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Mani in tasca e gambe larghe

Mani in tasca e gambe larghe

di Vincenzo Andraous

Stavo camminando sopra pensiero per le vie della città, quando un gruppetto di giovanissimi si parano davanti a un signore, chiedendogli una siga.

Portate pazienza ma ho smesso di fumare, mi spiace. La risposta buttata lì malamente: ma vai a quel paese, e passando oltre gli rifilano una spallatina, tanto per non farsi mancare niente.

Non è accaduto nulla di grave, non occorre fare paternali o esagerare il fatterello, ma forse è il caso di sottolineare come la maleducazione e la mancanza di rispetto siano diventate corrosioni importanti della nostra società.

Mentre i nostri eroi si allontanano, mi sono fermato a osservarli, mani in tasca e gambe larghe, occupano tutto il marciapiede, come a significare che qui  passiamo prima noi e dopo voi.

Mi ricordano un’altra epoca, un’altra era, un altro momento incendiato e fortunatamente scomparso, ma come in questo caso, spesso foriero di cattivi incontri e somme importanti da pagare, perché volenti o non volenti, i dazi prima o poi si pagano e come.

A volte proprio con un comportamento sgrammaticato di educazione, con un atteggiamento sgangherato si incorre in inciampi e cadute rovinose, a volte, certo, non sempre, ma a volte accade di fare i conti con l’ostacolo insormontabile, quello che ti mette a nudo, ti spoglia di ogni presunzione, arroganza, aggressività, e qualche volta si rimane lì in ginocchio, con l’unica risposta il silenzio.

Non bisogna esagerare, farla tanto grave, è vero, ma la maleducazione non conosce fermata né limite da osservare, dunque può diventare veicolo non programmato per collisioni imminenti, spesso non contemplate nel proprio modo di vivere.

Persisto a guardarli mentre si smanazzano a vicenda, tra risate e gridolini, ai miei occhi appaiono come gli adolescenti che conosco, come l’adolescente che sono stato io, come un adolescente abituato a fare da sé, perché a suo modo di vedere, fa per tre.

Sono questi piccoli incontri ravvicinati che rafforzano in me il valore del rispetto, il più potente agente educativo. Il rispetto per noi stessi, senza, non si ha rispetto neppure degli altri.

Ciò significa non cedere mai alla tentazione della prevaricazione, dell’usare il prossimo.

Mani in tasca e gambe larghe ora sono lontani, ho l’impressione che il tempo saprà dare le risposte che ognuno di noi ricerca, il tempo con i suoi abiti sdruciti, consumati, ma con l’autorevolezza che possiede il grande educatore, il grande dottore, quando ci insegna ad avere cura di noi stessi, a fare manutenzione quotidiana degli anni che abbiamo tra le dita, così pure degli anni che passano, perché come ha detto qualcuno non ritornano.      

Ritorna a casa ragazzo

Ritorna a casa ragazzo

di Vincenzo Andraous

“Torna a casa ragazzo, ritorna a casa”. Gli ha detto al cellulare la mamma. Poi invece è arrivata la telefonata dei carabinieri, purtroppo suo figlio è morto.

Rammento quei giorni, a tutta pagina sui quotidiani la notizia di un minorenne che non ce l’ha fatta a resistere alle umiliazioni, alle offese, alle percosse, alla solitudine delle parole imposte e costrette a subire la prepotenza dei vigliacchi, peggio, di chi scaglia il sasso e nasconde la mano. Ricordo bene l’urto e il fastidio per tanta omertà e indifferenza, soprattutto l’incredibile assenza di un’emozione che non consente baratto, né lontananza a una possibile prossimità, men che meno a una vergogna che schianterebbe il più irresponsabile dei maledetti per forza. E’ passata tanta acqua sotto i ponti da allora, fiumi di parole, relazioni corpose e riassunti strutturati, per tentare di comprendere, di capire, non per ultimo, per dare sollievo a chi non ha più il suo bene più grande in casa, il proprio figlio.  In scuole, oratori, università, associazioni, per incontrare i più giovani, gli adulti, per fare rete con l’altro, i più fragili ed anche i più tosti solo a parole, affinchè questo male lacerante non abbia più a mietere vittime innocenti. Eppure ancora e ancora e ancora, giorno dopo giorno,  negli spazi differentidella relazione umana, un metro a seguire l’altro,vengono messe al muro vite appena iniziate e già compromesse. Ragazzi dimezzati dalla poca attenzione alla salita, alla porta chiusa da aprire con garbo, studenti fermi all’angolo ad aspettare un passaggio, un tiramisù che stende senza fare complimenti.

Il ragazzo non c’è più, ha rassegnato le dimissioni da questa vita, nei suoi occhi sbarrati c’è tutta l’incomprensione per questa trasgressione e devianza di non subordinare mai le passioni alle regole. Mentre riceveva l’ingiustizia di una violenza priva di scopo e utilità, dove valori e disvalori si cambiano di abito, di posto, si nascondono, si mimetizzano, costringendo all’appropriazione indebita, a rubare, rapinare, uccidere la dignità di un adolescente.

Troppo facile sollecitare con fermezza una maggiore prevenzione, un maggiore impegno a rispettare le parole, le forme, i contenuti, a chiamare con il proprio nome gli indicatori di pericolo sparsi all’intorno, l’approssimarsi di una desolazione intellettuale che toglie spessore e importanza alle regole, al rispetto dei ruoli, delle competenze, al valore stesso della vita umana.

Quel giovane additato a diverso, a sfigato, tolto di mezzo dalla disperazione di una solitudine imposta, chissà che non induca sapienti e saccenti,  a smetterla di pensare “nel mio orto non ci sono di questi inciampi, nella mia scuola c’è il giardino pulito, nella mia casa è tutto in ordine” .

Occorre farne a meno delle solite strategie discorsive per contrastare il verificarsi di accadimenti dichiarati semplicisticamente “accidentali” lungo il percorso scolastico. Oltre che scandalizzarsi per la tragedia di una scomparsa così inaccettabile, forse c’è urgenza di imparare qualcosa in più di noi, così conosceremo meglio i nostri figli, quelli maledetti per vocazione, gli altri più fragili di tante inutili parole.

Nessuno si salva da solo

Nessuno si salva da solo

di Vincenzo Andraous

Scorro le pagine di un quotidiano con cui ho collaborato, mi imbatto nella risposta di una suora a un mio intervento sul carcere.

Non è d’accordo su quanto poco abbia da fare stare tranquilli questo carcere così com’è, afferma che sono troppo negativo sul dentro e pure sui suoi dintorni.

Elenca il grande fare del volontariato, delle associazioni, la scuola, gli incontri, la cultura, la chiesa e tutti gli uomini di buona volontà.

Se c’è una persona che crede in questi valori, in questa prevenzione preziosa del fare, più che del dire, negli uomini che sanno essere esempi autorevoli da seguire e ascoltare. Ebbene quella persona sono io, perché da quel buco nero profondo sono stato letteralmente sradicato e riportato in vitaproprio da quelle persone che insegnano a credere che Dio c’è anche in una cella, Dio c’è in ogni loro orma e traccia che lasciano al loro passare.

Conosco molto bene il valore della gratitudine e del rispetto ritrovato per me stesso e per gli altri, ciò non toglie che il carcere attuale non è quello del fiore all’occhiello, tanto meno della rieducazione tanto decantata.

Non c’è bisogno di elencare le tante cose belle che il volontariato porta avanti tra mille difficoltà, i tanti percorsi positivi portati a termine e proseguiti fuori dal muro di cinta.

Ma altrettanto bene conosco l’ingiustizia, la violenza, l’illegalità, che si alimentano dentro una galera, nonostante quanto appena detto, nonostante quanto non si deve dire, nonostante quanto rimane sotto una coltre di indifferente omertà.

Una violenza che solo poche volte deflagra in superfice, per il resto è diventata composta, silenziosa, riservata nei tanti suicidi che si verificano nell’indifferenza generale. Incredibilmente negli uomini detenuti ancora c’è la spinta per un   nuovo orientamento esistenziale, tanti  uomini nuovi nel vivere civile, non più carnefici di se stessi né degli altri. Ciò accade perché altri uomini e donne, operatori e volontari comprendono il significato vero della pena da scontare, il valore insito della cura e dell’attenzione, dell’accompagnamento.

Dio è morto in una cella, scrivevo negli anni trascorsi, da uomo disperato, e chi è disperato è senza speranza, poi invece dentro quella cella Dio non è morto, è venuto avanti, senza tentennamenti, per un tratto di strada che dura ancora oggi, con il braccio sulla mia spalla, ha il volto della suora, del prete, dell’operatore, del prof, dello scrittore, di tanti uomini che non ci stanno a fare numero, tanto meno acqua calda delle solite parole. Nonostante tutto questo però non può passare inosservata la drammatica situazione in cui versa il carcere italiano, tanto meno è intelletualmente onesto sbalordire e rimanere di sasso allorchè si verifica lo scoperchiamento di una violenza e di una illegalità non più azzerata di rumore.

Qualcuno ha detto che nessuno si salva da solo, è verissimo, soprattutto dentro un carcere, ma aggiungo che nessuno ha ragione da solo, finchè non ci domandiamo cosa accade dentro una prigione o che non è correttamente applicato. Forse è giunto il momento di chiederci chi entra e cosa esce da una cella, se parliamo di persone oppure di cose, oggetti, numeri.

L’acqua calda delle solite parole

L’acqua calda delle solite parole

di Vincenzo Andraous

Sui quotidiani appaiono articoli e interviste più o meno strabordanti buone intenzioni da parte della politica, mentre gli operatori scrivono di concerto il copione delle disfunzioni che generano disumanità e intollerabilità nel carcere italiano.

Sfogliando le pagine dei giornali si nota un metodo artigianale poco propenso a educarci a conoscere il mondo penitenziario, riducendolo a qualcosa che appare lontano e sembra non dover preoccuparci, perché noi siamo sicuri che non ci finiremo mai lì dentro. Invece, la carta stampata non ce lo dice, ma in quel calderone di misfatti e illegalità ci continua a finire dal lattaio al meccanico, dal dottore al professore, dall’uomo di legge al malvivente meno incallito, nessuno escluso.

Forse più maldestramente si tratta di un vero e proprio pasticcio delle intenzioni, creato ad arte per non prendere per le corna le tante magagne da risolvere, per non mettere in campo una giustizia equa, una solidarietà costruttiva, che non dimentica le priorità di tutela a garanzia delle vittime, degli innocenti, ma che da questo punto di partenza rilancia nuove opportunità di conciliazione da parte del detenuto. C’è un uso sconsiderato di parole valigia, parole consunte e logorate, proprio per non approdare a niente, ma con lo scopo di rimandare al cittadino l’immagine di una conoscenza e sapienza a dir poco folgorante.

In questo periodo di buone intenzioni, di proposizioni illuminate, di interventi letterari ma poco figurativi una realtà a dir poco sconcertante, c’è la sequela di errori reiterati, il morire distante, una sorta di evasione con i piedi in avanti, uno, due, tre suicidi in un mese per giunta nello stesso lazzaretto disidratato, come a significare che dal primo rantolo all’ultimo, a fare da ponte rimane l’indifferenza.

C’è chi viene ammazzato e ritrovato soltanto qualche giorno dopo, come a dire che la carenza di personale non consente attenzione, cura, quella famosa e bistrattata buona regola della vita anche dentro una cella.

In ogni convegno, tavola rotonda, incontro sul tema carcere, professionisti del diritto, operatori sul campo da decenni, voci ben intruppate in fila per tre, ho l’impressione che vorrebbero azzardare in coerenza e coscienza una risposta alla violenza, illegalità, ingiustizia che alberga in un istituto penitenziario. Ma al dunque che ci dicono? Che mancherebbe l’acqua calda, non ci sono i bidè, e come collante a tanta lungimiranza la carenza di personale.

Sono vecchio e l’alzheimer mi morde il collo, seppure a fatica rammento però che dentro una cella un nuovo orientamento esistenziale, può essere raggiunto unicamente operando con lo strumento dell’educare, non con la solita reiterata tergiversazione per impedire la comprensione, la possibilità di una parete di vetro, dove osservare quel che accade, o purtroppo non accade per niente, perché il diritto è sottomesso e violentato dal sovraffollamento, dagli eventi critici, dai problemi endemici all’Amministrazione.

Ricordo bene che il rispetto per il valore di ogni persona ha urgenza di essere inteso non come qualcosa di imposto, ma come una condizione quotidiana  da raggiungere attraverso l’esempio di persone autorevoli, anche là, dove incombe lo spazio ristretto di un cubicolo blindato, là dove non dovrebbe mai essere annientata la dignità del recluso.

Se è vero che le vittime sono quelle che soffrono dimenticate nella propria solitudine, se i parenti delle vittime se la passano peggio dei colpevoli, occorre davvero fermarci a riflettere, e non rimanere indifferenti a una prigione ridotta dapprima all’ ingiustizia dei fatti e poi delle parole. Se la galera costringe deliberatamente alla sopravvivenza e quindi alla violenza, non è certo a causa della mancanza di acqua calda, ma perché non ci sono i presupposti per un ripensamento culturale sulla pena e sulla sua utilità e scopo, non ci sono regole chiare su cosa significhi applicare quelle norme, e se tali norme e regolamenti sono davvero applicati, o vegetano nell’impossibilità di avvicinarsi a una emancipazione sostanziale da quella sopravvivenza.

Come ho più volte detto c’è urgenza di chiederci quale persona entra in un carcere, e quale “cosa” ne esce, quale trattamento ha ricevuto quella persona, se oltre alla doppia punizione impartita, ha avuto possibilità di imparare qualcosa di positivo, o se invece rieducazione sta più semplicemente a un mero copia incolla.

Tutti i bimbi sono Gesù. Tutti

Tutti i bimbi sono Gesù. Tutti

di Vincenzo Andraous

Anche quest’anno ci saranno in prima fila ben allineati i ciechi ed i sordi che non sono, i soliti furbetti dell’albero di Natale. Come l’anno scorso e quello prima ancora, la Croce rimarrà nell’angolo scuro, dove vedere diventa opportunatamente difficile. Ci saranno in compenso le solite dolcezze e carezze per il nuovo nato, le preghiere di buona attesa e i canti di giubilo del consueto arrivo. Anche quest’anno però le immagini sono sempre quelle, anzi, peggiori delle precedenti, quel Bimbo Gesù da poco nato, non potrà sbalordirsi per quanto l’umanità abbia perduto il senso, lo scopo, la strada maestra da seguire.

Nei campi dell’abbandono e della crudeltà più ottusa, c’è quella bambina vestita di niente, quei suoi piedini nudi nella neve fredda dove non è dato giocare. Rimane scalza nel ghiaccio con intorno gli sguardi della più vergognosa impotenza, con addosso i morsi disperanti della sopravvivenza.

Quel Bimbo nella culla fortunatamente non potrà ancora stupirsi per la dis-umanità che appare di volta in volta sempre meno giustificata, per gli ultimi tra gli ultimi depredati di ogni salvezza e dignità. Quella bimba con il volto trafitto dal dolore e dalla sofferenza non potrà rendersi conto di esser stata appiedata a mezzo metro di distanza da ogni giustizia. Per quel Bimbo che nasce non è ancora tempo di grida dal basso, di fosse alla terra, di squarci al cielo, in mezzo al mare sommerso di prossimità  che non riescono più a sollevarsi. Quella bimba vestita di indifferenza e strattonata dalla meschinità del più forte, riporta la realtà nel suo significato preciso, c’è bisogno, c’è necessità, di quel Bimbo che arriva frutto di evoluzione, di bontà e onestà, che diventa sangue, che diventa lotta, piu’ ancora di mille preghiere, di tante e troppe promesse. Quel viso di bambina innocente, che nulla ha commesso,  sebbene a quell’età avrebbe tutti i diritti del creato per commetterne,  rimane il viso contratto dal freddo e dal gelo,  in  quegli occhi disperati di chi più nulla si aspetta di ricevere, neppure la compassione di un aiuto irrimediabilmente tradito e umiliato.

I bimbi sono Gesù, lo sono in ogni anfratto martoriato dalle etiche e dalle morali d’accatto, nel fallimento di generazioni tradite e colpite alle spalle, dalla politica dei potenti e dagli interessi che non bisogna assolutamente rimestare. Sono tutti Gesù, e chiunque faccia orecchie da mercante, peggio, da insignificante mercante di morte,  sarà bene che lo ricordi, perché volente o nolente sarà sospinto nel vicolo cieco, dove non c’è copione da correggere, storia da barare.

Quel bimbo che nasce, sta dentro gli occhi di quella bimba rifiutata, ferita, spinta alle spalle al baratro,  dunque, almeno quest’anno, il Natale ci costringa a uscire dal nostro comodo rifugio, dalle lontananze imposte, dalle nostre preghiere prive di intercessione. Quel volto di bimba rimanga avvinghiato su tutti i muri, su tutti i fili spinati, su tutti i confini in fiamme che questo Natale dovrà rammentare.

Bambini dimenticati

Bambini dimenticati

di Vincenzo Andraous

In questo periodo ci sono inondazioni di notizie e informazioni più o meno d’elite, tutte grondanti di interesse collettivo e politico, riguardano noi tutti, la nostra vita, il nostro presente e il nostro futuro.

Vaccini, green pass, manifestazioni autorizzate, ribelli veri e ribelli inconcludenti, sindacati sul piede di guerra, governi e governicchi in linea di s-partenza. Insomma non ci facciamo mancare niente a prima vista.

Poi accade che poco lontano dai nostri confini, in altri paesi, con cui facciamo affari, ma recitiamo la parte della non condivisione per la strabordante politica della disumanità, ebbene, ci arrivano le immagini di migliaia di persone ammassate nei campi, al gelo, alla fame, soprattutto di donne e bambini ricoperti di stenti, di stracci, di disperata speranza.

Immagini di persone nei sacchi a pelo sparse nei campi, di guardiani armati fino ai denti che prendono a calci quelle sagome malamente accasciate, che aizzano i cani a mordere. Sono immagini, soltanto immagini lontane qualcuno s’appresterà a dire. Ecco però che arrivano altre notizie, non sono più comunicazioni di elite, non sono più o meno accettabili, posseggono un preciso interesse collettivo, quello della richiesta insindacabile al rispetto della vita umana.

La morte di ogni innocente infatti accorcia drammaticamente le distanze.

Ci sono persone che muoiono, ci sono bimbi che muoiono di stenti, di fame, di freddo, bambini lasciati morire.

Faccio dannatamente fatica a pensare che possa accadere ancora e nuovamente una cosa del genere, per quanto mi sforzi non riescodavvero a prendere coscienza che oltre a togliere la vita ad una persona c’è anche la più sgangherata programmazione perché accada un tale miserabile evento.

Non può essere compresa alcuna indifferenza, alcun rispetto per qualsiasi altro paese, per qualsivoglia sovranità statuale, forma di governo che non si adoperi senza se e senza ma a salvare con immediatezza soprattutto i bambini.

Lasciare morire una creatura volutamente tra sofferenze indicibili significa non possedere alcuna autorevolezza, credibilità, nessuna radice profonda per alcun potere condiviso.

Lasciare morire intenzionalmente all’agghiaccio, nel gelo della paura, nel freddo dell’abbandono, per accoglienza negata un innocente, non è cosa che possa essere risolta con una alzata di spalle, con le solite giustificazioni; in fin dei contisono ingiustizie che pesano su altri stati, quindi seppure a denti stretti non ci riguardano.

In questo macabro conteggio di chi vive e di chi muore, ci sono a sovvenzionare il baro del gioco delle tre carte, le politiche d’accatto, quelle che non consentono di sentire ma di ascoltare, quelle che non vedono ma guardano sbrigativamente al colore della sofferenza, al colore colpevole per le vittime innocenti, al colore spento di quei bambini dimenticati.

Giornata mondiale dei poveri

Giornata mondiale dei poveri

di Vincenzo Andraous

Da poco abbiamo festeggiato la giornata mondiale dei poveri, mentre nella grande sala della comunità le persone entravano e si sedevano compostamente per pranzare, tra me e me pensavo, ma che roba strana la festa dei poveri del mondo. Come se ci fosse qualcosa da celebrare, da esser felici per tanta disperata esistenza. Sotto gli occhi si presentava senza maschere, senza orpelli, senza parole superflue, peggio, compassioni ipocrite, la fotocopia di tante e troppe alzate di spalle, ciò che spesso l’indifferenza crea a dismisura. I poveri hanno le sembianze deigiorni che non sono mai nostri, eppure nell’accogliere, accompagnare, ascoltare, le persone in riserva permanente con le emozioni costrette a camminare rasenti ai muri per non rischiare di cadere ancora più giù, c’è la possibilità di intravedere un piccolo pertugio dove fare convergere le residue energie interiori per tentare di risalire la china. C’è la possibilità rimasta sottopelle di una intuizione apparentemente sopita, strappata da una fatica di vivere vissuta male, una sconfitta esistenziale mai del tutto accettata. I poveri camminano con lo spartito tra le mani, sempre quello, sempre più sdrucito, perchè non mutano mai le problematiche che li riguardano. E’ povertà di là, di qua, dovunque ci sono montagne di parole nuove, dove ognuno ha fatto bene i propri compiti, ma gli ultimi non hannoricevuto sollievo da alcuna giustizia, soltanto nuove e consunte parole.

Rimango lì a osservare quell’umanità derelitta che non può essere colmata dal cibo offerto, dalla generosa prossimità dei volontari, ci sono sorrisi e ci sono sguardi persi lontano, c’è una sorta di silenziosa insubordinazione a un quotidiano che drammaticamente non coinvolge alcuno, dentro un consorzio sociale che ha coscienza di questa fetta di realtà ai margini, soltanto quando ne è costretta, quando è con le spalle al muro da questa povertà che sta alimentandosi delle sottrazioni, le divisioni, le moltiplicazioni che comportano perdite e mancanze.

Nuovamente la comunicazione non aiuta ad accorciare le distanze, fagocita uno stile di vita basato sulle fandonie, sulla manipolazione delle emozioni,fino a trattenerle, perché per qualcuno forse è meglio così. Nella grande sala della comunità c’è lo stare insieme quale origine ontologica dell’uomo, ma più guardo le persone che s’aggirano tra cibo e volontari, più tocco con mano il degrado del cambiamento indotto dalla miseria. Nonostante questa ingiustizia che rende le persone men che mai emancipate, lapolitica arrogante rende gli incapaci dei formidabili utopisti, così le parole si sprecano, le promesse anche, mentre la povertà trasale nella mancanza di beni essenziali per la vita, di cibo, di medicine, di una casa, figuriamoci di un lavoro, quale unico strumento di ritorno alla vita.

La teatralità dell’irresponsabilità

La teatralità dell’irresponsabilità

di Vincenzo Andraous

Certo che a intelletto scardinato da ogni umana condivisione ultimamente andiamo alla grande, anzi alla grandissima. Mentre leggevo e guardavo i no green pass sfilare per le strade con indosso la casacca dei campi di concentramento nazisti per crearsi più visibilità nonchè una  robusta gran cassa mediatica, la mente mi ha riportato sui detriti indelebili della Shoah, a quella bimba Czeslawa Kwoka polacca cattolica, 14 anni, morta nel campo di sterminio di Auschwitz.  Terminata con un’iniezione di fenolo nel cuore. Una bambina innocente, colpevole di nulla, imputabile di niente.

Poco prima dell’esecuzione, malmenata senza alcuna pietà.

In molti, in tanti, sopraffatti da questa storia che ci portiamo addosso, da questa memoria che non può cadere all’indietro non farci rimanere annientati dal dolore dell’ incomprensibilità, dalla ferocia non solo dell’immagine, ma da come l’umanità spesso, sempre più spesso, ne esca con le ossa rotte, demolite.  Citiamo giustamente  questi accadimenti affinché tutti sappiano e nessuno dimentichi. Eppure qualcosa sta fuori posto, non quadra, come a dire che ricordare, rammentare, sottolineare, non lascia spazio sufficiente alla coscienza di ognuno e di ciascuno per “circondare” con immediatezza queste manifestazioni di teatralità della morte e della sofferenza, dell’ingiustizia, affinchè l’umana condivisione-compassione per un genocidio  non debba essere schernito da una strumentalizzazione che ne sottolinea l’ ipocrita non conoscenza. In corteo con la casacca sdrucita a righe verticali, senza sapere quale sofferenza è stata imposta a un popolo, a una, a dieci o cento generazioni. In colonna per protestare facendo leva sul dolore inenarrabile di milioni di innocenti andati al macero per una ideologia. In ordine sparso ma ben irreggimentati per gridare il proprio dissenso-diniego usando l’ingiustizia più grande da grimaldello della propria irresponsabile superficialità. Quella foto di bimba non può passare inosservata, tanto meno smanettata via senza un rigurgito di dignità fin’anche di vergogna, quanto meno perché non è possibile celarne lo sbalordimento e annichilimento per chi ha usato tanto maldestramente quell’innocenza. Oppure perché chi è sopravvissuto a tanta vita infranta, vita fatta a pezzi, vita smembrata e buttata, dentro il fumo salito per mille camini. Chi miracolosamente sopravvissuto ha potuto raccontare il freddo dell’ìabbandono, la tragedia del sangue e della tortura, il silenzio della morte di tanti e troppi innocenti. Chi sopravvissuto al potere assoluto dell’uomo, è costretto ancora oggi a fare i conti con l’irresponsabilità delle parole, dei comportamenti, degli atteggiamenti teatralmente scomposti.

Senza alcuna pietà

Senza alcuna pietà

di Vincenzo Andraous

Ci sono accadimenti che per l’abitudine a non farci i conti passano inosservati, ci sono assenze così drammatiche che neppure riusciamo a comprendere fino in fondo il dolore che arrecano. Ci sono morti ammazzati di cui non ricordiamo più neppure il nome. Sono donne innocenti prese alle spalle, afferrate a tradimento, colpite da parte a parte, senza un accenno di compassione, di umanità. Donne e mamme, ognuna umiliata, sopraffatta, sottomessa, dapprima castrata senza tanto andare per il sottile, a seguire terminata. Donne senza un fiore tra le dita, una carezza di intesa, un bacio di intima complicità, donne dal rispetto strappato, calpestato. Donne innocenti il più delle volte deprivate di ogni giustizia. Anche oggi, un’altra donna allo sbaraglio, strappata alla vita, trafitta e abbandonata, senza alcuna pietà. Rincorsa, spintonata, uccisa. Giornali, televisioni, social, a parlare di questo e di quello, a fare del furfante spesso un eroe, oppure a creare il caso, a fare del colpevole un mezzo innocente, peggio, dell’innocente un mezzo colpevole. Parole scardinate di ogni contenuto, significato, valore, parole a valanga, per rendere meno palese la gravità dei comportamenti, degli atteggiamenti, della libertà intesa malamente, più importante per me, che per te, al punto da toglierti la vita, accadimento di per se gravissimo e imperdonabile, ma in aggiunta c’è pure l’aggravante di non poco conto del pensare di essere nel giusto nel farlo, nel giusto a rapinarti la vita. Ogni volta che una donna cade, che urla senza essere aiutata, che rimane a terra con gli occhi sbarrati dal terrore, ogni volta che una donna non c’è più per mano del solito “possessore di cose di turno”, ognuno di noi, diventa spettatore, ascoltatore, persona non informata dei fatti, un cittadino che non sapeva o magari non voleva proprio sapere, ben piantato con tutti e due i piedi sull’adagio mai superato: fatti gli affari  tuoi e campi cent’anni. Certamente non siamo tutti indifferenti, recalcitranti a intervenire, a mettersi a mezzo di fronte a una ingiustizia grande come una casa, ma questa moria colpevole di donne innocenti fatte a pezzi dalla ferocia del possesso e dal delirio di potenza di chi si sente proprietario della vita altrui,  a questo punto abbisogna di interventi legislativi, urgenti, non più rinviabili, c’è necessità di rendere la tutela alla vita della donna un segno tangibile e non solamente una riga sgangherata a delimitare l’imposizione a non avvicinarsi. Una dopo l’altra tra agguati e inganni fatali le donne vengono abbattute, cancellate, c’è somiglianza con il corpo a corpo  con la mafia, il terrorismo, la politica corrotta, la corruzione, c’è identico il frastuono di colpi, ma non la stessa intensità della lotta, come a voler significare che forse non c’è più speranza per queste donne di tutti i giorni a lutto,  senza lode né medaglie scintillanti, nell’attesa della prossima sventurata, nella postura scomposta causata del giuda di turno che racconterà una verità disconnessa dall’altra, da quella che è per davvero causa di tante dipartite sconosciute.

Adolescenti allo sbaraglio

Adolescenti allo sbaraglio

di Vincenzo Andraous

Stavo tornando a casa dopo una giornata di lavoro piuttosto pesante, a rendermi ancora più insofferente, sul telefonino leggo di quel furgoncino che si schianta in tangenziale con un’altra auto. Ho pensato a un incidente come ne accadono tanti, invece non era proprio così. Tre adolescenti hanno rubato “per gioco”, non per una qualche utilità seppure delinquenziale, ma “ per gioco” un furgone, iniziando a pigiare con il piede martello sull’acceleratore. Tra una morsa allo stomaco e un digrignare di denti, mi sono ritrovato negli occhi il sequel di un vecchio film. A volte, non sempre, ma accade, il passato sta disegnato in un presente da apnea asfissiante. Tre giovanissimi alla ricerca di qualcosa, la postura inquieta, poi, accade tutto come nella frazione di uno sparo, e colmo della sfiga, perché di sfiga si tratta, le chiavi sono inserite nel cruscotto. Un rombo, una sgommata, l’auto parte come una scheggia impazzita, adesso è un siluro che taglia a metà la città, un bisturi che divide in due il proprio destino e purtroppo quello degli altri.

Niente e nessuno può fermare quel bolide, il piede ben calcato sul pedale dell’acceleratore, le risate sempre piu’ alte, la musica a paletta. E’ tutto un dritto, non ci sono curve, intersezioni, stanno volando. Niente e nessuno li può fermare. Però d’improvviso ecco l’ostacolo, quello che non t’aspetti, duro come pietra che dura, ben più duro di te. L’impatto è inevitabile, si frana per terra, si rimane lì, con il respiro imprigionato nei polmoni. Si rimane sulle ginocchia, con la fronte imperlata di sudore, e quel sudore ha un nome preciso;è la paura. Ora lo spaccone, il duro, il bullo di cartone è scomparso, s’è dileguato, portandosi via ogni altra certezza. Ma c’è di più, non è ancora finita la sofferenza, il dolore, la disperazione, perché dalla fronte c’è qualcosa che si mischia con quel sudore, scende e sbatte sulle palpebre, sul naso, sulle labbra. Sì, quello è il tuo sangue. No, non è ancora finita la tragedia che segue a questa irresponsabile follia, perché quello non è più soltanto il tuo sangue, ma è il sangue degli altri, degli innocenti, di quelli, che spesso, sempre più spesso rimangono senza giustizia. Tre giovanissimi, nella trasgressione ormai divenuta devianza, la spinta a non subordinare mai le passioni alle regole, disconoscendo la carta di identità della libertà, della responsabilità, nella capacità di fare delle scelte consapevoli, interpretando malamente quellalibertà con il fare tutto quello che voglio. In questa sequenza di reati, perché di reati si tratta, c’è la sfida, la voglia di primeggiare con gli strumenti dell’illegalità e della violenza, c’è il “coraggio” di sfidare la morte, finchè non rimani piegato e piagato sulle ginocchia, se ti va bene, perché è bene sapere che chi scommette contro la morte, è destinato a perdere, al più misero dei fallimenti, perché la morte vince sempre. Non ci sono eroi in questi accadimenti, gli eroi sono ben altra cosa, qui abbiamo tre ragazzini allo sbaraglio e una platea plaudente o forse soltanto distratta, anch’essa colpevole in tutta la sua indifferenza.

Il carcere che ancora non c’è

Il carcere che ancora non c’è

di Vincenzo Andraous

Quante volte l’ho ripetuto incontrando spallucce ambigue e smorfie di malcelato disappunto.

Oggi leggo il fior fiore degli operatori di giustizia e chiaramente non sto parlando dei soliti detenuti buontemponi, che ammettono candidamente in galera c’è un sistema al collasso, che si accanisce sui più deboli, che fa perdere alla pena la sua reale funzione, scopo e utilità.

In sintesi e senza sottolineare i fatti e misfatti che accadono e si ripetono nel silenzio e nell’indifferenza generale, l’apparato penitenziario e il sistema giuridico composto di leggi e norme ben definite, invece di produrre risultati accettabili, non corrisponde alla collettività la giusta richiesta sicurezza, tanto meno ne rispetta il dettato costituzionale.

Senza tanti giri di parole chi le leggi le applica e le fa soprattutto rispettare o almeno tenta di farlo con onestà intellettuale, senza raccontare delle panzane o realtà inesistenti per far contento qualcuno, afferma che “non è possibile all’interno di una prigione svolgere un’attività di rieducazione del condannato, e allorchè una finalità di risocializzazione si verificasse, ciò accade per fatti propri”.

Dunque non perché il sistema di ordinamenti e umana condivisione di intenti rieducativi crea le condizioni perché ciò accada.

A ben vedere questa sorta di inquietante eredità, è il risultato di una mia convinzione profonda, che da molti anni sostengo e porto avanti naturalmente da solitudinarizzato: è possibile diventare persone migliori NONOSTANTE il carcere.

Il problema di fondo però rimane e si moltiplica dentro una cella abitata da numeri, cose, oggettistica da scartare, ciò significa disegnare in maniera non sindacabile l’eccezione che conferma la regola di un vero e proprio fallimento.

Quando si sente parlare di una pena vendicativa, di una pena dis-umana, di una pena doppia rispetto a quella erogata dal giudice naturale, c’è come un’impossibilità forzata a misura a comprendere la drammaticità di asserzioni come queste. Infatti come dice un autorevole giudice: ciò starebbe a significare una pena e una riparazione del tutto incompatibile con la nostra Costituzione, ma soprattutto con la nostra coscienza.

Forse hanno ragione coloro che sostengono che “più che di legalità occorrerebbe parlare di responsabilità” per ridurre il tasso di recidiva inaccettabile, e perché violenza e illegalità non hanno mai creato le condizioni minime necessarie per favorire il reinserimento del detenuto.

La cultura della disattenzione

La cultura della disattenzione

di Vincenzo Andraous

In alcune città italiane spadroneggiano non solo  le grandi organizzazioni criminali ma veri e propri squadroni adolescenziali del malaffare.

In altri sobborghi esistenziali giovanissimi annoiati mettono sotto il malcapitato, spesso un coetaneo, tanto per passare un po’ di tempo in allegria. In spazi scolastici ben definiti bulli oramai professionalizzati mantengono saldamente in mano il loro conosciutissimo territorio.

In agglomerati cittadini e periferici gruppi di adolescenti si danno appuntamento per darsele di santa ragione armati di  mazze e lame fredde dei coltelli. Insomma c’è da preoccuparsi,  e non poco.

Anche perché per  licenziare senza troppo rumore la deriva che incombe sui più giovani, ci sono le voci dei soliti fautori degli eventi critici che non sono mai numeri esponenziali ma statistica tutto sommato accettabile.

E’ fin troppo facile scaricare ogni responsabilità sulla famiglia, imputata assente alla sbarra del tribunale che non c’è mai.

Per non parlare della disattenzione dei genitori, dell’abitudine a  permettere sempre, perché costa meno fatica e impegno di fronte a un bel no, tutto da spiegare e chiarire.

Forse non si tratta di vera e propria emergenza come si ostina a ripetere qualcuno, eppure le comunità di servizio e terapeutiche brulicano di duri dagli anni corti, e unitamente ai  servizi sociali ne contano i numeri e ne relazionano le sofferenze e le reiterate sconfitte.

Di fronte a questa ecatombe di sistemi educativi dove il rispetto per se stessi e gli altri non nasce dagli esempi autorevoli bensì dai modelli super accessoriati messi in bella mostra dal mondo adulto, dalla messaggistica istantanea, dai film che sfornano eroi disposti a tutto per arrivare alla meta, c’è il vicolo cieco dietro l’angolo, dove non solo la realtà diventa virtuale ma addirittura l’illegalità accompagnata dallo strumento della violenza diviene sfida e scommessa  al dazio eventualmente da pagare.

Spesso i giovani raccontano con la postura che assumono, con gli occhi che parlano, l’insoddisfazione e la ribellione per una collettività che fa spallucce alle problematiche inerenti il disagio giovanile, una società collassata dalla pandemia e dalle preoccupazioni montanti per un futuro che ancora zoppica, inciampa, cade rovinosamente.

Il mondo adulto tenta di non affondare e rimanere con i piedi ben piantati ai valori in cui crede, nel frattempo in-cultura e povertà,  uso e abuso dell’agio dall’altra, costringono la coscienza a smetterla con le parole e passare ai fatti, quelli dell’attenzione e della responsabilità, quali percorsi certi per  una prevenzione preziosa. 

Dunque gli assenti ingiustificati di quel tribunale che non c’è mai, la famiglia, la scuola, quanti educano alla vita da vivere e non da abbattere, sarà bene facciano un passo avanti e battano forte un colpo per non arrendersi all’attuale momento che viviamo tutti.

Nessuno escluso.

Mi ricordo eccome di te

Mi ricordo eccome di te

di Vincenzo Andraous

Se ripenso al giorno in cui ti ho conosciuto è impossibile non ricordare il tuo volto, le tue gambe larghe, le mani in tasca, stavi lì piantato davanti a me e ai tuoi compagni, a ben pensarci un passo avanti a tutti. No, non era casuale. Tra me e me mi sono detto: ecco un’anima inquieta, di quelle che sanno tutto del mondo e di cio’ che sta dietro l’angolo, di quelle che non hanno bisogno di nessuno, perché i problemi se li risolvono da se. Mi hai squadrato per bene, come a volermi dire: e tu che vuoi, chi sei, che cerchi da queste parti? Ero lì perché il mio amico don, mi aveva chiamato per svolgere qualche incontro, per rappresentare un testo teatrale, per fare due chiacchiere con la parte più giovane che mi ha attraversato e che soprattutto mai più ritorna. Ascoltavo le tue scorribande, osservavo la tua mimica, mi rammentavi gli errori, le scelte sbagliate, quando anch’io ero inquieto, un’anima ribelle, che non voleva più niente, più nessuno, volevo godermi la vita, così come veniva. La sera c’è stata la rappresentazione teatrale, seguita dall’incontro, le tante domande, i silenzi più rotondi di qualsiasi perfetta comprensione. Ah tu sei Vince? Ma quanti anni hai, da quanto sei ritornato in libertà? Una sequela di interrogativi sparati come certezze risapute, conosciute, quasi riducendo tutto a qualcosa di banale. Mi ricordo eccome di te, di me come ero prima di incontrare te. Talmente bene che mi sono sentito in dovere di tacere e ascoltarti, consapevole del rischio dell’impatto in cui andavi incontro, quando quasi gridando mi dicevi che e’ meglio non fidarsi mai di nessuno perché tutti ti fregano, meglio fai da te e fai per tre. Mi veniva su dalla pancia una rabbia da fare paura, perché era una sorta di copia-incolla visto troppe volte, per le persone sbagliate incontrate, per la convinzione che è sempre colpa di qualcun altro, mentre più semplicemente il vero problema sei tu. Tu in attesa del botto, della battaglia, del salto nel buio, tu che scommetti con la morte, ma lei vince sempre e non lo sai. Non so perché ma quel giorno sono ritornato a casa con l’amaro in bocca, non riuscivo a darmi pace, mi domandavo se tu eri il risultato di una rappresentazione della realtà criminale in quanto tale o dalla spettacolarità del modo in cui essa è rappresentata. Ecco allora l’emulazione, la fascinazione del male, avevo di fronte a me, il maledetto per vocazione, ma anche quello che è convinto che mal che vada, è tutto un gioco alla play station, si resetta e si ritorna da capo. Invece non è stato così. Mi ricordo eccome di te.

Joseph con gli occhi riversati all’indietro

Joseph con gli occhi riversati all’indietro

di Vincenzo Andraous

A volte penso a come la politica sia davvero poca cosa di fronte alle sciagure più indicibili, ben poca cosa per il suo silenzio e per le parole d’accatto usate per non dire niente.

Uomini che guardano ma non vedono, ascoltano ma non sentono straziante il dolore degli altri.

Tanti uomini che a giro corto se ne stanno da un’altra parte, dove non c’è rischio di sbattere sull’ostacolo improvviso di un fagottino di pochi chili, un bimbo di pochi mesi soffocato e fradicio di abbandono, con gli occhi riversati all’indietro.

Mare e migranti tra urto e fastidio, mare e disumana accettazione dell’assenza, mare che non ha più tuono da restituire all’ingiustizia, soltanto altro silenzio.

Noi possiamo fare speculazioni politiche o filosofiche, senza avere timore delle ritrattazioni, degli attacchi e dei rinculi della storia che sovente prendiamo a calci nel deretano.

Possiamo addirittura convincerci di non rimanere invischiati da una certa indifferenza che sta facendo più vittime della pandemia. 

Possiamo fare gli estremisti realisti di quella casacca o di quell’altra, possiamo indossare i colori sgargianti della retorica,  possiamo fare i santi e i diavoli a seconda degli interessi che premono alle porte.

Addirittura potremmo fare tante altre e diverse cose di fronte a una creatura  annegata per la nostra incuria, la nostra disabitudine a fare seguire alle parole i fatti, per la nostra incapacità di  fare veramente qualcosa di importante per un moto di compassione, per un principio inalienabile di umanità, per quell’amore nei riguardi di tutti i bambini.

Quei bambini che non sono migranti, non sono extracomunitari, non sono delinquenti in trasferta,  non sono muscoli  per il mercato della carne. Invece non facciamo niente, peggio, non intendiamo proprio vedere a un palmo dal nostro naso.

Sono bambini, sono innocenti, sono quella parte di noi che mai dovrebbe fare i conti con la nostra furba vigliaccheria e crudeltà nei riguardi dei soliti altri. I soliti altri, anche dei più piccoli, quelli che durante le famose guerre giuste e necessarie sono  i primi a rimetterci la vita.

Quando penso alle tante discussioni sullo straniero, su quelli che hanno la pelle nera, su quanti vengono da noi a rompere le scatole, penso con la stessa intensità che correrebbe l’obbligo di non fare politica sulla pelle di un bimbo di pochi mesi, un bimbo raccattato e ricomposto alla bell’e meglio per non dover farci i conti per davvero.

Quando penso a Joseph nell’imminenza del Natale, penso a mia figlia che prepara il presepio, l’albero, penso al Bambino Gesù che nasce, penso a come i bambini e le loro madri non dovrebbero mai ricevere il diniego della perdita-assenza  più grande.

Quanta fatica Francesco

Quanta fatica Francesco

di Vincenzo Andraous

Stavo giocando con la mia bambina, tra una risata e un bacetto, mi è scappato l’occhio sullo schermo della televisione. Parlavano di Papa Francesco, delle sue aperture spacca popolo, delle sue decisioni senza se e senza ma in merito alle reiterate sottrazioni ingiustificate, usando un eufemismo elargite malamente. Indipendentemente dallo scandalo che incoglie sovente la Chiesa, è innegabile la presa di posizione di quest’Uomo, il tormento che incombe nella sua solitudine imposta, a ben osservarlo sembra essere diventata una sua caratteristica comune. Gli occhi di questo Papa parlano, almeno a me fanno pensare quanto il destino sia crudele con chi ce la mette tutta per riuscire a reinventare una società credente, una collettività pronta a fare i conti con gli errori passati e con le nuove idealità che non necessitano di ulteriori ritardi.           

Me lo ricordo bene quell’incredibile “Buonasera a tutti”, quegli occhi belli, quelle mani ferme nel saluto a ognuno e ciascuno. Sì, rammento la rivendicazione del rispetto dei diritti dell’uomo e anche della più piccola forma di dignità umana. Papa Francesco e i suoi sette anni di pontificato, chissà perché mi appaiono secoli e non mesi né giorni, spesso lo osservo avanzare e indietreggiare, appoggiato alle sue parole importanti perché ne conosce a fondo il significato. Sta eretto e piegato dalla fatica sotto il peso delle responsabilità per raggiungere finalmente un cambiamento epocale, attraverso una progettualità ri-educativa non semplicemente facendo riferimento ai soliti altri, ai soliti ignoti che poi così sconosciuti non sono mai, ma da dentro la sua cameretta, la sua cucinetta, a partire dalle rumorose quiete stanze dei palazzi che sempre più spesso somigliano a sepolcri imbiancati. C’è la tanta fatica di mettere un piede avanti all’altro, un passo dopo l’altro, per scrollarsi di dosso i carichi inutili, i pesi superflui, la zavorra delle medagliette appuntate sul petto.   

C’è fatica per davvero dis-umana nel tentare di costruire insieme ai credenti e non,  una strada nuova da intraprendere per ridurre al minimo il rischio di cadute all’indietro. Questo Papa è così simile al mio santo povero ma Francesco, lo è di primo acchito per il naturale fastidio del potere che non è servizio, lo è perché entrambi hanno conosciuto la lama dei coltelli dell’ingiustizia, degli innocenti che pagano sempre per i colpevoli, desaparecidos e crociate, riscatto e pietà del perdono. Caro Papa Francesco la tua stanchezza non è certamente paragonabile alla mia, ben altri sono i tuoi macigni da portare e spostare, ma ogni volta che incontro il tuo sguardo comprendo la tua lotta per una Chiesa di vita e non più di sopravvivenza, credendo nella possibilità di abitare una realtà senza più l’abitudine a soffocarne emozioni e amore per le grandi innovazioni dell’uomo.