Soft skills

Soft skills: la (pur parziale) riscoperta dell’educazione

di Gabriele Boselli

La dipendenza culturale delle alte gerarchie del mondo dell’istruzione pubblica e privata da quelle dell’industria ha un nuovo nome, naturalmente in lingua inglese: soft skills. Un caso di effetti non-perversi

Dopo aver tentato per una ventina d’anni di far crescere il pensiero convergente e ripetitivo scoraggiando quello critico e creativo attraverso test originariamente pensati secondo logiche studiate per i primati superiori, ma palesemente inadatti per i cuccioli della specie umana (metodo e applicativi INVALSI), le èlites dominanti hanno compreso che, anche solo per far crescere l’economia, le competenze e le abilità (pardon: skills) hard non bastano.
Non che Lorsignori siano ancora pervenuti all’intelligenza del fatto che l’addestramento e la valutazione oggettivistica non servono a far crescere gli operatori della scuola e il sistema economico e che non basta nemmeno l’istruzione (capacità di adoperare gli strumenti delle varie discipline) ma occorre l’educazione. Sarebbe pretendere troppo. La serie dei ministri dell’Istruzione che da Giovanni Gentile, attraverso fasi intermedie come quella illuminata da Maria Stella Gelmini (tunnel del Gran Sasso) ascende a Giuseppe Fioroni o a Marco Bussetti indica la progressiva crescita delle supreme gerarchie della scuola come garanzia di alto indirizzo culturale della scuola italiana. Dalla doppia prova di latino e da prove matematico/scientifiche nell’esame di Stato che investivano l’intero percorso liceale e da cui (1924) uscivano promossi gli studenti in misura poco superiore al 50% al quasi 100% dei giorni nostri è del resto evidente la miracolosa crescita dell’istruzione e dell’educazione assicurate agli studenti dalla macchina del MIUR grazie anche al carisma intellettuale di coloro che si sono succeduti alla stessa scrivania di Giovanni Gentile.
Negli ultimi vent’anni l’educazione è stata trattata come un’inutile anticaglia ma ormai i signori di Lorsignori hanno fatto capire che in quel mondo del lavoro che per essi costituisce l’unica vera costellazione di obiettivi della scuola, da quella dell’infanzia all’università, non servono solo soggetti competenti. Servono anche persone capaci di critica e autocritica, di intelligenza dei pensieri e delle emozioni proprie ed altrui, di innovazione nella soluzione dei problemi; soggetti non solo flessibili ma agili, capaci non solo di adattarsi all’ambiente ma di riconfigurarlo variando la propria posizione e la qualità dell’impegno. Di qui l’importanza che comincia a essere attribuita alla dignità del soggetto e alla conseguente capacità di aver fede in se stesso e di padroneggiare le forme della comunicazione, anche al fine di non restar preda della volontà di dominio e dei conflitti scatenati da altri.
Tutte capacità che la pedagogia, in quanto scienza filosofica, ha sempre indicato come aspetti salienti dell’assiologia educativa. Questo inizio di una riscoperta dell’educazione non è male ma è un peccato che questa parte del patrimonio concettuale che la scuola detiene da millenni sia ufficialmente riconosciuta solo su richiesta del mondo dell’economia.