Mauro Corona tra prima e dopo
di Antonio Stanca
È appena comparsa presso Mondadori nella serie Oscar Absolute l’ennesima ristampa de Le altalene, romanzo di Mauro Corona uscito la prima volta nel 2023. Personaggio televisivo, scultore, alpinista, scrittore, Corona è nato a Baselga di Piné, in provincia di Trento, nel 1950. Si stabilirà poi con la madre, che si è separata dal marito, e gli altri due fratelli, più piccoli di lui, ad Erto, in provincia di Pordenone. Qui trascorrerà i tempi dell’infanzia e dell’adolescenza e qui, ad Erto, dichiarerà sempre di essere nato poiché molto importante, molto sentito era risultato per Mauro il rapporto, il contatto con quel piccolo centro tra le montagne, i boschi, la neve e con la gente che vi abitava, molto determinante lo aveva considerato per la sua formazione. Da quei posti sarebbe provenuta l’idea di farne motivo di scultura, di scrittura, l’inclinazione a scalare le montagne, a diventare un abile alpinista. Era vissuto con la gente della valle del Vajont dove si trovava Erto, con persone che vivevano in stato di arretratezza, di bisogno, di povertà, che si adattavano alle circostanze più difficili, le sopportavano, si impegnavano fin dall’infanzia a procurarsi il necessario, a svolgere più mestieri, a dividersi tra la casa, la campagna, i boschi, le montagne, il torrente, le piante, le erbe, gli animali, imparavano a stare con tutto questo, a rispettarlo e viverlo come parte, aspetto essenziale, inalterabile della loro vita. Da qui era venuto prima lo scultore in legno poi lo scalatore ed infine lo scrittore, a quei luoghi, a quelle terre, a quella gente, a quell’ambiente lui faceva risalire tutto quanto era servito a costituire il suo modo di pensare e di fare, la sua anima e il suo corpo, la sua opera e la sua vita. Da qui sarebbero venute pure le forme, le figure delle sue sculture, sia di quelle degli inizi sia delle altre, le vicende, gli ambienti, i personaggi dei suoi romanzi, di tutta la sua narrativa. Erano stati così importanti quei primi anni in quei posti da diventare motivo fondamentale, tema ricorrente nelle sue opere. Numerose saranno le mostre che lo scultore allestirà, molti i riconoscimenti riservati alla sua narrativa. Molto avrebbe scolpito, molto avrebbe scritto e in nessuna delle sue opere, di qualunque genere fosse stata, sarebbe mancato quel richiamo, quel collegamento con i tempi trascorsi ad Erto, con quanto di sano, di giusto, di valido, di sicuro gli era provenuto, con quanto gli era rimasto e per sempre. Non ci sarà opera del Corona dove quei tempi, quegli ambienti non tornino a farsi vedere. A volte tra due narrazioni le somiglianze saranno tante da far pensare ad una ripetizione. Succederà così tra I misteri della montagna del 2015 e Le altalene del 2023, romanzi nei quali molti aspetti, molte circostanze torneranno uguali senza, però, scadere di tono, di livello, di significato. Ne Le altalene più marcato, più evidente risulterà il carattere autobiografico, più vicini, più legati alla vita dello scrittore saranno tanti risvolti dell’opera. Diffuso, continuo sarà il motivo del tempo trascorso e del personaggio che lo ripercorre ora, a settantatré anni, e lo confronta con il tempo presente, quello dell’attualità più recente. È lui il personaggio, è il maggiore dei tre fratelli che nel romanzo saranno abbandonati dai genitori, sua è la voce narrante, suo il dolore di chi non riesce a liberarsi del ricordo delle gravi situazioni vissute insieme ai fratelli. Il loro era stato un disagio non solo materiale ma soprattutto morale, non avevano sofferto solo nel corpo ma soprattutto nell’anima. Avevano dovuto accontentarsi non solo di poco cibo ma anche di poco affetto, di poco amore. Il padre, persona irascibile, collerica, alcolizzata, li aveva maltrattati fin dalla più piccola età, era stato violento con loro e con la moglie, era giunto ad abbandonarli tutti, lei e loro. Anche la donna se n’era poi andata aggravando lo stato di paura, di pericolo nel quale i bambini ormai vivevano. I nonni paterni e una zia sordomuta avevano provveduto ad accoglierli nella loro casa, ad assisterli, a soddisfare i loro bisogni. In casa dei nonni avrebbero trascorso l’infanzia e l’adolescenza, qui sarebbero cresciuti, si sarebbero formati a contatto con quegli elementi naturali, con quei sistemi, quei modi che facevano parte della vita di tutti e che per loro sarebbero stati, avrebbero rappresentato il periodo migliore della loro vita, quello più felice perché finalmente liberi, spensierati si erano sentiti, capaci si erano mostrati di saper parlare, pensare, fare, di avere compagni, amici, di saper stare, giocare con questi come tutti gli altri bambini. Avevano cominciato ad andare a scuola ma non rifiutavano di collaborare, di prendere parte al lavoro che il nonno svolgeva in casa dove scolpiva il legno, nella stalla dove badava agli animali e in campagna dove c’era la terra da zappare e seminare. Si erano tanto immedesimati con queste attività, con gli ambienti naturali dove le svolgevano e dove trascorrevano anche parte del tempo libero da preferirli alle aule scolastiche limitate, chiuse, all’impegno richiesto dallo studio. Crescevano intanto ed erano contenti ma anche quella età felice della loro vita era destinata a finire: il fratello medio sarebbe morto a causa di un incidente in Germania dove si era recato poiché piuttosto irrequieto e nel 1963, quando il maggiore aveva tredici anni, ci sarebbe stato il disastro della diga del Vajont, della valanga di terra ed acqua che si sarebbe rovesciata sui paesi di quella valle compreso Erto, provocando la morte di duemila persone delle quali quattrocentottantasette erano bambini. Avrebbe distrutto tutto quanto c’era in quei paesi e intorno ad essi. Era crollata la diga eretta per fermare l’acqua che scorreva e utilizzarla per scopi industriali. Col tempo quell’acqua arrestata l’aveva corrosa, la natura s’era ripreso quello che le apparteneva e nei modi di un disastro senza precedenti. Case e strade, boschi e prati, persone e cose, tutto travolse, devastò, seppellì quella valanga. Sepolti vivi nelle loro case coperte dalla terra rimasero alcuni. Pochi furono i superstiti e i loro furono casi di fortuna, momenti, frangenti particolari. Tra questi rientrarono anche i casi dei nonni, della zia sordomuta e dei piccoli fratelli. In seguito sarebbero cominciati i lavori di ricostruzione, di ristrutturazione ma lunghissimi e a volte inutili si sarebbero rivelati. Intanto la vita di quei superstiti procedeva nei modi più difficili giacché tra le rovine di quanto era rimasto si muovevano, con esse dovevano stare, di esse dovevano servirsi. Il fratello piccolo non si sarebbe adattato, avrebbe pensato ad andarsene altrove, a cercare fortuna e ad Erto sarebbe rimasto solo il maggiore che adesso, a settantatré anni, sposato e con figli maturi, si è lasciato andare ai ricordi. È rimasto soltanto lui di quella famiglia, i nonni e la zia erano morti e morti erano pure tanti suoi amici, coetanei e non, molti nel disastro della diga crollata. Lui era uno dei pochi superstiti, era sempre attraversato da un senso di malinconia, di tristezza, di abbandono, aveva cominciato a bere ma, nonostante tutto, un dovere gli era sembrato ricordare, portare alla luce quei parenti, quelle altre persone e tutto quanto c’era stato, era successo intorno a loro in un passato del quale avevano fatto parte pure i tre fratelli da piccoli. Di esso era uno dei pochi testimoni rimasti e perciò si sentiva quasi chiamato a riesumarlo. Doveva farlo anche perché un personaggio noto era stato, sempre spinto in avanti, sempre alla ricerca di nuove esperienze si era dimostrato, molte sculture in legno aveva realizzato continuando, migliorando quegli apprendimenti che gli erano provenuti dal nonno, anche prove di scrittura aveva fatto. Una memoria autorevole sarebbero risultati i suoi ricordi perché chiamato era stato ad assistere alla crisi, alla fine di quei valori morali, spirituali, di quegli ideali che lo avevano sempre sorretto, che sempre aveva perseguito, che un artista lo avevano fatto diventare. Finita era quella vita di prima, quella che aveva visto da bambino e nella quale si era formato. Altri modi di pensare, di fare erano sopravvenuti, altri valori di carattere materiale, contingente avevano sostituito quelli precedenti di carattere ideale, eterno. Non riesce a rassegnarsi a questa sconfitta né a dimenticare i tempi che c’erano stati, i principi che li avevano alimentati, i valori che avevano rappresentato. Tutto il romanzo sarà un interminabile andare tra prima e dopo, passato e presente, vecchio e nuovo, antico e moderno, bene e male, salita e discesa, conquista e perdita, successo e sconfitta, vita e morte. Dello scorrere tra questi estremi, tra avanti e indietro, saranno simbolo “le altalene” alle quali l’opera è intitolata e delle quali, però, ora, al giorno d’oggi, non c’è più traccia. Ne è rimasta solo una e pure rotta quasi a significare che la loro epoca, quella che ne aveva visto tante oscillare, fare su e giù tra le grida festose dei bambini e la gioia dei grandi, era finita poiché finito era nella vita, nella storia quel movimento.

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