Maturità questa sconosciuta, 1 su 7 non sa nemmeno quando inizia

da La Stampa

Maturità questa sconosciuta, 1 su 7 non sa nemmeno quando inizia

E 1 su 4 non sa con quanti punti si ottiene la sufficienza agli scritti

A pochi giorni dal via ufficiale alle prove dell’esame di Stato, i maturandi non si rivelano così pronti a farci i conti, tanto che circa 1 su 7 non ha ben chiaro nemmeno quando dovrà presentarsi per sostenere il primo scritto.

E più si indaga sul loro grado di conoscenza dell’esame, più la situazione peggiora, tanto che le tipologie della prima prova, il punteggio minimo per raggiungere la sufficienza negli scritti e nel colloquio orale sono solo alcuni dei punti che restano un mistero insoluto per troppi ragazzi, specie per quelli degli istituti professionali dove spesso sono in una percentuale superiore alla media a dare risposte sbagliate o incerte. Lo rivela una web survey di Skuola.net su un campione di circa 1300 maturandi di licei, istituti tecnici e professionali.

A conoscere con certezza il giorno del fischio di inizio della maturità 2016 è circa l’87% degli intervistati, mentre il restante 13% circa si divide tra date sbagliate o su cui traballa: circa il 3% dichiara di non conoscere con certezza la data della prima prova precisando di sapere solo che si svolgerà a metà giugno, il 7% circa invece ne indica una completamente sbagliata. Poco meno di un altro 3%, infine, dichiara di non avere la più pallida idea di quando inizierà il suo esame.

La situazione non migliora quando si parla di voti e punteggi. Un maturando su 4 non sa quale voto corrisponda alla sufficienza nelle prove scritte e anche quello del colloquio orale provoca tantissimi dubbi: circa il 63% dei maturandi non sa che, per esempio, pur non esistendo un voto minimo al colloquio di maturità, per essere considerati sufficienti in questa prova bisogna ottenere un punteggio minimo di 20 punti. Addirittura, a pensare che la sufficienza alla prova orale sia fissata a 18, come quella di un esame universitario, è più di 1 studente di quinta su 2.

Chi pensa che parlando di tesina le cose migliorino, si sbaglia di grosso. In questo caso a non sapere che il lavoro finale non vale alcun punto ai fini del voto di maturità, è la quasi totalità dei maturandi, il 97%: circa il 23% è addirittura convinto che valga 10 punti, un altro 21% pensa invece che possa arrivare a farne guadagnare 5.

Un più onesto 1 su 2 ammette di non averne la più pallida idea. Pubblicate dal Ministero dell’Istruzione le commissioni d’esame, migliaia di maturandi si sono riversate sul web per capire con chi si troveranno a che fare. Migliaia sì, ma non tutti, tanto che il 16% ancora ha le idee confuse al riguardo e non sa bene come e da quanti insegnanti sarà composta la sua commissione d’esame.

E i misteri per i maturandi non finiscono qui. Dal sondaggio è emerso pure che circa 1 su 3 nutre non pochi dubbi anche sulle tipologie della prima prova scritta che dovrà sostenere a breve: più di 1 su 10 non sa che potrà scegliere, fra le altre proposte, di poter svolgere il tema storico, mentre un altro 1 su 10 circa non si aspetta di poter fare i conti con quello di attualità. Peggio che mai, esiste persino un 7% di maturandi che quando si nominano le tipologie di prima prova non ha la più pallida idea di cosa si stia parlando, mentre per un piccolo 2% entrambi i temi, sia quello di attualità che quello storico, non esistono proprio nel primo scritto.

Se invece parliamo di seconda prova, è 1 maturando su 5 a non sapere che è il Ministero dell’Istruzione a scegliere le materie sulle quali ogni anno verte lo scritto di indirizzo, mentre per quanto riguarda la terza prova il mistero si infittisce ancora di più: 1 studente su 3 non sa che a scegliere materie e tracce è la sua stessa commissione d’esame.

Femminicidio, tra 20 giorni le linee guida Miur. Boschi: il problema è l’educazione

da La Tecnica della Scuola

Femminicidio, tra 20 giorni le linee guida Miur. Boschi: il problema è l’educazione

A fine giugno dovrebbero essere pronte le Linee guida del Miur per la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni.

Le indicazioni generali per prevenire gli atti di violenza contro le donne, sono state elaborate in base a quanto previsto dal comma 16 della Legge 107/2015 di riforma “La Buona Scuola” che recita testualmente: “Il piano triennale dell’offerta formativa assicura l’attuazione dei principi di pari opportunità, promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni”.

Nell’ambito delle competenze che gli alunni devono acquisire, “fondamentale aspetto riveste l’educazione alla lotta ad ogni tipo di discriminazione, e la promozione a ogni livello del rispetto della persona e delle differenze senza alcuna discriminazione” hanno spiegato a viale Trastevere aggiungendo che le Linee guida “sono il primo atto”.

A ricordare l’importanza del provvedimento, nei giorni in cui nelle cronache imperversano episodi di femminicidio, è stato l ministro Maria Elena Boschi (che ha la delega alle Pari opportunità) in un’intervista al Corriere della Sera. La quale ha sottolineato come lo Stato abbia “la possibilità di incentivare nelle scuole una vera sensibilizzazione verso il rispetto della diversità di genere e contro la violenza sulle donne”.

“Per sconfiggere il femminicidio bisogna iniziare dalla famiglia”, ha detto ancora la Boschi, annunciando che Lucia Annibali, la donna fortemente sfregiata dall’ex fidanzato, collaborerà con la task force del governo. Il ministro ha citato anche la Scuola, tra le “agenzie” deputate all’innesto di una cultura anti-femminicidio.

Per il ministro, tuttavia, il fenomeno non è in crescita. “Se guardiamo con freddezza i dati del ministero dell’Interno – ha detto Boschi -, vediamo che nei primi cinque mesi del 2016 il fenomeno del femminicidio è sceso del 20% rispetto allo stesso periodo del 2015. Numeri che ci devono guidare, ma che servono a poco davanti al dolore di una mamma, di un fratello, di un’amica”.

E ancora: “Stiamo preparando la squadra e vorrei anche chiamare dei consulenti. Ci sono fondi per 12 milioni: si può fare molto”.

Sull’ipotesi di inasprire le pene, il ministro sottolinea: “Le sanzioni ci sono, il problema è la formazione, l’educazione”.

“Le forze dell’ordine – ha concluso Boschi – hanno acquisito maggiore consapevolezza e sono molto attente alle vittime di stalking e violenze”.

Faraone: in Sicilia niente più precariato

da La Tecnica della Scuola

Faraone: in Sicilia niente più precariato

Il sottosegretario all’istruzione Davide Faraone, ai cronisti a margine di un convegno sulla riforma della Pubblica amministrazione a Palermo, al quale ha preso parte anche il sottosegretario alla Pa Angelo Rughetti, ha detto che la precarietà in Sicilia sarà sconfitta.

“Voglio oggi rilanciare la proposta dell’Agenzia per i precari e per la loro stabilizzazione, in un contesto nel quale, il dl Enti locali porterà in Sicilia i 500 milioni attesi, già la prossima settimana e con l’accordo Stato-Regione, un miliardo e mezzo di fondi verrà trasferito alla Sicilia ogni anno in modo strutturale. Ora si può mettere in campo questa soluzione che riteniamo sia l’unica fattibile in tempi brevi per stabilizzare da un lato i dipendenti e far funzionare dall’altro la macchina burocratica”.

“Questo convegno serve a fare un ragionamento su questo importante aspetto contenuto nella riforma della Pa – ha continuato – in parte sì può agire sulle piante organiche in parte sì dovrà agire sui precari attraverso l’attività dell’Agenzia. Nel giro di pochissime settimane dovremo arrivare a una proposta, pensiamo prima dell’estate”.

“In questi anni le risorse per i precari della Regione siciliana dovevamo conquistarle nelle Leggi di stabilità, adesso per la prima volta nella storia questi soldi ci sono e ci saranno sempre. Il grande merito storico del governo Renzi è stato quello di trovare risorse per la Sicilia, che ci consentiranno di chiudere la stagione del precariato e di rendere più funzionale l’attività della pubblica amministrazione”.

“Ogni anno questi soldi li abbiamo conquistati facendo la battaglia per i precari della Regione siciliana, ora queste risorse economiche ci saranno per sempre e ci consentiranno di fare una programmazione a lungo periodo – ha aggiunto -. Siamo indietro in Sicilia di due riforme sulla Pubblica amministrazione: la riforma Brunetta e quella Madia, occorre adeguarsi a quest’ultima che è ottima”.

“Siamo riusciti a decurtare dal bilancio della Regione entrate fasulle per un miliardo e quattrocento milioni. Abbiamo fatto un patto con il governo nazionale che contiamo di chiudere la prossima settimana con il decreto enti locali, all’interno del quale ci saranno i 500 milioni di euro che la Regione attende. E poi stiamo lavorando a un patto con lo Stato affinché queste risorse diventino strutturali”.

“Una volta che ci sarà questo Patto con lo Stato – ha aggiunto – potremo programmare la stabilizzazione del personale precario”.

La scuola dei conflitti

da La Tecnica della Scuola

La scuola dei conflitti

Giuseppe Bertagna, già esperto consulente della ex ministra Mariastella Gelmini, sul Corriere della Sera interviene su un tema assai scottante, quello appunto dei conflitti che nella scuola scoppiano, mentre occorre coordinamento e collaborazione per un insegnamento proficuo a favore dei ragazzi

Questo il suo intervento

Aumentano i casi di dirigenti scolastici che chiedono il ritorno al ruolo di provenienza. Di solito sono di fresca nomina, vincitori di concorsi. Meglio insegnare che dirigere? In realtà, aumentano anche i casi di docenti in burn out: troppi conflitti tra colleghi, con gli studenti o con i genitori. C’è ormai una letteratura sul tema. Poi ci sono le patologie da codice penale. Come le aggressioni fisiche o gli insulti diffamatori di cui riferisce anche il giornale. Come è capitato. E, purtroppo, capiterà. Non è bene mettere la sordina a questi fenomeni. Meglio adoperarli come occasione per portare nel pubblico confronto alcuni esami di coscienza.

Nella scuola servono docenti e dirigenti che non solo sappiano ciò che devono insegnare o fare, ma anche e soprattutto che abbiano le competenze caratteriali, etiche e relazionali per non subire i conflitti, ma governarli e trasformarli da avversità in opportunità di crescita per tutti. Che cosa si è fatto, che cosa si fa e si farà al riguardo? Purtroppo nulla.

Essa non può basarsi sulle carte e sugli acronimi, dal Pof al Ptof, dal Rav ai Pei ai Psp e ai tanti altri ben noti agli addetti ai lavori. Deve fondarsi, al contrario, sulla qualità delle relazioni interpersonali. E siccome non esiste relazione interpersonale senza libertà di agire e responsabilità di pagare le conseguenze delle proprie azioni, le scuole dovrebbero essere quotidianamente una palestra per l’esercizio sempre più ampio di queste libertà e responsabilità. A qualsiasi livello: culturale, istituzionale, organizzativo e didattico. L’ideale sarebbero quindi famiglie e studenti che potessero «eleggere» la scuola, i docenti, i dirigenti, i compagni, le discipline da privilegiare e quant’altro si possa immaginare; e i docenti e i dirigenti potessero a loro volta «scegliere» i colleghi con cui lavorare, le famiglie con cui cooperare, gli studenti a cui insegnare, i piani di studio da sviluppare e così via. E che tutti dovessero sempre rispondere agli altri e alle istituzioni regolatorie (in primis lo Stato) delle scelte compiute.

Un tempo si diceva che non si doveva almeno superare quello per cui non bisogna «fare all’altro ciò che non si vuole sia fatto a se stessi». Il fatto è che oggi si è giunti ad amare così poco se stessi da trasferire questo disamore anche sugli altri.

Esami di stato inutili? 200 milioni di motivi. Parlano gli esperti

da La Tecnica della Scuola

Esami di stato inutili? 200 milioni di motivi. Parlano gli esperti

Duecento milioni di euro è la cifra che ogni anno lo Stato sborsa per gli esami di stato. Ma sono in effetti utili? Il parere degli esperti del mondo della scuola: Mario Rusconi, vicepresidente ANP (Associazione Nazionale Presidi); Roger Abravanel, esperto di valutazione, saggista ed editorialista del Corriere della Sera; Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Giovanni Agnelli.

#8 I costi

150 milioni di euro andrebbero ai commissari esterni, ai presidenti di commissione un’altra trentina di milioni di euro, per cui si arriva ai 200 milioni di euro, se si considerano le normali spese organizzative. A questo bisogna aggiungere il costo delle famiglie che, tra ripetizioni e materiale aggiuntivo, spendono centinaia di euro.

#7 Tutti promossi

Da anni, circa il 99% degli ammessi all’esame viene promosso: tutto merito degli studenti italiani, troppo bravi per la maturità attuale? Non proprio. “Un numero così alto di promossi non dipende certo dalla facilità dell’esame – precisa Mario Rusconi– ma da una scrematura preliminare che i docenti fanno, soprattutto negli istituti tecnici e professionali. Nei primi 2 anni di scuola, infatti, c’è un numero ben più alto di bocciati; con un’ulteriore selezione prima dell’esame”.

#6 Criteri di giudizio sbilanciati

Il voto finale, poi, può essere influenzato da diverse variabili: indirizzo di studio, severità della commissione, collocazione geografica della scuola. “I voti al Sud sono sistematicamente più alti rispetto al Nord” – sostiene Andrea Gavosto. “Secondo i dati a nostra disposizione in Calabria, ad esempio, i 100 sono il 9% del totale; in Lombardia sin fermano al 3%. Ma i Test Invalsi e le rilevazioni Pisa ci raccontano un’altra storia: la qualità dell’apprendimento è migliore al Nord. Un paradosso inaccettabile”.

#5 Commissioni litigiose

La questione commissioni è un nodo centrale. Farle tutte interne abbatterebbe i costi, ma l’esame perderebbe in credibilità. Al contrario, un commissione interamente esterna aumenterebbe le garanzie di imparzialità ma consegnerebbe gli studenti nelle mani di prof che non conoscono lo storico dei candidati. E le commissioni miste? “Non è così raro che si creino delle conflittualità forti all’interno della commissione – ci dice Mario Rusconi – in nessun posto si lavora bene senza sperimentarsi a vicenda. Così, quasi sempre, a farne le spese sono gli studenti che magari vedono abbassarsi il voto per un capriccio tra professori”.

#4 Impostazione ottocentesca

Anche le singole prove non sono esenti da responsabilità: il tema d’italiano, ad esempio, risente di un’impostazione ormai sorpassata. Sempre secondo Rusconi: “Sarebbe forse più importante saper fare un buon riassunto di un saggio o di un testo tecnico; nelle università e nel mondo del lavoro la capacità di sintesi è una delle prime abilità richieste”. Quanto all’orale, per testare davvero la “maturità” di uno studente“ andrebbe visto in una condizione di “laboratorio permanente”, osservando come si muove anche dal punto di vista pratico, nella sua capacità di usare il computer, di documentarsi, di risolvere problemi concreti”.

#3 Sistema scolastico da rivedere nel suo complesso

Come in tutte le cose, però, il problema è alla radice: alla scuola nel suo complesso che, innanzitutto, non prende in considerazione delle caratteristiche di studenti che stanno per entrare nel mondo degli adulti. “Nell’attuale maturità non c’è traccia di prove che testino le capacità di ricerca in Internet, il saper utilizzare i software più diffusi che – volenti o nolenti – tutti i giovani di oggi devono sapere maneggiare con disinvoltura sia all’università che in molti luoghi di lavoro. E poi c’è il grande tema della formazione dei docenti, rimasta ferma per un ventennio e ripartita dopo l’ultima riforma (che ha reso obbligatori i corsi d’aggiornamento); ma la strada è ancora lunga”.

#2 Non prepara all’università…

Una delle note maggiormente dolenti è che la scuola superiore non pensa al futuro dei propri studenti. Così, il primo approccio con l’università è spesso traumatico. “Gli atenei da un pezzo non credono più ai voti della maturità – dice Roger Abravanel– così organizzano i loro test d’ingresso. Ma il problema persiste anche dopo, basti pensare al fatto che il voto medio di laurea è 107 e molti 110 e lode sono fuori corso”. La soluzione? “Propongo – continua Abravanel – di aggiungere i test Invalsi anche alla maturità. Potrebbe servire a creare una misura standard di valutazione e, perché no, consentire di eliminare i test universitari. Sarebbe il primo passo per inserire la meritocrazia nella nostra scuola”. Anche se non tutti sono d’accordo che questo possa bastare: “Non credo che introdurre i test Invalsi come prova d’esame servirebbe a granché – dissente Gavosto – bisogna cambiare la maturità radicalmente, magari seguendo le migliori pratiche internazionali come le prove standardizzate o gli esami centralizzati”.

#1 …E neanche al mondo del lavoro

Ma i problemi emergono anche dopo l’università, quando si entra nel mondo del lavoro. Perché la scuola non offre gli strumenti richiesti dalle aziende. “Quello che manca ai nostri ragazzi – conclude Rusconi – è la capacità di parlare in pubblico, di saper ascoltare, di lavorare produttivamente in team. Questo è il frutto dell’isolamento che la persona nell’attuale sistema scolastico. Quando, invece, sono questi gli aspetti su cui bisognerebbe insistere di più durante gli anni delle superiori”. (ANSA)