Politiche educative e ruolo della scuola nella società contemporanea

Politiche educative e ruolo della scuola nella società contemporanea

Controreplica all’articolo di Massimo Recalcati “A scuola tornare indietro può insegnarti a crescere”

di Giovanni Fioravanti

L’intervento di Massimo Recalcati si inserisce in un dibattito pedagogico e sociale particolarmente acceso, quello relativo alle politiche educative e al ruolo della scuola nella società contemporanea. L’autore propone una lettura “simbolica” delle recenti  proposte ministeriali – il rafforzamento del voto in condotta, il divieto dell’uso dello smartphone in aula e la reintroduzione dell’apprendimento mnemonico delle poesie.

Le sue argomentazioni ruotano intorno alla necessità di reintrodurre il “senso umano della Legge” e di favorire la “separazione” dal mondo della connessione perpetua per accendere il “desiderio di sapere”.

Ora a scrivere di scuola è uno psicanalista, già sostenitore dell’erotica dell’insegnamento per riscoprire la singolare bellezza dell’apprendere, la conoscenza come oggetto del desiderio, come oggetto erotico.

Ma da uno studioso ci si attenderebbero proposte e soluzioni  fornite di efficacia e fondatezza rispetto alla ricerca psicologica e all’attualità pedagogica.

L’idea di un “tornare indietro” per “insegnarti a crescere” fa pensare che il nostro psicanalista sia a digiuno di conoscenze relative ai progressi della psicologia dell’apprendimento, alle esperienze didattiche più significative che hanno trasformato il  campo dell’educazione negli ultimi decenni, in particolare per quanto riguarda l’urgente necessità di preparare gli studenti a un futuro che richiede competenze diverse da quelle del passato.

Recalcati dipinge un quadro della scuola attuale come “luogo del caos e dell’indisciplina permanente”, dove gli insegnanti sono vittime di un “bullismo rovesciato”. Questa rappresentazione, seppur cogliendo alcune sfide reali che il corpo docente deve affrontare, rischia di essere una generalizzazione eccessiva e di attribuire la causa del problema prevalentemente a una presunta assenza di “Legge”.

Dal punto di vista della psicologia sistemica, il comportamento degli studenti e le dinamiche scolastiche non possono essere comprese isolate, ma vanno inserite in un contesto più ampio che include la famiglia, la comunità, la politica educativa e l’influenza pervasiva dei media digitali (Bronfenbrenner, 1979). Il “caos” evocato potrebbe essere il sintomo di una complessità non riconosciuta, piuttosto che la semplice conseguenza di una mancanza di autorità. La ricerca psicologica contemporanea sottolinea che l’apprendimento e il benessere socio-emotivo degli studenti sono profondamente influenzati dalla qualità delle relazioni (Hattie, 2012), dal senso di appartenenza e dalla percezione di autonomia e competenza (Deci & Ryan, 1985).

Un ambiente scolastico efficace non si basa sulla sola imposizione delle regole (“la Legge”), ma sulla costruzione di un clima di fiducia, rispetto reciproco e collaborazione. Le “sfide comportamentali” spesso celano bisogni insoddisfatti, difficoltà di autoregolazione emotiva o relazionale, o carenze nelle competenze sociali. Interventi che puntino solo sulla punizione o sul ripristino autoritario rischiano di essere inefficaci nel lungo termine, generando conformismo esteriore piuttosto che interiorizzazione delle norme e sviluppo di una responsabilità autentica. La psicologia dello sviluppo, infatti, evidenzia come la maturità morale si costruisca progressivamente attraverso l’esperienza, la riflessione e il confronto, e non come mero prodotto dell’obbedienza passiva a un’autorità esterna (Kohlberg, 1984).

Recalcati invoca il voto in condotta come un richiamo essenziale “al fatto che la formazione del soggetto non si riduce all’acquisizione di competenze, ma riguarda innanzitutto il suo rapporto con l’altro, con la comunità e con il senso di responsabilità personale”

La psicologia comportamentale e cognitiva suggeriscono che un approccio restrittivo e punitivo, sebbene possa portare ad una conformità immediata, non promuove necessariamente l’interiorizzazione delle norme morali o lo sviluppo dell’autonomia. La Self-Determination Theory (SDT) di Deci e Ryan (1985) distingue tra motivazione estrinseca (basata su ricompense o punizioni esterne) e motivazione intrinseca (derivante da interessi e valori personali). Il voto in condotta, se percepito come meccanismo di controllo esterno, rischia di agire principalmente sulla motivazione estrinseca, senza favorire lo sviluppo di un senso di responsabilità autentico, che nasce dalla comprensione del valore delle regole e della capacità di autoregolazione.

Esperienze didattiche significative, invece, hanno dimostrato l’efficacia di approcci basati sulla giustizia riparativa e sul lavoro sulle competenze socio-emotive (SEL – Social-Emotional Learning) (Elias et al., 1997). Anziché limitarsi a sanzionare la condotta negativa, questi approcci mirano a comprendere la causa dei comportamenti problematici, a promuovere la risoluzione dei conflitti, l’empatia e la negoziazione. La partecipazione degli studenti alla definizione delle regole di convivenza, la mediazione tra pari e la promozione di progetti di servizio alla comunità sono esempi di pratiche che insegnano la responsabilità in modo attivo e significativo, oltre la passiva accettazione di un giudizio esterno. Queste metodologie, non solo migliorano il clima scolastico, ma favoriscono anche uno sviluppo più profondo morale e civico (Bandura, 1991).

Il divieto dello smartphone in aula è interpretato da Recalcati come una “necessaria castrazione simbolica” volta a creare “separazione, decongestione dello spazio cognitivo, distanza” per il “desiderio di sapere.” Se la preoccupazione per la “dittatura della connessione permanente” e la “distrazione psicotecnica” è assolutamente fondata e condivisa dalla ricerca sulla cognizione e l’attenzione (Carr, 2010), la soluzione proposta merita una riflessione più articolata.

In campo psicologico, la nozione di “castrazione simbolica” pur avendo un suo peso in ambito psicoanalitico, applicata in modo così diretto al contesto didattico, rischia di semplificare un problema complesso. Il digitale non è solo una fonte di distrazione, ma anche un potente strumento di accesso alla conoscenza, di collaborazione e di espressione. La negazione totale in classe non affronta la radice del problema, o la capacità di autoregolazione e di discernimento nell’uso della tecnologia.

Dal punto di vista pedagogico, il divieto rappresenta un’occasione persa per sviluppare la cittadinanza digitale critica (Livingstone & Helsper, 2008). Invece di insegnare agli studenti a gestire in modo consapevole e responsabile uno strumento che è parte integrante della loro vita e del loro futuro professionale e civico, si opta per l’esclusione. Le esperienze didattiche più innovative, infatti, non demonizzano la tecnologia, ma la integrano nel processo di apprendimento (Prensky, 2001). Si pensi all’uso dello smartphone per ricerche istantanee, per la creazione di contenuti multimediali, per l’accesso a piattaforme di apprendimento interattivo o per la collaborazione a distanza.

Ciò che è cambiato rispetto al passato è la pervasività della tecnologia. I “nativi digitali” vivono immersi in un ambiente che richiede nuove competenze. Vietare lo smartphone in classe senza un’educazione all’uso responsabile significa lasciare gli studenti impreparati ad affrontare le sfide e le opportunità del mondo digitale. La sfida pedagogica non è spegnere il dispositivo, ma insegnarmi a “spegnerlo” mentalmente quando è opportuno, a utilizzarlo in modo produttivo, a discernere le informazioni, a proteggere la propria privacy e a interagire eticamente online. Questo richiede non una “castrazione”, ma un processo educativo attivo che sviluppi l’autocontrollo, la metacognizione e la consapevolezza critica, competenze che non nascono dal semplice divieto, ma da un percorso di apprendimento guidato (Tapscott, 2009).

La reintroduzione dell’apprendimento a memoria delle poesie è difesa da Recalcati come “immersione nel grande fiume della nostra cultura e della nostra lingua,” un “tesoro” per la vita. Anche qui, la critica non è la negazione del valore della poesia o dell’importanza della memoria, ma la problematizzazione della modalità di apprendimento proposta.

Dal punto di vista della psicologia cognitiva, la memoria non è un monolite. Esistono diversi tipi di memoria e diverse strategie di apprendimento. La ROT memory (o memoria meccanica), quella implicata nell’imparare a memoria senza comprendere il significato, è indubbiamente utile per alcune informazioni (es. date, formule). Tuttavia, la ricerca sull’apprendimento significativo (Ausubel, 1968) dimostra che l’acquisizione di nuove conoscenze è più duratura ed efficace quando queste vengono connesse a concetti preesistenti e integrate in una struttura di significato. Imparare la poesia a memoria senza un’analisi critica, una discussione sul contesto storico-culturale, sulle figure retoriche, sulle emozioni evocate e sulla risonanza personale, rischia di trasformarsi in un esercizio sterile, privo di quel “tesoro” evocato da Recalcati.

In campo pedagogico, il passaggio da un modello trasmissivo a uno costruttivista (Piaget, Vygotsky) ha enfatizzato l’importanza di un apprendimento attivo, che vede lo studente come costruttore della propria conoscenza. Le esperienze didattiche più significative in ambito letterario non si limitano alla memorizzazione, ma promuovono la lettura critica, l’interpretazione personale, la scrittura creativa, la performance e la rielaborazione dei testi. La poesia può essere un potente veicolo di cultura, ma solo se gli studenti sono invitati a interagire con questa, a esplorarne i significati, a connetterla con la propria esperienza e a produrla a loro volta (Bruner, 1960). Memorizzare un testo senza comprenderlo può generare un’avversione alla letteratura anziché un amore per questa.

Ciò che è cambiato rispetto al passato è l’enfasi sulle competenze trasversali: pensiero critico, problem-solving, creatività, comunicazione. In un’epoca in cui le informazioni sono immediatamente accessibili, la capacità di interpretare, valutare e sintetizzare diventa più cruciale della mera memorizzazione di dati o testi. Valorizzare la poesia significa renderla viva e significativa per gli studenti di oggi, non trasformarla in un compito mnemonico.

Recalcati difende anche il concetto di “merito”, spesso “frainteso ideologicamente”, richiamando l’Articolo 34 della Costituzione e lo definisce come riconoscimento dell’impegno, della dedizione e della tenacia, non come competizione selvaggia. Questa ridefinizione del merito come “perseveranza” e “capacità di misurarsi con i propri limiti e di trasformare l’ostacolo in occasione” è condivisibile. Tuttavia, è essenziale che questa visione sia tradotta in pratiche educative che non solo riconoscano l’impegno, ma garantiscano anche un punto di partenza equo e un supporto adeguato per tutti.

La psicologia dell’educazione ci ha fornito strumenti preziosi per capire la dinamica del merito. La teoria del Growth Mindset di Carol Dweck (2006) distingue tra talento  innato e immutabile e la crescita di capacità che possono essere sviluppate attraverso l’impegno. La visione di Recalcati del merito si allinea con quest’ultima, ed è un approccio altamente desiderabile. Tuttavia, le politiche sul “merito” spesso finiscono per premiare il talento innato o le condizioni socio-economiche favorevoli, invece dell’impegno, se non sono attentamente calibrate. La scuola deve essere il luogo dove si coltiva la mentalità di crescita, insegnando agli studenti che il fallimento è un’opportunità di apprendimento e che l’impegno perseverante porta al miglioramento.

Il rischio della retorica del “merito”, soprattutto se non accompagnata da una robusta politica di inclusione e di sostegno, è ciò che rafforza le disuguaglianze esistenti. La ricerca psicologica ha ampiamente dimostrato che fattori socio-economici, culturali e familiari influenzano profondamente le opportunità di apprendimento e i risultati scolastici (Anyon, 1980; Sirin, 2005). Una scuola che valorizza il merito deve, quindi, dotarsi di strumenti per riconoscere e superare queste disparità, offrendo percorsi personalizzati e supporti differenziati, come sottolineato anche da Recalcati quando menziona “senza tagliare fuori chi corre più piano.” Il vero merito, in un’ottica pedagogica moderna, è quello che emerge da un sistema che dà a tutti gli strumenti per esprimere il proprio potenziale, non solo quello che celebra chi parte già avvantaggiato.

La critica di Pasolini alla scuola di Barbiana, richiamata da Recalcati, contro un “egualitarismo che cancella le differenze”, è un monito importante. Una buona scuola non appiattisce le differenze, ma le valorizza, offrendo a ciascuno la possibilità di eccellere secondo le proprie inclinazioni e il proprio ritmo. Questo, però, richiede un investimento in una didattica inclusiva, differenziata e personalizzata, non un ritorno a un modello unico e selettivo.

In conclusione, l’articolo di Recalcati solleva questioni cruciali sul ruolo della scuola e sulle sfide del nostro tempo. Tuttavia le sue proposte, pur richiamando valori importanti come il senso del limite e la responsabilità, rischiano di fraintendere la natura della crescita educativa nel contesto contemporaneo. La scuola del XXI secolo non può permettersi il lusso di “tornare indietro”; questa deve evolvere, forte dei contributi che la psicologia e la pedagogia hanno arrecato negli ultimi decenni.

Il ruolo del docente si è profondamente trasformato: da mero trasmettitore di sapere a mentore, guida nell’apprendimento e nello sviluppo delle competenze trasversali. Le esperienze didattiche più significative oggi sono quelle che promuovono l’apprendimento attivo, cooperativo, basato sulla risoluzione dei problemi e sulla creazione di progetti, dove gli errori sono occasioni di crescita e la curiosità è il motore della conoscenza.

Ciò che è cambiato rispetto al passato non è solo l’avvento della tecnologia, ma una più profonda comprensione della mente umana, dei processi di apprendimento, delle dinamiche sociali e della necessità di un’educazione olistica che sviluppi non solo l’intelletto, ma anche la competenze emotive, sociali ed etiche. Ripristinare il “senso della Legge” non significa imporre divieti e sanzioni, ma costruire un’etica condivisa attraverso il dialogo, la partecipazione e l’esempio. Insegnare la “separazione” non significa escludere, ma educare alla gestione critica e consapevole delle proprie scelte. Coltivare il “desiderio di sapere” non significa imporre la memorizzazione, ma accendere la curiosità attraverso la scoperta e la rilevanza.

La scuola può insegnare a crescere non tornando indietro, ma guardando avanti con coraggio e innovazione, riconoscendo la complessità del presente e dotando gli studenti degli strumenti psicologici, cognitivi e sociali per diventare cittadini autonomi, critici e responsabili in un mondo in continua e rapida trasformazione.