Il merito: un tema o un problema?

Il merito: un tema o un problema?

di Maria Grazia Carnazzola

1. Un ministro nuovo, un Ministero con nome nuovo, una finalità antica.

Abbiamo un nuovo Governo. La scuola ha un nuovo ministro, il Ministero ha cambiato di nome e ora è Ministero dell’Istruzione e del Merito. La finalità della Scuola, di educazione -formazione- istruzione, mi auguro continui ad essere quella che le affida la Costituzione all’art 3, con le sottolineature di cui all’art. 34. La meritocrazia non è mai stata al centro dell’agenda politica nel nostro Paese e l’averla richiamata, spero, apra un dibattito serio che porti a rivisitare, e se necessario a correggere, pratiche e convinzioni che svuotate di ogni contenuto, rimangono solo degli slogan che mortificano la scuola e chi ci lavora. “Non esiste mai consenso preliminare all’innovazione” sostiene E. Morin; mi auguro che molto dell’attuale dissenso preventivo ai possibili cambiamenti sia riconducibile a questo. Ogni cambiamento inizia dalla manutenzione dell’esistente e dovrebbe procedere per step, vale anche per la scuola. Potrebbe essere l’occasione per riflettere senza pregiudizi sulla questione del merito, evocato da più parti come valore cardine di una scuola di qualità, anche se fino ad ora è stato osteggiato ogni sistema di valutazione che introducesse indicatori di produttività e di qualità per il personale. Già, perché i meriti- e i corrispettivi demeriti- non possono riguardare solo gli allievi. Tornando alla necessaria riflessione, queste potrebbero essere le fasi/ passaggi possibili:

  • la critica: del proprio agire- in relazione alle nuove indicazioni che saranno fornite – per ponderare, discriminare, ordinare, delineare motivi di fondatezza per assumere posizioni e decisioni in merito alla continuità/discontinuità delle azioni e delle pratiche.
  • la ricerca: per individuare spazi e sentieri non ancora percorsi, da confrontare con il già noto, per non disperdere esperienze e buone pratiche, motivare al cambiamento e al mutamento di prospettiva avendo chiaro cosa si sta modificando e perché.
  • la sfida: il cambiamento necessario per riequilibrare le opportunità, riconoscere i talenti e i meriti, le differenze e le diversità, per costruire pensiero critico come diritto di tutti di dubitare, di scegliere, di rispondere, di decidere nell’ottica di una cittadinanza veramente attiva cioè agita.

Perché le posizioni meritocratiche sono così avversate? E da chi in particolare? La giustizia, come riteneva Aristotele, consiste nel dare a ciascuno ciò che si merita nel bene e nel male, posizione condivisa da J. Stuart Mill che la considerava “l’idea di giustizia dell’opinione comune”. Anche don Milani aveva una sua idea del merito e la praticava con i suoi ragazzi. Un’idea diversa? Diversa da quale altra? E in che cosa diversa? Non essendo stato declinato il concetto di “merito” da chi intende praticarlo, ci si limiterà ad una serie di considerazioni e di riflessioni di carattere generale. Nonostante sia “autonoma”, ogni istituzione scolastica si trova sempre più spesso a confrontarsi con indirizzi che, sotto forma di circolari, decreti, direttive, linee guida, best practice, modelli suggeriti dal Ministero, determinano atteggiamenti e tendenze che finiscono per caratterizzare l’intera scuola nazionale a discapito delle particolarità territoriale e di contesto. Potrebbe non essere negativo se tutti quelli che lavorano nelle scuole possedessero gli strumenti e le motivazioni necessari per una vera autonomia di pensiero e di azione, nel rispetto e nell’alveo delle norme, per accogliere con discernimento e valutazione critica quanto proposto. Il nuovo non può essere sostitutivo del vecchio, ne deve essere un’integrazione; le modifiche- motivate e condivise- essere percepite come necessarie. Quando le indicazioni che vengono dal centro diventano leggi e gli esempi diventano regole, sotto l’egida dell’innovazione- che è sempre e comunque un “nuovo rispetto a” da cui si deve partire-, possono passare veri e propri disastri formativi. Non è facile accorgersene quando sta accadendo e quando è accaduto si cercano le responsabilità e si imputano le colpe: alla famiglia, agli insegnanti, ai dirigenti, al ministro… Il problema vero è che poi è difficile rimediare: nell’immediato sono i ragazzi a farne le spese, sul lungo periodo la società tutta. Si esagera? È successo quando si è parlato di obiettivi e si sono dimenticati i contenuti; quando arrivarono le competenze scomparvero le conoscenze; poi un nuovo significato di “apprendere” annullò l’esercizio della memoria; la scuola democratica passò per il superamento del ruolo dell’adulto; la linguistica testuale scalzò la grammatica e infine la tecnologia chiuse i conti con il passato. Tornando alla questione del merito, toccherà alla scuola la riflessione per la ricerca di senso degli eventuali cambiamenti e, per una volta, dovrà pretendere un tempo adeguato per un vero cambiamento. Sia la resistenza al cambiamento, sia l’idea che il nuovo sia giusto per il solo fatto di essere nuovo, contribuiscono al mantenimento di un sistema formativo mediocre, a volte scadente. Le prove Invalsi e gli abbandoni dei percorsi di istruzione terziaria lo testimoniano nonostante gli esiti strabilianti degli esami di Stato soprattutto degli ultimi anni.

2. Merito e meritocrazia

Non sto cercando di dirti che soltanto gli uomini colti e preparati sono in grado di dare al mondo un contributo prezioso. Non è vero. Ma sostengo che gli uomini colti e preparati, se sono intelligenti e creativi, tanto per cominciare, e questo purtroppo succede molto di rado, tendono a lasciare, nel proprio passaggio, segni di gran lunga più preziosi che non gli uomini esclusivamente intelligenti e creativi. Tendono a esprimersi con più chiarezza, e di solito hanno la passione di seguire i propri pensieri fino in fondo. E, cosa importantissima, nove volte su dieci sono più modesti dei pensatori non preparati.” (J. D. Salinger).

Leggendo questo brano, si intuisce che cosa possa essere considerato talento, la relazione che questo ha con il mondo e come il mondo ne riconosca il merito.

Il discorso rimanda ai principi su cui fonda la società meritocratica, una società che mette l’istruzione pubblica al centro della formazione per tutti, veicolo di mobilità sociale, basata sul merito anziché sui privilegi. L’istruzione è il compito fondativo della scuola a cui una società affida la riproduzione e lo sviluppo del sistema di conoscenze che costituisce il proprio patrimonio culturale, il bene comune per eccellenza.

La questione del merito, e della meritocrazia, può dar luogo a equivoci poiché evoca significati che sono più ampi di quelli che effettivamente significano, come testimoniano le autorevoli posizioni – a favore e contro- degli autori indicati nei riferimenti bibliografici. Le tesi meritocratiche fondano su tre principi: 1)-carriere aperte ai talenti; 2)- uguaglianza delle opportunità; 3)- i posti e le posizioni devono essere assegnati a chi li merita, sulla base dello competenze possedute. Sembrerebbe una cosa ovvia: è nell’interesse di tutti, per esempio, che un medico sia scelto per il livello di competenza posseduto per occupare quella posizione e non per l’appartenenza a una classe sociale, o per la particolare intelligenza o, ancora, per l’appartenenza di genere o di etnia. Il programma meritocratico, che pone spesso al centro l’istruzione meritocratica, generalmente prevede sostanziosi investimenti nella scuola pubblica, primaria e secondaria e una distribuzione equa delle risorse. Cosa va distribuito con equità in una scuola giusta? Non si può rispondere senza aver ben chiare le finalità della scuola che è e rimane un primario veicolo di giustizia e di mobilità sociale, quando contribuisce a realizzare quella uguaglianza delle opportunità su cui si costruisce la futura uguaglianza dei cittadini. Per motivare allo studio e all’impegno è necessario però fare in modo che gli studenti colleghino i loro sforzi e i loro risultati a un riconoscimento esplicito ed equo. In questo modo anche i traguardi conseguiti più lentamente e con fatica sono un merito, qualcosa di cui andare fieri perché dimostrano a sé stessi e agli altri il valore dell’impegno, delle competenze raggiunte, dell’autonomia conseguita. La scuola deve perseguire il merito o l’inclusione? Il problema sta nella o disgiuntiva: i due concetti non possono essere considerati alternativi perché riconoscere il merito di ciascuno significa di fatto includere (il senso di appartenenza rimane altro). Riconoscere il merito significa valutare conoscenze, abilità e competenze, distinguendo i processi formativi e i risultati di apprendimento non perché siano oggetti diversi, ma perché guardano gli stessi oggetti con sguardi e funzioni diverse. Il processo formativo è il percorso personale attraverso il quale ogni allievo raggiunge gli obiettivi del percorso formativo (conoscenze, abilità, competenze), con tempi, modalità, motivazioni, atteggiamenti diversi, costruendo progressivamente significati e livelli di autonomia operativa e di pensiero. È la funzione formativa della valutazione, è il momento in cui si correggono o si rafforzano gli atteggiamenti, gli apprendimenti, gli errori, le conquiste; in cui si correggono o confermano le strategie di studio e di lavoro utilizzate, dagli studenti o dagli insegnanti, per raggiungere i risultati desiderati. È questo il momento di massima responsabilità degli insegnanti verso gli studenti.

Anche il risultato di apprendimento riguarda conoscenze, abilità, competenze ma li considera e li valuta nelle risultanze, quando gli aggiustamenti non sono più possibili. Non a caso si definisce valutazione sommativa questo passaggio. Sottolineando che anche queste risultanze possono essere guardate e utilizzate in ottica formativa per successivi step dai docenti individualmente e collegialmente (DPR 122/2009- art. 1, c.2; D. lgs 62/2017- art. 1, c.2), si richiama l’attenzione sugli oggetti di accertamento, gli strumenti di accertamento e sui criteri perché la valutazione sia trasparente, equa e attendibile per quanto l’autonomia e la competenza di ogni scuola sia in grado di garantire.

La scuola pubblica può essere strumento di crescita e di sviluppo solo se comprende le trasformazioni in atto, se le gestisce e le argina quando necessario. La crescita smisurata delle deleghe educative e dei problemi che ne derivano, cozza con l’impoverimento degli strumenti professionali degli operatori. Non basta diventare esperti di tecnologie o di didattiche digitali (Nowotny) per essere adeguati a un compito di complessità elevatissima per il quale servono dotazioni culturali, pedagogiche, psicologiche, etiche.

3. Il merito è anche ciò che i giovani si meritano.

Il significato che diamo alle parole origina dalle possibilità, dalle intenzioni e dalle idealità: una finestra può essere legno e vetro o può essere luce, scriveva P.A. Florentskji. Qual è il significato che al termine “merito” dà e vuol dare la scuola? È una precisa responsabilità quella di connotarne in significato educativo-formativo perché da lì emergeranno le direzioni e la ricerca il senso dei cambiamenti, senza erranze disfattiste o catastrofiste. Rivendicando che le responsabilità devono essere commisurate alle libertà e che le libertà vanno riconosciute. Le responsabilità, in una società democratica, vanno distribuite: ci sono responsabilità politiche e responsabilità pedagogiche, non si possono continuare a confondere i due livelli. E ci sono responsabilità degli allievi che vanno definite e indicate con chiarezza: ad essere responsabili si impara anche distinguendo i diritti dai doveri, gli obblighi dalle possibilità, i significati delle parole e delle azioni in contesti diversi. Per esempio, la giustizia in senso giuridico non è la giustizia in senso etico, la verità giuridica non sempre coincide con quella etica perché la prima risponde alla morale, alla legge che è culturalmente determinata.

Proviamo a vedere la questione da un altro punto di vista: a scuola il merito è l’attenzione, la cura che i bambini, i ragazzi, i giovani adulti in formazione si meritano dal mondo adulto, dalle istituzioni, dallo Stato, da tutti quelli che devono garantire educazione-formazione- istruzione. Le nuove generazioni si meritano adulti che sappiano fare gli adulti, docenti attenti e competenti, professionisti formati, selezionati e consapevoli, capaci di coinvolgerli e di aiutarli ad assumersi le responsabilità che l’essere allievo, persona, cittadino in formazione comporta. La scuola è prima di tutto per i ragazzi e non un’agenzia di collocamento per i lavoratori. Parlare di merito è anche questo. E’ parlare di una scuola che, partendo dall’analisi degli andamenti scolastici – livelli di competenze e dispersione- cerchi di potenziare le competenze di base e di sviluppare azioni strutturali per contrastare l’abbandono scolastico, superando le logiche dell’aggiungere interventi estemporanei e dell’adempimento Legrenzi). È una questione di visione, non solo di fondi e di risorse; la missione 4 del PNRR- Istruzione e Ricerca- che coinvolge 820.000 studenti della fascia 12/24 anni è stata avviata. Azioni possibili che ogni scuola potrebbe intraprendere:

– puntare sulla personalizzazione dei percorsi per gli allievi che registrano maggiori fragilità ed esiti insufficienti per contrastare la dispersione anche implicita (cioè fragilità in tutte le discipline considerate);

– avviare iniziative specifiche di accompagnamento, di formazione e di orientamento per contrastare la dispersione implicita (molto alta per allievi provenienti da famiglie meno avvantaggiate o di cui non si conosce il background) e percorsi di sviluppo per i talenti;

– potenziare il tempo scuola con progetti e attività mirate per favorite la possibilità di accesso all’istruzione, individuando e definendo i risultati attesi dagli interventi, da quantificare sulla base di indicatori misurabili;

– attivare azioni di mentoring e di orientamento, di coaching e di sostegno disciplinare;

– coordinare le iniziative curricolari ed extracurricolari per raggiungere gli obiettivi, prevedendo azioni pluriennali dei percorsi educativi e di apprendimento che diventano così strutturali.

4. La critica: per un cambiamento ragionato.

C’è l’altra faccia della medaglia: come può la scuola pubblica continuare a sostenere che il possesso di competenze -culturali e tecniche- costituisca la condizione irrinunciabile per l’affermazione personale, negli studi e nel lavoro, quando alcuni massimi livelli istituzionali sono occupati da persone che notoriamente ne sono sprovvisti e mancano anche di expertise di ogni natura e forma. Può la scuola pubblica, guardando con sguardo pedagogico al rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione, fornire gli strumenti per comprendere la realtà in cui si vive ed agire da cittadini, per non essere spettatori inconsapevoli di gazzarre da social o mediatiche, dove un’opinione vale l’altra . Uno vale uno nella cabina elettorale, non può valere quando si tratta di occupare i posti di responsabilità da parte dei migliori e più capaci di ogni settore, attraverso un avvicendamento competente che garantisca il progresso sociale e personale, economico, politico attraverso cambiamenti funzionali e contestuali al tempo e allo spazio presenti e alla concretezza delle esistenze dei cittadini. Ciò che accade sempre più spesso nelle nostre scuole ci porta a prendere atto della frattura che si è creata tra scuola e società, tra insegnanti e genitori, della confusione generale tra diritto all’istruzione e cultura della rivendicazione, tra diritto alla trasparenza e pratica dell’ingerenza. I vecchi paradigmi interpretativi, e le regole che costituivano sistemi operativi sicuri, non funzionano più. Perché i ragazzi dovrebbero essere diversi a scuola rispetto a quello che sono nelle strade, nei bar, sui social dove sono sempre più rancorosi (loro e i loro genitori)? I ruoli non possono pretendere rispetto perché sono nella scuola, il rispetto si fonda sulla credibilità, la stimabilità, la coerenza della persona prima che del professionista. Riflettere sul fatto che la scuola oggi non ha gli strumenti né l’autorevolezza necessaria per scegliere tra una rigidità che non paga e un’amicalità che magari difende a breve dai bullismi e dai ricorsi, ma non consente la credibilità dell’istituzione né la relazionalità, né il rispetto della persona, né la motivazione ad apprendere, è il primo passo. Riflettere collegialmente e individualmente (e gli strumenti e le occasioni la scuola li possiede) per essere sicuri di ciò che si fa, di come si dirige e si organizza, di cosa si insegna e di come si insegna, di ciò che si esige e di ciò che si permette, di come si può essere ascoltati e rispettati è il primo passo: è partire dalle criticità. Per sostenere ad alta voce le proprie scelte e i propri comportamenti bisogna prima conoscerne professionalmente le ragioni; questo consente quella consapevolezza che permette di essere sicuri; essere sicuri permette di non avere paura. Delle insicurezze dei grandi i ragazzi se ne accorgono fin dalla scuola dell’infanzia e sanno cosa farsene, ma è difficile crescere, costruire se stessi, senza avere modelli, senza una intensa e continua stimolazione cognitiva e di esperienze di elaborazione. Chi dovrebbe fornire quei modelli e quegli stimoli oggi fatica: genitori, insegnanti, adulti in genere. A un modo diverso di essere figli, allievi, giovani, non si riesce a trovare un modo nuovo di essere genitori, docenti, adulti in grado di costituire punti di riferimento valoriali e morali per la costruzione di un orizzonte comune di principi e di scopi nei quali riconoscersi e per i quali impegnarsi. A cominciare dalla politica e dalle istituzioni, famiglia e scuola in primis, occorre trovare un orizzonte verso il quale far convergere istruzione ed educazione, competenze disciplinari, trasversali e di cittadinanza, educazione ai valori e costruzione di identità. Questo si meritano i giovani.

5. Per concludere

In questo tempo che sembra assediato dal provvisorio, dall’apparenza, dall’inconsistenza del luccicante, è urgente ritrovare il senso dell’educare all’esistenza che si realizza in un tempo e in uno spazio: del sapere, dell’insegnare e dell’apprendere ciò che è essenziale, coltivando l’utopia di costruire il migliore dei mondi possibili nel quale condurre una vita equilibrata, scegliendo- in base ai tempi e alla temperie culturale- percorsi che consentano una formazione aderente agli scenari del presente e alle possibilità delle fisionomie che si profilano per il futuro. Urge prendere atto della necessità di focalizzare gli apprendimenti scolastici anche sugli strumenti necessari per affrontare gli aspetti dell’esistenza che non si possono ricomprendere nell’universo dei fatti che si spiegano con la causa o la probabilità, ma per i quali bisogna ricorrere all’orizzonte dei fini e alla logica della qualità e delle possibilità, dove l’unità e la diversità sono i poli necessari della stessa struttura, nel senso dinamico in cui la intendeva Lévy- Strauss. Quello che può fare la scuola è la finalizzazione strutturale dei saperi, e dei percorsi di insegnamento-apprendimento, alla costruzione di strumenti di cittadinanza, strumenti che condensano il senso politico e culturale della centralità e dell’interezza dell’individuo, provando può essere usata come spunto di riflessione e punto di partenza per pensare a un modello nuovo di scuola che parta dalle criticità dell’esistente per delineare un percorso che affronti i problemi fondamentali dell’essere umano, individuo e cittadino, nella globalità del mondo e dell’universo, “…a cominciare dalla conoscenza percettiva fino alla conoscenza tramite parole, idee, teorie, credenze…” (Morin). La conoscenza ha senso solo se consente di confrontarci con le cose essenziali che ci riguardano, con i significati più o meno evidenti delle cose che appartengono al vicino e al lontano, al reale e all’immaginario, al presente e al passato, alla superficie e alla profondità. Alla superficie (l’informazione) appartengono i significati, la descrizione dei fatti, l’evidente. Il senso invece va oltre la neutralità della superficie, si collega alle esperienze soggettive, dirette o apprese, alla sfera emozionale di ciascuno: va in profondità, usa l’indagine, l’analisi, la comprensione. Si può andare in profondità tutti insieme ma non tutti allo stesso modo, né nello stesso tempo, né alla stessa profondità. L’importante è fare in modo che nessuno si limiti alla superficie: è compito dell’educazione, dell’istruzione, della formazione. La profondità della conoscenza richiede un tempo non contratto, un insegnamento flesso sull’apprendimento di ciascuno, che spinga alla riflessione su ciò che si vive, all’associazione con ciò che è stato, alla prefigurazione di ciò che sarà. Richiede di riconoscere che il processo di apprendimento (l’imparare) postula uno sforzo da parte dell’allievo, e non solo talenti ereditati, sottolineando nel contempo la responsabilità dell’insegnare, partendo dall’improvvisa consapevolezza di dover spiegare qualcosa che l’abitudine e gli automatismi facevano sembrare ovvio. Un insegnare, questo, che sottolinea l’asimmetricità nei rapporti studente-docente e può fondare solo sull’autorevolezza di chi insegna ed evitando di smarrire la fondamentale valenze cognitive e culturali delle competenze chiave a favore dei soli aspetti sociali e relazionali.

RIFERIMENTI

  • Florenskji P.A., (2021), Le porte regali- saggio sull’icona, Adelphi, Milano.
  • Legrenzi, P., (2022), Quando meno diventa più, Raffaello Cortina Editore.
  • Lévy-Strauss, C., (2022), Antropologia strutturale zero, Il Saggiatore.
  • Morin, E., (2015), Insegnare a vivere- manifesto per cambiare l’educazione, Raffaello Cortina.
  • Nowotny, H., (2022), Le macchine di Dio- gli algoritmi predittivi e l’illusione del controllo, Luiss University Press.
  • Sandel M., (2021), La tirannia del merito, Feltrinelli, Milano.
  • Salinger J.D., (2008), Il giovane Holden, Einaudi.
  • Santambrogio M., (2021), Il complotto contro il merito, Laterza Editori.
  • Von Hayek F., (2021), L’ordine sensoriale, Edizioni Società Aperta, Milano.
  • Young M., (1958), The rise of the meritocracy.