FARE LEZIONE = INSEGNARE. INSEGNARE= FARE LEZIONE?
di Maria Grazia Carnazzola
Spesso apro i corsi per i docenti nell’anno di prova, o di formazione in servizio, con questa domanda che ho preso in prestito da un libro di L.T. Fontana. Non è un gioco di parole come di primo acchito potrebbe sembrare, al contrario permette di considerare in modo critico i problemi che inevitabilmente si pongono a chi si occupa di insegnamento/apprendimento, considerando la centralità che la lezione assume in tutti i percorsi. Le componenti di qualsiasi contesto di istruzione sono le stesse, pur nel differenziarsi e nel sovrapporsi dei processi: una persona che insegna, delle persone che devono apprendere, delle abilità e delle conoscenze che devono essere insegnate/apprese per la promozione di competenze da sviluppare, dei fattori che entrano in gioco e possono facilitare o ostacolarne lo svolgimento o interferire con il raggiungimento degli esiti, da verificare e da valutare. La lezione, con le necessarie distinzioni e declinazioni sul piano logico – la funzione semantica all’interno della disciplina-, e psicologico- nel senso delle significazioni possibili da parte di chi apprende – , rimane il perno dell’attività didattica, basti considerare che anche chi volesse dimostrare il contrario, dovrebbe comunque farlo con una lezione.
Che si svolga in presenza o a distanza, nella lezione si concretizzano la professionalità e i saperi del docente che sceglie strategicamente la curvatura degli elementi che la connotano: il contenuto, l’ambiente di apprendimento, il clima relazionale, le modalità di comunicazione e di interazione, i compiti da assegnare e i prodotti su cui misurare e valutare: cioè la finalizzazione dell’intera operazione. L’insegnante decide quale senso dare a quella specifica lezione, cioè finalizza l’azione didattica esplicitando a cosa si vuole che serva, quali esiti dovrebbe produrre, indicando i compiti e i prodotti su cui si valuteranno gli esiti, sollecitando in questo modo la motivazione e la partecipazione attiva degli studenti, elementi centrali del processo. E’ il caso di sottolineare che la didattica non è buona o cattiva ma può essere efficace o non efficace e l’efficacia si misura sul raggiungimento dei risultati attesi. Questo potrebbe essere un punto di partenza per ragionare di didattica in presenza o a distanza, sulla possibile efficacia delle due modalità in relazione agli elementi sopra indicati.
1. Integrare, non sostituire
Una prima riflessione: nuovo non significa necessariamente sostitutivo, può essere integrativo di ciò che già c’è, e che funziona, eliminando quello che non è più al passo con i tempi. La nostra scuola ha il vezzo, ogni qualvolta arrivano indicazioni di cambiamento, di trasformare le indicazioni in legge e i “best” in modelli di riferimento. Quando si è parlato di apprendimento come costruzione di significati, e non mera memorizzazione, abbiamo eliminato l’esercizio della memoria; quando si è parlato di linguistica testuale abbiamo dimenticato la grammatica; quando si è parlato di prospettiva interdisciplinare abbiamo sottovalutato i fondamenti disciplinari, per citare solo alcuni esempi. E corriamo il rischio di commettere lo stesso errore, ora, con la didattica a distanza. In questo momento forse questa modalità è l’unica soluzione per conservare una parvenza di normalità ai ragazzi, alle famiglie, alla società, alla scuola stessa, ma non possiamo sottovalutare il rischio che alla lunga, senza correttivi, quando le condizioni lo permetteranno, si vada incontro a un “disastro” nella formazione. Non è facile riflettere su ciò che sta accadendo mentre accade, ma quando è accaduto è difficile rimediare e a poco servirà cercare le responsabilità e le colpe che, probabilmente, sono di tutti: di quelli che vogliono conservare un curricolo sostanzialmente mediocre, magari con qualche abbellimento di modernità, e di quelli che “nuovo è bello a prescindere” che rincorrono in modo indiscriminato le ultime parole d’ordine, il moderno come risposta ai bisogni formativi dei ragazzi e affermazione di professionalità.
L’utilizzo critico delle tecnologie e dei media è oggi un aspetto fondamentale della formazione, costituisce una delle competenze chiave, ma bisogna ricordare anche che la formazione si fonda sui saperi, sulle discipline, sullo studio individuale orientato, sul rispetto, la responsabilità e sulla fiducia. Torna qui in primo piano l’importanza di saper strutturare e condurre “lezioni” correttamente finalizzate e la necessità di definire le condizioni in cui l’utilizzo del computer garantisce un lavoro cognitivo di qualità e un insegnamento produttivo. Perché non sempre far lezione significa insegnare.
2. Valutare per orientare e per valorizzare
Non sappiamo con certezza cosa succederà, se le scuole riapriranno prima del mese di giugno, come saranno strutturati gli esami, di terza media o di quinta superiore, come si procederà per il passaggio all’anno successivo. Sappiamo che questo anno scolastico si è interrotto nel pieno dello svolgimento delle attività programmate dalle Scuole ed è continuato con le modalità della didattica a distanza che, pur nella confusione, ha avuto il merito di tenere agganciati, e in casa, circa 8.000.000 di studenti e i genitori che li seguono. In tutto questo manca una parte importante del processo di insegnamento/apprendimento: la valutazione che è insieme momento strutturale e orientativo- per allievi e per i docenti- della programmazione per percorsi formativi di qualità. Distinguo qui tra procedure e identità degli accertamenti e l’uso politico che se ne può fare. L’attenzione di tutti, ora è concentrata sulla valutazione sommativa – pagella, giudizio, voto…- in relazione al passaggio all’anno successivo, ma la valutazione, quella rilevante dal punto di vista della didattica, è quella formativa che segnala i punti di forza e i punti di debolezza delle prestazioni, orientando gli allievi in percorsi di consapevolezza e di responsabilità verso la conoscenza, costruiti secondo il principio dell’equità e non dell’uguaglianza. Nessuno può imparare per gli altri, la partecipazione attiva di chi apprende è fattore primario; dovremmo considerare seriamente il diritto alla fatica.
Una prova di verifica non può essere eccessivamente difficile, o irrilevante o estranea al curricolo, deve essere coerente con le lezioni svolte: le conoscenze dichiarative e procedurali, così come il tipo di ragionamento implicato, devono essere chiaramente individuabili, da chi la sostiene, e l’esito restituito in tempi congrui, per evitare che l’attenzione sia posta sul feedback invece che sulla prestazione.
Le cose sono andate così, saniamo la situazione seriamente cioè da un lato capitalizzando ciò che ciascuno ha fatto, dall’altro pianificando un serio recupero sul lungo periodo, di ciò che non è stato fatto. Serve un progetto politico che sappia guardare al di là del contingente e dell’emergenza. Non possiamo fingere che “tanto poi le cose si aggiustano”: certe cose se non le impari a scuola, non le impari proprio. Se l’istruzione è un diritto e ciò che apprendi diventa competenza e serve per la vita, nessuno ti può privare di questo diritto. Qualcuno potrà obiettare che le cose non stanno così, ma proviamo ad ascoltare i ragazzi quando si rendono conto che non padroneggiano alcune conoscenze o procedure perché non sono state insegnate adeguatamente. Chi ha sorvolato per non appesantire o per non mortificare, non ha fatto loro un favore e i ragazzi lo dicono con estrema schiettezza.
3. Il dovere e la passione
In chiusura, alcune considerazioni che riguardano il rapporto adulti/bambini/ragazzi e il ruolo che tale rapporto gioca nella formazione delle giovani generazioni.
L’attività dell’insegnante è riconosciuta come “professione pubblica” (Elio Damiano) per la sua rilevanza in relazione al diritto all’educazione iniziale, e per l’intero arco della vita, e questo comporta una responsabilità pubblica dei docenti.
Cosa pensano i ragazzi e le famiglie di quei docenti che sostengono, cosa peraltro vera, che nel contratto non è prevista la didattica a distanza e non la attuano? Ce lo chiediamo? Se i doveri si assolvono solo perché sono imposti e declinati, che esempio diamo e che significato assumono parole come responsabilità, rispetto, diritti, solidarietà, vicinanza, democrazia. In una società orizzontale i doveri sono l’altra faccia dei diritti e il diritto all’istruzione è costituzionale. E ancora, diritto non è sinonimo di privilegio: purtroppo per noi adulti, l’etica, di cui ci riempiamo spesso la bocca, non si insegna con le parole ma con i comportamenti. La didattica a distanza sarà pratica obbligatoria, pare, e tutti dovranno attenersi a quanto verrà stabilito. Ma la passione per ciò che si fa, per il proprio lavoro, non si attribuisce per decreto e senza passione non c’è forza nell’azione formativa, non c’è futuro. Basterebbe, e lo dico come persona di scuola, che facessimo per i nostri allievi quello che ci aspettiamo venga fatto per i nostri figli.