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Un drammatico scempio

Un drammatico scempio

di Vincenzo Andraous

Da quanto questo drammatico scempio sia insopportabile per esorcizzarlo lo stiamo banalizzando a tal punto da farlo scemare in una sequela di eventi critici di serie b, infattichi ha davvero a cuore la dignità dei detenuti?Di giustizia stiamo parlando, siamo arrivati a 73 morti ammazzati in carcere, persone a cui non è stato concesso di scontare la propria pena con dignità e nel rispetto dei diritti e dei doveri tanto decantatati ma ipocritamente messi da parte. 73 garrotati dall’indifferenza, 73 appesi alla corda, oppure asfissiati, fin’anche bruciati. Insieme ad altri morti ammazzati per niente detenuti, per niente contenuti, per niente imputati, altri uomini appartenenti alla Polizia Penitenziaria, arresi alla sofferenza e alla solitudine imposta, in ogni caso tutti morti ammazzati. Lo slogan in uso è che questa ecatombe certifica il fallimento del sistema penitenziario, direi di più, un vero e proprio epitaffio. Ognuno a indicare i salva vita occorrenti, gli interventi urgenti per vincere il sovraffollamento, per riorganizzare l’organico, per dare conto dell’assenza di una sanità psichiatrica davvero mortificata, e tanto altro ancora. In questo compendio di rivendicazioni, di richieste, di accuse incrociate, non c’è mai presente al tavolo degli smemorati il soggetto e complemento oggetto, l’uomo e la sua umanità, l’uomo e la sua professionalità, l’uomo e la pena giusta da scontare, gli uomini della condanna dalle persone della pena. Si ovvia a questo silenzio assordante, con qualche altro pagliericcio buttato per terra, con una girata di chiave in aggiunta, con qualche altro rivoltoso da dare in pasto all’opinione pubblica. In questa sequenza di suicididavvero scomposti, l’esposizione in bella mostra di qualche fiore all’occhiello non reggepiù la malparata, si disquisisce sulla possibilità di reinventare spazi e personale qualificato per la prevenzione del rischio suicidario e per porre termine alla inumanità imperante in spazi così ristretti e impossibili. Dove però le persone detenute sono obbligate a sopravvivere 22-23 ore al giorno. Scrivere di questa ingiustizia della giustizia anche in un carcere, significa dare senso e contenuto al rispetto delle regole del vivere sociale, perché il carcere è società, legalità sottende fare leva sulla cultura dei valori civili, sottolineando che pagare il proprio debito con la collettività, ci consapevolizza dentro e fuori del carcere a tutelare valori quali la dignità, la libertà, il rispetto per se stessi e per gli altri.

Adolescenti tra inadeguatezza e devianza

Adolescenti tra inadeguatezza e devianza

 di Vincenzo Andraous

Sarà il caldo, forse la noia, peggio, l’inquietudine che scaturisce dal sentirsi inadeguati, ma con frequenza certosina si succedono fatti e accadimenti che non sono parenti stretti di qualche spaccone di periferia in cerca di notorietà, di qualche bullo di città privato durante l’estate della sua jungla prediletta la scuola. Ci sono le parole che offendono e scavano a fondo, le botte date con le nocche infrante, le lame che appaiono d’improvviso e feriscono a morte. Giovanissimi che non sono delinquenti, ma lo stanno per diventare, giovanissimi che non sanno decodificare un messaggio strampalato, giovanissimi prigionieri di una messaggistica istantanea che non fa sconti a nessuno. Stavo parlando in centro con un ragazzino, perché di ragazzino si trattava, ogni volta che gli dicevo perché quella canna che ti rincoglionisce, perché per te è meglio abbattere cheaccogliere, perché lo strumento della violenza ti fa pensare che puoi risolvere ogni cosa, mentre invece te lo assicuro, traccia la linea di una discesa all’inferno senza tappe intermedie. Una scrollata di spalle licenziava il fastidio di una risposta, di una spiegazione, il suo sguardo era già oltre ogni possibile uso del condizionale. E’ chiaro che tentare di dare chiarimenti a metà  non fa altro che tinteggiare di irrequietezza una analisi incompiuta, ci rendono la vita difficile le percezioni più delle realtà con cui fare i conti, invece dovremmo dare più importanza al valore della famiglia, della scuola, della possibilità di incontrare il valore della relazione, senza cui la stessa vita diventa una sopravvivenza priva di incontri emozionanti, deprivata soprattutto dell’esistenza dell’altro. No, non tutti gli adolescenti sono guerrieri in erba, la maggioranza dei giovani non è violenta nè irresponsabile, ma allo stesso tempo è necessario mettersi a mezzo, di traverso a quegli altri ragazzi che liquidano il problema dell’impegno e del rispetto per se stessi e per gli altri con una scrollala di spalle,così facendo eludono la realtà fatta di regole e codici normativi, affidandosi a quel mondo virtuale privo di esempi che non retrocedono davanti alla violenza più insostenibile. Infatti il rispetto lo si apprende solo e unicamente attraverso l’esempio di chi autorevole lo è non sulla carta ma sulla fatica della presenza e dell’accompagnamento. In quel ragazzino spavaldo e un pò guascone c’è tutta la necessarietà di  non lasciare scappare la speranza di trovare soluzioni prima che la violenza si concretizzi nel suo dramma e abbia il sopravvento. Ogni volta che la devianza minorile si manifesta nelle sue diverse forme, come il bullismo, la delinquenza, l’uso e abuso di sostanze, la violenza come comportamento antisociale, tutto ciò può deteriorare profondamente quel senso di inadeguatezza di cui parlavo all’inizio, procurando vere e proprie tragedie a se stessi, ai propri cari, all’altro a un palmo dal tuo naso, alle vittime innocenti, all’intera società.

La riparazione come via rieducativa

La riparazione come via rieducativa

di Vincenzo Andraous

Decreto carceri, bello che fatto, lanciato oltre le linee, nel bel mezzo della contesa, ma non delle leggi giuste che fanno del bene, bensì addosso a chi già è morto penzoloni in qualche letto  a castello arrugginito, a chi domani o dopo morirà un’altra volta ancora, in barba alle leggi appunto, quelle leggi varate per fare giustizia dell’ingiustizia. Perché questo decreto carceri? Le sintomatologie che ne hanno richiesto l’urgenza sono differenti, da una parte i morti ammazzati a raffica che non suscitano vergogna, neppure casi di ansia in chi nasconde la verità sotto la bandiera sdrucita della pena certa, quando morire in questo modo è sicuro ben di più della pena certa, quella che comunque dovrebbe consistere in un inizio e in una fine, quindi di certo allo stato attuale c’è soltanto l’uso improprio delle parole o meglio delle ideologie inconcludenti in questi tempi di poca umana compassione. Più la galera assume i connotati di una bolgia indegna di un paese civile, più sorgono anfratti politico gestionali causati dall’intorpidimento ad affrontare con cognizione di causa le sfide quotidiane di quella pena si da scontare ma nella umanità  e rispetto della dignità di tutte le persone, anche quelle ristrette che intendono scontare la propria pena nel tentativo di riparare al male fatto. I decreti si varano inarcando le sopracciglia per poi  richiedere ulteriori sedute all’insegna  di una riflessione che possa correggere gli interrogativi rimasti a metà del guado. Nel frattempo si muore, ci si ferisce, si protesta, ci si rivolta, innocenti e colpevoli si scambiano di posto tra lividi e disperazione, dimenticando che chi è disperato è colui che non ha più sentore della più remota speranza. Il carcere è ormai ridotto a un lazzaretto disidratato, sappiamo fin troppo bene che non può esserci salute senza salute mentale e non è più accettabile che nelle diverse situazioni di bisogno occorra ogni volta ricorrere alla protesta, alla violenza, a pagare prezzi inusitati per diritti palesemente negati, una gravissima e persistente violazione dell’articolo 32 della nostra Costituzione.Dell’articolo 27 della stessa carta magna mi sembra davvero una bestemmia a questo punto continuare a parlarne.

Chi sbaglia paga dovrebbe valere per tutti

Chi sbaglia paga dovrebbe valere per tutti

di Vincenzo Andraous

In questi giorni di calma apparente, stranamente non siamo stati assaliti da un morto ammazzato a seguire l’altro dentro la cella di uno dei tanti carceri italiani.

Ma ecco immediata la smentita, non c’è tempo sufficiente per leggere e ascoltare la comunicazione e l’informazione che avvolge il penitenziario del nostro paese, che nuovamente fanno irruzione le campane a morto, siamo arrivati a 61 evasioni impossibili, 61 persone fuggite con le gambe in avanti, 61 numeri, cose, oggetti, lasciati indietro come detriti da discarica.

Mentre questa ecatombe inonda lo spazio più ristretto di una galera, qualcuno si permette pure di fare satira, di affermare che non esiste sovraffollamento, le metrature sono sufficienti, tanto meno c’è tutta questa disperazione, neppure c’è penuria di speranza.

Anzi manca la pena certa, come a dire che quelle 61 assenze giustiziate dalla sofferenza imposta e dalla indifferenza elargita a piene mani, non fossero sufficienti a richiedere rispetto della dignità delle persone, anche di quelle che sono detenute e vorrebbero scontare la propria pena senza quella sordità ottusa dettata dalla violenza, l’illegalità, l’ingiustizia.

Scorrendo le righe di questo e di quello, di quanti scansano le responsabilità, le modalità di interpretazione del proprio ruolo umano e professionale, e soprattutto avendo un po’ di memoria, per ciò che le parole con i loro contenuti, stanno lì, come fusti di quercia corrosi, ma stanno lì, a destare le coscienze.

Fiumi di parole per disegnare tre minori che fuggono da un minorile, senza colpo ferire, senza rompere niente, senza toccare nulla, scavalcano il muro di cinta e se ne vanno.

Altre parole per alimentare pericolo, preoccupazione, insicurezza, perché un detenuto è salito sul tetto è sbraita, urla, minaccia, non c’è uso appropriato delle parole, degli aggettivi, la protesta perché di protesta si tratta, è cancellata, tutti a parlare di rivolta, di grande allarme.

Un detenuto  tutto rannicchiato su stesso, occhi bassi, braccia incrociate, se ne sta lì da solo, come a raccontare il proprio disagio psicologico, non intende rientrare in cella, silenziosamente protesta, ingabbiato ulteriormente dall’ansia, dagli attacchi di panico, disturbi somatoformi e depressivi, in carcere sono tanti i detenuti che soffrono di disturbi psicologici, borderline, un bacino di utenza sempre più allargato da doppia diagnosi, dove il problema primario non è il reato commesso, ma una vera e propria patologia mentale.

Eppure quel che viene raccontato dista anni luce dalla verità, dai fatti, dalle circostanze, da ciò che questi morti ammazzati ci raccontano senza se e senza ma, eppure persino da queste morti disperate c’è il tentativo di buttarla in vacca, di accusare pure Cristo perché è risorto, quindi sarebbe stato necessario chiuderlo meglio quel sepolcro, come in questo presente di ulteriori richieste a chiudere i blindati, piuttosto che lasciarli aperti per responsabilizzare e accompagnare.

C’è una lotta serrata per individuare le cause organiche, i fattori psicologici, il rifugio sicuro tra i sistemi complessi, invece nulla o quasi di investimenti e intuizioni adatte ad affrontare le sfide quotidiane, quelle vere, quelle face to face, quelle dei suicidati, rannicchiati nell’angolo più buio dove non è dato vedere, affinché la vergogna sia lasciata fuori dall’ultimo grande portone blindato.

Gli addetti ai lavori ci dicono che le carceri sono delle vere e proprie polveriere, forse sono più semplicemente dei sepolcri imbiancati.

Non si fanno prigionieri

Non si fanno prigionieri

di Vincenzo Andraous

Ogni volta che sento fatti eclatanti in cui sono convolti i più giovani, gli adolescenti imbizzarriti protagonisti di tragedie incomprensibili, dentro una violenza omicidiaria che non risparmia alcuno, disconoscendo perfino l’ultima volontà di un perdono, perché la vita è intesa come un’apnea asfissiante che azzera ogni eventuale e fastidioso senso di colpa. 

Mi ritorna alla mente il sottotitolo di un mio libro: nella società io vinco, tu perdi, non si fanno prigionieri. 

Un’esagerazione? 

Ho l’impressione che per sopperire a una inadeguatezza profonda con il proprio intorno, con il prossimo e le sue prossimità, con la relazione che rimane una parola svuotata di senso e di significato, dunque assente  la consapevolezza che l’altro c’è, l’altro esiste, l’altro è lì, a un palmo dal naso dove non vediamo, dove soprattutto non intendiamo proprio vedere.  

Per cui non è percepito neppure lontanamente il rischio che la vita possa diventare una linea mediana banale e sonnolenta, una quotidianità interamente sottomessa alla sopravvivenza, cancellandone di fatto la straordinaria bellezza. Minori con la molletta in tasca, la lama indossata come un’identità e una residenza volutamenteprecaria.

Lo strumento della violenza che cambia le carte in gioco, la botta e il calcio alla testa dove altrimenti c’è la vergogna con cui fare i conti.

Non c’è più la giustificazione o l’attenuante prevalente all’aggravante di un’esistenza periferica, ai fianchi della povertà, sopra il giorno che non sai se domani arriverà. 

Ciò che nel presente insorgenon è la soglia di sopravvivenza, ma il traguardo economico raggiunto, a discapito di una tavola di valori consapevolmente condivisi. In branco, in solitudine, in tandem, l’apparenza la fa franca sulla pochezza di spirito, sull’ansia, gli attacchi di panico, i disturbi depressivi. 

L’autostima svenduta per la roba assunta e la sua cessione, sono il propellente che infiamma la realtà emergenziale che stiamo vivendo. 

Qualcuno pensa che innalzando le pene è possibile risolvere questa follia, per esperienza dico che non è così.

Non si tratta di tragedie dettate dalla rabbia e dall’ira, ma di atteggiamenti e comportamenti imparati sulla strada delle disattenzioni, della non cura, delle parole scagliate come pietre. La partita della prevenzione preziosa sta su quella strada antica come il tempo, dove stanno in attesa i coltelli, le pistole, le sofferenze delle vittime, anche di chi illusoriamente è convinto di una impunità che invece non ci sarà.

Ecatombe

Ecatombe dove mancano pure le tombe

di Vincenzo Andraous

Ci risiamo un’altra volta, due morti ammazzati in sequenza irraccontabile, uno dietro l’altro senza nessuna pietà, peggio, senza alcuna compassione, soltanto abbondanza di indifferenza. 

Mese di giugno e siamo già a 36 evasioni del tutto prevedibili, evasioni con i piedi in avanti in bella mostra, suicidi annunciati giorno dopo giorno, percentuali di vite al macero che divengono dati esponenziali, eppure hanno il valore di seconda mano delle cose, degli oggetti, dei numeri spogliati di sostanza e di significato. 

Il carcere, l’Istituzione, ultima diga eretta a salvaguardia della collettività, il reato entra con la persona, sappiamo perfino il colore delle  mutande che porta quel recluso, siamo inondati dalle informazioni, dalla comunicazione, attraverso lamessaggistica istantanea, i social, la rete, ma mai, mai, mai una sola volta, che ci venga fatto sapere, che ci venga detto, senza l’uso smodato dell’ipocrisia e non poca omertà d’accatto, non tanto chi esce da una galera, ma “cosa” ritorna in seno al consorzio civile.

Altre due vite tranciate dalla disperazione, ben sapendo l’Istituzione penitenziaria: chi è disperato è colui che non ha più la parvenza di una speranza.

Un uomo strozzato in gola, una donna per giunta la seconda nell’identico Istituto, lasciata lì scomposta e silenziata.

Miriadi di sguardi scandalizzati, di oratorie dispiaciute, da destra e sinistra, passando per il centro, ognuno e ciascuno a puntare il dito, a sgomitare l’altro, a fare delle parole mura ancora più alte di quelle di una prigione. 

Mentre la politica subisce le scosse telluriche degli slanci e dei rinculi, dei proclami che sbrigativamente rimuovono la vergogna urticante, ma non risolvono le responsabilità per avere ridotto il carcere a questa lucida follia. 

Tra i detriti ecco avanzare le attenuanti, le giustificazioni, le autoassoluzioni.

Tutto ciò accade perché la sanità penitenziaria è allo stremo, eppure da molti anni e da molte centinaia di morti ammazzati, è risaputo che c’è un bacino assai corposo di detenuti in preda a una vera e propria doppia diagnosi, detenuti giovani con serie patologieborderline. 

Mancanza di personale qualcuno s’affretta a gridare, mentre qualcun altro sollecita invece un ripensamento culturale che coinvolga l’intero arco costituzionale, la piramide dirigenziale, perchè non è più accettabile sopravvivere tra violenze, ingiustizie e illegalità.

Ciò che colpisce maggiormente in questa reiterata e irresponsabile partita allo scarica barile, non è soltanto la persona, quella “cosa” che si stringe il cappio al collo, di per se evento drammatico, ma il constatare che il vero protagonista, il più feroce a dettare legge nell’intero pianeta carcerario è l’indifferenza.

La guerra della pace

La guerra della pace

 di Vincenzo Andraous

Non c’è un giorno, una notte e un nuovo giorno in cui guerre camuffate di una qualche giustezza fanno stragi di bambini depredati di ogni sorriso, in terre divise e derubate dei propri confini, tra gli inni alla pace gridati a tempo di musica, e richieste di giustizia licenziate con qualche parola travestita di compassione. 

Africa, Medioriente, Europa, in fiamme, tra le macerie, tante persone in marcia per la pace, altrettante in guerra per difenderla, altre circondate e maltrattate, per distribuire fintamente- equamente il residuo di giustizia. 

Specialisti in relazioni spediti qui e là, equazioni e sottrazioni della comunicazione a supporto delle percentuali e delle statistiche, tutte ben contenute nella negazione del dato esponenziale, che accerta l’odio e la vendetta covare sotto il primo strato di pelle, che non si vede, ma si muove sotto carico, pronto a esplodere a ogni nuovo giorno. 

Scacchieri e pedine si muovono lentamente intorno a paesi dimenticati, città violentate, popolazioni morenti e abbandonate in frontiere frantumate. Il Far West non è poi così lontano, moltiplicato per mille, nelle sue nefandezze inenarrabili. Neppure l’immaginario collettivo riesce a delinearne i contorni, la proporzione di quelle macchie, sagome indistinte, ma in continuo spostamento, il tremore della terra, al suo avanzare e ritrarsi. 

Guerre per la pace il nuovo inno, il nuovo e vetusto verbo. Improvvisi i colpi sordi, come i cannoni di ultima generazione, botti ripetuti, alle spalle, tra le scapole, in mezzo agli occhi, a liquidarne lo zoccolo, quello più duro, fino a estinguerne lo sguardo in alto, la fierezza ridotta a souvenir di tanti uomini stanchi delle catene e dalla costrizione a un silenzio disperante. 

Le nazioni ridotte a periferie di oggi, un ricordo sbiadito delle democrazie di domani, schiacciate dalle tante parole che sono state dette, dalle recinzioni che sono sopravvenute, costruite a misura per non ascoltare. 

A ben pensarci, delle libertà di ieri, ne rimangono pochi limpidi esemplari, ma ci sono ancora, per non farci cadere all’indietro, nel vuoto della memoria. 

Pochi esempi in bella vista nella prateria dimenticata, a sfidare i fucili, i tanti cuori pavidi, i governi dell’insignificanza sociale, dei poteri esposti controvento, per meglio difendere la propria inadeguatezza. 

Da questa maledetta solitudine del sangue dovremmo imparare la necessità di una libertà che appartenga a tutti, indipendentemente dalla religione e dal portafoglio che ognuno professa.

Il silenzio colpevole

Il silenzio colpevole

di Vincenzo Andraous

Il carcere non è quello addomesticato nella solita grande balla: extrema ratio delle intenzioniistituzionali. 

Un carcere ridotto alla miserabilità più disumana, con un bacino di utenza esponenziale da doppia diagnosi, un carcere medico sprovvisto di lauree per intervenire sui sintomi, sulle malattie, le terapie da apportare, affinché sordi, muti e ciechi non abbiano a continuare a calpestare i diritti altrui, riservando poca attenzione-volontà per la prevenzione-ricostruzione individuale. 

Risultato diseducativo che non ha nulla a che vedere con la sempre più infortunata rieducazione che consiste in una torsione innaturale che ammutolisce le coscienze, anche quelle più recalcitranti intellettualmente. 

Sicurezza, rieducazione, riparazione, appaiono sempre meno come il collante che può tenere insieme una società e farla crescere, politica e stili di vita si travestono di ideologie d’accatto, gli obiettivi a tutela delle persone divengono esigenze contrapposte, una didattica inversa a una pedagogia in costante affanno, come se ognuna di queste facce della stessa medaglia  fossero improvvisamente vissute come aut aut al fare sicurezza: mettere in salvo il benessere delle persone, la ricomposizione della frattura sociale, da attuare attraverso pratiche, funzioni, trattamenti che rimandano a una giustizia che rispetta la dignità delle persone, di quanti sono detenuti e stanno scontando la propria condanna, e intendono  ritornare parte attiva del consorzio sociale, non certamente come soggetti antagonisti, perché ancora più delinquenti di quando sono entrati. 

Mistificazioni, bugie, interessi di casata, fannointendere la prigione come un albero senza radici, una città senza storia, un luogo di castigo sommerso indicibile, una sopravvivenza-negazione di una reale possibilità di riscatto da parte di chi paga il proprio debito alla  collettività. 

Gli attori di questa grande tragedia carceraria, si affannano nelle autoassoluzioni, come se 70-80 evasioni a gambe in avanti all’anno, suicidi che l’informazione disegna con le corde strette al collo, le apnee asfissianti, non fossero un atto costringente della disperazione in una insubordinazione alla sopravvivenza non più procrastinabile. Invece di un obbligante  mea culpa per tentare davvero di cambiare lo status quo per lo più miserabile, ma non per questo meno pericoloso.

Continuo a pensare che quanto sta accadendo negli istituti penitenziari non è frutto di una non meglio identificata disattenzione, bensì qualcosa di studiato a tavolino, in scienza e poca contusa coscienza, fino al punto di percepire un luogo deputato a scontare la pena per le persone che hanno commesso il reato, in un luogo e una dimensione irraccontabili, dove sappiamo che sono accatastati numeri, cose e oggetti,  una sorta di barriera materiale e psicologica che annulla il dovere e il diritto di ogni cittadino di domandarci chi entra mai “cosa” esce.

Baby gang e imbizzarriti

Baby gang e imbizzarriti

di Vincenzo Andraous

A frequentare gli spazi della follia più lucida c’è la possibilità di fare i conti per intero con il disagio dilagante nel nostro paese, con quanto piega ed a volte spezza il futuro dei più giovani, vittime e colpevoli compresi, a tal punto da rendere quasi disumano lo sforzo per raggiungere la più dovuta delle speranze, una vita equilibrata e decorosa, purtroppo ripetutamente svenduta al delirio di onnipotenza, al delirio di commiserazione quando i dazi da pagare si presentano senza più attenuanti.

Accadimenti tragici, miserabili, vergognosi aggrediscono il consorzio vivile, il quale reagisce con i soliti slogans, cartellonistiche d’accatto, severità elargite con le mani bucate. Il gruppo di quelli che camminano con le mani in tasca e le gambe larghe,passa al setaccio le periferie, le città, le strade del gioco e del divertimento, il plotone marcia con la baionetta innestata, con le divise da veterani di una guerra che non è mai stata loro, nè mai lo sarà, nel frattempo però violenza, ingiustizia e illegalità marcano il territorio all’intorno, ne fanno un recinto dove tutto può esser condiviso, anche la nefandezza più irraccontabile.

Soltanto dopo che la ragazzina di turno viene strappata all’amore e colpita ripetutamente senza alcuna pietà, ci accorgiamo che nostro figlio, ieri, l’altro ieri, stanotte, neppure ha fatto rientro a casa.

Baby gang nostrane e stranieri imbizzarriti senza accompagnamento si radunano, si riconoscono, si irreggimentano in linea di tiro, obiettivi ragazzine indifese, giovani etichettati a sfigati, anziani sbattuti all’angolo, dove il rischio appare poco più di niente.

Si insulta, si umilia, si ferisce, a volte si ammazza senza un sussulto di compassione. E’ divenuto tutto o quasi un rimasuglio che s’allarga di una infanzia spesso negata, di un degrado famigliare, oppure di una tavola dei valori costretta in gabbia dalla smemoratezza, relegata in seconda battuta, dall’unico benessere economico disperatamente agognato.

In questa messaggistica istantanea di sfida e scommessa alla propria disumanità, c’è la perdita a cui si è destinati, non è facile davvero comprendere il disagio che buca ogni logica, siamo in balia di una comunicazione malatache ci è data in eredità, tra ciò che è vero e ciò che è falso, nel frattempo i più giovani arrancano, qualche volta ci sfiorano, ma non ci chiamano, non si fidano di noi, della relazione che riconosce l’altro se ne fregano, optando per il fai da te e fai per tre, mentre noi adulti ci accomodiamo a debita distanza.

Eppure sappiamo benissimo che il rispetto per se stessi e per gli altri non lo impari smanettando sulla playstation e sullo smartphone, lo apprendi solo e unicamente dall’esempio autorevole di quanti non hanno paura di sporcarsi le mani.

La violenza

La violenza

di Vincenzo Andraous

Ormai è un fatto scontato associare la violenza degli adolescenti con la maschera esibita dal rapper di turno.

Giovanissimi e minori spaccano teste e cose all’intorno, mentre qualcuno non meglio identificato disegna formulette sociologiche per attestare una italietta oppressa dal disagio più o meno esistenziale di cittadini fortemente esclusi e degli altri inclusi al punto da mettere in discussione il futuro perché del presente non rimane poi molto da indagare.

Gli adolescenti cercano guai e filo spinato, gli adulti fanno finta di non capire, non sentire per tempo il grido o il lamento, mondo genitoriale e professorale sembrano non accorgersi del rifiuto che proviene dai nostri figli, né intendono prendere atto della perdita a cui si è destinati.

Bulli di cartapesta, babygang in balia di una libertà prostituta, mafie e criminalità surclassate da femminicidi e violenza minorile, non è facile davvero comprendere il disagio che buca ogni logica, siamo tartassati da un riduzionismo irresponsabile, diventiamo soggetti passivi, oppressi dal conflitto quotidiano proveniente dalla comunicazione che ci è data in eredità, tra ciò che è vero e ciò che è falso, nel frattempo i più giovani sbandano, qualche volta ci sfiorano, ma non ci chiamano, noi rimaniamo prigionieri di una incredibilità, che invece è la realtà della logica dei conti, dunque la meno accettabile.

Droga, alcol, violenza, un fenomeno che non è più sottotraccia, né può restare un prurito sottopelle, occorre farci i conti con questo mostro multidimensionale che opera senza sosta per depredare le nostre vulnerabilità, e ci impedisce di crescere, pensare, agire, ci obbliga a stare supini nelle nostre codardie socialmente inutili.

Ciò che ci viene incontro da una società sopita e indifferente, è uno stile di vita che non ha in dote il cambiamento, ma le tragedie che derivano da una umanità appena nata è già scossa alle fondamenta. Violenza che traduce la propria infantilità in una pratica di vita quotidiana, dove la capacità a gestire i conflitti, quelli personali e sociali, scivola sempre più nell’incapacità a onorare il valore di ogni persona.

Violenza che si insinua soprattutto nei più giovani, alcuni rimangono affascinati, altri intontiti, la maggioranza resta interdetta, incapace di alzare la mano, richiamare attenzione, fare e dare giustizia, a chi alla giustizia non ha più capacità di affidare amore per il bene che è collettivo.

Come ha ben detto qualcuno i cambiamenti sociali richiedono tempi più lunghi dei cambiamenti del diritto, ma quel cambiamento tanto auspicato e sospinto avanti dalle varie e ripetute sfide educative appare sempre più un refuso che un nuovo inizio.

Natale

Natale

di Vincenzo Andraous

Natale è Natale, ci risiamo, le parole cadono una dietro l’altra, fanno incetta di stupefazione, di sguardi estasiati.

Le parole arrampicano, s’alzano al cielo, l’illusione di un attimo, ridiscendono come rese.

Le parole fanno corollario, circondario, confine, frontiera, stanno al palo, attendono il segnale.

Il tempo rifugio comodo e convenzionale, scarta di lato, rimanendo mai fermo al centro della strada.

Il tempo è compagno leale della parola, della sostanza, della realtà di ogni giorno, il tempo accompagna, insegna, educa, soprattutto, non bara né trucca la consegna di ritorno che avverrà.

Natale non è mai simile al precedente, è come il prima, il durante e il dopo di ognuno, che appartiene per diritto e per dovere a ciascuno, che avverrà perché costituisce costitutivamente i ponti delle prossimità, per quanto infine gli occhi vedranno e il cuore sentirà, cogliendo il bene, là, dove la condivisione non potrà mai vestire gli abiti della sottomissione.

In questa storia di umiliazioni e di fughe all’indietro, di uomini in croce e popoli oppressi, di terre martoriate e acque avvelenate, Natale non arretra, ci costringe a non arretrare, il tempo d’Avvento non soccombe alle parole, trasforma il male ed i silenzi protratti, Natale è risveglio e coraggio di chi è ferito, Natale è speranza, non soltanto di preghiera di qualcuno, Natale è davvero perdono e giustizia alla vergogna e alla paura, perdono e giustizia affinché nessuno rimanga a guardare.

Parole appuntite come coltelli

Parole appuntite come coltelli

di Vincenzo Andraous

Bambine, madri, sorelle, uccise una dopo l’altra, senza rintocchi di campane, soltanto rumore di scartoffie dove annotare l’ennesimo abuso e sopruso.

Mentre tutto ciò ha il sopravvento sui significati delle parole, sui polsi delle vene che si torcono, assistiamo alla violenza messa in atto in altre periferie esistenziali, nelle classi, nelle scuole. Un adolescente sbatte a terra con un cazzotto a tutto braccio il suo professore, reo di avergli ricordato il valore del rispetto, dell’educazione, la cura della propria dignità.

Un altro giovane si spintona con il proprio compagno di istituto e senza la benchè minima incertezza estrae dalla tasca la molletta e sferra il fendente tra capo e collo.

Il perdente stramazza a terra, è in fin di vita, esempio feroce tra chi vince e chi perde non si fanno prigionieri.

Gli adolescenti scoprono lo strumento della violenza, del colpo secco a ferire, il fascino dell’adrenalina, della prevaricazione, del sopruso, del rimanere avanti e mai indietro, costi quel che costi.

Piani di guerra, strategie conflittuali, accerchiamento della ragione, come se tutto questo sferragliare di ingiustizia e illegalità, fosse il risultato di uno slang imparato per bene e non per caso, appreso dove non ci sono i banchi di scuola, ma tavole apparecchiate con ogni ben di Dio, quel Dio che viene da pensare sia morto da troppo tempo oramai.

Le analisi che si susseguono sulla carta stampata, in TV, tra un dibattito e l’altro, sono relative all’autoeducazione necessaria agli uomini per non aggredire le donne, giustamente, ma forse sarebbe il caso di indire un corso di aggiornamento a tappe forzate per quel che resta della famiglia, anche per quella che si ritiene d.o.c. dunque al di sopra di ogni inconsapevole inadeguatezza, quella che sbriga la pratica del bullo come una ragazzata, una condotta che esiste dalla notte dei tempi, uno stile di vita impregnato dai falsi miti, dai modi violenti che affascinano e scavano fosse a misura.

L’incapacità di accettare la frustrazione ci dicono i tanti esperti sta alla base del non rispetto dell’altro e delle regole, ma questo epitaffio non riguarda soltanto gli uomini adulti dal possesso facile incontrollato, bensì pure gli adolescenti lasciati a briglia sciolta, bravi ragazzi un po’ imbizzarritiquando incontrano improvvisamente un ostacolo, un impedimento alla propria volontà, a ben pensarci proprio come accade ai tanti genitori che non sanno accettare il dolore di una separazione, perché anche la storia più bella può vacillare e finire.

Giulia e le altre


Giulia e le altre

di Vincenzo Andraous

Era un bravo ragazzo. Era una brava ragazza, lei vittima innocente costretta al macero, due famiglie devastate dal dolore, lui in attesa di camminare in ginocchio per il resto della propria vita.

Una bambina dolcissima e un ragazzotto innamorato, sembrava tutto al suo posto, una storia d’amore che come tante altre era giunta al capolinea.

Niente di che preoccuparsi insomma.

Ma la tragedia incombe in mezzo a qualche interrogativo, a qualcosa che assomiglia a un moltiplicarsi di eppure qualcosa era fuori quadro, eppure forse era un rapporto sbagliato, morboso, di possesso e non di condivisione.

Eppure in amore la condivisione annulla ogni assedio e asfissia, anche se tra i giovani il linguaggio e la postura sono diversi, niente di che preoccuparsi.

Ora c’è voglia di repressione, di galera, di altro sangue, come se aumentare il tetto delle pene, farebbe diminuire la violenza di ogni femminicidio, la violenza di ogni delirio di possesso, la violenza di una commiserazione che diventa cecità del cuore nel freddo di una lama.

Degli adolescenti sappiamo tutto, c’è sapienza e conoscenza a piene mani, sui giovani sappiamo tutto e di più, dei loro periodi di grandi cambiamenti, degli estremi che allenano il bicipite, adrenalina e imbizzarrimento, calma piatta e l’amore che diventa l’unico punto di riferimento, l’unico esempio per non avere più timore di mollare gli ormeggi, allo stesso tempo di rimanere incollati saldamente all’isola conquistata non importa come e a scapito di chi.

Ora c’è il dito puntato sulla famiglia, sulla genitorialità, che non s’è accorta di niente, non ha percepito il disagio di lei e neppure quello di lui, inputato alla sbarra c’è il mondo adulto, quello deputato a insegnare e fare apprendere i valori della vita.

In questo modo di rappresentare il buco nero profondo di queste assenze c’è il cane che si morde la coda, infatti è l’adulto, colui che traina e attrae l’adolescente, che un giorno si e l’altro pure spegne vite umane soprattutto al femminile, che sottomette, prevarica, con un atteggiamento non sempre finalizzato dalle percosse, ma impedendo alla relazione quella vera e significativa che mette al centro l’altro, perché l’altro c’è, esiste, al punto di essere traccia e orma per un amore che è un dono da custodire con cura e attenzione.

Ho l’impressione che arrivati a questo punto le chiacchiere stanno a zero, d’accordo sulla sfida educativa che riguarda i giovani, d’accordo sulla sfida rieducativa che chiama a raccolta il mondo adulto, genitoriale, professorale, d’accordo sulle reiterate parole d’ordine “cultura, educazione all’affettività, educazione sentimentale, gestione delle emozioni”, d’accordo su tutto o quasi, ma occorre smetterla di passare il testimone alla scuola per sottolineare l’inadeguatezza della famiglia.

Addirittura rimarcando le classifiche, le percentuali, i dati esponenziali che non ci indicano come il popolo più prepotente e violento in fatto di donne.

Giulia è stata cancellata, ma l’impressione è che poco ha insegnato, perché nel frattempo altre donne sono state massacrate e lasciate a terra scomposte.

Eppure nel frattempo imperterriti rimarchiamo l’attenuante generica di non essere i peggiori.

La tragedia della vendetta

La tragedia della vendetta

di Vincenzo Andraous

C’è una zona d’ombra dove è quasi impossibile relazionarsi, spiegare bene le cose, dare sostanza alle parole, contenuto alle sofferenze e alle piu’ grandi ingiustizie che stanno devastando l’umanità, o quel che resta della possibilità di vivere e convivere insieme.

Quanto avvenuto in Israele, l’oscenità delle azioni perpetrate da Hamas nei confronti di persone innocenti, di donne, vecchi, soprattutto bambini, non può avere residenza in alcun territorio del cuore, della mente, della pancia di chicchessia.

Non è accettabile la violenza messa in atto, il sangue versato tra tante e troppe grida di giubilo. Terrorismo, sì, è terrorismo, e quando di mezzo ci sono i terroristi, l’unica opzione a portata di mano è la reazione immediata, spropositata, altrettanto ingiusta e inumana, ancorchè portatrice di risoluzioni condivise.

Ho sempre guardato al paese della Stella di David come a un miraggio, un sogno, una speranza che s’avvera, affascinato dalle sue capacità di identificarsi tutti sotto l’egida di quel simbolo.

Dalla cultura e bellezza incommensurabile della sua storia che non è soltanto passato, ma un presente già futuro.

Ma tutto ciò non è sufficiente a confortare la ragione per cancellare gli interrogativi che rimangono e incalzano, sul come è stato possibile giungere a tanta ferocia e risolutezza nell’aggredire senza alcuna pietà gli innocenti.

Indipendentemente dal grido che si alza con dolore, dalla richiesta di giustizia di tante e troppe vittime, mi viene da pensare che la ragione non sta mai tra le mani di chi veste i panni del terrorismo più bieco, di chi non accetta né riconosce l’altro, di chi pensa di poter vivere e invece sopravvive disconoscendo il valore della relazione.

Ma c’è anche da pensare a un altro popolo oppresso da decenni, un altro popolo confinato in terra di nessuno, altrettanto non colpevole e altrettanto non terrorista, un altro popolo di innocenti, composto per la stragrande maggioranza da bambini e adolescenti che non appartengono ad Hamas ma alla Palestina.

Forse relegare nel silenzio anni e anni di soprusi, prevaricazioni, ingiustizie nell’indifferenza creata a misura, non comporta il recinto di uomini, donne, vecchi e bambini obbligati a camminare in ginocchio, forse questa prigione di morte protratta nel tempo genera mostri senza più via di scampo per nessuno, innocenti e colpevoli.

Babygang

Babygang

di Vincenzo Andraous

Ancora agguati, accerchiamenti studiati a tavolino, tre, cinque, dieci contro uno, botte da orbi e insulti da film da strada.

Quel che accade nelle vie del centro di troppe città, assomiglia a una commedia ripetuta all’infinito, soltanto non fa ridere nessuno.

Gruppetti di adolescenti travestiti da veterani di una guerra mai iniziata e tanto meno mai stata loro, innestano la baionetta e prendono di mira il nemico di turno, ogni giorno uno diverso, poco importa se non lo conoscono, bisogna atterrarlo.

Calci, pugni, schiaffi sono timbri evidenti sul passaporto del qui comando io, recinto e residenza ove condividere tutto, anche uno spazio dove niente e nessuno prova compassione, ma certamente neppure odio, solamente i corpitatuati dei colori neri come l’inferno dell’indifferenza.

Oramai il centro città come nella periferia è zona di combattimenti, non è più un discorso legato alla trasgressione vissuta all’ennesima potenza, al bullo ed al gruppo dei pari plaudenti e complici, l’impressione che se ne ricava da questi atteggiamenti di violenza inutile, di prevaricazione e sopruso, è che il limite sia stato superato, il rispetto delle regole azzerato, siamo già dentro dalla testa ai piedi in una situazione di illegalità, ingiustizia, di delinquenza al primo imbocco, di ragazzotti fintamente titolari del bicipite in bella mostra, ma fragili come grissini, sbilanciati pericolosamente dallo strumento della violenza che apparentemente rende famosi per forza, in realtà prepara sofferenza non soltanto alla vittima ma anche a chi si crede il più furbo e impunito, spalancando i giorni a venire in uno spazio ristretto dove non sarà più possibile nascondersi o mentire.

Qualcuno dice che occorre installare più telecamere soprattutto negli angoli dove non è dato vedere, nel tentativo di rispondere alla domanda di maggiore sicurezza urbana.

Forse mi sbaglio ma il problema non è riconducibile soltanto a fattori di microcriminalità dilagante, c’è il rischio che questi accadimenti un giorno sì e l’altro pure, si trasformino in fenomeni di moda, a maggior ragione se veicolati da una comunicazione istantanea il più delle volte portatrice di messaggi virtuali pertanto opposti e contrari alla realtà che ci circonda.

Per concretizzare la prevenzione preziosa quando si ha che fare con adolescenti che disconoscono il valore della libertà, della responsabilità, del rispetto per se stessi e gli altri, dove l’altro è ridotto a essere un numero privo di identificazione, di relazione, di dignità da custodire con cura e attenzione, non è sufficiente la sola reprimenda, il dazio giustamente da pagare, assai meglio da riparare, forse occorrono adulti che trovino il tempo di accogliere e accompagnare i più giovani, per fare questo pezzo di strada insieme è urgente comunicare con loro, persino con chi non intende proprio parlare con te.