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Il silenzio colpevole

Il silenzio colpevole

di Vincenzo Andraous

Il carcere non è quello addomesticato nella solita grande balla: extrema ratio delle intenzioniistituzionali. 

Un carcere ridotto alla miserabilità più disumana, con un bacino di utenza esponenziale da doppia diagnosi, un carcere medico sprovvisto di lauree per intervenire sui sintomi, sulle malattie, le terapie da apportare, affinché sordi, muti e ciechi non abbiano a continuare a calpestare i diritti altrui, riservando poca attenzione-volontà per la prevenzione-ricostruzione individuale. 

Risultato diseducativo che non ha nulla a che vedere con la sempre più infortunata rieducazione che consiste in una torsione innaturale che ammutolisce le coscienze, anche quelle più recalcitranti intellettualmente. 

Sicurezza, rieducazione, riparazione, appaiono sempre meno come il collante che può tenere insieme una società e farla crescere, politica e stili di vita si travestono di ideologie d’accatto, gli obiettivi a tutela delle persone divengono esigenze contrapposte, una didattica inversa a una pedagogia in costante affanno, come se ognuna di queste facce della stessa medaglia  fossero improvvisamente vissute come aut aut al fare sicurezza: mettere in salvo il benessere delle persone, la ricomposizione della frattura sociale, da attuare attraverso pratiche, funzioni, trattamenti che rimandano a una giustizia che rispetta la dignità delle persone, di quanti sono detenuti e stanno scontando la propria condanna, e intendono  ritornare parte attiva del consorzio sociale, non certamente come soggetti antagonisti, perché ancora più delinquenti di quando sono entrati. 

Mistificazioni, bugie, interessi di casata, fannointendere la prigione come un albero senza radici, una città senza storia, un luogo di castigo sommerso indicibile, una sopravvivenza-negazione di una reale possibilità di riscatto da parte di chi paga il proprio debito alla  collettività. 

Gli attori di questa grande tragedia carceraria, si affannano nelle autoassoluzioni, come se 70-80 evasioni a gambe in avanti all’anno, suicidi che l’informazione disegna con le corde strette al collo, le apnee asfissianti, non fossero un atto costringente della disperazione in una insubordinazione alla sopravvivenza non più procrastinabile. Invece di un obbligante  mea culpa per tentare davvero di cambiare lo status quo per lo più miserabile, ma non per questo meno pericoloso.

Continuo a pensare che quanto sta accadendo negli istituti penitenziari non è frutto di una non meglio identificata disattenzione, bensì qualcosa di studiato a tavolino, in scienza e poca contusa coscienza, fino al punto di percepire un luogo deputato a scontare la pena per le persone che hanno commesso il reato, in un luogo e una dimensione irraccontabili, dove sappiamo che sono accatastati numeri, cose e oggetti,  una sorta di barriera materiale e psicologica che annulla il dovere e il diritto di ogni cittadino di domandarci chi entra mai “cosa” esce.

Baby gang e imbizzarriti

Baby gang e imbizzarriti

di Vincenzo Andraous

A frequentare gli spazi della follia più lucida c’è la possibilità di fare i conti per intero con il disagio dilagante nel nostro paese, con quanto piega ed a volte spezza il futuro dei più giovani, vittime e colpevoli compresi, a tal punto da rendere quasi disumano lo sforzo per raggiungere la più dovuta delle speranze, una vita equilibrata e decorosa, purtroppo ripetutamente svenduta al delirio di onnipotenza, al delirio di commiserazione quando i dazi da pagare si presentano senza più attenuanti.

Accadimenti tragici, miserabili, vergognosi aggrediscono il consorzio vivile, il quale reagisce con i soliti slogans, cartellonistiche d’accatto, severità elargite con le mani bucate. Il gruppo di quelli che camminano con le mani in tasca e le gambe larghe,passa al setaccio le periferie, le città, le strade del gioco e del divertimento, il plotone marcia con la baionetta innestata, con le divise da veterani di una guerra che non è mai stata loro, nè mai lo sarà, nel frattempo però violenza, ingiustizia e illegalità marcano il territorio all’intorno, ne fanno un recinto dove tutto può esser condiviso, anche la nefandezza più irraccontabile.

Soltanto dopo che la ragazzina di turno viene strappata all’amore e colpita ripetutamente senza alcuna pietà, ci accorgiamo che nostro figlio, ieri, l’altro ieri, stanotte, neppure ha fatto rientro a casa.

Baby gang nostrane e stranieri imbizzarriti senza accompagnamento si radunano, si riconoscono, si irreggimentano in linea di tiro, obiettivi ragazzine indifese, giovani etichettati a sfigati, anziani sbattuti all’angolo, dove il rischio appare poco più di niente.

Si insulta, si umilia, si ferisce, a volte si ammazza senza un sussulto di compassione. E’ divenuto tutto o quasi un rimasuglio che s’allarga di una infanzia spesso negata, di un degrado famigliare, oppure di una tavola dei valori costretta in gabbia dalla smemoratezza, relegata in seconda battuta, dall’unico benessere economico disperatamente agognato.

In questa messaggistica istantanea di sfida e scommessa alla propria disumanità, c’è la perdita a cui si è destinati, non è facile davvero comprendere il disagio che buca ogni logica, siamo in balia di una comunicazione malatache ci è data in eredità, tra ciò che è vero e ciò che è falso, nel frattempo i più giovani arrancano, qualche volta ci sfiorano, ma non ci chiamano, non si fidano di noi, della relazione che riconosce l’altro se ne fregano, optando per il fai da te e fai per tre, mentre noi adulti ci accomodiamo a debita distanza.

Eppure sappiamo benissimo che il rispetto per se stessi e per gli altri non lo impari smanettando sulla playstation e sullo smartphone, lo apprendi solo e unicamente dall’esempio autorevole di quanti non hanno paura di sporcarsi le mani.

La violenza

La violenza

di Vincenzo Andraous

Ormai è un fatto scontato associare la violenza degli adolescenti con la maschera esibita dal rapper di turno.

Giovanissimi e minori spaccano teste e cose all’intorno, mentre qualcuno non meglio identificato disegna formulette sociologiche per attestare una italietta oppressa dal disagio più o meno esistenziale di cittadini fortemente esclusi e degli altri inclusi al punto da mettere in discussione il futuro perché del presente non rimane poi molto da indagare.

Gli adolescenti cercano guai e filo spinato, gli adulti fanno finta di non capire, non sentire per tempo il grido o il lamento, mondo genitoriale e professorale sembrano non accorgersi del rifiuto che proviene dai nostri figli, né intendono prendere atto della perdita a cui si è destinati.

Bulli di cartapesta, babygang in balia di una libertà prostituta, mafie e criminalità surclassate da femminicidi e violenza minorile, non è facile davvero comprendere il disagio che buca ogni logica, siamo tartassati da un riduzionismo irresponsabile, diventiamo soggetti passivi, oppressi dal conflitto quotidiano proveniente dalla comunicazione che ci è data in eredità, tra ciò che è vero e ciò che è falso, nel frattempo i più giovani sbandano, qualche volta ci sfiorano, ma non ci chiamano, noi rimaniamo prigionieri di una incredibilità, che invece è la realtà della logica dei conti, dunque la meno accettabile.

Droga, alcol, violenza, un fenomeno che non è più sottotraccia, né può restare un prurito sottopelle, occorre farci i conti con questo mostro multidimensionale che opera senza sosta per depredare le nostre vulnerabilità, e ci impedisce di crescere, pensare, agire, ci obbliga a stare supini nelle nostre codardie socialmente inutili.

Ciò che ci viene incontro da una società sopita e indifferente, è uno stile di vita che non ha in dote il cambiamento, ma le tragedie che derivano da una umanità appena nata è già scossa alle fondamenta. Violenza che traduce la propria infantilità in una pratica di vita quotidiana, dove la capacità a gestire i conflitti, quelli personali e sociali, scivola sempre più nell’incapacità a onorare il valore di ogni persona.

Violenza che si insinua soprattutto nei più giovani, alcuni rimangono affascinati, altri intontiti, la maggioranza resta interdetta, incapace di alzare la mano, richiamare attenzione, fare e dare giustizia, a chi alla giustizia non ha più capacità di affidare amore per il bene che è collettivo.

Come ha ben detto qualcuno i cambiamenti sociali richiedono tempi più lunghi dei cambiamenti del diritto, ma quel cambiamento tanto auspicato e sospinto avanti dalle varie e ripetute sfide educative appare sempre più un refuso che un nuovo inizio.

Natale

Natale

di Vincenzo Andraous

Natale è Natale, ci risiamo, le parole cadono una dietro l’altra, fanno incetta di stupefazione, di sguardi estasiati.

Le parole arrampicano, s’alzano al cielo, l’illusione di un attimo, ridiscendono come rese.

Le parole fanno corollario, circondario, confine, frontiera, stanno al palo, attendono il segnale.

Il tempo rifugio comodo e convenzionale, scarta di lato, rimanendo mai fermo al centro della strada.

Il tempo è compagno leale della parola, della sostanza, della realtà di ogni giorno, il tempo accompagna, insegna, educa, soprattutto, non bara né trucca la consegna di ritorno che avverrà.

Natale non è mai simile al precedente, è come il prima, il durante e il dopo di ognuno, che appartiene per diritto e per dovere a ciascuno, che avverrà perché costituisce costitutivamente i ponti delle prossimità, per quanto infine gli occhi vedranno e il cuore sentirà, cogliendo il bene, là, dove la condivisione non potrà mai vestire gli abiti della sottomissione.

In questa storia di umiliazioni e di fughe all’indietro, di uomini in croce e popoli oppressi, di terre martoriate e acque avvelenate, Natale non arretra, ci costringe a non arretrare, il tempo d’Avvento non soccombe alle parole, trasforma il male ed i silenzi protratti, Natale è risveglio e coraggio di chi è ferito, Natale è speranza, non soltanto di preghiera di qualcuno, Natale è davvero perdono e giustizia alla vergogna e alla paura, perdono e giustizia affinché nessuno rimanga a guardare.

Parole appuntite come coltelli

Parole appuntite come coltelli

di Vincenzo Andraous

Bambine, madri, sorelle, uccise una dopo l’altra, senza rintocchi di campane, soltanto rumore di scartoffie dove annotare l’ennesimo abuso e sopruso.

Mentre tutto ciò ha il sopravvento sui significati delle parole, sui polsi delle vene che si torcono, assistiamo alla violenza messa in atto in altre periferie esistenziali, nelle classi, nelle scuole. Un adolescente sbatte a terra con un cazzotto a tutto braccio il suo professore, reo di avergli ricordato il valore del rispetto, dell’educazione, la cura della propria dignità.

Un altro giovane si spintona con il proprio compagno di istituto e senza la benchè minima incertezza estrae dalla tasca la molletta e sferra il fendente tra capo e collo.

Il perdente stramazza a terra, è in fin di vita, esempio feroce tra chi vince e chi perde non si fanno prigionieri.

Gli adolescenti scoprono lo strumento della violenza, del colpo secco a ferire, il fascino dell’adrenalina, della prevaricazione, del sopruso, del rimanere avanti e mai indietro, costi quel che costi.

Piani di guerra, strategie conflittuali, accerchiamento della ragione, come se tutto questo sferragliare di ingiustizia e illegalità, fosse il risultato di uno slang imparato per bene e non per caso, appreso dove non ci sono i banchi di scuola, ma tavole apparecchiate con ogni ben di Dio, quel Dio che viene da pensare sia morto da troppo tempo oramai.

Le analisi che si susseguono sulla carta stampata, in TV, tra un dibattito e l’altro, sono relative all’autoeducazione necessaria agli uomini per non aggredire le donne, giustamente, ma forse sarebbe il caso di indire un corso di aggiornamento a tappe forzate per quel che resta della famiglia, anche per quella che si ritiene d.o.c. dunque al di sopra di ogni inconsapevole inadeguatezza, quella che sbriga la pratica del bullo come una ragazzata, una condotta che esiste dalla notte dei tempi, uno stile di vita impregnato dai falsi miti, dai modi violenti che affascinano e scavano fosse a misura.

L’incapacità di accettare la frustrazione ci dicono i tanti esperti sta alla base del non rispetto dell’altro e delle regole, ma questo epitaffio non riguarda soltanto gli uomini adulti dal possesso facile incontrollato, bensì pure gli adolescenti lasciati a briglia sciolta, bravi ragazzi un po’ imbizzarritiquando incontrano improvvisamente un ostacolo, un impedimento alla propria volontà, a ben pensarci proprio come accade ai tanti genitori che non sanno accettare il dolore di una separazione, perché anche la storia più bella può vacillare e finire.

Giulia e le altre


Giulia e le altre

di Vincenzo Andraous

Era un bravo ragazzo. Era una brava ragazza, lei vittima innocente costretta al macero, due famiglie devastate dal dolore, lui in attesa di camminare in ginocchio per il resto della propria vita.

Una bambina dolcissima e un ragazzotto innamorato, sembrava tutto al suo posto, una storia d’amore che come tante altre era giunta al capolinea.

Niente di che preoccuparsi insomma.

Ma la tragedia incombe in mezzo a qualche interrogativo, a qualcosa che assomiglia a un moltiplicarsi di eppure qualcosa era fuori quadro, eppure forse era un rapporto sbagliato, morboso, di possesso e non di condivisione.

Eppure in amore la condivisione annulla ogni assedio e asfissia, anche se tra i giovani il linguaggio e la postura sono diversi, niente di che preoccuparsi.

Ora c’è voglia di repressione, di galera, di altro sangue, come se aumentare il tetto delle pene, farebbe diminuire la violenza di ogni femminicidio, la violenza di ogni delirio di possesso, la violenza di una commiserazione che diventa cecità del cuore nel freddo di una lama.

Degli adolescenti sappiamo tutto, c’è sapienza e conoscenza a piene mani, sui giovani sappiamo tutto e di più, dei loro periodi di grandi cambiamenti, degli estremi che allenano il bicipite, adrenalina e imbizzarrimento, calma piatta e l’amore che diventa l’unico punto di riferimento, l’unico esempio per non avere più timore di mollare gli ormeggi, allo stesso tempo di rimanere incollati saldamente all’isola conquistata non importa come e a scapito di chi.

Ora c’è il dito puntato sulla famiglia, sulla genitorialità, che non s’è accorta di niente, non ha percepito il disagio di lei e neppure quello di lui, inputato alla sbarra c’è il mondo adulto, quello deputato a insegnare e fare apprendere i valori della vita.

In questo modo di rappresentare il buco nero profondo di queste assenze c’è il cane che si morde la coda, infatti è l’adulto, colui che traina e attrae l’adolescente, che un giorno si e l’altro pure spegne vite umane soprattutto al femminile, che sottomette, prevarica, con un atteggiamento non sempre finalizzato dalle percosse, ma impedendo alla relazione quella vera e significativa che mette al centro l’altro, perché l’altro c’è, esiste, al punto di essere traccia e orma per un amore che è un dono da custodire con cura e attenzione.

Ho l’impressione che arrivati a questo punto le chiacchiere stanno a zero, d’accordo sulla sfida educativa che riguarda i giovani, d’accordo sulla sfida rieducativa che chiama a raccolta il mondo adulto, genitoriale, professorale, d’accordo sulle reiterate parole d’ordine “cultura, educazione all’affettività, educazione sentimentale, gestione delle emozioni”, d’accordo su tutto o quasi, ma occorre smetterla di passare il testimone alla scuola per sottolineare l’inadeguatezza della famiglia.

Addirittura rimarcando le classifiche, le percentuali, i dati esponenziali che non ci indicano come il popolo più prepotente e violento in fatto di donne.

Giulia è stata cancellata, ma l’impressione è che poco ha insegnato, perché nel frattempo altre donne sono state massacrate e lasciate a terra scomposte.

Eppure nel frattempo imperterriti rimarchiamo l’attenuante generica di non essere i peggiori.

La tragedia della vendetta

La tragedia della vendetta

di Vincenzo Andraous

C’è una zona d’ombra dove è quasi impossibile relazionarsi, spiegare bene le cose, dare sostanza alle parole, contenuto alle sofferenze e alle piu’ grandi ingiustizie che stanno devastando l’umanità, o quel che resta della possibilità di vivere e convivere insieme.

Quanto avvenuto in Israele, l’oscenità delle azioni perpetrate da Hamas nei confronti di persone innocenti, di donne, vecchi, soprattutto bambini, non può avere residenza in alcun territorio del cuore, della mente, della pancia di chicchessia.

Non è accettabile la violenza messa in atto, il sangue versato tra tante e troppe grida di giubilo. Terrorismo, sì, è terrorismo, e quando di mezzo ci sono i terroristi, l’unica opzione a portata di mano è la reazione immediata, spropositata, altrettanto ingiusta e inumana, ancorchè portatrice di risoluzioni condivise.

Ho sempre guardato al paese della Stella di David come a un miraggio, un sogno, una speranza che s’avvera, affascinato dalle sue capacità di identificarsi tutti sotto l’egida di quel simbolo.

Dalla cultura e bellezza incommensurabile della sua storia che non è soltanto passato, ma un presente già futuro.

Ma tutto ciò non è sufficiente a confortare la ragione per cancellare gli interrogativi che rimangono e incalzano, sul come è stato possibile giungere a tanta ferocia e risolutezza nell’aggredire senza alcuna pietà gli innocenti.

Indipendentemente dal grido che si alza con dolore, dalla richiesta di giustizia di tante e troppe vittime, mi viene da pensare che la ragione non sta mai tra le mani di chi veste i panni del terrorismo più bieco, di chi non accetta né riconosce l’altro, di chi pensa di poter vivere e invece sopravvive disconoscendo il valore della relazione.

Ma c’è anche da pensare a un altro popolo oppresso da decenni, un altro popolo confinato in terra di nessuno, altrettanto non colpevole e altrettanto non terrorista, un altro popolo di innocenti, composto per la stragrande maggioranza da bambini e adolescenti che non appartengono ad Hamas ma alla Palestina.

Forse relegare nel silenzio anni e anni di soprusi, prevaricazioni, ingiustizie nell’indifferenza creata a misura, non comporta il recinto di uomini, donne, vecchi e bambini obbligati a camminare in ginocchio, forse questa prigione di morte protratta nel tempo genera mostri senza più via di scampo per nessuno, innocenti e colpevoli.

Babygang

Babygang

di Vincenzo Andraous

Ancora agguati, accerchiamenti studiati a tavolino, tre, cinque, dieci contro uno, botte da orbi e insulti da film da strada.

Quel che accade nelle vie del centro di troppe città, assomiglia a una commedia ripetuta all’infinito, soltanto non fa ridere nessuno.

Gruppetti di adolescenti travestiti da veterani di una guerra mai iniziata e tanto meno mai stata loro, innestano la baionetta e prendono di mira il nemico di turno, ogni giorno uno diverso, poco importa se non lo conoscono, bisogna atterrarlo.

Calci, pugni, schiaffi sono timbri evidenti sul passaporto del qui comando io, recinto e residenza ove condividere tutto, anche uno spazio dove niente e nessuno prova compassione, ma certamente neppure odio, solamente i corpitatuati dei colori neri come l’inferno dell’indifferenza.

Oramai il centro città come nella periferia è zona di combattimenti, non è più un discorso legato alla trasgressione vissuta all’ennesima potenza, al bullo ed al gruppo dei pari plaudenti e complici, l’impressione che se ne ricava da questi atteggiamenti di violenza inutile, di prevaricazione e sopruso, è che il limite sia stato superato, il rispetto delle regole azzerato, siamo già dentro dalla testa ai piedi in una situazione di illegalità, ingiustizia, di delinquenza al primo imbocco, di ragazzotti fintamente titolari del bicipite in bella mostra, ma fragili come grissini, sbilanciati pericolosamente dallo strumento della violenza che apparentemente rende famosi per forza, in realtà prepara sofferenza non soltanto alla vittima ma anche a chi si crede il più furbo e impunito, spalancando i giorni a venire in uno spazio ristretto dove non sarà più possibile nascondersi o mentire.

Qualcuno dice che occorre installare più telecamere soprattutto negli angoli dove non è dato vedere, nel tentativo di rispondere alla domanda di maggiore sicurezza urbana.

Forse mi sbaglio ma il problema non è riconducibile soltanto a fattori di microcriminalità dilagante, c’è il rischio che questi accadimenti un giorno sì e l’altro pure, si trasformino in fenomeni di moda, a maggior ragione se veicolati da una comunicazione istantanea il più delle volte portatrice di messaggi virtuali pertanto opposti e contrari alla realtà che ci circonda.

Per concretizzare la prevenzione preziosa quando si ha che fare con adolescenti che disconoscono il valore della libertà, della responsabilità, del rispetto per se stessi e gli altri, dove l’altro è ridotto a essere un numero privo di identificazione, di relazione, di dignità da custodire con cura e attenzione, non è sufficiente la sola reprimenda, il dazio giustamente da pagare, assai meglio da riparare, forse occorrono adulti che trovino il tempo di accogliere e accompagnare i più giovani, per fare questo pezzo di strada insieme è urgente comunicare con loro, persino con chi non intende proprio parlare con te.

Il potere dell’incontro

Il potere dell’incontro

di Vincenzo Andraous

I ragazzi si danno appuntamento in chat, condividono tutto, in quel tutto ci sta dentro il recinto circondato dal filo spinato dove tutto può esser condiviso, appunto, anche le miserabilità più disumane.

Attraverso i social, condividono e diffondono le immagini dei bulli per vocazione, dei maledetti per forza, della violenza, delle prevaricazioni, delle risse.

C’è un uso sopruso della rete, arrivando a ingenerare una vera e propria malattia ossessiva compulsiva della comunicazione.

Eppure nonostante quel che c’è ai bordi del percorso di ognuno e di ciascuno, che invocarisposte forcaiole e carcerocentriche, rimane a fare da ponte la vita e la conoscenza della cultura del bello, ripartendo dalle famiglie, dalla scuola, dall’oratorio, dall’importanza dell’incontro con chi alto è non per altezza fisica, bensì per autorevolezza conquistata sul campo.

Quelle persone che sono esempi che lasciano tracce e orme indelebili impossibili da non vedere-sentire, da seguire per apprendere il valore del rispetto per se stessi e per gli altri.

Ho avuto la fortuna di esser invitato a partecipare alla settimana comunitaria in un oratorio, tanti ragazzi e ragazze di svariateparrocchie, la tematica che ci ha accompagnati è stata “A ritmo di relazioni”, che ci ha permesso di fare un pezzo di strada insieme alla scoperta di cosa significhi davvero mettersi in relazione, comprendere che l’altro c’è e come, occorre finalmente guardare a un palmo dal proprio naso, dove non vediamo, peggio, non intendiamo proprio vedere.

E’ stato un incontro autentico, senza maschere, a tratti aspro, duro, urticante, perché la vita quella che risulta essere un’avventura eccezionale, è fatta anche di cadute e di inciampi, di buchi neri profondi, di sconosciuti che ti vengono incontro, stendono il loro braccio, stringono forte la tua mano, ti sradicano letteralmente dalla fossa costruita a misura.

Qualcuno ha detto come le nostre radici possono, se ben curate, diventare delle ali. Molti dei presenti che ho ascoltato con attenzione hanno preso nota e cura di come nel coltivare la relazione risulti una vera e propria salvavita la comprensione di valori come libertà, rispetto, dignità, solidarietà, amore.

Ho pensato davvero a quanto sia importante amarsi e perdonarsi, perché “se manca l’altro non stai vivendo, ma stai sopravvivendo”.

Ok Corral

Ok Corral

di Vincenzo Andraous

Senza ombra di dubbio siamo nel bel mezzo di un tornado sociale che non risparmia alcuno, professionisti della parola ed esperti di disturbi della personalità non sanno più che pesci pigliare, rimane il fatto che tante e troppe donne rimangono stese sul selciato in un bagno di sangue e bambine sempre più piccole sono profanate e gettate via.

Un paese il nostro che non riesce a formulare una sintesi, una spiegazione plausibile se non militarizzare il territorio, per tentare di arginare e costringere con le spalle al muro tanta indegna inesistenza umana.

Di per sé è già gravissimo il reato di femminicidiomoltiplicato all’infinito, figuriamoci la violenza sessuale e quella carnale compiuta da bambocci di strada che di strada non sanno proprio niente, da bulletti di periferia o di città che pensano di essere intoccabili persino nella miserabilità più inaccettabile.

In questo tempo così martoriato dalla brutalità del male, dalla prevaricazione e dal sopruso, dalla crocifissione di una innocenza dapprima umiliata e poi annientata, stordisce e fa tremare le vene dei polsi, la normalità di una narrazione mostruosamente reale, con cui si afferrano due bambine di dieci e dodici anni, si trascinano in una sorta di terra di nessuno, sì, proprio di nessuno. e per lunghi mesi a turno vengono violentate, picchiate, tra risate e scaracchi.

Nel silenzio omertoso, nella paura della minaccia incombente, due creature indifese, due bimbe, due innocenti, sono usate come carne da macello.

Da chi? Dal gruppo dei pari, da adolescenti poco più grandi, da chi ha scoperto il potere della violenza, la disumanità nascosta nella frazione di uno sparo.

E’ così incomprensibile anche solo immaginare che delle bimbe possano essere brutalizzate da coetanei ancora al primo imbocco, come è possibile anche solo pensare che delle bambine innamorate di Barbie, vengano sbattute sul selciato, aggredite, offese e torturate sessualmente da nullatenenti del corpo e dello spirito.

Da padre mi si attorcigliano le budella, rimango letteralmente sconnesso dalla ragione, come se il freddo di una lama mi colpisse al basso della schiena. La sofferenza di queste bambine è davvero insopportabile, lo è di meno purtroppo, l’indifferenza lasciata crescere nell’angolo più buio dove troppo spesso non è dato vedere.

Adolescenti semidei

Adolescenti semidei

di Vincenzo Andraous

C’è da chiedersi se conosciamo bene i nostri figli, se vale ancora la dicitura imperativo categorico: a casa mia non ci sono delinquenti né drogati o alcolizzati, queste cose accadono da un’altra parte, magari dall’altra parte della mia strada.

Ma ogni volta l’infamia più devastante irrompe nelle case dalle quiete stanze, scomponendo certezze e inutili speranze, rimanendo impietriti di fronte a tanta ferocia e assenza di compassione. In sette hanno indossato la maschera dell’amicizia, protagonisti a tutto tondo del tradimento più indegno, hanno finto di essere compagni di bisboccia, tra risate e sorrisi.

In sette l’hanno fatta bere a dismisura, in sette si sono messi in cammino sorreggendola verso il buco nero più profondo, in sette verso direzione inferno. In sette colpevoli maledetti e una innocente.

L’hanno usata e accartocciata per gettarla via, tra parole irripetibili e occhi riversati indietro, in sette a loro dire “come 100 cani tutti sopra una gatta inerme”.

Lo scempio prendeva le forme della più inaccettabile lucida follia, con la smorfia da duri delimitavano il recinto in cui tutto può esser condiviso anche lo stupro di massa come di bocca in bocca si passavano il testimone sopravvivendo incuranti alla sofferenza imposta.

Lo slang è quello della carne è carne, dentro un revenge porn in cui non ci sono consensi, soltanto la violenza ulteriore di chi della propria dignità non conosce residenza.

C’è l’esaltazione del gruppo dei pari, ognuno come un buon soldatino rimane nei ranghi, anche quando la violenza rischia di diventare insopportabile, perché il gruppo impone i metri da percorrere per intero, il gruppo non delega, il gruppo è la platea plaudente.

La piccola creatura ormai è un cencio inarticolato, ugualmente si danno il cambio, è un infierire meccanico, nessun piacere, solamente il desiderio del possesso malato, dell’imposizione di aguzzini che si sentono semidei.

La prendono a pugni, a schiaffi, incuranti della disperazione sotto i loro corpi. E mentre questa premeditata violenza si consuma, il valore stesso della vita umana viene meno, a tal punto che poteva persino accadere la cancellazione fisica di quella innocenza fatta a brandelli.

Adolescenti veterani

Adolescenti veterani

di Vincenzo Andraous

Stamattina ho assistito a uno scambio ravvicinato tra giovani poco avvezzi al rispetto di se stessi figuriamoci degli altri.

Hanno preso in mezzo un ragazzetto più giovane e lo hanno spintonato senza tanti complimenti.

Lo sfigato, così lo chiamavano, sfigato, sfigato, non ha reagito né detto niente, ero combattuto se intervenire subito o lasciare fare per vedere fin dove si sarebbero spinti.

E’ arrivato il pullman, tutto è finito lì.

Stavolta la noia, l’incapacità a rimanere fermi, la dimenticanza dell’educazione, non ha prodotto ulteriori sofferenze, ma ho ripensato alle bravate in strada, alle nocche infrante sui denti, alle classi con poche matite, ma abbondanza di coltelli, qualche pistola, tante offese e umiliazioni.

In questi casi c’è uno spreco di spiegazioni sulla diseducazione emotiva derivante da una collettività in crisi, della scuola e della famiglia in rotta di collisione con la fatica delle responsabilità.

In televisione un esperto narrava con non poca stizza, come i giovani una volta colti sul fatto dell’ennesimo misfatto, rimangano interdetti per il giudizio che ricevono.

Come se non gli appartenesse il dovere di una revisione critica per quanto agito.

Certamente ci sono le risposte dentro i disturbi di personalità, nella fragilità che diventa patologica, le trasgressioni che vengono interpretate come percorsi sgrammaticati di una devianza che di fatto è già uso dello strumento della violenza.

I giovani non sono tutti uguali, non sono fatti in serie, verissimo, ma intere tribù usano gli stessi totem, le stesse abbreviazioni esistenziali, senza chiedersi un accidente dell’eventuale risultato finale, attraverso posture comportamentali all’insegna del pugno serrato a forza, nelle prevaricazioni, piuttosto che nelle relazioni da costruire e mantenere, tutto ciò è interpretato illusoriamente come una forma di autoprotezione contro la propria fragilità, insicurezza e incapacità a elaborare qualche metro di vista prospettica.

Ripensando a stamattina, a quanto stava prendendo forma nella frazione di uno sparo, la vittima designata, il prepotente, gli accoliti, la platea plaudente, una sorta di fotogramma acomunicazione istantanea, nel tragitto assai breve che esclude e calpesta qualsiasi negoziato con l’altro, come se non esistesse l’altro, un vero e proprio licenziamento in tronco dell’interlocutore.

Con le gambe larghe e il petto in fuori resta in bella evidenza l’imitazione e il mito della forza per accorciare le distanze, disconoscendo il rispetto delle regole, ma così facendo, certo, soltanto a volte, accade che venga meno il valore stesso della vita umana.

Il mostro del sovraffollamento

Il mostro del sovraffollamento

di Vincenzo Andraous

Un giorno sì e l’altro pure un detenuto “decide” senza alcuna possibilità di decidere di togliersi la vita.

Accade senza fare rumore, accade e basta, nessuno ha mai responsabilità, mai nessuna colpa, tanto meno accusa ferite o escoriazioni sulla propria coscienza.

E’ tutto talmente irrisorio e calpestato dalle indifferenze di una società resa monca di ruggiti dignitosi ma necessari di fronte a questa mattanza relegata violentemente in sordina, che neppure ci si accorge che una donna, una detenuta, una persona al femminile, senza la costrizione della sopravvivenza in spazi ridotti o addirittura inesistenti, si garrota senza più vedere o sentire niente a un palmo dal proprio naso. Senza che nessuno s’accorga di questa ennesima evasione con i piedi in avanti.

Una donna detenuta s’arrende alla propria condizione di corpo morto, una imputata per niente sotto il carico di una condanna a fine pena mai, o seppellita da decenni di carcerazione da scontare.

Ebbene sì, una detenuta ormai a pochi metri se non centimetri dall’ultimo portone blindato che la separa dalla libertà.

Questa donna che non c’è più sarebbe uscita dal carcere in agosto, avrebbe terminato di pagare il proprio debito con la collettività tra meno di un mese.

Invece l’incidente, perché così lo chiamafurbescamente qualcuno, un incidente, un mero evento critico, omettendo di dire moltiplicato all’infinito.

Sebbene esperti dell’umano mare sommerso e tecnici del diritto penitenziario tramortito, dovrebbero sentirsi interrogati ferocemente per questamorte così vicina dal ritornare in seno alla società.

Domande che dovrebbero inchiodare le tante anime candide sulla funzione della pena, sullo scopo e utilità della stessa.

Interrogativi che implacabilmente coinvolgono volenti o non volenti l’intera società, anche coloro che si sentono intoccabili, incensurati a vita, che non avranno mai a che fare con la galera, con il reato.

La società civile, le reti di sostegno sociale, quegli assenteisti al dovere civico di reintegrare chi ha terminato di scontare una pena.

Ma non c’è da preoccuparsi come sempre ce la caveremo con la solita frase a effetto: “Queste morti sono indegne di un Paese civile”

E avanti il prossimo.

Signor Clochard e la miseria disumana

Signor Clochard e la miseria disumana

di Vincenzo Andraous

Per l’ennesima volta il più debole è stato preso di mira, spintonato e cancellato.

Un uomo che non faceva male a nessuno, che tutti i vicini descrivono come una persona gentile, educata, buona, l’esatto opposto e contrario di quanti lo hanno annientato con un pestaggio privo di un perché.

Quando accadono fatti brutali come questi uno pensa che gli autori siano disadattati con anni di asocialità alle spalle, con i capelli grigi dagli anni che passano storti, invece ancor più devastante la scoperta che si tratta di giovanissimi in preda a veri e propri disturbi della personalità, abusati dalla noia e dall’ozio, inorgogliti dal bicipite ben esposto.

Il razzismo, la supremazia più ebete, il delirio di onnipotenza del bullo o dei bulli non ci azzeccano proprio niente, la realtà sta più semplicemente nel mezzo, nella dimensione di vuoto che sta appiccicata addosso ai ragazzotti che non sanno come impiegare il tempo, perché del tempo non sanno neppure che dimora abbia, in quale residenza alberghi l’importanza degli anni che passano.

Si invoca il lutto cittadino, l’inasprimento delle pene, il carcere duro, mentre del problema di una generazione relegata in spazi dove tutto può essere condiviso, quindi anche la sopraffazione e la degenerazione più inumana, se ne parlerà più avanti, quando altri fatti eclatanti interverranno per rinvigorire la più malcelata stupefazione per tanto disagio espresso da minori in libera uscita. Non serve a nulla sparare nel mucchio, oppure autoassolversi, ciò che deve far riflettere è la mancanza di senso morale, i deliri di giustificazione che gli adolescenti mettono in atto per nascondersi da se stessi e dagli altri, soprattutto dagli innocenti calpestati e immediatamente posizionati come detriti alle proprie spalle.

La società, noi, ne discutiamo ogni volta con il senno del poi, disattenti ai segnali e alle indicazioni di pericolo che ci hanno attraversato la strada, che forse potevano spingere verso una prevenzione preziosa, quella del fare e non del blaterare a sangue sparso intorno.

Saggi, specialisti, esperti, tracciano il percorso di una deriva educativa senza precedenti, a scuola si accoltella la docente, in classe si spara, per strada si demolisce la vita di uno sconosciuto, così tanto per rendere la vita meno simile a una linea mediana.

Mai una volta che la domanda si metta di traverso per scandagliare le coscienze, quelle che reputano affascinanti comportamenti tanto indifendibili portati in scena con una cattiveria e rabbia inusitate.

E’ davvero un problema di violenza che sta diventando per i più giovani un vestito nuovo per tutte le stagioni.

Ma in questa guerra di veterani di nessuno, gli adulti che ruolo si sono ricuciti addosso, come è possibile non accorgersi di avere in casa un ragazzo che nello strumento della violenza consegna tutta la propria incapacità a fare i conti con i problemi, le possibili alternative, la responsabilità delle scelte, per cui la libertà diventa una prostituta da inseguire e aggredire.

Imputato alla sbarra assente

Imputato alla sbarra assente

di Vincenzo Andraous

A centinaia sopra e sotto le onde, a centinaia con gli occhi ribaltati indietro, a centinaia respinti e ammazzati come niente fosse, tanto i veri responsabili che non sono soltanto gli scafisti, tutt’altro, avranno deliri di onnipotenza sufficienti per non pagare mai il giusto dazio.

C’è gara a stabilire se questa nuova tragedia è più miserabile delle precedenti, se tanti bambini imbullonati alla stiva del peschereccio son rimasti schiacciati dalle dimenticanze, indifferenze, dalla politica d’accatto che oramai non risparmia alcuno.

Queste piccole vite azzerate dai soliti noti trafficanti, dagli altrettanti soliti noti del respingimento a prescindere, degli SoS volutamente non raccolti, mentre i bambini annegavano senza riuscire a destare un sussulto di dignità, di coscienza, di umanità.

Lo scarica barile è iniziato, le accuse incrociate pure, nessuno che intende fare ammenda, tutti o quasi a nascondersi dietro il proprio strapotere dei ricatti e dei confini armati fino ai denti.

La giustizia è costretta ad arrancare, a rimanere sconfitta e pure trafitta.

Tutti i protagonisti di tanta innominabile scelleratezza sono bravissimi a recitare la preghierina di cordoglio, a declinare di rimbalzo e di sponda versioni bugiarde fino all’inverosimile, addirittura accusando i migranti poi tutti o quasi morti affogati di non avere accettato le offerte di accoglienza, di aiuto.

Se Dio ha visto quello scempio, ha ascoltato il pianto di quei bimbi solitudinarizzati e cancellati, non potrà sottrarsi dall’espletare la più giusta delle riparazioni possibili.

La più giusta. Bambini senza più respiro strozzato in gola, umanità presa a calci in bocca, dentro una metodologia che non è per niente inaspettata, dentro un mare contenitore di accadimenti efferati e colpevoli quanto questo ennesimo affondamento annunciato da giorni senza che nessuno prendesse la decisione più consona e soprattutto condivisa: salvare e accogliere vite in procinto di essere destinate al macero.

I bambini dormivano quando la barcaccia è affondata, verrebbe da dire è stata fatta affondare dall’incuria e dalla troppa indifferenza, non si sono accorti di niente, quindi la coscienza e la dignità di qualcuno stanno in buone mani.

Di fronte a tanta sfrontata viltà d’animo, c’è chi dall’alto del proprio scranno ammonisce, inveisce, badando bene però di non essere scortese nell’accusare chi si è voltato nuovamente dall’altra parte.