Non solo soldi per i professori

da la Repubblica

Non solo soldi per i professori

Maria Pia Veladiano

LE PAROLE sono proprio tante anche se Matteo Renzi prende bizzarramente le distanze da quel che lui è, e cioè un
uomo politico.IN REALTÀ  il programma per la scuola lanciato ieri con un documento pdf di fattura didattica e dalla grafica francamente un poco kitsch ha tutte le caratteristiche della politica a cui in Italia siamo abituati. Pieno di promesse all’indicativo sicuro, di iperboli e di buonismo perfidino, a partire dal titolo, “La buona scuola”, che sottintende una cattiva scuola da cui, ancora una volta, prendere le distanze.
Eppure c’è del nuovo. C’è l’impegno a investire nella scuola, e non c’è quasi memoria di un governo che non abbia pensato di riformare la scuola con dei bei tagli. C’è la volontà di risolvere situazioni strutturali che la indeboliscono. Il precariato storico, che dal punto di vista della scuola diventa un tourbillon di docenti che si spostano di sede ogni anno. Ci sono quasi 50 pagine (di 136) dedicate ai meccanismi di assunzione immediata (2015) dei precari e questo va bene per tutti, studenti e docenti, se si trovano le risorse. Non si capisce però come questo atto di tipo centralistico si armonizzi con la necessità per ogni scuola di “schierare la squadra con cui giocare la partita dell’istruzione, ossia chiamare a scuola, all’interno di un perimetro territoriale definito e nel rispetto della continuità didattica, i docenti che riterrà più adatti per portare avanti il proprio piano dell’offerta formativa” (p.7). Che è affermazione nebbiosa, ma di certo sfiora la questione del reclutamento (si ammicca alla regionalità dei docenti già prevista e bocciata per incostituzionalità?), della sua discrezionalità (decide un Consiglio di istituto piegato al modello inglese?).
A questo fa pensare anche il “registro pubblico” dei docenti, completo dei loro titoli e crediti formativi, didattici e professionali, consultabile dai dirigenti che “a certe condizioni possono scegliere le migliori professionalità per potenziare la propria scuola” (p. 51 e p. 68). È chiaro che sarebbe un passaggio verso un’autonomia potenzialmente virtuosa perché potrebbe favorire
una forma di competizione positiva fra scuole. Vero se si parla di università o anche forse di scuole superiori. Ma nella scuola dell’istruzione obbligatoria è obbligatorio per lo Stato assicurare a tutti i bambini e le bambine una buona scuola. Per questo serve semplicemente un buon sistema di reclutamento e insieme un buon sistema di valutazione dei risultati e la possibilità vera di licenziare, con procedimenti limpidi e tutte le garanzie, chi in modo scandaloso non insegna.
Il capitolo del cosiddetto “merito” è anche troppo abbondante nel documento che minutamente spiega come ogni tre anni il 66% (una “legge Brunetta” dalle proporzioni invertite) dei docenti venga premiato con uno scatto stipendiale di 60 euro, e spiega anche il modo in cui i nuovi docenti vengono immessi nel meccanismo. A premiare il merito c’è ancora una volta solo la retribuzione e ancora una volta non si prevede nessuna figura intermedia di condivisione di responsabilità fra il dirigente e i docenti, tutti uguali tranne che per lo stipendio. Quanto alla valutazione di questo merito, si prevede un sistema di crediti didattici, formativi e professionali. I più importanti lo sappiamo sono i primi e sono i più difficili da verificare ma è necessario arrivarci. Purché non si verifichino sui risultati delle prove Invalsi. C’è una letteratura scoraggiante e anche amara su come i risultati delle prove Invalsi dipendano da una variabile italicamente creativa di fattori. È un altro discorso, ma è ben imprudente assimilare le prove Invalsi alle Ocse-Pisa, che vengono fatte a campione, da somministratori esterni eccetera eccetera.
Di buono, molto buono, nel documento c’è anche la volontà di intervenire sull’edilizia. Su questo il governo è già partito, e con una rapidità nuova. Alcune sono dichiarazioni di intenti. Tutti vogliono “sbarazzarsi della burocrazia scolastica”, che rappresenta un sovraccarico del tutto improprio rispetto all’attività con gli studenti, ma non si tratta solo di dematerializzazione. Bisogna chiedere ai docenti quel che serve e che viene davvero letto e utilizzato. È certo anche che servono “organi collegiali rivisitati, aperti, agili ed efficaci” (p. 64) e però in un contesto sociale che registra una gravissima crisi di partecipazione gli organi collegiali nati nell’età dell’euforica scoperta del bene nostro comune, diventano oggi il deserto in cui si esercitano i narcisismi di pochi. Qui il lavoro è una vera rifondazione, e ci sono esperienze già realizzate da valorizzare. Una specie di irradiamento di fiducia partecipativa, costruito poco a poco. Che gioverebbe alla società tutta.
Poi c’è la “campagna di ascolto”, annunciata da Matteo Renzi. Due mesi di raccolta di suggerimenti e desideri. La cittadinanza attiva è un bene e in scala un poco più piccola già si pratica già in modo diffuso. La scuola è chiamata all’ascolto ma la sua funzione non è inseguire la realtà e nemmeno assecondarla. È dare ai ragazzi e ai cittadini gli strumenti per leggerla, la realtà, e per governarla con capacità critica e di progetto. Per la scuola è sacro andare controvento rispetto all’arrivismo che lascia indietro metà del mondo o all’egoismo socialmente divinizzato.
La nostra non è una cattiva scuola. È una scuola senza risorse. Quest’anno un istituto comprensivo di 900 studenti riceve 29.000 euro di fondo di istituto. Queste risorse, da ripartire fra 1000 docenti e una ventina di collaboratori e addetti alla segreteria devono bastare per tutti i progetti di tutto l’anno scolastico. Se non ci fossero i contributi “volontari” delle famiglie non si andrebbe da nessuna parte. Forse adesso non siamo in cima alle indagini internazionali ma i nostri laureati sono nei laboratori e nelle università di tutto il mondo. E comunque, dopo, prima e durante la “buona scuola”, aspettiamo a piè fermo il buongoverno.