Giovani ribelli del test

da la Repubblica

Giovani ribelli del test

Prove Invalsi tra le proteste. In prima fila gli studenti delle superiori che hanno boicottato il quiz e disertato le aule in tutta Italia. Accusano questo meccanismo di valutazione di mettere la scuola al servizio di logiche manageriali. Mentre solo un istituto su cinque ne usa i risultati

PROTESTANO gli studenti, che sono scesi in piazza srotolando striscioni in tutta Italia, da Milano a Siena, da Roma a Napoli, e hanno chiesto ai loro compagni di boicottare i test e di disertare le aule: «Ci chiedono cose che non sono nel programma, assurdi quiz di logica mentre intorno a noi la scuola cade a pezzi». Protestano gli insegnanti, che fin dal 2007, quando le prove Invalsi furono introdotte in tutte le scuole, gridano il loro rifiuto a farsi giudicare “con le crocette”. E protestano anche i genitori, che dalla Liguria al Veneto denunciano la discriminazione possibile per gli allievi disabili, che dovrebbero
affrontare prove “su misura” ma in molti casi si ritrovano esclusi. Tace (o almeno taceva ieri) il ministro Stefania Giannini, alla sua prima esperienza con l’ondata di malumore che fin dall’inizio le prove hanno portato con loro. E intanto i sindacati diffondono un dato che, forse, è il più preoccupante di tutti: «Soltanto una scuola su cinque — dice Francesco Scrima, segretario generale della Cisl Scuola — utilizza in qualche modo i risultati Invalsi, che vengono restituiti ai singoli istituti dopo le correzioni e le valutazioni a Roma. Questo dimostra che questo sistema calato dall’alto non funziona e che è ora di discutere con chi la scuola la fa davvero, tutti i giorni».
La protesta è iniziata lunedì,
con uno striscione fatto cadere dal tetto del Teatro Lirico, a Milano: “Boycott Invalsi Spazio Occupato”, l’esordio di una due giorni di opposizione che ha contagiato decine di istituti. Anche l’Università si è mossa
nello stesso momento, protestando contro il numero chiuso: «Graduatorie e test non possono cancellare i nostri sogni», grida Danilo Lampis dell’Unione degli studenti a Roma — «Oggi in Italia oltre il 54 per
cento degli accessi è a numero chiuso. È troppo». E sempre a Roma, lo slogan “Valutati, non schedati!” è stato lanciato dai movimenti studenteschi come parola d’ordine della protesta anti-Invalsi, che ha attraversato l’Italia: «Abbiamo deciso di rifiutare di sottoporci a un meccanismo di valutazione escludente e ingiusto che mira a rendere la scuola pubblica sempre più a servizio delle logiche manageriali
».
Le norme sulla privacy vietano di collegare il singolo studente alla sua prova, che viene svolta con un codice alfanumerico. Ma la percezione della scuola, di tutta la scuola, dalle mamme dei piccoli delle elementari fino agli studenti di seconda liceo, è quella di essere
sotto gli occhi del Grande Fratello, che scruta e controlla, che dichiara di voler aiutare ma in realtà vuole sorvegliare e selezionare. «Qualcuno ha delle idee migliori su come formulare le prove? Prego, si accomodi! », dice Annamaria Ajello, la pedagogista che da febbraio è la presidente di Invalsi. Che subito dopo chiarisce: «Di anno in anno, queste prove si sono modificate, sono evolute, imparando dalle osservazioni e dalle verifiche sul campo. E credo che siano necessari forum, seminari, eventi pubblici capaci di migliorare la percezione della finalità di questi quiz. Che è quella di verificare, in accordo con le linee nazionali (e cioè i programmi ministeriali, che non si chiamano più così per non ledere l’autonomia prevista per le singole scuole, ndr) le competenze maturate dagli alunni, in modo che ogni scuola sappia a che punto si trova».
Roberto Trinchero, docente di Pedagogia sperimentale all’Università di Torino, spezza una lancia in favore della necessità di valutare il sistema scolastico: «Le prove Invalsi non servono né a premiare o punire gli insegnanti o le direzioni scolastiche né tanto meno a valutare gli studenti. Ma semplicemente a valutare in che modo quello che si è imparato a scuola li rende capaci di misurarsi con quesiti di italiano e matematica diversi da quelli che affrontano in aula». Ed è proprio su questo punto che si scagliano gli studenti: «Valutare non può significare schedare, mettere in classifica, favorire la competizione tra scuole e studenti, indirizzare e svilire la didattica rendendola un semplice
bagaglio di nozioni da digerire per affrontare i test — insiste Danilo Lampis, coordinatore nazionale dell’Unione — Siamo l’unico Paese in Europa che somministra agli studenti dei test inutili, che non tengono conto delle condizioni sociali ed economiche degli studenti e che aprono le porte a dei criteri premiali per le scuole migliori. È inaccettabile che si spendano 16 milioni di euro per finanziare questo strumento di valutazione dannoso e inutile».
Dema Gerdol, insegnante a Pordenone, lamenta (insieme all’analoga denuncia di una mamma di Savona) come gli studenti disabili restino spesso fuori dalla porta durante le prove: «I test Invalsi dividono la scuola — dice — e ci costringono
a potenziali discriminazioni ». Ma Ajello è tassativa: «Proteste e discussioni vanno bene, ma non vorrei che chi critica le prove pensasse, sotto sotto, che si finirà col cancellarle. Possiamo migliorarle, invece, come stiamo facendo lavorando sulle singole discipline, a partire da matematica». E Trinchero le dà ragione: «Ogni metodo di misurazione è in sé discutibile. Ma ciò che le scuole dovrebbero fare, una volta ricevute le valutazioni di ritorno da parte di Invalsi, è paragonare i propri metodi con quelli degli istituti simili a loro. È chiaro che una scuola di Scampia è diversa da
una di Aosta». Secondo skuola. net, 3 studenti su 5 studiano per i test Invalsi, e dunque li prendono sul serio. Intanto Andreas Schleicher, responsabile del programma Pisa, ha spedito al Guardian una lettera punteggiata di dubbi e preoccupazioni, e pubblicata col titolo “I test danneggiano la scuola?”. Schleicher si chiede se l’ansia di “riuscire” nelle prove nazionali e internazionali (il programma Pisa, promosso dall’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione internazionale, aveva come scopo proprio quello di fissare dei parametri comuni per valutare l’efficacia dei programmi scolastici) non rischi di influenzare gli insegnanti e le famiglie, costringendoli a studiare in funzione del risultato piuttosto che per seguire obiettivi educativi. E critica il “sensazionalismo” con il quale i singoli governi sono portati a annunciare le proprie iniziative di valutazione: questi annunci possono portare a ritenere che la scuola pubblica possa essere misurata alla stregua di una società per azioni che deve produrre utili e dividendi. I lettori del Guardian si sono scatenati, giungendo a affermare che «non ci si può porre l’obiettivo di formare un essere umano». Eppure proprio il sistema scolastico anglosassone è quello che, più del nostro, propone fin dall’infanzia ai suoi alunni il sistema delle risposte aperte, o se si preferisce dei quiz a crocette, dove una soluzione è giusta e tutte le altre sbagliate, quel “vero” o “falso” che già angosciava Charlie Brown e Lucy nei racconti a strisce dei Peanuts di Charles M. Schulz.
«Non è la stessa cosa insegnare
ai Parioli o a Centocelle — insiste Francesco Scrima, il leader della Cisl Scuola — Nell’unico incontro che abbiamo avuto finora col ministro Giannini abbiamo chiesto che i criteri dei test siano profondamente rivisti e che si coinvolga la base del mondo scolastico». Intanto però migliaia di studenti di seconda
liceo (ma qualcuno anche alle medie) hanno accolto l’invito di Boycott Invalsi. E hanno consegnato i loro test in bianco, o, più sovversivo ancora, riempiti di scritte (“a me lo chiedi?”), fiorellini e disegni. Chissà in che modo verranno
“restituiti” alle scuole.