morale eccezionale, Gesmundo affronta con serenità e forza d’animo il martirio. Il suo silenzio di fronte alle torture consente la salvezza di molti altri antinazifascisti.

A casa sua, Andrea Marchini, suo compagno di lotta, trova, dopo la sua morte, un biglietto da lui scritto. “Andrea lesse quelle righe, scritte in una grafia chiara, pulita: <Sono un sacerdote della verità e se per essa dovrò dare la vita non avrò fatto altro che il mio dovere> “ (p. 92).

Impreziosisce quest’ultimo volume di Giovanni Capurso l’Introduzione di Ferdinando Pappalardo – già noto italianista dell’Università degli studi di Bari ed attualmente Vice Presidente dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia – riconoscendone i meriti: “sottrarre Gesmundo alla limitativa definizione di ‘martire’ della ferocia nazifascista e mettere in luce il ruolo protagonistico da lui svolto nell’attività cospirativa dei comunisti romani […] ravvivare il ricordo di una figura ormai nota ad una cerchia di persone […] fornire un esempio di virtù etiche e civili drammaticamente inattuali […] espressioni tra le più alte della libertà e della dignità dell’uomo” (p. 13).

Del resto, la celeberrima citazione dantesca (Purg, I, 71) del titolo di queste righe, rappresenta in modo eccellente l’itinerario ideologico-politico di Gioacchino Gesmundo: la ricerca della libertà che è, in primo luogo, libertà interiore, della coscienza, che non può mai essere disgiunta da quella politica.

Gioacchino Gesmundo è – in questo nostro tempo così <liquido> che spesso disconosce i valori fondanti della società – un testimone eccellente di una politica mai disgiunta dall’etica e dalla dignità della persona.

Piccolo post scriptum personale: nell’arco del trentennio dal 1918 al 1948, lo storico della filosofia Guido de Ruggiero pubblicò, per la casa editrice Laterza, una monumentale Storia della filosofia in tredici volumi che, qualche lettore diversamente giovane che si sia avvicinato alla filosofia negli anni ’70 del secolo scorso, al pari di chi ha scritto queste righe, ha incrociato nel suo percorso di studi medio-superiori, attraverso un altro testo laterziano (quando la Casa editrice barese non pubblicava ancora “scolastico”) che non era un comune manuale, ancorché si chiamasse Breve storia della filosofia, dovuto a Guido de Ruggiero – lo storico della filosofia partenopeo con cui si era laureato Gesmundo – e Fabrizio Canfora.