Al bando Intercultura hanno risposto in 6mila: 1.889 le richieste accolte per studiare all’estero

da Il Sole 24 Ore

Al bando Intercultura hanno risposto in 6mila: 1.889 le richieste accolte per studiare all’estero

di Maria Piera Ceci

Sempre di più i ragazzi italiani che vogliono studiare all’estero, ma ancora troppo pochi quelli che poi si decidono a farlo. A dispetto di una disoccupazione giovanile che nel mese di marzo è tornata a superare il 43% e di un mercato del lavoro che chiede la conoscenza delle lingue straniere come requisito ormai indispensabile, i nostri studenti si mostrano ancora diffidenti.
Seimila le domande arrivate quest’anno alla Fondazione Intercultura, onlus che da sessant’anni promuove la mobilità degli studenti italiani nel mondo. 1.889 i posti assegnati per l’anno scolastico 2.015-2.016. Il 69% dei ragazzi selezionati partirà con una borsa di studio totale o parziale erogata da uno sponsor o dal fondo Borse di studio di Intercultura. I dati vengono resi noti durante il convegno internazionale “Saper vivere insieme. Umanitarismo, riconciliazione, educazione alla convivenza”, a Trento-Rovereto fino al 3 maggio.

I dati Intercultura
«La percentuale di chi vuole partire è molto modesta. Sono 500mila gli iscritti alle scuole secondarie e solo seimila sono state le domande», spiega a Scuola24 Roberto Ruffino, segretario generale della Fondazione Intercultura. «Da tutte le rivelazioni risulta che sono il 15% i ragazzi che nelle scuole secondarie hanno voglia di fare esperienze all’estero. Gli altri ci fantasticano sopra, dicono che vorrebbero farla, poi però, messi di fronte alla possibilità concreta di partire, si tirano indietro. Molte le ragioni. Innanzitutto perchè è un’età in cui i ragazzi fanno molto vita di gruppo (sport, amici, fidanzati, musica) e non si sentono di staccarsi dai loro riferimenti. Poi perchè molte scuole non incoraggiano queste esperienze e, da ultimo, perchè molti genitori sono contenti che i ragazzi stiano in casa e non vadano in giro per il mondo».
Fra chi ha superato queste resistenze, cresce la voglia di America Latina, scelta quest’anno dal 23% dei ragazzi, e di Asia, scelta dal 14 per cento. L’Europa, compresi i Paesi del vecchio blocco sovietico, i Balcani e la Turchia, è meta del 35 per cento degli studenti, il Nord America del 22 per cento e l’Oceania (Australia e Nuova Zelanda) del 5 per cento.
Se fino a una quindicina di anni fa il sogno degli adolescenti italiani era di andare a studiare negli Stati Uniti, ora aumenta il numero di chi sceglie la Cina. Negli Stati Uniti l’anno prossimo studieranno 337 ragazzi, in Cina ben 118. Tra le mete più gettonate seguono la tradizionale Irlanda con 161 studenti, l’Argentina con 92, il Brasile con 69, la Finlandia con 80, il Canada con 76, l’Australia con 72 e la Thailandia con 60.
«Chi oggi va in un Paese di Asia e America Latina fa un’esperienza più esotica, rispetto a chi va negli Stati Uniti o in un Paese europeo e quando torna a casa ne parla con più fascinazione, facendo presa sui giovani – spiega ancora Ruffino -. Prima si parlava di queste zone del mondo solo quando c’era una rivoluzione o una guerra. Ora invece sono in forte sviluppo e influenzeranno le professioni di questi ragazzi che entreranno nel mondo del lavoro fra qualche anno. In America Latina ci sono i Paesi dove erano andati i nostri nonni emigranti, ora invece di Paesi come il Brasile si parla come di una futura potenza».

Il ritardo delle scuole
Cambiano le mete, ma sono ancora molti i ragazzi che si lasciano condizionare da una scuola che non incoraggia molto esperienze di questo tipo, che non riesce a fare il salto di qualità verso l’internazionalizzazione. «Abbiamo una scuola molto focalizzata sull’Italia», denuncia Ruffino che punta il dito contro i docenti: «La maggior parte degli insegnanti non ha all’attivo un’esperienza all’estero, non parla lingue straniere e ha una visione molto italocentrica del mondo. La situazione è migliore a livello di presidi, soprattutto da quando ci sono le leggi sull’autonomia che consentono ai presidi di organizzare la vita scolastica. I dirigenti scolastici hanno cominciato ad aderire all’associazione europea dei presidi, a guardare a cosa succede negli altri Paesi e si rendono ben conto che è importante aprire la scuola alle altre lingue, al dialogo con le altre nazioni. Se invece guardiamo alla composizione della classe insegnante, vediamo che sono pochi quelli che parlano una lingua straniera, quasi nessuno. E sono poche migliaia in tutta Italia quelli che hanno fatto un’esperienza con la Commissione europea, con le istituzioni internazionali, per rendersi conto di come funzionano i programmi scolastici degli altri Paesi. Quando non si conosce la realtà degli altri, si finisce con il convincersi che il proprio sistema sia il migliore, l’unico possibile per quelli che nascono in quel Paese. Di conseguenza i nostri insegnanti si concentrano sul programma scolastico, che inevitabilmente è molto nazionale e diventa un’ossessione per loro il pensiero che se gli studenti vanno fuori perdono un pezzo del programma e rimangono indietro. Se tutto viene focalizzato su una concezione nozionistica della scuola (le cose che devo imparare secondo il programma del mio Paese), andare fuori è un deragliamento. Se si facesse questo salto dalla scuola delle nozioni alla scuola delle competenze (ma nessun insegnante ha ancora chiaro in testa cosa sia la scuola delle competenze, nè sa come misurare queste competenze) allora ci si renderebbe conto che andando fuori si acquisiscono tante competenze: relazionali, comunicative, sociali, che sono quelle che la scuola dovrebbe insegnare. I ragazzi invece quando tornano a casa dopo un’esperienza all’estero sono dei pesci fuor d’acqua».

Da qui la denuncia di Intercultura
«Da anni insistiamo con il ministero perchè faccia viaggiare di più gli insegnanti, perchè li mandi a vedere cosa c’è nel resto del mondo per rendersi conto che non c’è solo il sistema italiano, ma molti altri sistemi che funzionano anche meglio del nostro», conclude Ruffino. «Invece negli ultimi 20 anni, anche nei concorsi, l’aspetto internazionale della scuola è stato sempre trascurato. Così come nella legge della #buona scuola. Francamente da un ministro che ha fatto il rettore di un’università per stranieri a Perugia mi aspettavo un po’ di più sull’internazionalizzazione della scuola».