
Emanuele Trevi, tra verità e finzione
di Antonio Stanca
È appena stata pubblicata da Solferino, nella serie “Narratori”, Mia nonna e il Conte, un’altra opera di Emanuele Trevi che sta tra il romanzo e la favola, tra i due generi letterari più praticati dallo scrittore. Trevi è anche un critico letterario e si applica inoltre nella cura e nel commento di opere della letteratura più remota o più prossima. Non manca di farsi vedere su giornali, quotidiani o settimanali, sulle pagine culturali del “Corriere della Sera”, di farsi sentire alla radio riguardo a temi di attualità, a problemi individuali, sociali, ad interpretazioni, valutazioni, giudizi circa fenomeni di comportamento, di costume. Critico letterario, editorialista e giornalista sono gli altri impegni del Trevi ed anche qui come nella narrativa abbastanza vasta è la sua produzione, abbastanza tradotta e premiata è stata.
Figlio di uno psicanalista e di una neurologa, è nato a Roma nel 1964 e con molta probabilità dall’ambiente di casa ha ereditato quell’inclinazione a chiarire, portare alla luce, cercare le verità dell’anima, dello spirito in qualunque situazione gli fosse capitata, a qualunque opera si fosse dedicato. Esordirà nella narrativa col romanzo I cani del nulla. Una storia vera. Era il 2003, aveva trentanove anni e di carattere editoriale era stata soprattutto l’attività svolta in precedenza. Aveva curato edizioni speciali di importanti opere letterarie, si era fatto conoscere nelle sue inclinazioni, nei suoi interessi per la scrittura, la considerava un modo, un mezzo per raggiungere la verità. Altre aspirazioni si sarebbero aggiunte con gli anni, con l’osservatore, l’interprete, la voce di un tempo, di un’epoca sembra voglia identificarsi Emanuele Trevi. Ora di anni ne ha sessantuno ed ha pubblicato Mia nonna e il Conte, un’opera che sospesa, divisa rimane tra quanto succede veramente e quanto rimane solo un’idea, una fantasia. Non è la prima volta che lo scrittore si muove tra i due estremi senza accusare difficoltà o incorrere in problemi giacché entrambi importanti, entrambi giusti, necessari li ritiene a formare la vita, la storia. Di ragione e immaginazione, di coscienza ed evasione sono fatte entrambe e così le vuole rappresentare quando di certi luoghi, di certi personaggi, di certe situazioni fa i momenti, gli aspetti, i risvolti di quanto non si vede, non si sente perché si desidera soltanto, si sogna. Questo succede spesso in Mia nonna e il Conte: si parte dal lontano Settecento, dalla conquista borbonica del Regno delle Due Sicilie e si giunge ai tempi moderni, quando in Calabria si stava diventando nuovi, si stava superando il passato e confusi si era ancora tra quanto proveniva dalle leggende, dalla tradizione orale, dalle favole e quanto dalla realtà. La nonna dell’opera, Peppinella, è la nonna dell’autore, la madre di sua madre, che allora era poco più di un bambino e durante l’estate veniva da Roma per trascorrere un breve periodo di tempo nel piccolo paese della Calabria dove Peppinella abitava. La casa stava quasi al centro del paese ed era formata da un ricco e ben curato giardino con intorno le stanze dove si aggiravano oltre alla nonna la zia Delia, la dama di compagnia Carmelina, l’autista Oliviero e altre persone, le comari del vicinato, che vi si riunivano ogni sera per la televisione o per le più comuni e solite chiacchierate. La chiesa dominava le case mentre a distanza s’intravedevano le montagne e i boschi alle loro falde. Sul versante opposto c’erano la scogliera e il mare che su di essa si rifrangeva in continuazione e a volte come una minaccia. Ultimamente era venuto ad abitare, in un posto così suggestivo, un Conte, una persona di antica e alta nobiltà che aveva chiesto alla nonna il permesso di attraversare il giardino per fare prima quando la sera scendeva in paese. La nonna glielo aveva accordato e quel Conte era entrato a far parte del gruppo che si formava ogni giorno in casa di Peppinella, che si concedeva ai discorsi più diversi. A questi si erano aggiunti ora quelli del Conte che, studioso di storia napoletana e borbonica, ne conosceva molti di più e molto più composti e articolati. Non finiva mai di riportare aneddoti sui Borboni, di dire della loro vita privata, delle loro virtù, dei loro meriti contrariamente a quanto si pensava. La nonna, come lui molto avanti negli anni e come lui molto simile ad un personaggio mitologico, ad una divinità arcaica, diventerà la sua maggiore interlocutrice e argomenti suoi abituali saranno le tristi vicende attraversate dalla sua famiglia da quando il padre, medico che si era prodigato per chiunque avesse avuto bisogno, era stato ucciso da un brigante per cause ancora sconosciute. Rimasta sola con la madre non erano stati pochi i disagi sofferti anche quando si era sposata. Anche lei avrebbe perso il marito e la madre di Emanuele sarebbe stata una delle figlie rimaste. Emanuele fin da bambino aveva amato molto la lettura e la scrittura e per praticarle tendeva ad isolarsi pure quando si trovava in vacanza dalla nonna. Tra l’altro succederà che quel Conte, che il ragazzo quasi detestava, si riveli una brava persona e riesca ad interessarlo con i suoi discorsi, le sue parole, i suoi pensieri. Comincerà allora Emanuele a spiegarsi l’interesse che la nonna aveva scoperto per il Conte e il rapporto che era nato ed era cresciuto tra loro. Un rapporto formato dalle loro conversazioni, da quanto aveva fatto parte della loro lunga vita, delle loro esperienze, delle loro conoscenze che risalivano a tanti anni addietro da non permettere di distinguere tra quanto in esse c’era di vero, di vissuto e quanto d’inventato, di immaginato, tra quanto era stato loro e quanto era giunto da altre vie comprese quelle della fantasia. Si procederà così nell’opera, si creerà un’atmosfera da sogno, da visione che farà perdere di vista i segni, i simboli della realtà e così si concluderà la narrazione, con un capitolo finale dove il piccolo Emanuele di prima è ormai grande e insieme alla sorella è tornato un’ultima volta nella casa della nonna sulla scogliera calabrese. Non hanno trovato nessuno e niente di quanto c’era stato per tanto tempo: morte erano le persone, rovinate le case, finito, distrutto il verde intorno ad esse e sulle montagne. Il mare soltanto era rimasto a scagliarsi ininterrottamente contro gli scogli sui quali si ergevano le antiche torri di guardia. Un senso di smarrimento, di desolazione, di fine aveva assalito i fratelli ma a sollevarli, salvarli da quello stato erano sopravvenuti ad Emanuele gli ultimi righi della favola di Winnie Pooh, La strada di Winnie Puh: «Così s’incamminarono. Ma dovunque vadano, e qualunque cosa gli succeda per strada, in quel punto incantato in cima alla foresta, un bambino e il suo Orso stanno sempre giocando».
Nel valore della scrittura crede Trevi e più ancora in quello delle favole che quando sono scritte valgono al punto da superare ogni impedimento, da vincere su ogni problema compreso quello del tempo che passa e tutto trasforma.
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