da Corriere della Sera
Intelligenti si diventa. L’America ci ripensa
Basta con il mito del quoziente d’intelligenza, il Dna non è tutto. La provocazione di «The Atlantic»: per battere i cinesi in matematica, diventate confuciani e lavorate duro
«Se ti chiedessero di passare un anno della tua vita nel passato o nel futuro in quale era ti trasferiresti e perché»? O anche: «Potendo scegliere, vorresti essere stato allevato da piccolo da un robot, da un dinosauro o da un alieno»? Domande come queste che nei test di ammissione di alcune università americane cominciano a sostituire quesiti puramente nozionistici sono i segnali di uno smottamento.
LA DITTATURA DELL’«IQ» – Scosse telluriche piccole e grandi che cominciano a mettere in discussione la fede cieca riposta per oltre un secolo dal sistema scolastico Usa nell’IQ: il quoziente d’intelligenza misurato una volta per tutte, spesso in tenera età. Un parametro che piomba sulla vita di molti segnando un bivio inappellabile. Con un quoziente superiore a 110, strada aperta verso l’istruzione di alta qualità. Restando ad un livello inferiore, slalom obbligato tra gli istituti di massa, cercandone uno non proprio mediocre. Sotto quota 90, meglio impegnarsi il prima possibile in un mestiere manuale. Un metodo di selezione basato su un assioma – intelligenti si nasce – che gli psicologi evolutivi hanno sempre criticato (come puoi condannare un bimbo che non supera in modo brillante un test con un marchio di mediocrità che lo condizionerà per tutta la vita?), ma che da qualche anno viene attaccato anche sul piano scientifico da almeno due punti di vista. In primo luogo i limiti dell’IQ che misura la capacità dell’individuo di immagazzinare nozioni e di ordinarle in un sistema della conoscenza, ma non dice nulla su altre doti essenziali per la sua riuscita nella vita e nel lavoro: la creatività, la capacità di adattarsi alle situazioni, l’impegno, il senso pratico, la sensibilità sociale, la grinta davanti alle avversità. E poi, man mano che i metodi di analisi delle capacità degli studenti sono andati evolvendosi, ci si è resi conto che l’IQ non è un dato fisso e inappellabile, una sentenza definitiva legata al proprio patrimonio genetico: il DNA c’entra, ma solo fino a un certo punto. Molti dicono al 70 per cento. Il resto lo fanno il lavoro, l’insegnamento, l’ambiente nel quale si è immersi.
INTELLIGENTI SI DIVENTA – La svolta risale ad almeno due anni fa quando i risultati di una serie di sofisticati test condotti negli Usa e in Gran Bretagna (integrati da risonanze magnetiche ed elettroencefalogrammi per misurare il lavoro della materia grigia e l’attività elettrica cerebrale) vennero pubblicati dalla rivista «Nature». Ricerche che dimostrarono l’infondatezza dell’idea secondo la quale l’IQ sarebbe un numero fisso, immutabile: una specie di palla di cristallo nella quale puoi vedere il tuo futuro. Ripetendo i test a distanza di quattro anni, i risultati ottenuti dagli stessi studenti variavano in maniera significativa, con sensibili incrementi per quelli che avevano lavorato sodo. Ma anche con notevoli cali per quelli finiti in un sistema di formazione scolastica poco stimolante. Dati che, sommati alle contestazioni avanzate da anni da chi avverte che l’IQ discrimina ingiustamente chi vive in famiglie povere, in ambienti intellettualmente non stimolanti, e le minoranze etniche nere e ispaniche, hanno portato a un ridimensionamento sostanziale dell’utilizzo di questi parametri. Oggi l’IQ nel sistema scolastico Usa viene utilizzato quasi solo nella valutazione di chi soffre di disabilità mentali e per identificare fin dalla più tenera età i geni potenziali da indirizzare verso le scuole speciali per i «gifted»: istituti per superdotati (compresi asili ed elementari) che esistono anche all’interno del sistema scolastico pubblico.
LA MATEMATICA E IL COMPLESSO DI CONFUCIO – Più di recente la discussione si è accesa di nuovo attorno a un dato che suscita particolare frustrazione in America: il bassissimo rendimento dei liceali yankee in matematica, una disciplina ritenuta essenziale per affermarsi in un mondo e in un mercato del lavoro sempre più dominati dalla tecnologia. Sono anni che gli Usa scendono a precipizio nel «ranking» mondiale: il Paese con le industrie più avanzate e che produce interi eserciti di premi Nobel, surclassato in matematica dalla Cina e da tanti altri Paesi, anche del Terzo mondo. Prima lo stupore, poi tanti inviti a rassegnarsi («dipende da fattori genetici») ai quali gli studiosi di molte università invitano da tempo a reagire: più del DNA conta la cultura confuciana che spinge i cinesi a lavorare duro, mentre gli americani, appagati dal benessere, tendono a mollare. «Svegliatevi, pon è vero che siete inadatti alla matematica, non nascondetevi dietro un mito», incalzano due economisti di talento – Noah Smith e Miles Kimball – dalle pagine di«The Atlantic». E chi non è ancora convinto che la differenza di apprendimento sulle due coste dell’Oceano Pacifico la faccia il duro lavoro, più del DNA, è invitato ad andarsi a guardare i dati del rendimento scolastico alle varie età: negli anni delle elementari e delle medie il profitto degli americani in matematica è buono. Superiore, ad esempio, a quello di inglesi, tedeschi e svedesi. Poi, al liceo precipita. «Basta prendersela coi neuroni, rimbocchiamoci le maniche»: l’America prova a scrollarsi di dosso l’alibi genetico.
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