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Arriva Natale

Arriva Natale nel ricordo degli uomini mai distanti

di Vincenzo Andraous

Quando si parla o si scrive di una persona che non c’è più, a cui ci si è legati per un lungo tragitto di vita insieme, a dispetto di qualsiasi avversità, c’è sempre il rischio di  incorrere in una idealizzazione, di appiccicare addosso medaglie e nastrini, sommando parole che non confortano il dolore di questa assenza.

Padre PierSandro Vanzan non era solamente un Gesuita senza paura, un giornalista e uno scrittore arguto e instancabile di Civiltà Cattolica, della carta stampata, è stato soprattutto un amico, un fratello, un padre, e un orizzonte a vista per tutti noi della Comunità Casa del Giovane, una “consueta” coscienza critica, a volte aspra e ammonitrice, ma sempre colma di amore, in nome dell’amicizia con don Enzo Boschetti, fondatore di questa grande casa-comunità di servizio-terapeutica.

Per ogni suo amico, indipendentemente dalla fede che si professa, c’è bisogno di ricordare ciò che questo uomo diceva, scriveva, faceva, perché da questa esperienza personale e comunitaria potranno sorgere e rafforzarsi nuove energie cui fare leva, nuove forze interiori per imparare a amare con ardimento: i Santi non sono cartoline illustrate da acquistare nei giorni di festa, ma il respiro di cui non possiamo fare a meno per avere fede e credere a quella Croce dove ora Padre Vanzan sta al suo legno.

Per chi segue il solco di un Vangelo mai ripiegato su se stesso, non è difficile tradurre dalle intenzioni di tante storie tramandate, più che mai attuali, lo stile di vita, i comportamenti quotidiani, e non è irriguardoso accostare Padre Vanzan a un prosieguo della storia più antica e giovane, per continuare ad avvicinare le parole che ci ha lasciato, senza per questo disegnare una verità folgorante che gia c’è, il rischio è più palese e vicino alla terra sotto i nostri piedi, cioè di raccontare e narrare senza sosta la vita di quel legno stretto alle sue mani, facendo ulteriore prossimità con Dio, e non più a quel dubbio che ci serve a nascondere le nostre stanchezze, i nostri limiti, le nostre incapacità ad abbandonarci a ciò che è.

Nei tanti anni che ci hanno visti accanto, ho conosciuto “sottopelle” Padre Vanzan, siamo stati insieme, come lo è stata tutta la Casa del Giovane, fino a diventare la sua grande casa, non era mai un pensiero scontato, non era semplice seguire le sue tracce, le sue orme, perché a volte parevano così profonde da incutere timore, manco fossero di un orso eretto al cielo.

Sono tanti gli episodi che danno l’idea del carico di autorevolezza di questo sacerdote profeta nella santità profetica di chi lo attraversava e accompagnava come don Enzo Boschetti e le sue intuizioni, la sua vista prospettica, il coraggio delle scelte, la generosità della coerenza. Insieme hanno cresciuto un albero della vita importante, la Casa del Giovane, una radice formidabile perché affondata nel loro amore.

C’è un bisogno sincero di onorare persone come queste, di ancorarle al cuore, alla vita spirituale di ognuno, alle fatiche dell’esistenza, per farne esempio da rileggere ogni volta che servirà. Ecco sta arrivando Natale.

Maranza, bulli e quant’altro

Maranza, bulli e quant’altro

 di Vincenzo Andraous

Non c’è giorno in cui una donna non venga offesa, umiliata, uccisa dal prepotente incompetente umano di turno.

 Non passa settimana che un giovanissimo non venga preso di mira a gomitate e finanche a coltellate perché educato, gentile, erroneamente inteso più debole, più fragile, differente nei modi e negli atteggiamenti.

Drappelli sconclusionati di adolescenti imbizzarriti mettono a soqquadro quartieri e periferie, lo fanno con metodo, senza batter ciglio, come se il dolore non fosse un disfacimento, la creazione di un recinto dove tutto può essere condiviso, dunque anche le cose più inaccettabili.

C’è un brusio, un disturbo programmato, che fa dell’ascolto e dell’attenzione a quanto accade nelle nostre case, nelle strade, nelle città, una sorta di persistente assenza di domande lasciate rasenti i muri senza bisogno di risposte, le quali si trasformano in ferite che non si rimarginano.

Ogni volta la panacea sta nell’aumentare il tetto delle condanne, delle pene, nelle grida scomposte che tanto nessuno finisce in carcere per i reati che commette, c’è un continuo moltiplicatore di impunti, di delinquenti qua e là per giunta senza fissa dimora.

Eppure è sotto gli occhi di tutti come invece il carcere sia incancrenito da un sovraffollamento endemico, a dir poco mostruoso.

Una sequela infinita di persone abusate, ferite, terminate a un palmo dal nostro naso, eppure permane la dimenticanza, la smemoratezza, che si è necessaria la severità di una giustizia spesso sempre più spesso poco schierata dalla parte delle vittime, ma proprio per questo c’è urgenza di investire in interventi che sappiano parlare alle coscienze dei più giovani, a coloro che domani avranno il dovere e anche il diritto di mettersi a mezzo, di traverso a una cultura della prepotenza, dell’illegalità, dell’ingiustizia.

Un problema sociale è tale perché coinvolge tutti, nessuno escluso, continuare a parlarne per slogan, per etichette vetuste, serve a poco, se non a creare ulteriore confusione, peggio, assuefazione.

La violenza non ha mai ragione, eppure attraverso di essa c’è la convinzione di poter galleggiare dentro una vita che non invece non c’è.

Una marginalità che accomuna i giovani nella ricerca sconclusionata di un’identità in cui ritrovarsi, riconoscersi.

Forse per arginare le tante e troppe parole d’ordine, bisognerà proporre per davvero alternative credibili, per un giovanissimo che pensa di risolvere ogni cosa con una gomitata, per un adulto che ritiene di possedere l’amore a proprio uso e consumo.

Il silenzio più colpevole

Il silenzio più colpevole

di Vincenzo Andraous

Da tanti anni il carcere minorile del Beccaria sta nell’occhio del ciclone.

Da tanti e troppi anni c’è un silenzio tombale come unica risposta a quanto oggi esplode e implode con tutta la forza di una ingiustizia eretta a sistema.

Oggi se ne parla attraverso testimonianze, video-filmati, indagini a tutto campo divenute ormai inevitabili e certamente più che opportune sebbene in ritardo.

A leggere i giornali,  ascoltare le televisioni, a vedere le immagini di video rubati, le sequenze delle violenze messe in pratica nei riguardi di giovanissimi detenuti, si evince l’assenza del più derelitto moto di vergogna, nella più tumefatta delle coscienze.

Ebbene questo corpo a corpo con una umanità sconfitta, solo apparentemente ci fa tremare le vene dei polsi, perché a ben guardare, pensare, riflettere, sono una riedizione  inaccettabile di accadimenti ripetuti con tanto di residenza dentro cattedrali nel deserto, così ben edificate per meglio rendere silenziati comportamenti e atteggiamenti che nulla hanno a che vedere con le Leggi, gli Ordinamenti, la Costituzione.

Ritornando con la mente agli anni in cui il Beccaria prorompeva nelle cronache nazionali per i ben noti  fatti inerenti la metodologia del detenere e accompagnare attraverso la vituperata parolaccia del ri-educare giovani e giovanissimi,  brandendo gli strumenti mai vetusti della forza e della violenza fine a stessa, con i corposi arresti dei vari operatori conducenti la piccola cittadella, viene da chiedersi in questo presente di nuove e rinnovate indagini, ricerca di riscontri, di messa in accusa di altri operatori e volontari operanti nella struttura; ma quando tutto questo costante scempio accadeva, quando tutto questo dispendio inusitato di  infrazioni a ogni legge statuale riconosciuta, quando i corpi stavano scomposti e segnati dalle percosse, dalle sevizie, dove erano coloro che oggi si scandalizzano, si stracciano le vesti per non aver saputo, visto, letto tra le righe la storia vera e non quella recitata in qualche palcoscenico di periferia.

Autorevoli esperti, saggi, conoscitori del genere umano, soprattutto quello in catene che hanno scelto autonomamente di aiutare in un percorso di rinascita, come hanno potuto non rendersi conto di quanto giornalmente veniva portato a temine con scientificità. Io non sapevo, tu non sapevi, egli non sapeva, in questo spintonamento autoassolutorio, rimane lo sguardo “comprendente” improvvisamente assente nel silenzio più colpevole.

E nonostante questo sfacelo di disumana disumanità, occorre persistere a immaginare un futuro in cui il rispetto della dignità delle persone, anche di quelle ristrette, minori e adulti, uomini e donne che scontano la propria pena, non siano umiliate e costrette a una sofferenza  imposta nell’indifferenza delle istituzioni e della collettività.

Un altro…

Un altro a un palmo dal nostro naso

di Vincenzo Andraous

Un altro ragazzo impiccato alle sbarre dell’indifferenza, un altro, un altro ancora.

L’impressione che se ne ricava da questa inesauribile macelleria silente, è che qualcuno voglia combattere il mostro del sovraffollamento con un suicidio oggi e domani pure. Incredibile?

Quando parliamo del pianeta sconosciuto, della sua esplosiva condizione di violenza e illegalità imposta, a molti viene in mente di indicare la cima di un iceberg, invece a ben pensarci è l’opposto e il suo contrario.

Alla luce c’è proprio la teatralità di un avamposto della legalità costretto a una torsione così innaturale e quindi a una drammaticità che aggrava la ricerca di sicurezza e umanità nel recupero della persona detenuta, perché comunque di persone stiamo parlando.

Proprio oggi il pallottoliere mortifero che traccia le somme a discapito delle detrazioni e naturalmente delle responsabilità,  ci ha sbattuto in faccia per l’ennesima volta  l’indifferenza alla pietà, siamo arrivati a metà del guado, ma giunti a 63 morti ammazzati dentro una cella, dentro una galera, dentro una solitudine imposta, travestita di compassione che non c’è, come non c’è alcuna verità, soltanto giustificazioni, attenuanti generiche per chiunque ci faccia i conti, o peggio non li faccia per niente con questa mattanza de noantri.           

Sui detriti ove poggia il carcere, c’è una sorta di mercanzia che va alla grande, ognuno degli attori coinvolti in questa rieducazione ortopedica dei corpi penzolanti dai letti a castello, dai finestroni delle celle, dagli angoli bui dove scomposti se ne stanno coloro che non hanno retto all’ingiustizia di una pena aggiuntiva non contemplata da alcun Codice, Ordinamento, Costituzione.

Ebbene, lì, in quella angusta sottomissione al nulla, proprio lì, nessuno osa guardare alla corretta applicazione degli ordinamenti. Ogni volta, e sono proprio tante queste volte in cui donne e uomini si strozzano fino a morire dentro la prigione, qualcuno parla avvedutamente di “evento sentinella” in quanto sono dipartite che con più attenzione e accompagnamento potrebbero significativamente essere ridimensionate, sottraendo ai residui spazi colmi di cose, oggetti e numeri, le persone, le persone, le persone.

Riconsegnando umanità alla funzione della pena e alla sua rieducazione, dunque non soltanto del detenuto che giustamente sconta la propria pena. Un altro l’hanno trovato appeso con il capo reclinato, con gli occhi all’indietro,  come a volere rimarcare la perdita di speranza per il futuro, la disperazione che non tollera più il dolore mentale insopportabile, quel disagio che nessuno vede, che nessuno s’accorge sta per esplodere in comportamenti estremi, così profondamente insopportabili perché ingiusti, dove non c’è più possibilità di un ascolto, neppure il tentativo di accorciare le distanze con quella pietà derelitta e sconfitta.

Un altro ammazzato, a un palmo dal nostro naso, nell’unica via di uscita rimasta e concessa. La morte.

Bulli e vittime

BULLI E VITTIME

 di Vincenzo Andraous

Quando ti arriva frontale la notizia di un giovanissimo che si toglie la vita per la disperazione cucitagli addosso dai coetanei novelli carnefici della fragilità umana, comprendi davvero che la sofferenza non è solo un’emozione che ti assale, che irrompe, che esplode ed a volte implode, è un vero e proprio ricalcolo del presente devastato dai detriti che pesano come macigni, un territorio dove un tempo c’era gran parte di te stesso, ora non c’è più. Improvvisamente le gambe, i piedi, le mani sono elementi estranei, non rispondono al contatto con l’intorno, come se il cratere vuoto di ogni tutto avvolgesse ogni emozione ripiegata malamente su se stessa.

Come pure l’ultima parvenza di incomprensibile  ragionevolezza. Bulli imperversano nei corridoi delle scuole, nelle classi, nei cortili adiacenti all’entrata degli istituti, a ben guardarli sono così piccoli e minuti che suscitano pena, eppure fanno male davvero, puntano il più debole, il più fragile, lo imprigionano tra paura e umiliazione, non mollano la presa, sono refrattari alla pietà, al fare i conti con il dolore e le sofferenze altrui, piccole carognette che non consentono dialogo né ripensamento, se non dopo la tragedia che incombe.

Spesso neppure dopo. Rimangono i bordi lacerati sulla storia di quel ragazzino che non c’è più, anche il ricordo diventa evanescente di fronte alle omertà costruite a misura, ai dinieghi ripetuti, alle ostinazioni che non danno passo alle ammissioni, soprattutto alle coscienze tumefatte dal proprio delirio di commiserazione, per cui la colpa è sempre degli altri, la responsabilità è sempre dell’altro, tutto quanto accaduto è risultanza a carico degli altri.Reiterate le sofferenze imposte, le indifferenze ricevute, le offese fanno male fino al punto da obbligare a mollare gli ormeggi senza preavviso.

Accade che un giovanissimo senza più il tremore della paura dell’offesa, nella propria libertà rapinata con la violenza ripetuta, lentamente costruisce il cappio, c’è l’insopportabile con cui fare i conti, un taglio che non si rimargina, il dolore non si attenua mentre prendono sopravvento i silenzi e le alzate di spalle dei tanti e troppi colpevoli disattenti.

Resta questa nuova assenza che non può diventare soltanto un silenzioso ricordo di ciò che è stato, perché qualcuno dovrà spiegarlo cosa è stato.

Qualcuno dovrà spiegare a chiare lettere, senza se e senza ma, che bulli non si nasce, si diventa attraverso il non rispetto delle regole, dell’educare con parole di carta che bruciano subito, con la disattenzione colpevole che non consente alcuna prevenzione preziosa.

C’è da augurarsi che il tempo grande educatore, grande dottore ci insegni a tutti che l’amore non è un  carico a perdere, ma una responsabilità nel rispetto della libertà di ognuno e di ciascuno.

Insieme a te naturalmente

Insieme a te naturalmente

di Vincenzo Andraous

Stavo camminando in fretta per recarmi a un appuntamento, quando sono stato attratto da un ragazzino che seduto su una panchina stava armeggiando per farsi una canna.

Lo osservavo ed ero indeciso se commentare quell’azione oppure il suo look da semi maranza, entrambe le cose stavano erette per dare timbro al suo passaporto.

Se ne stava lì beato e tranquillo, non gli poteva fregare di meno che io lo stessi sgamando.  

Mi è venuto spontaneo chiedergli se andava tutto bene.

Mi ha squadrato per bene, senza dire una parola si è girato dall’altra parte, ha dato fuoco alla miccia e ha continuato imperterrito a svolazzare tra una cima e l’altra.

Era evidente come la luce che le sue labbra mormoravano parole smozzicate ma chiare, come a dire vai a rompere le balle da un’altra parte.

Eppure in quel comportamento da adolescente imbizzarrito c’era una nota stonata, apparentemente un segnale di fortezza, ma a ben guardare nei suoi occhi qualcosa rimaneva nascosto, un peso, un ricordo, un dolore mai del tutto sopito.

Ero tentato di rompergli le scatole ancora, perché a mio avviso non c’è una scadenza per parlare di droga, un modo giusto da scandagliare in profondità il cuore, magari per esser ascoltati.

Non mi ha dato il tempo, in un batti baleno è svanito nel nulla.

Tra me e me pensavo che forse è semplicemente sbagliato affrontare un giovanissimo attraverso le solite schedature, o reprimendo senza se e senza ma l’uso delle canne, forse in quegli occhi di sfida c’erano i segni e le orme digitali di balzi in avanti senza rete di sicurezza, i bisogni di tutti gli adolescenti, che spesso rimangono incagliati nelle nostre gabbie di partenza, nei retro pensieri.

Ma sarebbe un errore grossolano scambiare questi atteggiamenti come danger zone, soprattutto quando questo ragionamento etichetta la somma di troppi inutili pregiudizi.

Gli occhi di quel ragazzino mi hanno fatto pensare che forse sotto quella scorza indifferente, c’ è davvero un vuoto di senso, un recinto creato a misura in cui condividere la ribellione che costa poco.

Adolescenti che sbrigativamente consideriamo asociali,  ma invece in quelle posture, in quei silenzi, c’è  la necessità di non sentirsi soli, di non essere giudicati a priori, soprattutto di sentirsi riconosciuti e valorizzati, di provare finalmente sentimenti e relazioni, dove la solidarietà non è soltanto il riconoscimento dell’altro che sta peggio di te e finalmente te ne accorgi, ma consapevolezza che senza il valore della relazione anche l’altro scompare.

Insieme a te naturalmente.

Il carcere di nessuno

Il carcere di nessuno

 di Vincenzo Andraous

Ogni giorno c’è qualcuno che prende la parola per dare senso a quel che resta dei valori inalienabili della Costituzione.

Personaggi noti afferrano la parola per non mollare gli ormeggi di fronte alle altre parole dette in fretta per non dire nulla, peggio, per continuare a affermare che il carcere è questo, non possiamo liberarcene, men che meno renderlo migliore di quello che è diventato.

C’è così tanta malafede e ritrosia umanitaria che ai silenzi protratti per tanti innumerevoli morti ammazzati dentro una cella, improvvisamente c’è l’ìmpatto con la ragione, con la coscienza, con la dignità di ognuno e di ciascuno, degli innocenti, delle vittime e dei colpevoli.

Per quanto sorprendente irrompe il rinculo, il dietro front rispetto ai toni indifferenti al dovere giustizia e legalità cui è tenuto chiunque dentro una prigione, uomini liberi e uomini ristretti.

Ecco che a qualcuno viene improvvisamente bene innalzare i vessilli del diritto penale e penitenziario,  di un art. 27 della nostra carta magna fino a ieri declassato a poco più di niente, di una non più rinviabile pena giusta e riparatrice. Sovraffollamento,  violenza e pene aggiuntive mai contemplate da alcun codice e riforma, non smuovevano di un passo le ideologie, quelle vetuste e quelle di un presente ripiegato su se stesso.

Di colpo saggi e profani per risolvere il problema endemico all’Amministrazione Penitenziaria; il sovraffollamento, i suicidi in aumento, l’ingiustizia lasciata scorrazzare a briglia sciolta,  son tutti concordi ad accompagnare in un percorso di misure alternative migliaia di persone detenute, che fino a ieri restavano spintonati nell’angolo buio, oggi presi a esempio per risolvere qualche problemino sfuggito di mano.

Passare da una amnistia, un condono, una misura di clemenza, a una pratica effettiva delle misure alternative, queste si contemplate ma disattese da sempre, potrebbe significare riconsegnare scopo e utilità a un carcere fallimentare.

Da molti anni svolgo il mio servizio come operatore comunitario, conosco la fragilità e la solitudine di tanti ragazzi, cosa significa pregiudizio e indifferenza, rimanere soli ad affrontare la competitività di una società che sempre più non fa prigionieri.

Mi viene da pensare e consigliare sottovoce a qualcuno assai più lungimirante di me, di proseguire su questa strada finalmente, quindi approntando una rete efficace efficiente a sostenere persone detenute nella consapevolezza che la libertà è responsabilità di tutti nessuno escluso. 

Parole ricorrenti e inutili

Parole ricorrenti e inutili

di Vincenzo Andraous

Un genitore che ascolta, legge, prende visione di Martina uccisa a 14 anni a colpi di pietra dall’ex fidanzato, penso debba avere coraggio e coerenza sufficienti per non guardare da un’altra parte, per non licenziare questa infamia con la certezza inossidabile che non accadrà mai nella sua famiglia,  perché vittime e carnefici stanno dall’altra parte della strada.

Rivedo nelle immagini che scorrono gli occhi di questa bambina, di questa principessa con la voglia di bruciare i tempi, di assumere il ruolo di donna capace di gestire la propria vita. Una bambina che dice ti amo disconoscendone la presa in carico, che avanza con il corpo eretto senza alcuna difesa, una bambina tradita, umiliata, ferita a morte.

Siamo un paese afflitto e condannato dalle assenze un giorno si e l’altro pure, donne derubate della propria libertà, rapinate della propria dignità, uccise senza compassione né pietà.

Femminicidi, assassini dal nome padre, marito, fidanzato, rimangono le donne a terra, ricoperte degli scaracchi di un potere senza limite, senza vergogna.

La cultura eretta a totem è quella del possesso non più dei sentimenti dell’amore, quella cultura del comando si espande, varca i confini del lecito per inabissasrsi  nell’illegalità, nella violenza come strumento di rivincita.

Ecco allora che gli esempi non sono quelli che indicano la vita come qualcosa di eccezionale, da curare e avere attenzione a ogni passo concesso al presente già dentro al domani, ciò che ora viene elargito a piene mani a un giovanissimo è la mancanza di rispetto per libertà di ognuno e di ciascuno, anche della propria compagna che invece ha tutto il diritto di seguire la propria strada, di cambiare direzione alle proprie passioni, di mollare gli ormeggi quando questi diventano catene.

“Siamo tutti sconvolti, soprattutto per come è stata uccisa”, queste le parole ricorrenti.

Forse di ricorrente non c’e’ soltanto la modalità, la “banalità” di una sofferenza imposta, di ricorrente c’è la violenza inaudita, la follia lucida di ammazzare un amore sconosciuto, percepito e appreso dai social, dalle immagini veloci e scaricate senza emozioni a perdere.

Una bambina fragile affacciata al balcone della vita, in compagnia del suo ragazzo altrettanto fragile, dove è ricorrente la patente a punti, anche la stupefazione per tanto orrore. Potrebbe essere un vero e proprio salvavita ritornare a occuparci degli orari, degli impegni, delle notti in cui rientrare e accorgerci se nostra figlio/a è nella propria stanzetta.

L’amore questo compagno di vita che ci cammina a fianco, può non reggere più, sfiancarsi, rannicchiarsi nella propria solitudine, spesso può soltanto finire.

Forse è necessario senza più sterili polemiche fare cultura sentimentale e sessuale già all’inizio dei cicli scolastici.

Forse è arrivato il momento di fare aggiornamento a un mondo adulto che non sa più insegnare e apprendere il valore del rispetto per quell’umanità che significa avere davvero cura dell’altro.

Il mondo adulto questo sconosciuto

Il mondo adulto questo sconosciuto

 di Vincenzo Andraous

Ogni giorno siamo inondati di comunicazioni a dir poco preoccupanti che ci sbattono spalle al muro.

Da informazioni nude e crude, non c’è tregua a fare da ponte tra un agguato, un colpo secco, una ferita profonda, una violenza gratuita, una sofferenza imposta, una assenza priva di una spiegazione consapevole.

Non c’è spazio per la propria coscienza quando è perduta in maniera disperata e disperante.

Adolescenti cresciuti troppo in fretta, giovani adulti che guardano ma non vedono, padri di famiglia in preda al delirio di onnipotenza del possesso che non è amore.

Il tempo non veste più i panni dell’educatore, il tempo rimane una linea sonnolenta e banale su cui si ripetono le stesse logiche, le identiche pratiche, i copia incolla irresponsabili eletti a misura, esempi inamovibili di una indifferenza che alla fatica del fare preferisce sbraitare, urlare per ottenere poco più di nulla. 

C’è in giro tanto piedistallo virtuale, tanta filmografia dell’uso e abuso della violenza, dove il rispetto delle regole quali uniche vere salvavita, sono ampiamente soppiantate dall’assenza di un sano senso di colpa, da una vergogna che denuda ogni possibile maschera. 

Durante un incontro con il mondo genitoriale, un papà mi ha detto che lui non si sente tirato in ballo, che a casa sua non ci sono bulli, delinquenti, tossici, violenti.

Si, ci possono essere accadimenti tragici, ma tutto questo accade nella tua casa, nella casa di fronte alla mia, dall’altra parte della strada, non certamente a casa mia.

Eppure accade che una sera suona il campanello o squilla il telefono, e va già bene che ci dicono che nostro figlio è stato fermato ed è in caserma, oppure è in carcere, perché c’è di peggio, è all’ospedale o non c’è proprio più.

Mi convinco che non bisogna mai cadere nel ridicolo di fare di tutta l’erba un fascio, ma altrettanto mi viene da dire che per evitare i rischi di derive devianti o criminali, c’è urgenza di riflettere adeguatamente sulle risposte, occorre abbandonare l’idea che ogni volta che accade qualcosa sono soltanto ragazzate, oppure di contro controllare, reprimere, punire, senza perdere un solo prezioso minuto per ascoltare, comprendere, spiegare.

Le strade sono piene di buche come le carenze educative, come quel padre di cui parlavo prima che concede molto e assai ai propri figli, perchè desidera che abbiano tutto quello che non ha avuto lui, lavora 14 ore al giorno, si fa un mazzo così,  ma mai una sola volta si è accertato a che ora  il ragazzo è rientrato nella sua stanza, in che condizioni, peggio, se magari neppure è rientrato.

Questa pratica di vita per quanto debordante nel veicolare i propri sentimenti mi fa pensare a quel boscaiolo che sta segando il ramo dell’ albero su cui sta seduto.

Minori imbizzarriti

Maranza – Bulli – Minori imbizzarriti

 di Vincenzo Andraous

Nel mirino sociale c’è il mondo dei maranza, come se fossero il vero e unico male di questa arena dove sfogare istinti e miserabilità sub-umane.

Come se debellare questo fenomeno per quanto insopportabile risolvesse la violenza che sta dilagando nelle città come nelle periferie.

Non è così, tutt’altro.

Ci sono per le strade bulli travestiti da eroi per forza, minori imbizzarriti e ragazzine completamente deprivate del sentimento della vergogna, della compassione, impregnate di storie rubate ai film, dagli slang che non sono e non saranno mai farina del loro sacco.

Quando agli occhi irrompono le immagini di più ragazzine che colpiscono con scientificità per fare più male a un’altra ragazzina indifesa, così giovane e fragile, anche per un adulto formato rimane una ferita che non si chiuderà presto, occorrerà tempo affinchè la lacerazione del cuore possa rimarginarsi.

C’è un gioco al massacro nell’uso della violenza, diventato strumento di potere per dimostrare il proprio valore.

Il mondo adulto che fa per sbarazzarsi del problema?

Lo attribuisce a una città a una regione particolare, dove per uno sguardo di troppo a una ragazza, si passa senza tanti convenevoli ai cazzotti, al serramanico, alla pistola.

Omettendo di dire la verità, perchè questa sottocultura dell’omertà e del potere territoriale è realtà al sud come al nord, in città e in periferia, l’uso dei pugni e delle lame sono miseria economica e culturale che accomuna i giovanissimi, ne acuisce l’uso sgangherato e sgrammaticato delle parole che discriminano e fanno aumentare la rabbia e l’ira.

Lo ricordo bene quel ragazzino a condividere alcol e droghe, a circondare con il filo spinato il territorio ove tutto può essere condiviso, in quel tutto ci stanno in bella mostra le azioni più infamanti, più inaccettabili, più incomprensibili.

Mentre osservo la tanta inutile violenza, senza scopo e utilità, mi ritrovo a fare i conti con quel ragazzino, lo rammento malamente nella postura, negli atteggiamenti, nell’inquietudine che lo accompagnava passo dopo passo verso il plotone di esecuzione.

Troppo semplice e fuorviante puntare il dito sul solo migrante maranza diverso e incarognito, sulla bulla manesca e feroce che recide ogni speranza a una coetanea che non sa difendersi.

Per quanto importante e giusto perseguire comportamenti così vigliacchi, c’è necessità di riempire il grande vuoto di senso che li attanaglia, che li rende insensibili alla sofferenza altrui, anzi ne aumenta la ferocia nei riguardi del diverso, del debole,  del fragile.

A quando il tempo della relazione vera perché basata sulla fiducia e la solidarietà, a quando apprendere il valore del rispetto per se stessi e per gli altri, a quando stringere forte la mano alla propria umanità, avendone finalmente cura e attenzione.

 

Pasqua cura e attenzione

Pasqua cura e attenzione

di Vincenzo Andraous

Agli occhi appare quella sovrapposizione di due legni, quella Croce sgangherata ma appesa con metodo, a mezz’aria, le braccia allargate, la testa reclinata, la ferita, il sangue degli innocenti, di quanti gridano giustizia, ma spesso, sempre più spesso, rimangono senza giustizia.

E’ festa di Pasqua, è vero, eppure il dolore non è solo un’emozione, il dolore di una ingiustizia perpetrata in origine, somiglia a un sofferenza che annienta e poi cancella qualcosa che non c’è più,  eppure lì risiede l’amore.

E allora ecco quell’urlo così disperato, quell’urlo di chi non ha più speranza. C’è nell’aria un sapore strano, del ferro battuto, del chiodo infisso, della spada senza altra lucentezza, eppure la gioia resiste alle intemperie delle miserevolezze umane, rende meno oppressiva e incomprensibile quella morte, quel figlio Santo e Dio abbandonato, dentro l’ingiustizia umana più grande.

E’ Pasqua, è festa, è riconciliazione con la vita che non si spegne, non s’arrende, quell’Uomo muore e già domani è ritornato a essere quanto era, sembra inverosimile almeno quanto in ognuno di noi la caduta uccide la ragione del cuore, sopraffatta dalla nostra lucida follia.

La croce scelta, passo dopo passo, non risulterà mai segno di sconfitta, ma  resilienza della radice profonda aggrappata profondamente alla terra, cosicché nessuna tempesta o bestemmia ne possa sdradicare la passione della fede che ognuna professa.

Si è festa di tutti nessuno escluso, nasce poco più indietro dove c’è la sofferenza, il dolore, che richiama a raccolta ogni energia interiore,  affinché la prossimità dell’altro abbia la nostra attenzione, perché la Pasqua è tutta dentro la nostra umanità che dovrebbe significare avere cura, averne cura, di chi come quel Cristo in croce spesso sta davanti al nostro naso e non lo vediamo, peggio, non intendiamo proprio vederlo. Mi piace pensare che questa Pasqua non sia soltanto la ricorrenza da onorare in automatico, ma consegni a chi crede nel valore irrinunciabile della libertà, quella libertà scritta a chiare lettere su quei legni e quei chiodi, con quella assenza diventata presenza costante, quella libertà come responsabilità insegnata attraverso l’esempio di  questa possibile rinascita.

Bullismo rosa shocking

Bullismo rosa shocking

di Vincenzo Andraous

Stavo scrivendo un pezzo sulla violenza giovanile, sui soliti maschietti dalle gambe larghe e le mani in tasca, i soliti boys dai bicipiti in bella mostra, in gruppo a menare ragazzetti inermi, adolescenti che non sanno difendersi, il solito bullismo disarcionato dalla trasgressione, scaraventato tra coltelli e tirapugni in una dimensione di devianza conclamata.

Reati commessi e atteggiamenti non più adolescenziali, affascinati dal pericolo del vicolo cieco che invece moltiplica i comportamenti criminali.

Mentre da città e periferie venivo inondato di racconti e  video ben orchestrati per fare vedere la violenza elargita senza il minimo rigurgito di compassione, mi sono accorto che c’è un bullismo altrettanto violento e crudele all’ennesima potenza,  perpetrato da tante e troppe protagoniste in rosa, da tante e troppe vigliacche che in gruppo, riducono a meno di niente coetanee più giovani, vere e proprie bambine.

Con l’inganno, l’agguato,  l’accerchiamento, la sequenza  inaccettabile degli schiaffi, dei pugni, dei calci in pieno viso, le tirate di capelli.

Ragazzine che fanno carne da macello di bambine più piccole, indifese, zittite dalla ferocia della paura, piccole Madonne con le mani sugli occhi, colpite, offese, umiliate.

Colpisce lo slang in uso nel gruppo dei pari, parole e simboli provenienti da ambienti lontani, che non sono i loro né lo saranno mai, ma intanto ne fanno corazza e modalità di onnipotenza, di sottomissione dell’altra che non può reagire, con l’acquisizione di un fare imparentato con le grandi organizzazioni criminali, con la messa in pratica di una omertà come strumento per marcare il territorio in cui le regole sono annientate, permangono i messaggi, le condivisioni, il pensiero unico che sottomette, che consegna intatto il potere del dominio, del sopruso e della  prevaricazione. Ragazzine che conoscono  la strategia della prepotenza, dell’angolo in cui ridurre a oggetto l’essere umano più innocente.

“Le forze dell’ordine non sottovalutano il problema oramai dilagante, tanto da assumere i contorni di vera piaga sociale.”

Il rinculo di un colpo di fucile è il fare i conti con questa realtà non più ascrivibile a quei soliti nuclei familiari ben noti, qui la piaga sociale ha contorni ben definiti, l’indifferenza del mondo genitoriale, professorale, adulto, la disattenzione che discrimina,  giustifica, peggio, assolve, tutto ciò finchè il sangue e la sofferenza non s’accanisce su tua figlia.

Mentre osservo le immagini dei video in cui più ragazze insieme picchiano ferocemente una loro coetanea più giovane, rimango di stucco per quanta cattiveria e cecità del cuore, sento un male profondo avvolgermi, la ragione vacilla, non mi capacito per la tanta violenza espressa, per un bacio rubato, una parola di troppo, un compito premiato e l’altro non ritenuto sufficiente, nel mezzo la meccanica del maledetto per forza, che lascia a terra giovanissime con le labbra rotte, lascia dietro di sé l’annientamento dell’innocente, di chi negli occhi ha disegnato il dolore che mette di lato l’amore.

Non c’è più molto tempo per tentare un argine, questo di oggi non è bullismo di ieri, non è vero che i giovani hanno sempre fatto queste cose, il problema che nel frattempo siamo cambiati noi, gli educanti, gli esempi, gli indifferenti.

Di tutta l’erba un fascio

Di tutta l’erba un fascio

 di Vincenzo Andraous

Qualche giorno addietro ho partecipato a un incontro dove c’erano parecchi genitori preoccupati per il moltiplicarsi di accadimenti tragici che hanno come protagonisti giovanissimi.

Quando si parla di bulli, baby gang, bande, si corre sempre il rischio di usare le parole attraverso slogan o sottolineature altisonanti, ma poco aderenti al terreno impervio che si sta percorrendo.

Un genitore quasi urlando, ha detto che ai suoi tempi i giovani erano assai meglio di quelli di oggi, dimenticando che nel frattempo siamo cambiati noi.

Usare impropriamente le parole significa fare di tutta l’erba un fascio, equiparare un atto bullistico a una azione prettamente deviante è ben altra cosa, ci sono gruppi di pari per niente emarginati, per nulla additati a criminali, che in gruppo fanno e disfano le regole, le libertà altrui, compresa la propria, commettendo anche reati, senza per questo esser ancora criminali.

Fare parte di una baby gang, di una gang, significa esser laureati a pieni voti ai disvalori della strada, dell’angolo buio, alle regole non scritte che però contano quanto una lama di coltello.

Maranza e adolescenti imbizzarriti non sono la stessa cosa, spingere e urtare non è la stessa cosa di colpire sui denti, di rompere le ossa, di mandare al creatore qualcuno per imporre la propria leadership.

Non è una azione educativa gridare che a casa mia non ci sono bulli, violenti, delinquenti, tossici, dall’altra parte della strada ci sono figli che fanno queste cose, accade a casa tua, non nella mia. Poi improvvisamente qualcuno bussa alla nostra porta per dirci che nostro figlio se tutto va bene è all’ospedale, anche in carcere, peggio, non c’è più.

A quel genitore capace senza se e senza di ipotecare il futuro vorrei dire che i giovanissimi fanno uso di droga, di beveroni coloratissimi, alcuni usano il bicipite per aggredire, per non sentirsi inadeguati, ma non significa che lo strumento della violenza connota la propria identità, marcando il proprio spazio, la propria dimensione, il proprio territorio.

A quel padre direi sottovoce e in punta di piedi di andare a vedere a che ora ha fatto ritorno nella sua stanzetta e in che condizioni suo figlio, peggio, se neppure è rientrato.

Non c’è sempre la baby gang come narrazione, perché è assai diversa la realtà dei più giovani, spesso inebetiti dall’uso e abuso dell’agio, sempre più spesso impattano nel  vuoto di senso che li circonda, nelle violenze di gruppo, verso i più deboli, i “diversi”.

Forse di questo sarebbe bene relazionarsi intorno alla tavola imbandita di casa propria.

Negli angoli più bui

Negli angoli più bui

di Vincenzo Andraous

Ascoltare le bugie, le giustificazioni, le solite inutili correzioni, nuovamente negli angoli più bui dove non è dato vedere, altri morti ammazzati, sempre più giovani, sempre meno delinquenti incalliti, avvolti e definitivamente strozzati dall’indifferenza.

Nel rinculo delle coscienze sopite, c’è come un canto che sale,  la verità con tutta la forza possibile, il  messaggio, profondamente, colpito alle spalle.

Ci sono esseri umani incaricati di custodire, altri di condannare, altri ancora di stabilire un equilibrio, altri di edificare attraverso le Leggi, le Riforme, la Costituzione, una strada, un percorso in cui conquistare  o riconquistare la propria dignità personale.

Mai  cancellarla, annientarla, ridurla a poco più di niente. Il carcere, la cella, il luogo della pena, della riparazione, della ricerca di un perdono così antico e troppo giovane per esser messo da parte dai giudizi senza appello.

Cittadini detenuti colpevoli, cittadini detenuti innocenti, addomesticati dalla disperazione creata a tavolino, fragili a tal punto da non esser più capaci di mostrare la mano alzata per chiedere aiuto, il timore feroce di esser nuovamente additato a bersaglio.

Dunque la persona è dietro, innanzi ci sono le cose, gli oggetti, i numeri, sono quelli a fare la differenza oramai. In carcere si muore, si continua a morire, luogo del rieducare, trasformato in dimensione di morte, paiono candele che tremolano, lentamente si spengono, i corpi privi di vita penzoloni alle sbarre, alla leva del letto a castello, il respiro che non esce dai polmoni, il sapore della resa che per qualcuno appare medaglietta appuntata sul petto.

Quest’anno  siamo già a 12 uomini che hanno mollato gli ormeggi, mentre qualcuno con un po’ di coerenza ha detto “se questo stillicidio non viene interrotto, saremo tutti complici”.

Ma forse lo siamo già tutti, perchè quando il carcere non risponde ad alcuno dei requisiti e delle finalità previste dalla Costituzione,  non ci si ammazza  per caso, per qualche non meglio identificato evento critico.

Colpevoli e innocenti scelgono di morire ancora giovanissimi per mancanza di speranza, nella privazione di una accoglienza e di un accompagnamento che possegga una parvenza di umanità. 

Quando una persona privata della libertà affronta con la propria forza di volontà il cambiamento, il diritto e dovere di cambiare, se non sarà accompagnato in questo lungo e lento viaggio di ritorno, non potrà mai farcela, perché subirà vere e proprie scosse telluriche.

Come ha detto Papa Francesco nessuno si salva da solo.

Fino a quest’ultimo impiccato, l’unica risposta permane il silenzio.

Maranza de noantri

Maranza de noantri

di Vincenzo Andraous

Questi sono tempi duri, così duri che al primo impatto c’è l’inciampo inaspettato, la caduta rovinosa, il botto a perdere, e non è mica vero, che il maranza di turno, è residuato o new entry di immigrazione clandestina, di colorato residente, maranza è bianco sfavillante, è colorato candeggina profumata, fa parte del lato scuro della strada, della periferia scazzata e dimenticata, del gruppo dei pari che avanza come un plotone di esecuzione, mani in tasca e gambe larghe.

Maranza è più sbrigativo relegarlo allo straniero smargiasso e  prepotente, a quelli che hanno scoperto che con la  violenza si possono ottenere benefit inaspettati, perfino raggiungere traguardi altrimenti inarrivabili, come il tuo sangue, colare sul tuo viso, soprattutto come il sangue degli altri, degli innocenti, di quelli che non c’entrano niente.

Non  sei maranza per il modo di vestire che pare un cazzotto in un occhio, per lo slang che usi, che non è tuo, te ne sei indebitamente appropriato  senza averne cognizione.

In questo tempo si parla assai di spranghe, di ferri, di coltelli, di pistole nelle mani di giovanissimi, maranza si dice, alti dicono tamarri in libera uscita, altri ancora ragazzotti con le spalle al muro dalle regole della strada, che non fanno sconti nè prigionieri. 

In gruppo i maranza ci danno di gomito, di nocche infrante, di lame di coltelli conficcate nelle carni.

La strada, la piazza, il quartiere, le città,  diventano jungla meglio conosciuta per mettersi in mostra, dove le regole sono scaracchi da sputare lontano, deserto e terreno interpretato come un campo minato, un campo di battaglia, dove la sfida mal sopporta le limitazioni, dove la scommessa non è disposta a rinunciare alla propria rivincita. 

Eccoli i maranza, sono sparpagliati intorno, sotto i cappucci, le sciarpe, occupano il marciapiede, il transito e non solo il passaggio, perché quello è considerato un privilegio. 

Un terribile caos creato ad arte i maranza, invece è quanto sdoganato dalle messaggistiche istantanee, anche ieri ci stavano e apparivano patetici, oggi ci sono con tutta l’irresponsabile follia, ci sono nei messaggi per lo più fraintesi, invece chiari e diretti come una coltellata. 

Mio caro maranza qui non si tratta di fare i ribelli inconcludenti, questo non è il palco di un teatro dove a tuo piacimento puoi scendere e ritornare a casa, non è il gioco della playstation, non è possibile resettare e tornare indietro.

Farai bene a ricordare che in galera non ci sono eroi, soltanto uomini sconfitti.