Una partita da 500 milioni che si gioca con regole a rischio

da Il Sole 24 Ore

Una partita da 500 milioni che si gioca con regole a rischio

di G. Tr.

Le due sentenze con cui la Corte di cassazione ha dato ragione al Comune di Livorno e ha imposto a due scuole cattoliche di pagare l’Ici mette a rischio anche l’esenzione dall’Imu, per importi che giustificano l’agitazione che muove il mondo dell’istruzione paritaria da quando le due pronunce sono state depositate (si veda Il Sole 24 Ore del 15 luglio).

Per capirlo basta fare due conti. Le scuole private in Italia sono circa 13mila, in prevalenza cattoliche nei primi ordini di studio e laiche fra gli istituti secondari. Se fossero assoggettate integralmente all’Imu potrebbero vedersi presentare ogni anno un conto da circa 500 milioni. Le due scuole livornesi sono state condannate a pagare circa 40mila euro all’anno: la cifra comprende interessi e sanzioni, ma va considerato il fatto che l’Imu è più cara dell’Ici in fatto di aliquote (anche se per le scuole, accatastate in B/5, il valore catastale non cambia rispetto a quello della vecchia imposta).

Ma come mai la Corte, occupandosi dell’Ici, può mettere in crisi anche la barriera faticosamente costruita contro l’Imu? Proprio per la difficoltà con cui si è arrivati alle nuove regole, scritte in un decreto ministeriale (il Dm 200/2012 dell’Economia) che è nato per attuare una legge, ma in realtà ha aggiunto molti elementi autonomi. E la Cassazione si ferma davanti alla legge, non certo ai regolamenti.

Per capire il problema bisogna ripartire dall’inizio, cioè da quando l’Unione europea ha contestato le esenzioni d’imposta per il terzo settore scritte nel 1992, che bloccavano il pagamento sugli edifici in cui si svolgessero attività «non esclusivamente commerciali»; regole considerate troppo generose, tali da mettere a rischio la concorrenza con gli altri soggetti attivi negli stessi settori ma destinatari regolari dei bollettini di Ici e Imu (in gioco non ci sono solo le scuole, ma anche alberghi, ristoranti, ospedali e così via).

Il Governo Monti, allora, è intervenuto nel decreto “libera-Italia” (articolo 93-bis del Dl 1/2012) e ha ribaltato il principio: l’esenzione sarebbe toccata solo agli immobili occupati da attività svolte con modalità «non commerciali». L’Economia è stata quindi incaricata di fissare con decreto il modo per separare paganti ed esenti.

Fin qui la legge. Il decreto, arrivato dopo parecchi mesi, ha deciso che per essere «non commerciali» le attività dovessero essere accompagnate da tariffe «simboliche», cioè tali da non essere collegate al costo del servizio, ma per la scuola ha fatto un passo in più: l’esenzione è riconosciuta fino a quando la retta media chiesta alle famiglie non supera il «costo medio per studente» pubblicato dal ministero dell’Istruzione. La soglia è alta, perché va dai 5.739,17 euro degli asili ai 6.914,17 euro delle superiori. Il tetto, quindi, terrebbe l’Imu fuori da gran parte degli istituti privati. Il problema è che la Cassazione fissa un principio diverso, che può andare d’accordo con la legge ma rischia di avere rapporti più complicati con il decreto attuativo: l’obbligo di pagamento, scrivono i giudici, scatta quando l’attività che si svolge nell’edificio ha carattere commerciale, e per renderla tale basta e avanza la presenza di una retta, a prescindere dai risultati economici che genera. Su questa base, una nuova battaglia di carte bollate che finisca in Cassazione ha buone probabilità di demolire la barriera eretta dal decreto. Una previsione certa è impossibile, ma l’agitazione è giustificata.