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Più Autonomia alle Regioni

PER LA PROSSIMA LEGISALTURA PIU’ AUTONOMIA ALLE REGIONI

di Gian Carlo Sacchi

La legislatura termina con un impegno trasversale a diverse amministrazioni e parti politiche: il riconoscimento di maggiore autonomia alle Regioni.

E’ noto che Lombardia e Veneto hanno celebrato un referendum in tal senso, ottenendo il conforto dei cittadini, mentre l’Emilia Romagna ha espresso un preciso indirizzo da parte dell’Assemblea Legislativa. Tre regioni che chiedono l’applicazione dell’art. 116 della Costituzione ed avviano una fase interlocutoria con il governo nazionale. Due le novità: la prima è che dalla periferia si torna a sentire il bisogno di contare di più e di valorizzare il ruolo delle istituzioni locali; dopo più di dieci anni dall’approvazione della riforma costituzionale, rimasta lettera morta per paura della competizione tra le forze politiche, qualcosa si muove. E la seconda è che il governo ha risposto positivamente, come mai era avvenuto per tutto questo tempo.

L’iter però è ancora lungo, perché si tratta di approvare da parte del nuovo Parlamento una legge per ogni regione richiedente con le materie per le quali si vuole operare con maggiore autonomia, prese tra quelle che oggi la Costituzione considera “concorrenti” tra Stato e Regioni. Si tratta di una svolta, che dato il numero di queste ultime che si aggiungono, potrebbe riproporre l’esigenza di una nuova riforma costituzionale più mirata ai diversi livelli di governo ed alle questioni fiscali.

I settori sui quali intervenire sono numerosi ma piuttosto affini tra le varie richieste, in modo da far pensare ad una nuova legge costituzionale che possa rimettere in relazione più autonomia da parte delle regioni ordinarie con le competenze esclusive di quelle a statuto speciale. Ma se non si vuole volare troppo alto ci si può accontentare di proseguire il lavoro, già avanzato nei rapporti bilaterali, auspicando che la campagna elettorale non distolga lo sguardo.

Di solito le riforme istituzionali non infiammano gli animi nel periodo preelettorale, ma costituiscono pur sempre il modo di organizzare dei contenitori nei quali sia possibile valorizzare le peculiarità dei territori, offrendo loro maggiore capacità di gestione anche a livello internazionale, prima di tutto per una visione più efficiente di Europa, per creare così maggiore ricchezza che può servire a tutto il Paese, in una prospettiva di solidarietà, ma in primis ai cittadini di quelle località per il miglioramento dei loro servizi. Ciò imporrà una diversa modalità di calcolo delle risorse che lo stato impegna per le regioni ed una compartecipazione alla fiscalità generale, in considerazione anche di un diverso e migliore uso delle stesse, così da rendere più stabile la programmazione al riparo da esigenze di finanzia pubblica.

Da altre regioni arriva la richiesta di voler partecipare alla trattativa e la cosa più interessante è che viene ad arricchirsi ulteriormente il quadro delle forze politiche in campo per quanto riguarda l’applicazione del suddetto art. 116, che pur con motivazioni diverse era stato in questi anni tralasciato. Dal Piemonte e dalla Campania, due amministrazioni di centro-sinistra, insieme a Lombardia, Emilia e Veneto emerge anche un impegno alla stabilità dei bilanci, requisito necessario per giungere alla maggiore autonomia, il che stimola in generale comportamenti virtuosi. Ma anche la Liguria, con una maggioranza di centro-destra, scende in campo e notizie in tal senso giungono dalla Puglia e dall’Umbria: l’Italia delle autonomie si mobilita di nuovo, forse con un po’ di ritardo, ristabilendo il filo conduttore della riforma del titolo quinto della Costituzione e ricercando sul territorio quelle alleanze che mettono al primo posto gli interessi dei cittadini rispetto a quelli della politica; oltre ai referendum che hanno chiamato direttamente la popolazione, questo obiettivo viene condiviso da maggioranze e minoranze dei consigli regionali.  Piemonte e Umbria riportano inoltre alla luce l’antico dibattito sulla revisione dei confini amministrativi; per essi può valere la definizione di “area vasta” già introdotta dalla legge sulla revisione delle province.

Tra le materie che ciascuna regione propone ci sono ricerca, istruzione e formazione professionale, a supporto dello sviluppo economico delle diverse realtà e della loro capacità competitiva: un “sistema” delle autonomie locali che va a rinforzare il livello nazionale e sa confrontarsi in modo più dinamico e flessibile con un’Europa delle Regioni.

Tessuto produttivo, governo e formazione devono trovare sempre più occasioni di integrazione a partire dai territori, allo stato nazionale gli elementi di regolazione e valutazione. Nell’ambito del sistema formativo occorre superare il parallelismo tra le istituzioni valorizzando la dimensione locale, a partire dalla scolarità di base, con il nuovo ciclo 0-6 anni recentemente introdotto dal D. Leg.vo 65/2017, la formazione professionale già di competenza regionale, ma in rapporto stretto con l’istruzione che si esplica attraverso l’autonomia delle scuole e delle università.

Dentro le autonomie scolastiche occorrerà scavare molto di più di quanto non si sia fatto finora, in modo da rendere efficace la loro presenza in relazione alla domanda sociale, assicurando obiettivi e standard precisi, un efficiente valutazione e una governance di carattere pubblico/partecipativo. La legge 107 ha messo in evidenza ancora di più la domanda di autonomia, ma non l’ha soddisfatta, rimanendo legata al centralismo burocratico per molte attività anche di carattere didattico.

Tra le materie indicate si nota che le diverse esigenze regionali hanno molti punti in comune, il che rende possibile da un lato individuare un quadro unitario nazionale, e, dall’altro, riconoscere le peculiarità dei territori. Solo il Veneto esprime la volontà di intervenire a definire le norme generali sull’istruzione che la Costituzione attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato, per il resto tutte vogliono occuparsi di:

– Programmazione della rete scolastica e universitaria e dell’offerta formativa regionale, per aderire alle esigenze del tessuto produttivo

– Modalità di valutazione del sistema,

– Determinazione della consistenza organica del personale

– Rapporti tra istruzione, formazione e lavoro, anche nella recente previsione delle attività di alternanza, orientamento e tirocini aziendali; sistema unico di istruzione tecnica e professionale

– Regionalizzazione delle politiche attive del lavoro

– Disciplina dei rapporti con il personale nel rispetto di uno status giuridico ed economico statale; reclutamento regionale e territorializzazione della contrattazione

– Finanziamento alle scuole non statali

– Organi collegiali territoriali e assunzione da parte delle regioni delle funzioni dell’ufficio scolastico regionale

– Educazione degli adulti

– Edilizia scolastica

– Potestà legislativa nei confronti dell’UE e gestione dei relativi fondi

– Attuazione del federalismo fiscale

– Diritto allo studio e ristorazione collettiva nelle scuole

Sono fatti salvi i limiti derivanti dal rispetto dei “livelli essenziali delle prestazioni” da garantire su tutto il territorio nazionale e la piena valorizzazione delle autonomie scolastiche come indicato dalla stessa Costituzione.

Il trasferimento di tali competenze non sembra una rivoluzione alla catalana, ma una richiesta del tutto plausibile se si vuol veramente far aderire le strutture formative alle esigenze del territorio e migliorarne l’efficienza; anzi per alcune di esse sono già in atto processi di decentramento che sarebbe bene completare.

Iniziamo dall’autonomia delle scuole e dalla loro rappresentanza istituzionale, affinchè l’offerta formativa sia davvero capace di interpretare la domanda sociale e del mondo del lavoro, nell’ambito delle norme generali sull’istruzione, integrandosi con gli altri servizi educativi, la formazione professionale e permanente, e non sia semplicemente un adempimento burocratico vincolato dalle risorse economiche dello stato e dalla rigidità dei curricoli.

Nell’ottica dell’autonomia sarà possibile riconsiderare i rapporti con le scuole non statali e tutta la questione della parità; si aspettavano norme sull’autogoverno delle scuole stesse (statuti, regolamenti, organi collegiali, piani formativi territoriali, ecc.), nemmeno sfiorate dalla buona scuola. Una programmazione regionale-locale era già prevista dal 1988, ma mai realmente attuata. Anche il passaggio delle competenze degli UUSSRR era indicata dai decreti Bassanini; le funzioni fondamentali degli enti locali sono state ribadite dal D.Leg.vo 261/2010 in corrispondenza con l’attuazione del federalismo fiscale.

Che vi sia bisogno di una maggiore autonomia nella definizione degli organici e nell’assunzione del personale lo dimostra l’inefficienza che ogni anno condiziona l’avvio delle lezioni: un timido tentativo fu fatto in passato da parte del coordinamento delle regioni, e la cosa non avrebbe contrastato i rapporti sindacali con l’introduzione di una contrattazione regionale, così come si voleva che l’assegnazione dei contributi statali alle scuole avvenisse su un unico capitolo per agevolare l’autonomia di spesa.

Sull’educazione degli adulti un documento stato-regioni del 2014 attribuiva a queste ultime il compito di realizzare una rete di strutture che oltre ai CPIA coinvolgesse anche le realtà del privato-sociale. Stato e regioni potrebbero lavorare insieme nei rapporti con l’INVAlSI per la valutazione di sistema; riprendere la questione  del canale unico tra istruzione tecnica, professionale e formazione, fino all’istruzione terziaria sarebbe stato importante, mentre il recente decreto ha limitato il riordino agli istituti professionali quinquennali, per finire con le politiche attive del lavoro che devono tornare alle regioni eleminando quella sovrastruttura che è l’ANPAL.

E si potrebbe continuare per dimostrare che il sistema è maturo per una maggiore autonomia da affidare, come avviene in quasi tutta Europa, alla gestione di “regioni virtuose”, quelle cioè con “i conti a posto”, sotto la vigile attenzione del predetto art. 116 e di una legislazione ordinaria chiara ed efficace.

Cosa aspettarci dunque dalla prossima legislatura ? Innanzitutto che non venga mortificato il lavoro fin qui svolto dai tavoli tecnici tra governo e regioni su questi temi, ma anzi che venga sviluppato fino al necessario compimento parlamentare, facendolo uscire dall’angolo degli specifici e spesso marginali rapporti multilaterali per coinvolgere i diversi dicasteri nazionali, tra i quali il Miur che in materia ha sempre assunto un comportamento frenante.

La politica scolastica in questo momento esprime una contraddizione portata dalla buona scuola: il tentativo di liberalizzare alcune procedure per rientrare in una gestione centralistica complessiva del sistema. Forse l’autonomia potrebbe far toccare con mano la necessità di certe aperture se si vogliono offrire convincenti risposte al territorio senza perdere di vista ovviamente il valore unitario del Paese.

Il diverso regionalismo scolastico

Il diverso regionalismo scolastico

di Gian Carlo Sacchi

In vista dell’apertura delle trattative con il Governo sui contenuti dell’autonomia da parte delle tre Regioni pronte al decollo, Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, iniziano a trapelare le modalità che ciascuna vorrebbe adottare nella gestione delle politiche dell’istruzione e formazione. La diversità delle proposte è visibile nella storia della loro legislazione in materia, che oggi trova la possibilità di espandere poteri e responsabilità a condizione che lo Stato accetti di cambiare ruolo, come peraltro è già previsto nel Titolo Quinto della Costituzione approvato nel 2001, sul quale dovrà basarsi il colloquio che si va ad aprire.

Esse hanno molte cose in comune, come l’istruzione e formazione professionale, ivi compresa quella superiore, già di competenza esclusiva delle regioni, che dovranno esprimere la necessaria capacità di aderire alle caratteristiche del sistema produttivo e del lavoro territoriale, fermo restando che a livello nazionale ed europeo venga adottata una valutazione e certificazione comuni che permetta lo scambio delle qualifiche (EQF), superando definitivamente la frammentazione dei titoli e consentendo il loro riconoscimento reciproco. A questo proposito lo stato dovrà decidere se mantenere inalterato il ruolo degli istituti professionali, applicando il recente decreto (D.Leg.vo 61/2017), approvato dalla buona scuola, oppure arrivare finalmente al “doppio canale”, statale e regionale, in modo da interpretare correttamente il dettato costituzionale che ha introdotto nel settore professionale un nuovo indirizzo che accomuna istruzione e formazione.

I poteri delle Regioni da inserire in una legge ordinaria devono innanzitutto riferirsi a quelle materie che l’art. 117 della Costituzione prevede già come “competenze concorrenti”; si dovranno definire gli spazi di “ulteriore autonomia”, senza mai giungere però a farle diventare esclusive delle stesse come accade in quelle a statuto speciale: trasformazione che si vorrebbe in Veneto. Ma l’occasione potrebbe essere utile anche per completare il decentramento delle prerogative statali, iniziate nel 1998 e continuate con diversi quanto inapplicati provvedimenti, tra i quali spiccano le “funzioni fondamentali” degli Enti Locali contenute nei decreti applicativi della legge sul federalismo fiscale, rimasta anch’essa in gran parte lettera morta.

In questo intreccio c’è anche da riconsiderare l’autonomia delle scuole, che la Costituzione vuole salvaguardare, ma che deve essere ridefinita in quanto “espressione dell’autonomia funzionale” (DPR 275/1999). Si tratta di un’autonomia terza che deve essere a sua volta destinataria del decentramento ministeriale, operazione avviata e via via riassorbita dal centralismo burocratico, ed entrare a far parte del sistema delle autonomie territoriali.

Da come è impostato il predetto art. 117 sembra che una sua efficace applicazione non passi solo per l’ampliamento dei poteri regionali, ma anche, come si è detto, per la riconsiderazione di quelli statali, a partire dal completo decentramento. Lo Stato anche in relazione alle indicazioni europee deve emanare “norme generali sull’istruzione”, invece il nostro è ancora radicato nella gestione totalizzante delle varie azioni di sistema e la legge sulla buona scuola ne è un esempio, in quanto arriva a prevedere bandi per progetti con finanziamenti direttii alle scuole anche per la didattica, dimenticando il tentativo sperimentale di accreditare le risorse in un unico capitolo del bilancio, lasciando a queste ultime le scelte e le modalità di impiego.

Dalla Lombardia viene la richiesta di sostituire lo Stato con la Regione, rischiando un nuovo centralismo che avoca a sé la programmazione della rete ed il dimensionamento degli istituti, il controllo degli organi di autogoverno delle scuole e quindi il condizionamento dell’autonomia degli stessi, che dovrà essere a questo punto funzionale al nuovo staterello.

Non si è ancora visto il documento ufficiale, ma dalle aperture dei giornali si nota un refrain della proposta di legge della Lega Nord del 2010. L’apertura solenne era dedicata alla disciplina regionale delle funzioni di organizzazione e amministrazione di carattere generale, nel quadro dei principi fondamentali stabiliti dallo stato: affermazione più debole di quanto non siano le norme generali indicate dal più volte citato art. 117. Le regioni, prosegue la proposta di legge, definiscono le linee programmatiche di sviluppo dei servizi e le autonomie locali sono competenti per la loro gestione. Qui è la Regione a prendere in mano il ruolo di indirizzo programmatico, di coordinamento, monitoraggio e valutazione degli esiti, pur evocando i principi di sussidiarietà e di autonomia. Sarà il federalismo fiscale a finanziare sulla base dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) e dei costi standard le funzioni fondamentali degli enti territoriali, incluso il personale. i LEP sono sì stabiliti dallo Stato, ma la Regione li può “migliorare”, facendo valere la maggiore ricchezza regionale e sganciandosi dall’equilibrio nazionale. Da qui derivano spazi di intervento sull’offerta formativa, in nome delle esigenze locali.

I lombardi poi sono molto interessati al controllo della disciplina attuativa della parità scolastica, pensando ad una versione sempre più legata all’economia privatistica della formazione.

Ma quello che più sta a cuore a questa regione è il trasferimento delle funzioni amministrative del personale: reclutamento, regolamentazione delle funzioni e livello autonomo di contrattazione integrativa; tutela (sic ?) della libertà di insegnamento; ruoli regionali e relativi concorsi, organizzazione del lavoro. L’offerta formativa deve trovare coerente realizzazione nella potestà regionale di allocazione delle risorse umane disponibili sul territorio ed anche se lo stato giuridico ed economico rimangono oggetto di trattativa nazionale, l’organico dipenderà dalla regione, così come la valutazione dello stesso. Anche se non sembra tornare lo slogan : “prima i lombardi”, si ha motivo di credere alla reintroduzione della chiamata diretta da un albo regionale degli insegnanti, per una successiva dipendenza funzionale dalle scuole.

La proposta leghista si conclude con un’attenzione particolare al curricolo, una parte del quale è già affidata alle regioni dalla legislazione in vigore ed è finalizzata alla “conoscenza del territorio”. In Lombardia sono già stati deliberati interventi in questo senso e piani regionali di formazione professionale sono presenti nei corrispondenti istituti statali.

Aumentare il numero delle regioni a statuto speciale, sostituire lo stato con la regione, oppure integrare i due versanti come propone l’Emilia Romagna. Non si tratta perciò di aumentare le prerogative di una parte a spese dell’altra, anche se, come si è detto, occorre prima portare a termine l’operazione di decentramento, ma di ripartire, ognuno con le competenze che la Costituzione prevede per arrivare ad un sistema allargato e integrato che arricchisca maggiormente il territorio ai diversi livelli e renda più efficiente i rapporti con l’economia ed il lavoro. Per far sì che questo approccio sia efficace bisogna evitare le duplicazione degli interventi, andando a mettere ordine nei poteri statali ed assegnando a quelli regionali la giusta dimensione, affinchè resti un unico sistema nazionale, orientato all’Europa (norme generali, personale e parte del curricolo, riconoscimento dei titoli) e si allarghi la presenza della regione per il valore aggiunto di cui è portatrice (programmazione, integrazione, qualificazione) per contribuire al costante miglioramento dell’intero sistema. La legge regionale emiliano-romagnola del 2003 affidava fin da allora il curricolo regionale all’autonomia delle scuole.

In questo orizzonte politico composto da elementi permanenti per tutto il Paese, compresa l’applicazione del principio di sussidiarietà verticale e orizzontale, ed i caratteri variabili per i vari territori, che più direttamente coinvolgono l’aspetto economico, ci può finalmente entrare il riconoscimento della dimensione pedagogico-didattica, incarnata dall’autonomia delle scuole, che così ha senso veder tutelata dalla Costituzione. Le scuole non possono più essere ormai un’appendice amministrativa e benchè governate da un’azione partecipativa non assomigliano ad un comune. Oltre all’autonomia giuridica ne esiste una che potremmo definire epistemologica in virtù dello specifico compito che svolgono. Non si tratta di cambiare padrone, ma di entrare a far parte di un “sistema” delle autonomie a beneficio delle comunità locali e nazionale.

La legge sulle autonomie regionali dunque potrebbe essere lo strumento per far arrivare a compimento questa realtà che attende da tanti anni e che la buona scuola ha clamorosamente mancato.

Nuovo regionalismo

Nuovo regionalismo
Non roviniamo ancora tutto

di Gian Carlo Sacchi

 

E’ ancora vivo il ricordo del processo di modifica del titolo quinto della Costituzione culminato nel 2001 con un referendum confermativo a carattere nazionale al quale ha preso parte circa il 34% degli italiani. Era cominciato con l’idea di federalismo sul modello tedesco, anche se sappiamo provenire da storie diverse, voleva confermare ed ampliare i poteri delle regioni a statuto ordinario mai definiti in modo completo e adeguato, nonché il decentramento dei servizi proposto dalla riforma della pubblica amministrazione. Il dibattito di quegli anni infatti si incentrava sul passaggio di competenze e strutture dal governo centrale a quelli locali.

Ad un certo punto ci fu un’accelerazione del percorso per effetto di uno spirito secessionista che aleggiava in alcune regioni del nord. Questo atteggiamento costrinse anche chi era favorevole all’autonomia dei territori a chiudersi in difesa dell’unità nazionale, valore fondamentale indicato dalla stessa Costituzione. Un altro referendum denominato devolution non ebbe successo. Il messaggio era dunque chiaro: autonomia sì, indipendentismo no. L’obiettivo fin da allora era quello di valorizzare la società civile ed il suo protagonismo nell’indicare le proprie rappresentanze territoriali e nelle regioni la capacità legislativa intermedia per l’amministrazione di una notevole quantità di materie che derivavano dallo stato centrale, il quale aveva perso di efficienza e soprattutto non riusciva ad interpretare le esigenze delle diverse realtà locali, che senza mettere ormai più in dubbio l’unità nazionale, potevano meglio esprimere le proprie potenzialità nell’interesse comune. Si voleva applicare il principio di sussidiarietà che nel frattempo era stato adottato anche nella legislazione europea.

L’acuirsi del conflitto politico non aiutò il completamento del processo in atto, anzi lo rallentò, senza che il nuovo titolo quinto fosse applicato; Stato e Regioni continuamente davanti alla Corte Costituzionale per difendere le rispettive prerogative giocate perlopiù sulla duplicazione dei poteri nelle stesse materie, anzichè la revisione delle competenze statali in termini di “norme generali” e “livelli essenziali delle prestazioni” per la garanzia dei diritti di cittadinanza. Anche la legge sul federalismo fiscale che introduceva modi nuovi per calcolare la spesa pubblica e per considerare le ricadute nella gestione da parte degli enti locali dei tributi dei cittadini, rimase a mezz’aria. Questa situazione di incertezza aveva spinto verso una sorta di controriforma della seconda parte delle nostra carta fondamentale che riportava i poteri di nuovo al centro, senza ottenerne però l’approvazione in un ulteriore referendum. Sulla strada delle autonomie dunque indietro non si torna.

Una cosa buona la Costituzione del 2001 l’ha lasciata: l’art. 116 che prevede la possibilità da parte delle regioni che lo chiedono, con capacità fiscale e oculatezza finanziaria, di ottenere attraverso una legge dello stato approvata a maggioranza qualificata che materie appartenenti alla “competenze concorrenti” tra stato e regioni possano diventare esclusive di queste ultime, per rendere un servizio più qualificato ai propri cittadini, ma soprattutto per potersi meglio relazionare con realtà concorrenti e prendere parte a processi di internazionalizzazione.

La macchina dell’autonomia si è rimessa in moto; il vantaggio è che dai territori si riparte con il consenso di quasi tutte le forze politiche e che le stesse al centro assumano un comportamento coerente, ma il rischio è che lo spirito indipendentista si ripresenti e di nuovo alzi il polverone della ricerca unilaterale di definizione dei termini del contendere in modo che la trattativa centro-periferia si interrompa un’altra volta ed ancora prima di incominciare.

Non c’è dubbio che il segnale referendario di Veneto e Lombardia abbia fatto alzare la cresta a chi cerca di goderne della paternità politica, anche perchè vista l’alta partecipazione le diverse forze in campo stanno cercando di condividerne il merito, ma se davvero c’è questa volontà allora non servono fughe in avanti che determinerebbero un’altra resistenza, ma il rispetto dell’iter procedurale indicato dal predetto articolo 116, davanti al quale c’è la legge ordinaria per tutte quelle regioni che lo vorranno e che ne avranno i requisiti. Si tratta di una responsabilità del nuovo Parlamento e di una campagna elettorale che dovrà orientare in tal senso i suoi futuri componenti.

Con un po’ di fantasia si potrebbe pensare di riuscire nella prossima legislatura a mettere ancora mano ad una riforma costituzionale in senso autonomistico che possa portare a termine definitivamente un regionalismo efficiente, ma responsabile e solidale, anche senza cambiare la geografia del Paese. Non si tratta infatti di egoismo localistico, di cui alcuni parlano, ma le risposte a questi referendum dimostrano che i cittadini hanno ancora attenzione alle attività di governo, se li interessano direttamente, mentre è sempre inferiore la partecipazione a consultazioni mediate dalla politica. Attraverso le regioni si contribuisce a costruire una più efficace identità europea, la loro autonomia consente infatti una più diretta capacità di competere senza dover passare attraverso le burocrazie nazionali.

Non può essere i residuo fiscale in astratto la materia del contendere, ma l’autonomia si gioca sulle materie alle quali ovviamente corrispondono i finanziamenti e quindi anche la tassazione, ma far leva solo sul significato evocativo di quest’ ultima è un modo sbagliato sia di premere sull’autonomia medesima, sia di blandirla con la solita promessa elettorale della diminuzione delle tasse per tutti. E’ sul trasferimento di poteri e responsabilità che si può costruire un progetto per tutto il territorio nazionale, spingendo anche regioni in difficoltà a mettersi in regola, ma soprattutto è sulle competenze che danno origine ai servizi che responsabilizzano gli amministratori (ai quali si può anche minacciare la non ricandidatura, com’era già previsto in uno dei decreti applicativi del federalismo fiscale) e coinvolgono i cittadini.

Non si possono nemmeno inseguire le regioni a statuto speciale, non tutte sono tra l’altro un esempio virtuoso, questo è un problema che deve vedere superate le rispettive ragioni storiche, ma una maggiore autonomia potrà consentire a quelle confinanti un rapporto più duttile e produttivo.

Nel pacchetto di misure da trasferire ci saranno sicuramente quelle relative all’istruzione e formazione professionale, oggi considerate un perno della strategia formativa. E’ questo l’orizzonte entro il quale andrà definita l’autonomia delle istituzioni scolastiche, che esca finalmente dall’ottica ministeriale e si avvii ad essere una componente del sistema delle autonomie territoriali, senza aver paura che si producano disuguaglianze nel sistema se lo stato assumerà davvero il compito di indirizzo e di controllo, come già indicato dal predetto titolo quinto. Non può essere questa l’occasione per trasferire in modo esclusivo le competenze alle regioni su tutto il comparto scuola, come per quelle a statuto speciale, ma sul fronte dell’istruzione e formazione professionale, dei rapporti con il mercato del lavoro, per tutte quelle attività di sostegno agli studenti, la programmazione del servizio e ciò che maggiormente inerisce alle caratteristiche della domanda sociale in materia si deve andare fino in fondo con il decentramento cercando risposte sul territorio.

Si possono dunque riaprire le trattative con il governo nazionale se l’obiettivo è, come si è detto, quello delle materie da trasferire, anche se qui non siamo all’anno zero, anzi è quasi già tutto fatto con i decreti applicativi della legge sul federalismo fiscale, che descrivono sia gli oggetti che definiscono le “funzioni fondamentali” dei vari enti, sia le modalità di determinare le coperture finanziarie, in una gestione così detta “multilivello”. Evitiamo dunque di uscire dal seminato, vanificando così anche il voto di tanti, perché sarebbe un vero peccato sprecare un’altra occasione, visto che i cittadini ci hanno consegnato una visione autonomistica del nostro sistema, nel 2001 e lo hanno ribadito nel 2016. Se anche questa volta ci sarà chi vorrà ottenere di più del consentito per farne oggetto della solita contesa politica, non ci si lamenti poi della disaffezione e dei ritardi istituzionali.

Il risveglio del regionalismo

Il risveglio del regionalismo

di Gian Carlo Sacchi

 

Il dibattito politico fluttua: negli anni ’90 ci si pensava federalisti, poi ci si è trovati centralisti, con la punta massima nel recente referendum sulle riforme costituzionali che sappiamo com’è andato a finire. Oggi siamo di nuovo tentati dal regionalismo, anche se persiste il pericolo di una burocrazia ministeriale rimasta ben ancorata allo statalismo.

In questo periodo non hanno solo fluttuato le due diverse concezioni, ma i provvedimenti che ne sono derivati hanno finito per intralciarsi a vicenda, creando conflitti di attribuzione e bloccando di fatto le attività di governo, proprio l’opposto della semplificazione e dell’efficienza che si volevano raggiungere. Il titolo quinto della Costituzione, modificato nel 2001, com’è noto, non è stato applicato e ciò ha imposto alla Corte Costituzionale di dirimere un enorme contenzioso tra Stato e Regioni, ridando fiato alle polemiche neocentralistiche che hanno ispirato l’ulteriore tentativo di riforma costituzionale, respinto dai cittadini.

Era opinione diffusa che solo l’Alto Adige avesse la necessità storica di godere dell’autonomia locale e che per il resto si poteva arrivare tutt’al più alle articolazioni periferiche dei servizi, iniziate dalle riforme Bassanini e rivolte alla pubblica amministrazione (1997), mentre la distribuzione del potere politico avrebbe generato doppioni parassitari dello Stato.

I provvedimenti che avrebbero dovuto spostare il baricentro del governo verso il così detto federalismo, pur sapendo che questo termine non era adatto alla storia del nostro Paese, sono rimasti praticamente lettera morta, a cominciare dalla legge sul “federalismo fiscale” (2009), con tanto di decreti applicativi già approvati e utilizzata perlopiù per il monitoraggio dei bilanci degli enti locali con l’introduzione dei costi standard, fino alla revisione dell’organizzazione degli enti territoriali (2014) che ha introdotto le associazioni dei comuni, le città metropolitane e l’area vasta come evoluzione dei limiti amministrativi manifestati dalle province.

Nel campo della formazione e del lavoro è evidente la frattura politica tra i due suddetti punti di vista: l’istruzione e formazione professionale, concepita nell’art. 117 della Costituzione, rimase di competenza esclusiva delle regioni, ma era già pronta un’agenzia nazionale per il coordinamento delle politiche regionali, qualora fosse andata in porto la predetta riforma Renzi-Boschi, mentre è riuscita comunque a prendere il via quella per l’occupazione. Stando così le cose quest’ultima sovrastruttura poteva essere risparmiata, senza costringere le regioni ad un adeguamento normativo.

Andava nella direzione della periferia, tra decentramento servizi e nuovi poteri, la normativa sull’autonomia delle istituzioni scolastiche, che venne elevata a dignità costituzionale, ma rimase a mezz’aria con quella dicitura di “autonomia funzionale” che la tenne ancora legata a doppio filo all’amministrazione scolastica e che la legge 107/2015 ha rinforzato nella dipendenza, arrivando addirittura a finanziare progetti didattici su bandi ministeriali. Tra istruzione e formazione professionale ci si sarebbe aspettata una riorganizzazione nella direzione del decentramento, per dare compimento a quell’espressione della Costituzione che comprende entrambi i sistemi, mentre il decreto applicativo della buona scuola (2017) si interessa solo degli istituti professionali e della possibilità di un loro coordinamento con le agenzie formative delle regioni, portando classi con curricoli regionali a convivere con quelle statali.

Ci furono diversi tentativi, nella conferenza stato-regioni (2010) e in Parlamento (PD 2008, Lega Nord 2009) per l’applicazione della riforma costituzionale e per l’approvazione della “carta delle autonomie locali”, in cui era inserito anche il settore dell’istruzione. Un provvedimento in tal senso (2012)voleva razionalizzare gli enti e gli organismi che operano in ambito statale con l’obiettivo di trasferire le funzioni amministrative esercitate dallo Stato sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza a comuni, province, città metropolitane, regioni, con trasferimento di risorse umane e strumentali. Allo Stato di definire i “Livelli essenziali delle prestazioni” (LEP) per poter realizzare pienamente anche l’autonomia scolastica, ma soprattutto la riorganizzazione fiscale e della spesa. Questi assumono rilievo quando un servizio pubblico è attribuito alla responsabilità di livelli decentrati di governo. I LEP garantiscono l’unità nazionale accanto ai diritti del cittadino per standard fissati a quel livello. Vanno definiti in una prospettiva di multigoverno con risorse provenienti da fonti diverse, dovranno esplicitare gli elementi essenziali da finanziare e far convergere i punti di vista dei vari soggetti che operano per la comune finalità sul territorio. Una valutazione di efficienza ed equità ne consentiranno il progressivo adeguamento, in equilibrio con i conti pubblici del Paese.

L’impianto, come si vede, ha ancora parecchi buchi, che si potrebbero chiudere riprendendo la legislazione costituzionale del 2001 oggi ancora in vigore, dopo il fallimento delle modifiche del 2016. La sensibilità politica per un nuovo regionalismo torna e si allarga; non è più solo una competizione elettorale tra centro-sinistra, che pure ha una storia nei governi locali e lega nord a cominciare dagli studi di Gianfranco Miglio, ma sembra trattarsi di azioni più concrete che coinvolgeranno i cittadini di Lombardia e Veneto ad amministrazione leghista in due prossimi referendum e dell’intervento di un’altra regione con maggioranza a Forza Italia, partito che non era mai intervenuto prima su questo tema. Il suo presidente, il forzista Toti, dichiara che: “tutte le regioni dovrebbero stringere un’alleanza per rimettere al primo posto del dibattito politico il tema dell’autonomia”. Rincara la dose il presidente del Trentino-Alto Adige per il quale autogoverno e unità nazionale possono convivere. Dalle parti del centro-sinistra va rilevata l’azione dell’Emilia Romagna per perseguire il medesimo obiettivo mediante la trattativa diretta con il governo nazionale.

Pur avendo scelto strade diverse o esprimendo per ora solo concilianti propositi, si segnala un mutato clima politico rispetto al passato ed orientato alla condivisione dei suddetti principi di autogoverno e di unità nazionale; non più battaglie indipendentiste, ma autonomie che vogliono migliorare l’efficienza dei servizi senza dimenticare la solidarietà nei confronti di quelle realtà che hanno più bisogno di aiuto, non in termini assistenzialistici, ma di sostegno allo sviluppo. La nostra Costituzione all’art. 116, comma 3, prevede “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, attraverso una legge dello stato approvata a maggioranza assoluta sulla base di un’intesa tra il Governo e la Regione interessata”.

La strada dell’autonomia di governo e finanziaria non mediante un accordo politico di vertice, per tutto il territorio nazionale, pur suffragato da un referendum popolare, come avvenne nel 2001, ma bottom up, per iniziativa delle regioni. Veneto e Lombardia hanno promosso consultazioni referendarie, alle quali hanno aderito anche numerosi sindaci di centro-sinistra, per potersi presentare a livello nazionale armati di consenso, mentre l’Emilia Romagna ha alle spalle una delibera dell’Assemblea Legislativa. Un atteggiamento che riprende esperienze passate di promozione dei governi locali da entrambe le parti, che però gli esecutivi nazionali di vari colori politici non hanno mai voluto ascoltare. Sarà la volta buona ? Il centralismo è già in agguato ? Staremo a vedere, per tutti rimane il citato articolo costituzionale che obbliga alla via legislativa, con i rischi che in Italia comporta il passaggio parlamentare.

Le materie sulle quali si può intervenire sono quelle per le quali il titolo quinto della Costituzione prevede la “competenza concorrente” tra stato e regioni; impossibile arrivare ad un passaggio regionale a queste ultime in via esclusiva, come invece avviene per quelle a statuto speciale. Il Veneto va in questa direzione chiedendo ad esempio di poter intervenire su tutto il sistema scolastico e formativo, come per il Trentino-Alto Adige, mentre Lombardia ed Emilia Romagna, pur con diverse accezioni, cercano di allargare a loro favore il contenitore dell’istruzione e formazione professionale. In quest’ultima si prevede la costituzione di un “politecnico regionale”, d’intesa con il sistema produttivo, che sforni tecnici richiesti dalle imprese. Nessuno vuole soldi dallo stato, ma trattenere alla fonte parte delle risorse prodotte sul territorio.

Se si fosse a suo tempo applicato il predetto titolo quinto, oggi noi avremmo le “nome generali sull’istruzione”, la salvaguardia di vere autonomie scolastiche e sistemi formativi territoriali integrati, che garantivano attraverso i LEP la qualità del livello nazionale e la capacità dei territori stessi di far fronte anche in senso perequativo alla propria domanda sociale con la propria capacità fiscale e finanziamenti multilivello. Un processo legislativo come quello che si potrebbe aprire in tempi anche brevi: tutte e tre le regioni infatti hanno fretta di mandare ai loro cittadini segnali concreti, si prospetta laborioso, soprattutto se altre si faranno avanti per evidenziare le loro specificità. Adesso potrebbe tornare utile riflettere sul Senato delle autonomie, a partire cioè da esperienze comprensibili e significative per tutti i cittadini e non come ci era stato presentato, in modo confuso e velleitario.

In epoca di globalizzazione tornano ad essere centrali i territori come comunità che esprimono identità e vocazioni; pensare globalmente: grandi reti di scuole tecnico-professionali e della ricerca, ma agire localmente: protagonismo dei territori stessi, delle piccole e medie imprese sostenute dall’alta tecnologia. La partecipazione delle regioni aiuta inoltre a costruire una forte identità europea.

Istruzione e formazione professionale separati in casa

Istruzione e formazione professionale separati in casa

di Gian Carlo Sacchi

Sarebbe interessante sapere da chi ha scritto l’art. 117 della Costituzione nel 2001 perché ha usato la frase “Istruzione e Formazione Professionale”, che non sembra essere il naturale adeguamento di quell’istruzione artigiana e professionale utilizzata dalla versione più antica e nemmeno una sorta di sincretismo legato ai principi fondanti dei due versanti. Un’interpretazione più politica farebbe ritenere che fosse giunto il momento di spostare il baricentro verso un nuovo rapporto tra realtà formative finalizzato alla costruzione di un robusto indirizzo che fruisse della stabile presenza degli istituti professionali statali a coprire tutto il territorio nazionale, dal momento che il sistema di formazione professionale regionale risente dei diversi livelli di sviluppo delle regioni stesse, ma adottasse da quest’ultimo le strategie didattiche e la maggiore efficacia del rapporto con le imprese.

Un cambiamento di rotta, che allontanasse gli istituti professionali dai tecnici, che per un certo periodo di tempo li ha visti praticamente sovrapposti, anzi modifiche legate all’autonomia li aveva fatti rientrare in un’unica struttura (istituti superiori ad indirizzo…) che la riforma Moratti avrebbe collocati sotto forma di “campus” tra i licei vocazionali. E’ storia infatti che nell’ambito dell’istruzione tecnica le difficoltà degli allievi e la loro provenienza sociale ed economica aveva indotto ad attivare con una maggiore aderenza alle esigenze del territorio corsi biennali e triennali con il rilascio di qualifiche professionali. Il tentativo per anni non riuscito di riformare la scuola superiore ha offerto l’occasione di emancipare tali istituti aggiungendo un biennio post-qualifica per arrivare all’esame di maturità e perfino costituire ordini professionali per i diplomati alla pari dei così detti “periti”. Anche in questo settore iniziò il periodo della sperimentazione assistita come nei tecnici per l’ammodernamento dei curricoli, mantenendone l’autonomia, ma replicandone il carattere di scuola di recupero attraverso il precoce inserimento nel mondo del lavoro. La gran parte degli studenti infatti usciva dopo la qualifica triennale ed ancora oggi siamo in presenza di un notevole insuccesso scolastico al quale si sono aggiunti problemi legati all’integrazione degli stranieri.

La prima occasione per cambiare decisamente strada si ebbe nel 2007, con la legge 40, che da una parte portò notevoli innovazioni, ma che su questo fronte si limitò a conservare la sopravvivenza di detti istituti imponendone la quinquennalizzazione. I dati però si mantennero stabili nelle difficoltà, anzi facevano percepire una certa quale ghettizzazione rispetto agli altri ordini di scuola; gli studenti bocciati preferivano il salto verso la formazione regionale e questi istituti superiori nati oltre che per affinità di indirizzo e per i numeri necessari all’autonomia, anche per cercare di migliorare il sistema di orientamento interno, furono destinati ad aumentare la dispersione.

Ormai della legge 40 se ne può dare una lettura storica, che ci fa dire con certezza che attorno alla salvezza degli istituti professionali ci fu un patto sindacal ministeriale, che impedì qualunque discussione sul loro trasferimento alle Regioni, per la costruzione del predetto sistema allargato e verosimilmente meglio capace di dare discontinuità ad una didattica ritenuta troppo tradizionale, trasmissiva-selettiva, valorizzando la funzione educativa del lavoro e ponendo come traguardo finale l’occupabilità. Il passaggio aveva alle spalle il predetto art.117 della Costituzione, anche se non ancora applicato, che indicava il nuovo contenitore: istruzione e formazione professionale.

In questa situazione la riforma Gelmini cercò di conferire agli istituti tecnici, con relativamente pochi ed ampi indirizzi nazionali, la finalità di portare gli allievi verso una formazione tecnica superiore in rapporto con le grandi imprese e le loro organizzazioni. I professionali vennero caratterizzati per funzioni, in modo da indicare un ingresso precoce nel mondo del lavoro. Era più facile fosse un tecnico a costituire una fondazione per l’istituzione degli istituti tecnici superiori che un professionale, il quale per effetto della flessibilità curricolare offerto dall’autonomia, poteva rapportarsi con la formazione professionale regionale per percorsi validati dalle regioni. Ciò diede origine a progetti sperimentali, ancora oggi in atto, basati sulla così detta sussidiarietà “integrata”, che pone cioè istituti e centri regionali insieme nella gestione dei percorsi didattici, o sussidiarietà “complementare” se i percorsi regionali fossero entrati nell’organizzazione della scuola.

Dall’altra parte il sistema regionale, che fu difeso più dai soggetti gestori dei centri accreditati che dalle stesse regioni, ha cominciato a prendere il largo; nel frattempo la legislazione aveva legittimato la terza gamba del sistema, cioè la qualifica triennale, il quarto anno per il diploma professionale, la formazione superiore (IFTS) in grado di predisporre i requisiti per il riconoscimento dei crediti universitari. Tale sistema, com’è noto, è versato sulle domande delle imprese e sull’apprendistato, con l’aiuto del Ministero del Lavoro ha inaugurato un altro percorso sperimentale per l’istituzione del “doppio canale” all’italiana, prendendo esempio da quello tedesco.

Ormai gli istituti tecnici erano lontani, penalizzati a loro volta dalla diminuzione di iscrizioni che invece premiavano i licei; le altre due gambe a questo punto avrebbero fatto bene a fondersi per riempire in modo coerente il contenitore indicato dalla Costituzione, la cui applicazione avrebbe potuto offrire norme generali da parte dello Stato (si pensi al repertorio nazionale delle qualifiche ed alle tante linee guida emanate sui due versanti, anch’esse da unificare), affidando la gestione alle regioni, con strumenti di coordinamento a livello di conferenza tra queste e lo stato medesimo. I livelli essenziali delle prestazioni del sistema formativo erano già stati stabiliti nel 2005.

E’ noto che il tentativo di riportare tutto sotto l’egida statale, comprese le “disposizioni generali e comuni sull’istruzione e formazione professionale”, riducendo la legislazione regionale ad organizzare i servizi alle imprese ed alla formazione professionale, non ha avuto esito, lasciando tutto quanto deciso nel 2001, anche se, come si è detto, non applicato in modo esplicito. Il sistema regionale ha così occupato tutto lo spazio, comprendendo la parola istruzione che sembra fare tutt’uno con la formazione, mentre sul piano politico e istituzionale si tratta di due realtà che poteva essere venuto il momento di mettere insieme.

La buona scuola però ha continuato a lavorare sulle tre gambe, riportando alla luce il vaso di coccio, anch’esso in crisi di adesioni ma non di criticità. L’ultima frontiera del sistema scolastico che rischia di essere ancor più dimenticato da un regionalismo di ritorno, che tra referendum e trattative con il governo nazionale, amplierà i poteri delle stesse Regioni, sicuramente considerando anche il rapporto tra formazione e lavoro; una nuova via rispetto alle competenze concorrenti, tutt’ora in vigore, che pur avevano dato tanto spazio alla legislazione regionale nel settore.

Il decreto 61/2017 ha iniziato una discussione su tutti gli indirizzi, anche perché bisognava porre rimedio ad una sentenza del TAR di condanna di un provvedimento che aveva calato le ore negli istituti tecnici e professionali con particolare riferimento alle attività di laboratorio, ma poi ha deciso di occuparsi solo di questi ultimi, ipotizzando invece un raccordo con il sistema regionale, peraltro ancora da scrivere da parte del ministro e il buco nell’istruzione tecnica ancora da sanare.

Si tratterà di favorire i passaggi tra istituti professionali statali e sistema regionale, con un riconoscimento di crediti e sarà costituita una rete nazionale delle scuole professionali, per avere un perimetro più largo e forse più stabile, ma di separati in casa, perché come già succede nelle predette sperimentazioni i due sistemi di governce sono difficili da mettere d’accordo. Mentre è la forma integrata quella preferita dal più alto numero di regioni, secondo una logica di maggiore efficacia dell’organizzazione didattica e che risponde meglio alla congiunzione che sta tra istruzione e formazione, il suddetto decreto 61 agisce nella direzione opposta e cioè nel creare apposite classi con qualifica regionale nella scuola statale.

Concludendo, ci si aspettava una svolta in favore di una forte struttura che messa insieme alla parte alta, cioè all’istruzione terziaria tecnica, avrebbe così ridisegnato un nuovo impianto didattico, organizzativo e di governo che sta a cuore proprio ad una legge che ha fatto del rapporto tra scuola e lavoro uno dei pochi elementi chiari della sua proposta politica, mentre alla fine risulteranno tre debolezze, di cui quella regionale, pur seguendo l’andamento dello sviluppo economico e produttivo del proprio territorio, sarà in grado di acquisire maggiore autonomia ed efficienza. Certo in questo Paese siamo a metà di tutto: sul fronte statale abbiamo una maggiore copertura del territorio, ma una più obsoleta qualità della formazione, su quello regionale una maggiore flessibilità dei curricoli ed abitudine a trattare con le imprese, ma scarsa affidabilità da parte di Enti formativi e Regioni. Si nutrono perplessità che le ambizioni contenute nel decreto 61 possano portare in tempi rapidi ad un miglioramento di questa componente e che da qui si arrivi a diffondere una nuova identità all’intero sistema.

Titolo quinto indietro tutta

Titolo quinto indietro tutta

di Gian Carlo Sacchi

 

L’esito contrario alla riforma del titolo quinto della Costituzione Renzi-Boschi, espresso con il referendum dello scorso dicembre, ha cancellato l’impronta di un nuovo accentramento dei poteri e dovrebbe riprendere la trafila della precedente, invece confermata nel 2001, ma fin qui mai applicata completamente. E’ stato rilevato più volte che il tanto vituperato conflitto tra Stato e Regioni è passato per le mani della Corte Costituzionale la quale ha dovuto colmare un vuoto legislativo e soprattutto la “competenze concorrente” si è rivelata confusa proprio perché non avendo posto mano alla modifica delle prerogative dello Stato ed avendone decentrate alcune alle Regioni, anziché coordinarsi nell’ottica della sussidiarietà, di fatto si sono sovrapposti e quindi entrati in collisione.

La bocciatura popolare dovrebbe aver posto fine a manie neocentralistiche di potere mantenendo la tendenza decentralista di governo dei territori avviata nei trascorsi anni settanta . Certo si può pensare che all’atto pratico un passaggio così imponente a regioni ed enti locali avrebbe potuto creare una certa frammentazione nella governance su materie che dovevano essere coordinate a livello nazionale, disagio dovuto, come si è detto, alla mancata riorganizzazione di ciò che doveva fare lo stato, che non doveva mantenere la gestione dei vari processi, ma semplicemente l’indirizzo, il coordinamento e la valutazione.

A distanza di sei mesi dalla consultazione sembra che tutto sia tornato nella palude; le regioni hanno riassunto, con posizioni davvero blande, in altrettanti documenti la situazione sui diversi temi, suffragata dalle sentenze dall’alta Corte, ma lo Stato continua a fare finta di nulla, mantenendo l’atteggiamento di chi avrebbe dovuto tornare al pieno controllo della legislazione, togliendo di mezzo in primis le suddette competenze concorrenti. Le leggi approvate prima del referendum non sono cambiate, ma hanno imposto un cambiamento alle regioni, anziché ricercarne l’intesa. Si pensi al Job act che ha partorito l’ANPAL, un’agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, cosa che ha provocato nuovi accordi con le regioni ad esempio sui centri per l’impiego che in passato non prevedevano la presenza diretta dello stato. Ed anche sulla buona scuola il soggetto è l’amministrazione scolastica, le scuole autonome sono il terminale territoriale, ed anche se nella legge 107/2015 si dice di voler completare la loro autonomia, non si passano maggiori competenze, com’era iniziato nel 1997 con le leggi Bassanini, ma ci si mantiene ancorati a quell’autonomia “funzionale” che prevedeva di fatto una delega da parte dello stato stesso.

Si può continuare a sostenere che la variabile regionale può indurre ritardi nei procedimenti, o che nelle regioni siano successe quali nefandezze, ma in primis perché lo stato non fa il suo mestiere e cioè quello di definire dei livelli essenziali delle prestazioni, di indicare le norme generali che devono indirizzare il servizio, i requisiti degli operatori ed i parametri di valutazione. Se questi elementi sono presenti nel servizio sanitario potrebbero anche stare in quello scolastico: possono essere definiti a livello nazionale i requisiti della professione medica, come quelli per l’insegnamento, ma non si potrà contestare alle regioni di scegliere il personale delle ASL o come costruire l’organico (almeno quello di potenziamento) delle scuole. E se il pericolo del decentramento è il malaffare ci sono la magistratura e il controllo sociale sul territorio, ma non si dica che il caso degli acquisti centralizzati della pubblica amministrazione dia maggiori garanzie. Per quanto riguarda poi l’efficienza ci sono strumenti di valutazione ad hoc e la competitività tra regioni potrebbe pure essere un vantaggio.

Non si tratta tanto di privatizzare i servizi, cosa che ingolosisce sempre di più molti amministratori, a beneficio magari delle cooperative, sulle quali bisognerebbe aprire una parentesi, come stanno tentando di fare i decreti applicativi della nuova legge sul welfare, ma di valorizzare il buon governo degli enti locali, anche attraverso una loro riorganizzazione, come ha previsto la legge Delrio. La spending review negli enti periferici è stata realizzata in misura superiore ai ministeri centrali e lo stato però ha continuato a decurtare le risorse finanziarie indirizzate ai territori. E del “federalismo fiscale” che ne è stato ? Si sono fatte prove tecniche, ma di fatto non si è realizzato quel “finanziamento multilivello” che il sistema delle autonomie territoriali, al quale appartiene anche quello scolastico, avrebbe potuto realizzare per mantenere l’ equilibrio finanziario dei servizi locali. I sindaci sanno come si sono potuti chiudere i bilanci (triennali) dei comuni dopo che il governo centrale oltre al taglio dei trasferimenti ha bloccato anche le loro principali leve fiscali. Si pensi all’aggravio di costi per l’utenza e alla diminuzione degli interventi per il diritto allo studio, oltre al calo ad esempio delle domande nei servizi per l’infanzia dovuta alla crisi economica delle famiglie.

La sovranità statale, osserva Sabino Cassese, è condivisa in quanto i poteri statali vengono ridefiniti, divisi, riallocati, con un’azione comune di responsabilità. Il buon governo dunque non sta nell’efficientismo tecnocratico, ma nella espressione democratica di una comunità per la quale i servizi educativi non sono capitolati di appalto, ma la prova della maturità e della volontà di crescita e sviluppo.

Da dove ripartiamo ? Dal territorio, per cementare la coesione sociale e il dialogo interculturale, oggi che le problematiche migratorie non viaggiano solo sui binari dell’accoglienza, ma su quelli dell’integrazione e della cittadinanza.

Si tratta di tornare sull’art.117 della Costituzione del 2001, attualmente in vigore, che richiama chiaramente la potestà legislativa di Stato e Regioni: competenze esclusive e concorrenti, cosa ben lontana dall’impostazione della legge 107 e dai “pareri” espressi dalla Conferenza Unificata; alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni e/o degli standard sui quali peraltro impostare la valutazione di sistema, alle norme generali sull’istruzione. Sappiamo che “fatta salva l’autonomia delle scuole” non porta molto più in là, dato il contenuto di un tale principio di cui si è detto in precedenza.

Ulteriori forme di autonomia, dice l’art. 116, in particolari condizioni, possono essere attribuite alle regioni, non solo a quelle a statuto speciale, con legge dello stato. Questo percorso, che non ha ancora avuto un esito legislativo, è comunque partito attraverso intese non solo per il Trentino Alto Adige, ma anche in Lombardia.

La mancata approvazione del “senato federale” ha fatto venir meno il raccordo tra stato, regioni ed enti locali a livello legislativo, mantenendo le “conferenze” per quanto riguarda quello amministrativo. Si potrebbero coinvolgere direttamente le autonomie territoriali nel procedimento di costruzione delle leggi, per diminuire anche il contenzioso, suggerisce la Commissione Parlamentare per le questioni regionali (2017). Gli fa eco la Conferenza delle Regioni indicando la partecipazione delle predette autonomie alla citata commissione parlamentare.

Un tentativo di applicazione dell’art. 117 e della conseguente legge costituzionale è stato presentato nel 2010 dalla senatrice Bastico e dal senatore Calderoli per intervenire sulle funzioni fondamentali degli enti locali, tra le quali figura quella dell’istruzione. Non se ne è fatto nulla, ma si potrebbe riprendere tenuto conto della legge sul federalismo fiscale (2009) e della legge Delrio (2014) che rimodella il ruolo delle Province e l’unione/fusione dei comuni per intervenire fra l’altro sulla programmazione della rete scolastica.

In questo intricato ma non impossibile quadro legislativo, si inserisce la regione Veneto con una legge sul “sistema educativo”. L’orientamento politico è quello di far pendere a favore della regione il quadro delle materie concorrenti, il che era già stato oggetto assieme alla Puglia di un ricorso alla Corte Costituzionale sulla buona scuola.

Dal punto di vista del governo la regione si candida ad un coordinamento istituzionale integrato e non gerarchico di tutti i soggetti che partecipano a vario titolo alle azioni di risposta alle domande educative della società. L’aspetto più importante sul quale vuole intervenire è il sottosistema istruzione e formazione professionale per farne un modello di scuola regionale, il quale prevede una pluralità di azioni formative di diversa durata e articolazione al termine dei quali si rilasciano certificazioni e riconoscimento dei crediti. Attorno a questi ruotano percorsi flessibili per il conseguimento del diploma di licenza media per i soggetti a rischio di dispersione, cercando di aggirare l’obbligo decennale di istruzione e le attività per gli adulti limitata alla dimensione professionale. In questo settore vuole essere la regione a fornire indicazioni per i piani di studio, un repertorio regionale di standard professionali e formativi, nonché gli obiettivi specifici di apprendimento.

La quota regionale dei curricoli del sistema di istruzione individua gli aspetti di interesse territoriale, promuovendo la specificità e le tradizioni delle comunità locali e valorizzando le autonomie delle unità scolastiche. Un’azione a mezzo fra la Lombardia che regolamenta la quota regionale e l’Emilia Romagna che la devolve interamente alle scuole.

Si parla di standard per la qualità del servizio, dei requisiti per il personale e la sua formazione. I titoli sempre relativi al settore sono: qualifica e diploma professionale. Intese con il MIUR vengono richiamate, in quanto già in atto, per indicare il rapporto tra scuole e centri di formazione professionale circa le modalità di arrivare ai predetti risultati finali.

Il consiglio dei ministri non ha impugnato la legge, ma ne ha chiesto modifiche, che la regione ha promesso. Un percorso inusuale, che farà parte del pragmatismo dialogante introdotto dalla ministra Fedeli. La regione sventola l’obiettivo politico della non impugnativa e il miur richiede modifiche per eliminare i profili di incostituzionalità. Le contestazioni importanti riguardano la durata dei percorsi dell’istruzione professionale indicati in tre e quattro anni dalla regione, mentre lo stato ne prevede cinque e la determinazione dei criteri di certificazione dei titoli e dei crediti per il passaggio tra il sistema della formazione professionale a quello dell’istruzione.

Alcune questioni aperte ci sono ma possono essere risolte nell’ambito delle competenze concorrenti e delle intese già effettuate ad esempio tra ministero e regioni Lombardia e Trentino Alto Adige per il quinto anno in modo da arrivare all’esame di maturità e accedere all’università ed agli istituti tecnici superiori. La proposta quadriennale dell’istruzione e formazione professionale veneta è in parte già presente nel progetto sperimentale sul così detto doppio canale all’italiana messo in atto dal ministero del lavoro con gli enti di formazione ed è sostenuta dalla possibilità di entrare dopo il quadriennio negli IFTS, primo gradino dell’istruzione superiore professionale non accademica.

A questo riguardo il decreto sulla buona scuola tenta un raccordo tra i due versanti che avvicina la legge veneta e benchè non abbia risolto come sarebbe stata necessaria l’unificazione de due filoni, statale e regionale, l’atteggiamento conciliante tra i contendenti fa ben sperare per quanto riguarda un recupero di federalismo che finalmente lascerà in pace la Corte Costituzionale ma soprattutto ridarà al sistema formativo quel ruolo strategico per lo sviluppo del territorio, sul versante professionale ma non solo.

Torna la Buona Scuola tra Governo e Parlamento

Torna la Buona Scuola tra Governo e Parlamento

di Gian Carlo Sacchi

 

E’ quasi un adempimento di routine da parte di un neoministro presentarsi alle commissioni parlamentari di riferimento per esporre il programma di governo. Ed è quanto accaduto di recente alla Ministra Fedeli davanti alle settime commissioni di Camera e Senato. Perché questa deve essere una notizia ? Basti guardare il testo dell’intervento: un elenco ponderoso di questioni, tutte urgenti, che dall’inizio dell’anno attendono di dispiegare la loro efficacia, soprattutto se si pensa alle tante deleghe ancora in sospeso dalla legge sulla buona scuola, ed il contesto socio-politico, che non appare per nulla rassicurante, non solo dopo l’esito del referendum, ma anche nell’ipotesi di un periodo di instabilità che prelude ad elezioni anticipate.

Occorre dare atto alla Ministra di aver accelerato l’andatura nel suo governo e di aver cercato di rianimare i provvedimenti con parole prese dal linguaggio educativo e sociale che sembrava essere stato sopraffatto dal managerialismo tecnocratico.

Partecipazione, condivisione, trasparenza, gli imperativi dell’azione ministeriale; mettere al centro gli studenti, introdurre la cultura dello sviluppo sostenibile, combattere la povertà educativa, permettere ai nostri giovani di ritrovare fiducia nel sistema scolastico e formativo, ma i decreti presentati alle camere non sono stati redatti seguendo percorsi partecipati e condivisi (ricordiamo le commissioni pluraliste incaricate di elaborare o applicare le riforme), non certo trasparenti sono i bandi rivolti alle scuole per i finanziamenti.

Il ministero ascolta tutti, dialoga con coloro che rappresentano il mondo della scuola, cioè chi ha titolo a rappresentarlo, ma la legge 107 è stata approvata con un voto di fiducia ed i suddetti decreti sono arrivati in parlamento già confezionati: otto testi da esaminare in tempi rapidissimi. E questa è la seconda parte dell’intervento, quella che si pone in continuità con il governo precedente.

Si vuole riconoscere il lavoro dei docenti, dirigenti e di tutto il personale….motivandoli e valorizzandoli nell’esercizio dell’autonomia e della responsabilità del proprio ruolo professionale, riconoscendo loro un prestigio sociale dimenticato. Per autonomia però non si sa cosa intendere, la responsabilità supponiamo faccia entrare in gioco il sistema nazionale di valutazione, viene fatto un fugace seppur speranzoso accenno al contratto. L’intesa raggiunta sulla mobilità però toglie di mezzo la continuità didattica, uno dei capisaldi della legge 107, se si pensa soprattutto agli insegnanti di sostegno, oltre non assicurare stabilità al sistema. Se si considera il caos generato dalle assegnazioni “algoritmiche” dello scorso anno, si può immaginare che cosa succederà alla ricerca di sedi più comode.

Per quanto riguarda le risorse economiche solo alcuni numeri, la politica dei bonus ed un richiamo ad investire di più, come se fossero gli altri (schoolbonus) a doverci pensare.

La chiamata all’unità del Paese sul valore del sapere e della conoscenza non poteva che essere la chiusa della parte dei grandi principi, che sarà difficile raggiungere con il coinvolgimento delle sole scuole e che richiederebbe, come è stato detto da varie parti, una discontinuità con la legge delega.

Insomma fa notizia il fatto che tra i grandi obiettivi e le scelte concrete, vedremo quali spazi di manovra ci saranno veramente a seguito delle audizioni, non vi sia coerenza. Da una parte si vuole confermare  l’impianto della buona scuola, e, dall’altra, si cerca un accomodamento con i docenti e i sindacati, visto com’è andato il referendum e ad esorcizzare prevedibili risultati elettorali.

Ci si sarebbe aspettato uno sguardo alla governance del sistema, a livello centrale e territoriale, cosa su cui si tace completamente: dei rapporti con l’esterno c’è soltanto l’alternanza scuola-azienda, che non può essere l’unica modalità per valorizzare i crediti formativi, se non si vuole che sia il lavoro, che poi non c’è, l’unica ragione per cui valga la pena studiare. Così come non si dice nulla sull’educazione degli adulti che è l’altra faccia della medaglia di un efficace rapporto fra formazione e territorio per tutta la vita.

Il dibattito in commissione ha spesso riportato il discorso sulle esigenze delle realtà locali, che più evidenziano anche il rapporto tra pubblico e privato, non solo per far giungere richieste risolvibili a livello centrale, ma per indicare il territorio come un elemento decisivo per la capacità del sistema di superare i divari sociali e culturali dei contesti e garantire così il diritto allo studio per tutti: lo Stato deve prevedere le risorse e gli organismi territoriali le devono amministrare, insieme ad altre reperite in loco. Anche la validità dell’anno scolastico deve tornare ad essere una questione locale, senza che poi di fronte ad emergenze reali si debbano trovare escamotages per derogare dagli obblighi di frequenza.

Per combattere la dispersione scolastica non si può far leva solo sull’ingresso precoce nel mondo del lavoro, ma ci sono altre modalità, magari le reti di adulti/educatori in determinate realtà sono indicate per l’accompagnamento degli adolescenti e la prevenzione della devianza e delle dipendenze, in modo che sia possibile, ha detto la Ministra, esercitare la funzione educativa come responsabilità sociale.

Come si è detto le scuole da sole non bastano, men che meno se esse rappresentano il canale terminale dello stato dal quale dipendono completamente. Non dobbiamo più fare gli italiani ipotizzati da D’Azeglio, ma bisogna sostenere la loro crescita, in base al mutamento della società: pur essendo una parte del sistema nazionale la scuola è soprattutto il “presidio pedagogico del territorio”. Su questo la Ministra non ha detto nulla, nessun decreto è stato predisposto per la revisione degli organi collegiali, di cui tutti sentono la necessità; l’autogoverno delle scuole e la loro rappresentanza nelle varie reti di servizi territoriali costituiscono il punto di ripartenza per il miglioramento delle relazioni sociali e culturali del Paese. Sono le reti/associazioni di scuole, non quelle previste dalla 107 e costituite dagli USR, gli interlocutori dell’amministrazione scolastica, la quale potrebbe risparmiare qualche ufficio periferico, portando a termine il decentramento iniziato nel lontano 1998 ma ahimè dimenticato.

E’ qui, sull’autonomia, che la Ministra avrebbe dovuto dire parole chiare, su come realizzarla, invece la citazione rimane marginale come nella legge che ne prevede lo sviluppo fino ai confini definiti dall’amministrazione.

Scuole aperte, palestre dove ci sono, come luoghi di aggregazione non possono essere oggetto del solito bando ministeriale: se ci sono soldi si distribuiscano ai territori e se non ci sono le si lasci operare autonomamente dando la possibilità di partecipare ad associazioni, reti o altre modalità che possano consentire di reperire anche altre risorse, magari togliendo questi servizi dal patto di stabilità cui sono sottoposti gli enti locali.

Istituti scolastici, università, amministrazioni locali possono lavorare insieme per progettare e realizzare lo sviluppo del territorio stesso: poli tecnico-professionali, adozione di emergenze artistiche e naturali, educazione allo sviluppo sostenibile a partire dalle caratteristiche delle diverse comunità e dai propri bisogni formativi. Edilizia scolastica, sicurezza, tutte questioni che non si risolvono in un sistema centralistico; si dovrà definire anche il destino delle superiori in seguito all’agonia delle province avviata dalle legge Delrio. Le scuole sono un organismo vivo, hanno bisogno, come si è detto, di rapporti con realtà amministrative e sociali immersi nel cambiamento delle comunità, non possono essere lasciate languire in enti dismessi.

L’innovazione non può soggiacere ai bandi, essi andranno superati anche nella formazione professionale e nei servizi per l’infanzia dove le regioni per questioni di stabilità del servizio vanno preferendo la logica dell’accreditamento, non solo per quanto riguarda soggetti privati. Occorre un’azione di sistema, si tratta di una “competenze concorrente”. Così anche il diritto allo studio dovrebbe interessare i “livelli essenziali delle prestazioni”, come per la sanità si parla  di “livelli essenziali di assistenza”, per arrivare a fabbisogni e costi standard.

Dai lavori delle commissioni parlamentari, in relazione all’audizione della rappresentante del governo, si ricava un atteggiamento contraddittorio, che mostra come la soluzione dei problemi venga influenzata dalle modalità di governo del sistema. L’imperativo della legge 107 infatti è quello dell’azione centralistica: la qualità della scuola dipende dalla regìa amministrativa, mentre essa sarà veramente buona se saprà crescere al suo interno ma anche contribuire a sviluppare sul suo territorio il senso di comunità, che vuol dire anche efficienza, ma soprattutto partecipazione e condivisione, come si vorrebbe far credere, cosa che si vede rappresentata da coloro che sentono alle spalle una domanda di servizi con coloriture sociali ed educative. E’ un’esperienza che ancora una volta mette in evidenza un ruolo di sistema dello stato centrale nel garantire i suoi impegni per le scuole della Repubblica, le quali però per realizzare gli obiettivi culturali e pedagogici, che pur si riferiscono a standard nazionali, devono poter avere mano libera per potersi immergere nei fabbisogni del territorio. Ad una vera autonomia può corrispondere un’efficace valutazione ed una politica di merito e di premialità.

La politica scolastica dopo il referendum

La politica scolastica dopo il referendum

di Gian Carlo Sacchi

La riforma del titolo quinto della Costituzione si sarebbe conclusa senza dubbio con una maggiore centralizzazione dei poteri dello Stato su diverse materie di rilevanza pubblica, tra le quali la politica scolastica. La legge 107 si era già posta nella prospettiva di un esito positivo del referendum, mentre ora è necessario leggere i decreti applicativi secondo quello che è successo con il voto, a meno che non si voglia far finta di nulla, innescando di nuovo il contenzioso davanti alla Corte Costituzionale.

E’ un continuo slalom tra modelli di governo contrapposti, che potrebbero modificare solo il contenuto delle numerose questioni trattate nella predetta legge, senza prendere in considerazione l’incidenza del modo in cui possano venire gestite. Le modifiche costituzionali introdotte nel 2001 infatti non sono mai state applicate ed oggi le controindicazioni non sono state votate, per cui rimane tutto tale e quale, con però un diverso livello di consapevolezza: la riforma del 2001 aveva beneficiato del consenso referendario, mentre questa è stata bocciata sempre con lo stesso strumento suffragato però da una maggiore partecipazione.

Non si vuole approfondire la cornice politica, cioè la mescolanza tra i contenuti della riforma ed il gradimento del governo che l’ha tanto sostenuta, senza domandarsi se ha ancora un senso far leva sulla coerenza delle maggioranze politiche quando è stata la stessa formula governativa a varare l’ordinamento del 2001 ed a chiedere ai cittadini nel 2016 l’approvazione del suo contrario. Forse questa è ormai una discussione stucchevole alla luce della sfiducia che i cittadini dimostrano nei confronti dei partiti, ma un segnale positivo c’è ed è la volontà da parte loro di partecipare al cambiamento, che si spera possa tornare a confortare le scelte di governo e che nel nostro campo potrebbero indurre ministro e parlamento ad aprire una consultazione nella società sui decreti, in modo che si possano approvare provvedimenti che esprimano una nuova visione organizzativa, di cui la predetta legge si è fatta carico, per tanti aspetti in modo positivo, mantenendo il cammino già iniziato, ma ancora troppo debole e molto spesso ostruito, della reale autonomia delle scuole e dei sistemi formativi locali, da cui potranno derivare anche più poteri ai dirigenti scolastici, si potranno valutare e differenziare il trattamento ai docenti e migliorare la programmazione del servizio sul territorio.

Per sapere qual è la direzione di marcia che è stata indicata è interessante leggere i dati rilevati dal rapporto Demos (Repubblica 7 gennaio 2017) a commento del voto referendario. E’ noto che l’espressione dei cittadini comprende sia il merito della norma costituzionale sia il sentire nei confronti del governo, cosa che non si era espressa così chiaramente nella precedente consultazione; è quindi l’occasione perché questo esecutivo, se vuole recuperare consensi, pur considerando un segno di continuità la legge 107, sulla scorta del voto popolare, provi a rendere discontinua la decretazione delegata. Sarebbe non oltremodo difficile da realizzare armonizzando le diverse materie oggetto dei vari decreti: ne mancherebbe uno sulla governance degli istituti scolastici aperto al sistema formativo territoriale, che può servire da regista dell’intero impianto legislativo.

Il rapporto sottolinea che è cresciuto negli ultimi tre anni l’interesse per le iniziative collegate ai problemi del quartiere e della città, dell’ambiente e del territorio. Diminuisce l’attenzione per le associazioni di volontariato e ricreative ed aumenta per quelle professionali. I consumi diventano più consapevoli e l’opinione si costruisce molto attraverso i social. Bisogna ridurre il peso dello Stato nella gestione dei servizi dell’istruzione e lasciare spazio alle scuole private. 52 a 44 l’aumento del potere delle Regioni rispetto allo Stato.

Dentro a questi due semplici segnali ci sta tutta l’importanza da attribuire all’autonomia delle scuole nelle realtà locali; non si tratta di privatizzazione e nemmeno di contrapposizione tra scuole di tendenza, ma di integrazione delle diverse forme gestionali, come già avviene nelle politiche per l’infanzia, con “norme generali sull’istruzione”indicate dallo Stato, come previsto dall’art. 117 della Costituzione del 2001. Occorrono leggi regionali efficienti, controlli statali/europei e finanziamenti multilivello, che possono chiamare in causa meccanismi di defiscalizzazione su risorse private. Il secondo aspetto riguarda il decentramento delle competenze statali verso le stesse scuole e la costituzione di sistemi locali, con reti multiservizio, come iniziato con le leggi Bassanini del 1979 e che dovrebbero culminare, come si è detto, con un provvedimento sull’autogoverno degli istituti e la rappresentanza delle scuole autonome, con laboratori territoriali di documentazione, ricerca e supporto alla didattica.

La “competenza concorrente” tra stato e regioni non è conflittuale, ma richiede un cambiamento dell’orizzonte di governo, che la riforma Renzi-Boschi aveva annullato e su cui la citata legge 107 aveva sorvolato, secondo una logica gattopardesca, alla quale nemmeno le regioni si erano più di tanto opposte, in base ad un consenso politico al governo nazionale. Anche il nuovo Senato avrebbe potuto avere qualche funzione positiva nelle strategie territoriali di questo settore (si pensi alla programmazione delle reti locali del servizio, alla formazione-lavoro, ecc.), certo a ben poco poteva servire in un’ottica così centralistica, come veniva anticipato dalle azioni messe in atto dal governo (il fatto più eclatante restano i bandi nazionali per la didattica, che propongono iniziative che non potranno raggiungere tutte le scuole). Se questo secondo ramo del Parlamento voleva assomigliare al Bundesrat non certo il rapporto tra stato e regioni ha a che fare con il federalismo tedesco.

Dai dati Demos cogliamo la critica degli italiani nei confronti dell’istruzione nel suo complesso, ma la guida pubblica della scuola non è in discussione, così come non è ben visto il rafforzamento dello stato centrale. Allora perché non viene accolta la domanda di riforme pur presente nel sondaggio e si cerca di fondare quanto indicato nei singoli temi dalla legge 107 su modalità di governo decentrate, sulle autonomie territoriali, applicando in modo efficace quanto già previsto nel titolo quinto ancora in vigore.

Questa potrebbe essere una buona strada per il nuovo ministro e per una politica che sia riconosciuta come immagine del centro-sinistra.

La Buona Scuola un anno dopo

La Buona Scuola un anno dopo
Rovistando tra le ricerche di questo 2016

di Gian Carlo Sacchi

Un anno è trascorso dall’emanazione della legge 107, che passerà alla storia per come il governo Renzi-Giannini l’ha voluta dipingere: la “buona” scuola, volendo esprimere da un lato la considerazione della politica nei confronti del futuro dei nostri figli, come andava ripetendo il presidente del consiglio, ma dall’altro come quella legge fosse di per sé una garanzia, il che resta ancora tutta da dimostrare se non altro per la notevole quantità di decreti ancora da emanare.

Delle azioni compiute in questo anno è stata data ampia comunicazione dal ministero, così come per tutta quanta è stata l’iniziativa governativa; mentre scriviamo il governo è caduto sotto la spinta referendaria, il che non potrà non avere ripercussioni anche su questi provvedimenti, il ministro è stato sostituito e quindi un’ulteriore incognita copre la loro effettiva applicazione.

Come è stato detto fin dall’inizio questa riforma più che occuparsi di teorie dell’istruzione ha cercato di migliorare l’efficienza del sistema, agendo su due leve, quella delle risorse economiche e quella del personale. Com’è noto la macchina si è inceppata, facendo fluire con il contagocce i finanziamenti, imponendo una governance centralistica e causando non pochi disagi nell’assegnazione dei docenti.

Tutto dunque sul versante organizzativo, saldamente in mano all’amministrazione scolastica, la quale però si trova ad applicare un ordinamento i cui orientamenti manifestano una certa incoerenza. Sul piano del curricolo ad esempio si fa ampio uso del termine competenza, ma se si guarda la didattica diciamo di essere abbastanza lontani dalla sua generalizzazione; curricoli centrati sui crediti, soprattutto se realizzati in diversi ambienti di apprendimento, fanno a pugni con gli esami finali ed ancora di più con un controllo nazionale dei risultati.

Tra libertà di insegnamento e meritocrazia non ci può stare solo una procedura di valutazione, ma a monte ci vuole un sistema che sa dove vuole andare e come utilizzare i dati che raccoglie (ormai da alcuni anni l’INVAlSI parla di una forbice tra nord e sud, ma tutto finisce lì, aspettando i “piani di miglioramento”); l’autonomia si riduce alla compilazione del PTOF, per la sua “creativa” attuazione occorre partecipare ai bandi ministeriali e gli organici così detti di “potenziamento” proprio non hanno incontrato la domanda con l’offerta. Alle varie ed eventuali è confinato il rapporto tra le scuole e gli enti territoriali, in un’azione che vuole ricondurre tutto al centro, anche sul versante delle politiche regionali e degli enti locali.

Certo dopo un solo anno non è possibile legare le numerose ricerche a puntuali osservazioni sul nuovo quadro legislativo, ma serve se non altro a collegare le aspettative di diversi soggetti con le possibilità di mettere in atto adeguati interventi.

Uno sguardo panoramico ce le propone DEMOS evidenziando che agli italiani la scuola non sembra tanto buona, la fiducia in essa è calata di 4 punti rispetto allo scorso anno e di 10 punti rispetto al decennio precedente (andava meglio quando andava peggio ?). Cresce la credibilità nei confronti della scuola privata; la distanza si è accorciata a 4 punti, mentre dieci anni fa era di 10. Qui un governo democratico avrebbe dovuto intervenire completando la legge 62/2000 e non limitandosi ad alcuni contributi o utilizzandola come grimaldello per i così detti diplomifici (ma davvero servono ancora i diplomi se si vogliono rilasciare crediti formativi lungo tutto l’arco della vita ?)

L’appannamento dell’immagine della scuola non è ritenuta colpa degli insegnanti: i cittadini sono con loro, specialmente quelli della primaria. I deficit registrati riguardano i finanziamenti pubblici, soprattutto per la didattica e l’inadeguatezza degli edifici. Non c’è dubbio che i soldi siano aumentati, ma sembrano dispersi in mille rivoli e non arrivano in maniera significativa alle scuole, che non sanno ancora dello school bonus per l’autofinanziamento, mentre per l’edilizia si cercano risorse da altrettanti mille rivoli mettendo i comuni nella condizione di spendere poco e in maniera frammentata (le zone terremotate insegnano).

A livello di percezione piove sul bagnato: la buona scuola piace meno a quei cittadini che hanno un elevato grado di istruzione e questo determina un peso crescente dei genitori in difesa dei figli. Forse è il caso di riprendere il “patto di corresponsabilità educativa”.

Le principali attenzioni dell’opinione pubblica sono rivolte al rapporto con il mondo del lavoro, premiare il merito soprattutto degli insegnanti ed alla loro formazione. Per il primo obiettivo non si può non constatare positivamente l’impegno a far seguire obbligatoriamente agli allievi un consistente pacchetto orario di stage aziendali. Ciò in relazione non solo agli indirizzi professionalizzanti, ma alla capacità formativa di un’attività esercitata in situazione, in altri contesti di apprendimento e con metodologie attive, che non siano quelle ancora troppo consegnative della scuola. Le scuole si sono date molto da fare per trovare partner nel mondo del lavoro, ma anche nel sociale in senso lato, anche se secondo un’indagine della CGIL mancano ancora circa il 2% di studenti soprattutto al sud e il 4% ha svolto tali attività in imprese simulate. Le indicazioni ministeriali prevedevano la presenza di figure tutoriali ed attività pre-stage e post-stage. Ma vista nel suo complesso l’esperienza appare ancora poco integrata in una strategia pedagogica, a cominciare dalla sintonizzazione con il curricolo ed il piano dell’offerta formativa e con la rete tecnico-professionale che la legge 107 ha cercato di tessere sul territorio (poli tecnici, ecc.). Difficile pensare che questo possa assomigliare al doppio canale tedesco in cui sono gli alunni-apprendisti che con un salario compiono esperienze didattiche anche in azienda (con la presenza dei lavoratori nella direzione aziendale), da noi i soldi pubblici che finiscono più o meno direttamente nelle imprese non ritornano nemmeno in termini occupazionali (In Italia crescono i NEET). Una giustapposizione tra le indicazioni nazionali per i licei ad esempio e le esperienze di alternanza non riescono ad assicurare nemmeno una formazione generale funzionale ed il dibattito se il liceo debba guardare all’uomo e al cittadino oppure al lavoratore non è ancora chiarito.

Per quanto riguarda il premiare il merito c’è bisogno di parecchio cammino; le esperienze osservate si rivolgono perlopiù ad attività aggiuntive, di carattere organizzativo, mentre risulta difficile un’autovalutazione sulla qualità dell’insegnamento, che non voglia essere indagata attraverso i risultati degli apprendimenti degli allievi e che voglia incentivare non solo i singoli ma anche un lavoro collegiale, che costituisce il fondamento della didattica. Volendo andare a vedere cosa è successo nelle recenti prove INVAlSI, sono anni infatti che si dice della forbice territoriale tra nord e sud: ci si aspettava una ricaduta sui meccanismi premiali ? Lo stesso dicasi per la secondaria di secondo grado per quanto riguarda le aree disciplinari. Si può già intervenire al riguardo sul “valore aggiunto” o si deve aspettare la valutazione esterna delle scuole ? Allo stesso modo per i risultati della ricerca internazionale PISA, relativa agli studenti quindicenni, sulla dislocazione territoriale e gli indirizzi di studio. L’Italia si trova sotto la media in tutte le materie indagate (lettura, matematica e scienze)e non ha migliorato rispetto alle edizioni precedenti. Pochi gli studenti che si trovano nei livelli elevati e molti in quelli bassi. In matematica si sta consolidando però un certo miglioramento.

Interessante i dati IEA-TIMSS in matematica e scienze per la quarta elementare e la terza media. Nella scuola primaria siamo al di sopra della media, mentre nella scuola secondaria di primo grado c’è una retrocessione, il benchmark è volto al basso e prevale l’obiettivo della conoscenza sull’applicazione (come fare a raggiungere le competenze ?) Il vantaggio è dei maschi sulle femmine, ma queste ultime garantiscono una maggiore stabilità negli studi di lunga portata.

Per la formazione dei docenti la buona scuola inizia un suggestivo percorso, sia per quanto riguarda i docenti neoassunti, che però devono ancora sintonizzarsi con le nuove tipologie contrattuali, sia per il piano della formazione in servizio, obbligatoria, che comunque dovrà ricevere adeguati input dalle innovazioni che si dovranno produrre sulla formazione iniziale. Si è cercato di trovare una mediazione tra la totale libertà del docente, che deve comunque mantenere la libertà di insegnamento, ed essere regolata dalla deontologia professionale, e la promozione della qualità del sistema. Insomma il docente è libero dentro ad un quadro di priorità che viene definito dal ministero e “accompagnato” dagli USR e dalle reti in gran parte definite dall’amministrazione.

L’importante che la scuola venga agganciata alla ricerca e si dia particolare enfasi alla documentazione. La scuola infatti deve recuperare la sua dimensione di ricerca a partire dalla raccolta e divulgazione delle buone pratiche; si tratta di collaborare con l’università e le diverse agenzie scientifiche e le associazioni professionali, ma la ricerca della scuola è propria, perché è finalizzata al “professionista riflessivo”, al cambiamento, all’apprendimento, alla costituzione delle “comunità professionale”(tenere insieme teoria e pratica).E’ interessante come la formazione andrà ad alimentare il “portfolio professionale” che conterrà tra l’altro le “unità formative”, in grado di validare la partecipazione dei docenti anche per l’assolvimento dell’obbligo. Esso sarà necessariamente alla base non solo di un personale “piano di sviluppo professionale”, ma di tutte le operazioni che potranno riguardare la carriera del docente (bilancio delle competenze).

Il piano è un documento complesso, fornisce indicazioni per quanto riguarda gli obiettivi dell’intervento formativo e gli indicatori di qualità ed efficacia, rimandando la definizione degli “standard professionali”. Molto affollata sembra la parte delle priorità, comprensiva dei numeri di docenti che si ambirebbe coinvolgere, più adatta quale supporto metodologico ai curricoli che sul fronte della formazione dei docenti. Una raccolta di teorie e strategie didattiche che sembrerebbero intercambiabili e che richiederebbero un più disteso approccio progettuale. Tale piano, a cadenza triennale, si accompagnerà con le celte strategiche del sistema di istruzione e formazione e sarà collegato con il sistema nazionale di valutazione.

Dulcis in fundo la carta elettronica del docente, di non facile gestione, che rischia di isolarlo ancora di più dalla realtà locale e ne fa un consumatore culturale.

Secondo il monitoraggio della Commissione europea il sistema scolastico italiano sembra aver fatto dei giganteschi passi in avanti, in quanto vengono elencati i diversi interventi contenuti nella legge 107. Peccato che però si tratti di provvedimenti che non sono ancora stati applicati e in molti casi ancora nemmeno adeguatamente regolamentati. Per l’UE si considera fatto se sono previsti i finanziamenti, ma anche qui le cifre per noi sono abbastanza ballerine, cambiano da una finanziaria all’altra rispetto a ciò che viene effettivamente erogato, oltre a considerare le materie in concorrenza con le regioni.

Anche l’INVAlSI nell’analisi dei “processi di funzionamento delle scuole” richiama i nobili principi presenti nei vari documenti che dal livello centrale si espandono nei piani delle scuole, in quanto spesso rappresentano vincoli dettati dal fluire delle risorse economiche statali (con decreto del ministro infatti si citano gli ambiti oggetto di finanziamento diretto alle scuole e da appositi bandi ministeriali si traggono soldi per l’innovazione). E ancora una volta si insiste sulla piena autonomia delle scuole, che l’Istituto Nazionale non definisce; si limita a citare una novità, quella delle reti di scuole che richiamano come in passato l’adesione spontanea (reti di scopo),al fine di potenziarne l’attività didattica o amministrativa, ma che ora possono nascere solo all’interno delle “reti di ambito”, o tra ambiti diversi, che hanno un valore di programmazione del servizio controllato dall’amministrazione, mentre prima era di competenza regionale (vediamo che ne sarà dopo l’esito referendario che mantiene le competenze concorrenti tra stato e regioni). La differente partecipazione all’esperienza delle reti, si dice nel documento, avviene in determinate aree geografiche (la regione che ha più reti è il Veneto)e ciò lascia presupporre che via stata maggiormente che in altre la condivisione di un tipo di approccio che vede il servizio formativo come sintesi del lavoro svolto da una molteplicità di soggetti presenti nel territorio, chiamando anche le regioni stesse a finanziare tali progetti. Si nota che in passato le reti di scuole potevano a loro volta far parte di consorzi o associazioni territoriali, oggi più genericamente ma meno efficacemente detti “accordi con l’esterno”. A questo riguardo le autonomie locali hanno un ruolo più importante nel nord-est. Se si considera che la partecipazione dei genitori è bassa un po’ ovunque (e qui aspettiamo ancora un decreto sulla riforma degli organi collegiali) le differenze che emergono nelle scuole sono relative alle diversità territoriali. E qui sarebbe proprio il caso che anziché pensare di irretire centralisticamente l’azione si cercasse di applicare efficacemente il principio di sussidiarietà verticale e orizzontale, magari utilizzando meglio i fondi europei particolarmente consistenti nelle regioni meridionali.

Ci viene detto che il 79% delle scuole attiva gruppi di lavoro per i rapporti con il territorio, mentre sarebbe utile in partenza attivarli con il medesimo e questo anche al fine della valutazione non tanto velleitariamente premiante, ma funzionale al vero miglioramento.

Sorprende dunque che nel recente “atto di indirizzo” per l’amministrazione la politica non citi minimamente il territorio, anche per quanto riguarda l’augurabile potenziamento delle “scuole aperte”. E’ il territorio infatti fonte di apprendimento non formale ed informale, utile ad accompagnare una formazione lungo tutto l’arco della vita. Un altra grande assente è la formazione permanente degli adulti, diminuita dello 0,8% nel 2015, raggiungendo il 7,3%, mentre il livello UE è del 10,7%. Si è parlato in una recente legge (92/2012) di apprendimento integrato e si sono promesse le linee guida per la certificazione delle competenze non formali ed informali.

Nello “sguardo” dell’OCSE si pone il problema del finanziamento pubblico, inadeguato nel nostro Paese, soprattutto per quegli alunni che presentano necessità didattiche diverse: crescono i finanziamenti privati, per lo più a carico delle famiglie degli studenti, ad iniziare dalle tasse universitarie, ma l’idea del nostro governo è dare impulso all’autofinanziamento del sistema reperito attraverso il predetto school bonus.

Gli adulti immigrati hanno un livello di istruzione particolarmente basso, ma le disuguaglianze a questo proposito si estendono a tutta la popolazione. In Italia, più che altrove, si dice nel rapporto, il livello di istruzione dei genitori influenza gli studi dei figli.

La questione cruciale per valutare lo stato di salute del sistema educativo è l’abbandono, soprattutto se precoce, il che determina una dispersione da parte del sistema stesso. L’UE ha posto come limite per il 2020 un tasso di abbandono sotto il 10%. Eurydice fin dal 2015 aveva offerto alcune indicazioni: potenziare l’orientamento, aumentare la flessibilità e la permeabilità dei percorsi di istruzione e ridurre il tasso di ripetenza. Per quanto riguarda primi due possiamo dire che nella legge 107 si fa leva soprattutto sui rapporti con il mondo del lavoro. E’ evidente che lo sforzo massimo deve tradursi nell’aiutare i giovani a costruire il proprio progetto di vita, che a volte coincide con il lavoro, ma altre volte il lavoro non c’è o c’è la frustrazione dell’insuccesso o di una scelta sbagliata. Tutto ciò dovrebbe vedersi nella scuola media in un laboratorio orientativo, da prolungare con un approccio personalistico anche nei primi due anni del secondo ciclo, che poi costituiscono l’assolvimento dell’obbligo di istruzione, ma anche qui iniziano ad entrare altrettanto precocemente le aziende con i rischi di cui si è detto. La flessibilità è aumentata anche se non compaiono ancora gli studenti come attori delle proprie scelte e sulle ripetenze le opinioni restano molto controverse. Da un lato rimane in vigore il decreto Gelmini sulla valutazione “sommativa” degli alunni e dall’altro si parla di competenze e crediti. Un fatto è certo, le risorse che si impiegano per far ripetere l’anno sono ingenti e potrebbero essere meglio impiegate per scoprire attitudini e orientare. La ripetenza è una delle principali cause dell’abbandono e non migliora le prestazioni scolastiche.

Due modelli a confronto: in Emilia Romagna (2014) la dispersione è inferiore alla media nazionale per effetto di un percorso “integrato” tra istruzione e formazione professionale, che allarga le opportunità e non le canalizza precocemente, in un sistema più inclusivo, lasciando sempre aperte le porte del rientro e del riorientamento. Questo sta risultando molto importante per gli alunni di cittadinanza non italiana. Nella città metropolitana di Milano (2014-15) la dispersione è molto elevata negli istituti tecnici e professionali, ma non sono disponibili i dati dell’eventuale passaggio alla formazione professionale regionale che si pone come canale parallelo alternativo a quello scolastico.

Separare precocemente gli studenti sulla base dei loro risultati ha un forte impatto negativo su coloro che vengono inseriti in percorsi che non corrispondono al loro potenziale o alle loro aspirazioni e ciò innesca un circolo vizioso nelle aspettative di insegnanti e studenti, e questi ultimi che si trovano nel percorso sbagliato diminuiscono l’autostima e la motivazione.

La dispersione, dicono Save the Children e FGA, colpisce soprattutto studenti che provengono da contesti familiari e sociali deprivati o che sperimentano la “povertà educativa”. Per contrastarla quindi non basta l’azione isolata della scuola o magari qualche progetto anche finanziato dal ministero, ma occorre una rete territoriale che si interessi soprattutto del futuro di questi giovani. Servono politiche che favoriscano un ambiente di apprendimento stimolante (il valore aggiunto) e la personalizzazione dei processi formativi. Fare scuola fuori dalla scuola, diceva De Bartolomeis, osservare i propri allievi in ambienti educativi diversi dalle aule scolastiche, lavorare in un contesto formativo non formale, serve ad impostare in maniera più efficace l’attività didattica, oltre che migliorare il rapporto docente-studente. La scuola è un punto focale che coinvolge attori di diversa natura e in grado di valorizzare saperi e vissuti dei singoli e restituisce al territorio buone pratiche di “progettazione partecipata”, realizzando a livello locale quelle migliorie di cui le stesse scuole hanno bisogno. Esse infatti sono “antenne territoriali”, ma l’abbandono precoce limita le opportunità e riduce la partecipazione, che incidono negativamente sulle generazioni future.

La ricostruzione del secondo dopoguerra e lo sviluppo dovuto al così detto boom economico vedevano la richiesta di istruzione come capace di potenziare la “società della conoscenza”; un tempo gli istituti tecnici avevano aziende e laboratori capaci di innescare processi di innovazione sui territori, oggi avviene il contrario, è il sapere aziendale che entra nelle scuole e “adotta” le classi accompagnandole nel loro percorso formativo. La scuola infatti non è più l’unico canale di conoscenza e di sviluppo delle abilità, rischia di essere abbandonata per obsolescenza o per non saper interpretare il cambiamento.

Aspettando il referendum: ritirata delle Regioni?

Aspettando il referendum: ritirata delle Regioni?

di Gian Carlo Sacchi

 

Istruzione e formazione professionale furono le materie tra le più movimentate ai tempi delle leggi Bassanini circa il decentramento amministrativo dallo Stato verso gli enti territoriali. Da quel poco già indicato nel DPR 616/1977: assistenza scolastica e formazione professionale, ripreso dalla prima stesura della Costituzione, ad una massiccia delega alle Regioni, nel frattempo istituite, nella programmazione e gestione di un’ampia gamma di funzioni del servizio scolastico e formativo, per indicare la necessità che lo stato provveda a garantirlo, ma che siano le realtà territoriali a configurarlo: protezione dei diritti dei cittadini, conseguimento di obiettivi nazionali, da un lato, attenzione ai bisogni ed alle realtà locali dall’altro.

Dare spazio al governo dei territori fu un compromesso tra le anime del centro-sinistra, ma anche una comune volontà di favorire la partecipazione diretta dei cittadini stessi, togliendo allo stato “etico” le scelte di merito sulle diverse politiche, riservandogli le competenze relative alle indicazioni generali ed ai livelli essenziali delle prestazioni che nell’ultimo decennio del secolo scorso caratterizzarono tutti gli interventi legislativi: dalla riforma degli enti locali, a quella della pubblica amministrazione, per arrivare al decentramento e fino al nuovo titolo quinto della Costituzione del 2001, confermato, anche se secondo alcuni un po’ frettolosamente, da un referendum popolare.

Quel percorso non venne applicato: cambiò la maggioranza politica sia al governo nazionale che in diverse regioni, e mancando degli strumenti necessari diede origine ad un notevole contenzioso solo sui principi che oggi richiama gli elettori ad una controriforma e ad un referendum opposto, per tornare cioè al centralismo, causa la faragginosità di quella normativa. Un sistema che anziché creare armonia tra centro e periferia, in nome dell’allargamento dei suddetti principi democratici, aveva originato conflitti, nel bene e nel male, tra Stato e Regioni, arrivando a predicare strumentalmente il “federalismo devolutivo”, cosa che gli italiani respinsero con un nuovo pronunciamento.

L’Italia non è dunque la Germania rispetto al modello di governo, ma forse c’è chi crede che dovrebbe esserlo, in quanto un buon federalismo potrebbe essere educativo anche per responsabilizzare maggiormente quella politica che ha fatto del regionalismo un’occasione di sprechi e di malaffare, ma che anche prima e forse anche dopo continuerà nello stesso modo con il governo centrale. E’ un esempio per tutti il federalismo fiscale, introdotto nel 2009 ed oggi soggetto ad un tira e molla continuo tra quest’ultimo e gli enti locali, con una girandola di tasse che non offre riferimenti certi ai contribuenti. Cosa succederà al riguardo dopo la prossima consultazione referendaria ? Tutto è incluso nella nebuolsa del nuovo Senato.

L’elemento di svolta impresso da Bassanini fu la riorganizzazione dei compiti amministrativi, lasciando alla “conferenza stato-regioni” gli interventi di armonizzazione. Senza entrare in ambiti troppo dettagliati si coglie la volontà di mantenere statali l’indirizzo e il coordinamento delle attività, l’individuazione degli standard e le modalità di certificazione delle competenze. A Regioni ed Enti Locali vanno tutti gli aspetti della programmazione, sia in termini di strutture che di offerta formativa, in vista anche delle prerogative attribuite alle autonomie scolastiche, fino a far diventare regionali gli attuali istituti professionali. Ai comuni, come accade un po’ in tutta Europa, veniva affidata l’educazione degli adulti.

Nel D.Leg.vo 112/1998 furono poste le basi per la “competenza concorrente” che la passata riforma costituzionale aveva assegnato con priorità alle Regioni e l’introduzione di un nuovo canale sempre regionale riguardante “istruzione e formazione professionale” che avrebbe avuto l’ambizione di riunificare tutto il settore. La direzione sembrava segnata, anche se all’inizio del nuovo secolo si vide diminuire l’interesse per il cambiamento istituzionale, furono introdotte caratteristiche di privatizzazione del sistema e se ne orientò l’affidamento al mondo del lavoro. Il che consentì proprio per l’assenza di una rinnovata politica nazionale alle regioni di differenziarsi notevolmente anche rischiando atteggiamenti conflittuali tra di loro e rispetto alle disposizioni europee.

Quasi tutte ebbero a legiferare, dando origine non solo ad un inedito quanto significativo corpo giuridico, ma anche ad un modo più evoluto di interpretare le deleghe ricevute: dall’assistenza scolastica al diritto allo studio, dalla mera formazione professionale, ad un reinquadramento delle funzioni per offrire pari dignità alle offerte formative del territorio.

Una di loro che ebbe modo anche di affermare le proprie ragioni anche dinnanzi alla Corte Costituzionale, fu l’Emilia Romagna che emanò, tra le prime in Italia, una legge così detta di sistema all’insegna della piena assunzione di poteri e responsabilità nella gestione delle funzioni amministrative affidate, riproponendo tutti i temi in una nuova sintesi di governo del territorio (LR n 12/2003). Un pronunciamento senz’altro innovativo, anche se poi non tutto venne regolarmente applicato, anche perché non tutto quanto annunciato venne effettivamente decentrato: si pensi ad esempio alla grossa falla dell’educazione degli adulti, iniziata con un grande protagonismo sulla carta e finito con il compassato riconoscimento dei CPIA, una riforma che lo Stato propose in via residuale per continuare a garantire i tioli di studio alla popolazione adulta che ne facesse richiesta.

La spinta iniziale del regionalismo emiliano-romagnolo, sulla scorta di una lunga storia culturale e pedagogica, si era già un po’affievolita e l’ottica di sistema cedette su alcuni importanti fronti, ad esempio quello della chiamata in correo della regione per sostenere progetti di recupero della licenza media da parte di preadolescenti a rischio di abbandono e per poter far entrare nella formazione professionale con il possesso del titolo di studio. Fu la prima ad indicare, seguita da diverse altre, il “sistema integrato” come strumento di governo, tra istruzione e formazione professionale, tra pubblico e privato, specialmente nel settore dell’infanzia, tra le politiche formative e i servizi culturali, sociali, sanitari e sportivi del territorio. Si prepararono così le condizioni per un’effettiva riforma del governo di tutto il sistema a livello regionale, che però non avvenne mai completamente, come si è detto, ne in relazione al mancato decentramento, ne dietro la spinta di una inapplicata riforma costituzionale. E’ qui che si scatenò il contenzioso con la Suprema Corte, lasciando a tutti l’amaro in bocca, tranne a coloro che a livello centralistico hanno sempre bloccato ogni cambiamento in questa direzione e che oggi ci vengono a raccontare che ripristinare lo status quo ante è meglio che rischiare di disperdersi in mille rivoli, salvo non avere mai pensato ad una politica organica tra centro e periferia e dimenticando le motivazioni di un decennio di riforme in senso decentralistico. Ma quello che più sorprende è che chi ci vuole convincere di quest’ultima virata è la stessa maggioranza politica che ci aveva convinto del contrario, attribuendo al centro-destra un indirizzo di carattere privatistico.

L’Emilia-Romagna pensava allora alla generalizzazione della scuola dell’infanzia, alla continuità educativa ed agli istituti comprensivi, di assicurare il successo formativo anche rispetto all’occupazione contrastando l’abbandono, di sostenere le autonomie scolastiche viste nell’ottica del sistema delle autonomie territoriali, fino alla predetta integrazione tra l’istruzione professionale dello stato e la formazione professionale regionale, con annesse funzioni di riorientamento, il che consentiva nel biennio l’assolvimento dell’obbligo di istruzione e per il terzo anno la conquista di due titoli di studio, qualifiche statali e regionali, cosa che poneva le basi per il riconoscimento dei crediti e che continua ancora oggi su tutto il territorio nazionale a titolo sperimentale, proprio per mancanza di un’organica politica nel settore.

Si era arrivati a prevedere “Centri di Supporto e Consulenza” per la qualità del sistema stesso, che sono purtroppo rimasti sulla carta. I poli tecnici e gli istituti tecnici superiori hanno finalmente aperto una finestra sul fronte territoriale in rapporto con il mondo del lavoro. Qui per fortuna se ne ricava traccia in una legge nazionale (L.40/2007).

Del vecchio impianto è rimasto l’obbligo di frequentare almeno un anno di scuola superiore prima di accedere alla formazione professionale regionale, con le deroghe piuttosto consistenti, come si è detto, per chi non riesce a conseguire il diploma di licenza media. Addirittura la Regione aveva istituito vere e proprie scuole specializzate, di cui non vi è più traccia.

Venne considerato l’apprendimento per tutta la vita, anche per quanto riguarda le competenze non formali, tema oggi ripreso dalla legge 92/2012 che attraverso un’intesa stato-regioni del 2014 affida a queste ultime la governance del settore. Staremo a vedere se ci sarà una nuova iniziativa, per ora, come si è detto, anche l’Emilia-Romagna si è adagiata a sostenere i CPIA, nonostante nella sua legge fossero previsti ben tre articoli capaci di intervenire su tutto l’orizzonte delle opportunità formative per la popolazione adulta, compreso il finanziamento delle così dette università della terza età.

Il cambiamento dell’indirizzo politico che ci porterà al nuovo referendum inizia a prender corpo per effetto dell’abolizione delle province e della riorganizzazione/fusione dei comuni con le relative competenze che hanno riempito lo spazio del decentramento/autonomia. Anche l’Emilia-Romagna ha legiferato in tale ambito (lr n.15/2015),cercando di ridefinire l’assetto delle funzioni qui considerate, limitandosi perlopiù ad “indirizzi” di programmazione, quasi che avendo percepito l’aria che tira non sia il caso di rivendicare tanti spazi di azione politica, ponendo la regione già in una posizione esecutiva o superflua, solo appunto per indirizzi, magari già preconizzando quella caratteristica di “area vasta” che potrà restare a loro dopo l’abolizione delle province. Praticamente si tornano a ripercorrere le varie materie indicate nella legge 12, ma con un atteggiamento più soft, da delega ex provinciale, quasi a non disturbare il ritorno di un centralismo statale, che in maniera non troppo nascosta è condiviso, che manterrà ben salde le funzioni amministrative.

Sembra di percepire un atteggiamento autoriduttivo ante litteram, prima ancora cioè che un risultato affermativo del referendum lo confermi. E se lo dice l’Emilia-Romagna c’è da crederci; per questo è tornata ad essere la mosca cocchiera, in passato alla ricerca di nuove prospettive politiche e istituzionali, ora come simbolo dell’accondiscendenza con il potere centrale. Per fortuna le competenze di province e comuni sono stabilite in primis da una legge nazionale (L. 23/1996).

Contente saranno quelle regioni che non avevano fatto alcuna legge specifica, ma si sono limitate ad applicare deleghe; sarà questo il futuro per tutte, a scapito della capacità legislativa ?

E’ una pagina, quella del così detto primato del territorio, che rischia di chiudersi per sempre, con il suggello del popolo. Il referendum infatti pone due questioni importanti e contrapposte: la diminuzione dei costi della politica e il ritorno al centralismo statalista. E’ difficile in questo modo prendere due piccioni con una fava, ammesso che questa classe politica ci creda veramente nella democrazia.

Le reti di scuole

Le reti di scuole
Elementi di sviluppo del sistema o sovrastrutture burocratiche

di Gian Carlo Sacchi

 

Con la “personalità giuridica” venivano sanciti i poteri che la legge attribuiva alle autonomie scolastiche, a seconda delle dimensioni quanto-qualitative individuate. Anche se con il passare degli anni gli istituti diventarono sempre più grossi, soprattutto per motivi di risparmio della spesa pubblica, cosa che potrebbe continuare, da messaggi che vengono lanciati sul futuro delle dirigenze, nacque fin dall’inizio la preoccupazione di un rischio autonomistico connesso con la polverizzazione delle istituzioni sul territorio ed il connesso indebolimento dell’azione dei singoli, mettendo a repentaglio la qualità del servizio. Si trattava di immaginare un livello intermedio di rappresentanza al fine di attivare un confronto con gli attori locali.

L’autonomia delle scuole è stata concepita all’interno di un processo di decentramento e dimagrimento dello Stato, che voleva trasferire compiti agli enti territoriali, ma finì per essere il vaso di coccio, tra due potenze, quella statale poco convinta del mutamento di ruolo e quella locale che tentò di impadronirsi delle scuole stesse e comunque manifestando disorientamento e quasi fastidio di avere competitori sul territorio. Un “sistema” delle autonomie avrebbe dovuto costituire il nuovo assetto istituzionale, con il riconoscimento non solo giuridico di quelle scolastiche, come strumento di sussidiarietà orizzontale nel rappresentare le comunità in campo educativo. In tale ottica non si trattava più di avere un governo monolitico, ma un reticolo amministrativo costituito da una pluralità di soggetti pubblici e privati che si raccordano attraverso un’organizzazione a rete, caratterizzata da dinamiche di collaborazione e interdipendenza.

Il decreto che ha cercato di indicare i nuovi orizzonti dell’autonomia sul piano didattico-organizzativo li ha ristretti su quello della governance. Fu introdotto infatti il principio dell’autonomia “funzionale” che manteneva la scuola saldamente all’interno dell’ordinamento statale e per sostenere le debolezze furono introdotte le “reti”. Esse dovevano diventare una scelta organizzativa obbligata ma non obbligatoria, occorreva promuovere da parte delle scuole stesse una cultura di rete come aggregazione spontanea, snella e flessibile, non istituzionalizzata. Doveva fondarsi su un sistema sociale coeso, frutto di convergenti interessi, non costretti in confini geografici, senza una precisa identità giuridica. Il concetto di rete richiama una struttura orizzontale in cui i poteri dei singoli componenti non sono attribuiti attraverso una modalità top down; la pubblica amministrazione è chiamata a sostenere la società nella sua capacità di autoorganizzazione, anche con la costituzione di “centri di servizio”, variamente denominati nei provvedimenti che alla fine del secolo scorso caratterizzavano le diverse autonomie e di cui non vi è più traccia se non in modo vago tra gli impegni delle scuole sul fronte dell’innovazione. Oggi si torna ad identificare tali centri con gli uffici dell’amministrazione, ma sul piano politico si propongono ancora “nuclei per la didattica avanzata” (Movimento 5 Stelle), come articolazioni territoriali individuati d’intesa con gli EELL. Si vuole una “scuola diffusa”, di cui forse già parlava Freinet, un network aperto con i genitori e il territorio.

Il processo culturale e professionale si è rivelato però più maturo di quello politico, a cominciare dall’autonomia “incompiuta”, anche se “fatta salva” dalla riforma del titolo quinto della Costituzione del 2001. A seguito dell’abolizione delle province e della riorganizzazione delle reti-unioni o fusioni dei comuni, potrebbe essere necessario rimettere mano anche alla revisione delle autonomie scolastiche, a seconda se queste propenderanno per il versante locale, entrando cioè in rete con altri servizi, socio-sanitari, i “distretti produttivi”, ecc., o se rimanendo ancorati all’amministrazione scolastica rischiano di essere comprese in ambiti che le porteranno a frantumazione anche nelle stesse città.

Le reti comunque non devono essere l’ennesima struttura burocratica, ma l’espressione viva della partecipazione-progettazione delle scuole nei territori. Le ricerche dimostrano che la gestione centralizzata statale ha fallito proprio sul terreno dell’equità; ciò che emerge in maniera chiara è che la decentralizzazione appare come la base di sviluppo della moderna società, caratterizzata da un alto grado di complessità. Per le scuole del terzo millennio è importante entrare in una logica di sistema aperto, realizzare forti sinergie con il territorio e potenziare le azioni di network, aspetto questo che richiama di per sé il concetto di rete. Nell’esperienze in atto, e vedremo come evolverà la situazione con le recenti normative, molte reti prevedono la presenza stabile degli EELL, dov’è un tessuto fiduciario che consente di valorizzare il capitale sociale presente sul territorio. Ma se l’autonomia deve essere completata occorre mettere mano alla governance, a partire cioè alla revisione dei così detti “organi collegiali”.

Diversi tentativi sono stati fatti al riguardo, ma senza esito, ora attendiamo l’esercizio della delega contenuto nella legge 107 che però ha bisogno di un confronto sui presupposti per arrivare veramente al compimento dell’autonomia che la stessa afferma, ma che in concreto desta ancora non poche preoccupazioni, come si dirà in seguito. Nel 2012 un provvedimento veniva varato in sede legislativa dalla Camera, ma rimase lettera morta; esso si muoveva sul versante autonomistico, prevedeva l’autonomia “statutaria”, la redazione di piani formativi territoriali per attività in rete, una rappresentanza delle scuole autonome ai vari livelli territoriali fino al “Consiglio Nazionale dell’Autonomia Scolastica”, come organo di partecipazione e di corresponsabilità tra Stato, Regioni, EELL e Scuole, nonchè di tutela dell’autonomia stessa, assieme alla libertà di insegnamento ed alla qualità del sistema. Alle Regioni la definizione di strumenti, modalità e ambiti territoriali, già indicati dal DPR 288/1998 come elementi di programmazione del servizio.

Non tanto tempo fa (2013)anche l’attuale Ministro Giannini, da parlamentare, presentò un progetto di legge al riguardo, che affidava alle scuole la promozione e la partecipazione a reti, associazioni e consorzi; alle conferenze regionali la programmazione di un sistema educativo, scolastico e formativo, che veniva definito “integrato”. Le Regioni, d’intesa con gli EELL e con le autonomie scolastiche, potevano definire gli ambiti territoriali. Alle conferenze partecipavano i comuni, singoli o associati, l’amministrazione scolastica regionale, le università, le istituzioni scolastiche, singole o in rete, rappresentanti delle realtà culturali, professionali e dell’impresa. Fino alla completa attuazione del Titolo Quinto della Costituzione era l’USR ad esercitare i compiti di controllo (ma il Titolo Quinto, benchè sostenuto da referendum popolare, non fu mai applicato……).

I più autonomisti ancora si imbarcarono nelle “Associazioni” (ASA…), una sorta di ANCI delle scuole. Una ricerca, forse l’unica, realizzata dall’Università di Bressanone, mise in evidenza l’attivismo delle scuole stesse in quella direzione e il totale loro disconoscimento dell’amministrazione scolastica. Un atteggiamento ambiguo ma possibilista da parte delle autonomie regionali e locali.

Le associazioni andavano cercando una configurazione giuridica forte (atto pubblico davanti al notaio) per poter partecipare ai tavoli decisionali della politica scolastica, ma furono combattute e viste più come antagoniste che come interlocutori. L’amministrazione scolastica non ha mai voluto rinunciare alla rappresentanza ed alla gestione delle scuole. Anche sul piano giuridico furono mantenute le prerogative dell’avvocatura dello stato (le associazioni chiedevano di potersi costituire autonomamente in giudizio); nelle conferenze di servizio siedevano i dirigenti dell’amministrazione e non quelli delle scuole. Le reti qui agivano da organismo di secondo livello: reti di associazioni.

Questa situazione ha riguardato alcune scuole del nord del Paese; di loro non si sa più nulla, i sindacati pensavano che dovessero tutelare soprattutto i dirigenti e molti di loro si dimostrarono alquanto individualisti e non animati da spirito associativo.

Ritornava il problema della rappresentanza e per un certo tempo si pensò anche all’ARAN, l’agenzia che sigla i contratti, ma proprio qui si consumò un’altra contraddizione: chi stipulava i contratti per conto dello Stato ai pubblici dipendenti non aveva conoscenza specifica del mondo scolastico e quest’ultimo non veniva coinvolto.

Le associazioni non volevano essere solo professionali o sindacali, ma esprimere in modo trasversale le esigenze delle autonomie. Bisognava superare la rappresentanza per componenti, si voleva creare qualcosa che riguardasse tutta la scuola in quanto istituzione autonoma. Se i piccoli comuni associati nell’ANCI potevano acquistare forza e far sentire la loro voce, così era ipotizzato per l’ANCI delle scuole, che superava con un’azione dal basso la predetta debolezza. Debole fu la politica che non permise mai l’uscita delle autonomie scolastiche dal contesto della Pubblica Istruzione. L’associazionismo tra le scuole andava compreso negli accordi tra le pubbliche amministrazioni previsti dalla legge 241/1990, ma così non è stato e quindi per esse non fu mai possibile offrire una copertura giuridica e tutto fu ridotto ad associazioni di diritto privato sebbene formato da enti pubblici che pur hanno personalità giuridica.

Con il decreto “semplifica Italia” il governo Monti (2012) si pronunciò a favore del potenziamento dell’autonomia con la costituzione di reti territoriali, attraverso l’intesa in conferenza Stato-Regioni, fino alla definizione di un “organico di rete”.

Una lunga vicenda, quella che si è cercato sommariamente di descrivere, che mette in evidenza non tanto la debolezza delle scuole autonome, quanto dell’autonomia medesima, che in vario modo si è cercato di camuffare con le reti, ora in chiave amministrativa, ora politica, ora didattica.

Il decreto 275 del 1999 dava alle scuole la potestà di promuovere accordi di rete o di aderirvi per il raggiungimento delle proprie finalità istituzionali, a tutto campo, compreso lo scambio temporaneo dei docenti. Sempre ad esse la possibilità di stipulare convenzioni e partecipare ad accordi, a consorzi . Fino a qui , seppur tra non poche contraddizioni, si era andati in un’unica direzione.

Con la legge 107, sebbene gli esegeti di palazzo affermano che c’è continuità, si sancisce che sono gli Uffici Scolastici Regionali, cioè l’amministrazione scolastica, a promuovere la costituzione delle reti. Due tipi di reti: quella d’ambito, composta da tutte le scuole presenti entro un certo confine geografico, definito sempre dagli stessi uffici, e quella di scopo, spontanea, più simile a quella indicata dalla precedente normativa, ma sempre derivante dalla prima. E’ la rete d’ambito che “indica le priorità che costituiscono la cornice entro la quale devono agire le reti di scopo e ne individua motivazioni, finalità, risultati da raggiungere”. L’organico di rete è già predeterminato dal così detto organico dell’autonomia, dentro al quale i dirigenti in futuro potranno scegliere i docenti. La catena del comando, come si direbbe in gergo militare, passa dunque attraverso gli UUSSRR e arriva alla conferenza dei dirigenti scolastici della medesima, assimilata alla conferenza dei servizi di cui alla predetta legge di riforma della pubblica amministrazione, con il “coinvolgimento” dei consigli di istituto.

Con la rete di scopo sarà possibile “coinvolgere” gli EELL, mentre con quella d’ambito si cerca di riportare allo Stato la programmazione della rete scolastica, oggi attribuita alle Regioni. E’ quest’ultima infatti che “definisce le linee generali della programmazione territoriale”. All’epoca del ministro Falcucci i “distretti” potevano svolgere la funzione di ambito, ma almeno c’era una componente partecipativa.

Anche se ampollose sono le competenze affidate alle reti, che questo alla fine sia un miglioramento per l’autonomia delle scuole, con le varie modalità espresse in precedenza, si può avere più di un dubbio, il che sarà senz’altro confermato dall’approvazione del nuovo titolo quinto della Costituzione che sta per essere sottoposto a referendum. Anche lì si parla di fare salva l’autonomia, ma non essendo declinata in modo esplicito nel provvedimento costituzionale, sarà quella che lo stato attribuirà alle scuole.

La rete, lo dicono chiaramente i documenti ministeriali che oggi interpretano la legge, è una “modalità di organizzazione amministrativa del territorio”, che anziché andare verso lo stesso, continua a tenere le scuole ben agganciate all’amministrazione statale. I corsi e i ricorsi, che abbiamo cercato di documentare. Tutto questo sarà davvero una crescita, una migliore sinergia, una maggiore qualità, un rinnovamento per la scuola italiana ? Questa modalità di governo, dirigistica, che arriva fino ai dirigenti scolastici, l’avevamo già provata e l’ultimo ventennio è lì a dimostrare che era necessario cambiare. Ora senza tanti infingimenti torniamo là. Come si dice: ai posteri l’ardua sentenza. Purtroppo delle reti attuate in base all’art. 7 del DPR 275, non sappiamo gran che.

L’apprendimento permanente

L’apprendimento permanente, un grande obiettivo nascosto

di Gian Carlo Sacchi

 

Sull’apprendimento in età adulta il nostro Paese si trova in una palude, che da un lato rivela l’inconcludenza riguardo ad una specifica legislazione, e, dall’altro, la distanza dagli obiettivi di Europa 2020. Ci si è provato diverse volte a scrivere una normativa organica ispirata alla long life learning, che in quest’ottica avrebbe consentito di rileggere un po’ tutto il percorso scolastico, ma nel tempo anche le terminologie che si sono susseguite nell’identificazione di tali percorsi hanno evidenziato l’incertezza politica che ancora oggi caratterizza la visione istituzionale del settore. Si è iniziato con istruzione degli adulti per definire il recupero dei titoli di studio e ancora oggi questo termine connota l’ultima edizione dei Centri Provinciali (CPIA). C’è stato un breve periodo durante il quale si era passati all’educazione pensando che fossero i bisogni/interessi delle persone a condurre le diverse progettazioni, secondo un governo del territorio e lasciando un ampio margine di manovra alle autonomie scolastiche. Da sempre poi la formazione prevedeva l’aggiornamento delle performance professionali, in cui venivano a trovarsi anche le aziende. Questi tre sostantivi indicavano altrettante competenze istituzionali: allo Stato l’istruzione, alle Regioni la formazione professionale, ad un mix di soggetti non ben identificati tutto quanto afferiva alla così detta educazione permanente, che a livello semantico avrebbe potuto riassumerle tutte e che invece si è trovata a fare il vaso di coccio sia sul piano dei contenuti che della governance. Un tentativo in tal senso fu proposto con la direttiva De Mauro del 2001.Essa offriva linee guida per l’educazione permanente degli adulti, con validità triennale, mirate “all’alfabetizzazione funzionale della popolazione adulta, che consideri i differenti bisogni di istruzione delle persone e di promozione culturale nei contesti locali”. Lo sviluppo della collaborazione tra i Centri territoriali e gli Enti locali, caldeggiata dalla direttiva medesima, aveva lo scopo di rafforzare il complessivo sistema dell’educazione degli adulti e la personalizzazione dei percorsi, il riconoscimento dei crediti e la progressiva realizzazione del sistema integrato di certificazione. La dislocazione dei Centri territoriali veniva definita dalle Regioni, secondo obiettivi di programmazione dell’offerta formativa, mentre i precedenti CTP erano istituiti dall’amministrazione scolastica prevalentemente presso scuole del primo ciclo.

La direttiva arrivò a scadenza e non fu rinnovata ed ogni segmento tornò alla sua originaria identità, lasciando sullo sfondo le indicazioni europee, che nella logica del recepimento divennero il riferimento delle politiche nel settore. Anziché sui fini l’UE pose l’accento sui risultati, definendo un range di età entro il quale gli adulti di tutta Europa avrebbero dovuto frequentare corsi di formazione, valorizzando gli apprendimenti formali, ma anche quelli non formali ed informali.

La ricerca PIAAC dell’OCSE fornì ulteriori dati per quanto riguarda le abilità linguistiche, logico-matematiche e collegate all’uso delle tecnologie dell’informazione e comunicazione.

In linea con le indicazioni europee la legge 92 del 2012 fece piazza pulita delle precedenti dissertazioni introducendo il concetto di apprendimento permanente, pensando ad un processo che dura tutta la vita e che chiama in causa una pluralità di occasioni per apprendere. Il Consiglio d’Europa infatti (2012), nel convalidare l’apprendimento non formale ed informale, raccomanda che tutti i cittadini si trovino nella condizione di realizzare appieno le proprie potenzialità di crescita culturale, formative e occupazionale. Non ci si riferisce principalmente alle performance ma alle persone in una prospettiva sociale, di cittadinanza e occupazionale. E’ una legge che riprende idealmente dalla direttiva De Mauro, compreso il recupero del termine educazione, almeno come traduzione del linguaggio europeo, ma questo specifico dell’apprendimento permanente non ha un corpo legislativo autonomo, è inserito in un provvedimento sul lavoro; le imprese non hanno accolto bene l’allargamento della formazione oltre la dimensione professionale, per timore di una ricaduta troppo impegnativa sull’inquadramento dei lavoratori. Ma ormai è legge, forse la prima legge che finalmente cerca di operare una sintesi tra i predetti segmenti, anche se gli stessi per ora non hanno abbandonato le rispettive prerogative.

Il valore di tale operazione è da un lato porre un segnale nei confronti del superamento della suddetta rigida articolazione dei percorsi, e, dall’altro, aprire verso i bisogni formativi della popolazione adulta con le sue diverse modalità di apprendere. “La Repubblica….promuove l’apprendimento permanente quale diritto della persona” (DLeg.vo n.13/2013) ad intraprendere qualsiasi attività nelle varie fasi della vita al fine di migliorare le conoscenze, le capacità e le competenze. Si possono percorrere itinerari così detti formali che si concludono con il conseguimento di un titolo di studio o una qualifica professionale. Ci sono poi apprendimenti informali che si realizzano nello svolgimento di attività nelle situazioni di vita quotidiana e nelle interazioni che in esse hanno luogo, nell’ambito del contesto di lavoro, familiare e del tempo libero (loisir).

Infine si parla di apprendimenti non formali , la vera novità per il nostro sistema, che sono caratterizzati da una scelta intenzionale delle persone che vogliono formarsi, che si realizza al difuori dei due sistemi indicati, in ogni organismo che persegue scopi educativi, anche del volontariato, del privato sociale e delle imprese.

Con il citato decreto n. 13 vengono definiti i livelli essenziali delle prestazioni per l’individuazione e la validazione degli apprendimenti non formali e informali e gli standard minimi di servizio del sistema nazionale di certificazione delle competenze.

Poche righe per individuare un’operazione titanica, che non parte da risultati predeterminati, tipici del nostro sistema, perlopiù formale, ma da standard che tutti, pur nei diversi ambiti in cui si svolge l’attività formativa, si devono impegnare a raggiungere, con la relativa certificazione in base all’ambito nel quale è stata conseguita. Anche sulla questione degli standard c’è ancora molto da lavorare, così come quando si parla di interoperatività delle banche dati per la certificazione, cosa appena partita nel settore dalla formazione professionale, che cerca di andare verso la fusione delle anagrafi regionali, in vista di un migliore rapporto con le istituzioni europee.

COME VENGONO STRUTTURATI I PERCORSI NON FORMALI

Partendo dalle analisi PIAAC ci si rende conto che i così detti percorsi formali non bastano se si vogliono raggiungere obiettivi formativi significativi per un’ampia gamma di popolazione, la quale non ha a che fare soltanto con i titoli di studio o l’aggiornamento professionale, ma con competenze che permettano di vivere al passo con i tempi, mantenendo i diritti di cittadinanza, facendo fronte al così detto analfabetismo di ritorno. Il non formale, come si è detto, consente di raggiungere gli standard prescritti (competenze chiave per l’apprendimento permanente, EQF, decreto 139/2007, ecc.), con modalità che sono interessanti per le persone e per i diversi stili e ambienti di apprendimento. Davanti al formale c’è il titolo con le sue prescrizioni e gli obblighi di chi deve recuperare in età adulta, con alle spalle il valore giuridico, nel non formale c’è la motivazione delle persone a mettersi in gioco, l’esigenza di mantenersi in forma, con la possibilità tuttavia di venire certificati ed avere un riconoscimento sociale e perchè no sul libero mercato.

Una competenza in lingua straniera ad esempio può essere inserita in un determinato percorso che prevede una certa terminalità, ma può anche essere indicata in standard comunicativi ottenibili da turisti, mediante scambi culturali, ecc. Nell’informale poi sarà il singolo a condurre un’esperienza permeata da diversi apprendimenti linguistici che verranno apprezzati sul campo. Per questi ultimi due ambiti il citato decreto prevede che sia lo stato a mettere a punto modelli di certificazione, fermo restando che nelle lingue esiste già uno standard europeo.

Gli strumenti legislativi prevedono un’intesa Stato-Regioni per regolamentare le rispettive competenze . L’accordo approvato il 10 luglio 2014 detta linee strategiche di intervento in ordine ai servizi da attuare e all’organizzazione delle reti territoriali, che sono lo strumento che la legge stessa ha previsto per costituire un sistema integrato di apprendimento permanente.

Di tali reti fanno parte i CPIA, a loro volta reti territoriali di servizio del sistema di istruzione dello Stato per le attività destinate alla popolazione adulta, le reti Politecniche professionali, le Università, e, per la prima volta vengono legittimati “organismi che perseguono fini educativi e formativi, anche del volontariato, del servizio civile nazionale e del privato-sociale”.

Si tratta di aprire la strada sul piano della domanda al ruolo del non formale e su quello dell’offerta a soggetti privati attivi sul territorio, che devono essere riconosciuti in termini di status, ai quali non è richiesto di uniformarsi ai soggetti pubblici come operanti nel campo del formale, ma che possono mantenere la loro identità ed il loro progetto educativo. Sarà la rete territoriale a farsi carico della programmazione della predetta offerta integrata, riconoscendo un “ruolo specifico e non sostituibile” al così detto privato-sociale.

L’intesa attribuisce a tali ultime organizzazioni da un lato un valore rispetto all’innovazione metodologica, ma dall’altro indulge nel considerarle ancora un pezzo di welfare, ricalcando quella che è la nostra tradizione culturale e cioè la capacità di entrare in contatto con cittadini spesso a rischio di esclusione sociale. L’esperienza dimostra che diverse sono le motivazioni secondo le quali gli adulti si avvicinano alle varie offerte e proprio nel campo del non formale spesso si tratta di ricerca di qualcosa che soddisfi un interesse culturale più che di necessità di colmare lacune pregresse o di beneficiare di strumenti per l’inclusione sociale, seppure tutto il sistema territoriale deve guardare, come si è detto, verso l’acquisizione delle competenze chiave per l’apprendimento permanente o ai repertori professionali, regionali e nazionale.

Quindi saranno l’analisi dei bisogni formativi, le specificità dei singoli attori ed il monitoraggio dei risultati in termini di soddisfazione dell’utenza e di aumento degli indici di competenza, a sviluppare un prodotto formativo che serva da motivazione e orientamento permanenti.

UNA NUOVA GOVERNANCE

La palla passa alle Regioni che nel recepire l’intesa indicano i percorsi di riconoscimento dei predetti soggetti sociali/formativi e l’organizzazione delle reti territoriali. Sul piano della legittimità a livello regionale esistono già tutti gli albi necessari ai quali tali organismi devono essere iscritti (associazioni di promozione sociale, di volontariato, cooperative sociali, ecc.), che vanno solo riunificati in un unico apposito registro; nei loro statuti deve essere chiara la finalità formativa; dovranno documentare il loro specifico, il progetto educativo e la programmazione con carattere pluriennale.

Trattasi di soggetti privati e volontari, che vanno giudicati dai risultati e non dai prerequisiti, in quanto non devono attribuire titoli aventi valore legale, bensì certificati da porre in un’ottica relazionale e per un aumento generale di conoscenze e non di selezionare quelle validate ai fini pubblicistici. Allo stesso modo le competenze degli operatori devono essere garantite da modalità e percorsi promossi dalla stessa associazione. Qui il terreno si fa scivoloso perché quando si tratta di competenze culturali la tradizione burocratica del nostro Paese è quella di uniformarne i requisiti alle agenzie formali, e questo metterà a rischio l’originalità della proposta formativa di una struttura abbastanza fragile piegandola a quelle molto più forti delle università, dei CPIA e delle stesse scuole .

In questi ultimi anni sono aumentate le Università Popolari, strutture molto dinamiche e assai diversificate, capaci di attrarre utenze diverse per età, livelli culturali, etnie di appartenenza, per valorizzare le persone adulte come soggetti attivi e risorse per l’intera società. Prendono lo spunto dai “circoli culturali” diffusi nel nordeuropa , si sviluppano secondo attività formative top down, in base ad un’offerta riconoscibile e programmata, ma anche bottom up, in luoghi dove le persone si trovano a discutere ed approfondire problemi del contesto in cui operano e dove l’apprendimento non formale costituisce uno strumento di partecipazione democratica. I risultati delle loro attività potranno essere riconosciuti come crediti anche per percorsi formativi di tipo formale. Diverso è altresì il rapporto con le istituzioni locali e per quanto riguarda le modalità di finanziamento. Si tratta di differenze che costituiscono una ricchezza che va salvaguardata e non cercare di omologarle secondo un modello scolasticistico; sono il risultato di storie particolari, di volontariato e di politiche territoriali. Ogni università deve perciò esprimere con chiarezza una propria intenzionalità ed un’offerta formativa; essa è e deve restare libera, le regioni devono rispettare tale libertà pur nella individuazione dei requisiti minimi per il loro riconoscimento.

Alcune regioni hanno iniziato a muoversi, limitandosi al recepimento dell’intesa o seguendone i tratti fondamentali nella costituzione di comitati regionali, che tuttavia appaiono generici e senza un orientamento programmatico chiaro, nella indicazione dei requisiti per il riconoscimento dei soggetti del terzo settore. In altri casi si ritiene che possa essere esaurito il compito nell’ambito di una visione lavorista dell’apprendimento permanente.

Saranno le regioni ad adottare un proprio modello che identifichi la dimensione territoriale, eventuali connotazioni settoriali, la definizione dei soggetti che la compongono. Verranno altresì attivati processi di governance democratica e partecipativa che permettano alle comunità locali (nella componente istituzionale e no-profit) di essere protagoniste della propria crescita.

Regioni ed Enti locali sono evidentemente i nodi delle reti, essi dovranno garantire i servizi informativi, favorire l’emersione dei bisogni formativi inespressi, soprattutto dai soggetti più deboli, sostenere l’orientamento, coordinare la programmazione ed il monitoraggio dei risultati. Allo Stato l’individuazione degli standard e la certificazione delle competenze. I soggetti che compongono la rete definiscono le proprie modalità di gestione per assicurare un’offerta che espliciti quali competenze tra quelle europee di cittadinanza e quelle del repertorio regionale i cittadini possono acquisire attraverso il percorso di apprendimento non formale.

Ancora molto c’è da costruire e l’occasione di far diventare l’apprendimento permanente l’anima pedagogica dei recenti provvedimenti sulla buona scuola e sul lavoro non si è realizzata, vedremo se qualcosa comparirà nella riforma del terzo settore dal momento che da un lato la formazione fa diminuire le disuguaglianze e fornisce strumenti per l’inclusione sociale, e, dall’altro, il no-profit aumenta la sua presenza tra le competenze non formali.

Si crede che questo discorso interessi maggiormente il mondo del lavoro, mentre si apre sempre di più verso la cittadinanza, specialmente per quanto riguarda la popolazione adulta. Si potrebbe pensare alle soft skill che sono più attinenti alla cittadinanza stessa, ma sono le più richieste anche per i lavoratori.

Programmazione territoriale di area vasta

PROGRAMMAZIONE TERRITORIALE DI AREA VASTA

di Gian Carlo Sacchi

 

E’ un concetto, quello di “area vasta”, che ha fatto la sua comparsa con la legge Del Rio sul riordino degli enti locali ed in particolar modo delle province, in vista della loro soppressione per effetto della riforma del titolo quinto della Costituzione. Si tratta di superare una modalità di programmazione istituzionale del territorio che sia gli amministratori che i cittadini sono abituati a praticare fin dall’unità d’Italia e che cambiare significa disorientamento per entrambi, circa la qualità e la maggiore efficienza di fruizione dei servizi e per le modalità organizzative e di rappresentanza democratica.
La legge non definisce infatti l’area vasta ma la pone come obiettivo di una nuova configurazione sociale e amministrativa che coinvolge i comuni secondo prospettive di maggiore ampliamento attraverso meccanismi di aggregazione/fusione, l’introduzione delle città metropolitane, in una concezione più europea dei grandi agglomerati urbani, un nuovo ruolo delle regioni collegato con il senato delle autonomie.
Questo disegno esclude le province, che andavano già superate quarant’anni fa con l’introduzione del regionalismo nel nostro ordinamento, che a sua volta avrebbe dovuto dare compimento al dettato costituzionale, nel tentativo, rimasto però incompiuto, di decentrare il governo del Paese verso i territori.
Il ruolo delle province in questo ultimo quarto di secolo è stato di supporto a comuni piccoli e così più deboli oppure ha gestito attività per delega regionale. L’area vasta è dunque un concetto che pone a diretto contatto regioni, che a loro volta avrebbero potuto subire modifiche di confini, e comuni con dimensioni e quindi capacità di governo molto più importanti di prima.
L’area vasta non può essere dunque un nuovo ente, ma una tendenza ad organizzare problemi e servizi, emergenze naturali e culturali del territorio secondo maggiore efficienza/efficacia, legittimati da un lato dal comune come rappresentante della comunità e dalla regione come snodo dello stato. Essa rappresenterà anche un indicatore di maggiore flessibilità per andare oltre gli stessi confini regionali, attraverso il meccanismo delle intese, o vedere attribuito dallo stato stesso ad una determinata regione poteri particolari in base a particolari esigenze locali.  Area vasta è sinonimo di partecipazione e di coinvolgimento di aggregazioni della società civile, valorizzando il principio di sussidiarietà; un rapporto tra pubblico e privato può agire in modo semplice ed equo per soddisfare le necessità e sollecitare responsabilità e qualità anche da parte delle stesse formazioni sociali. Una gestione integrata nei servizi per l’infanzia, gli anziani, i disabili, ecc., mantiene una visione pubblica del servizio medesimo, cercandone allo stesso tempo una maggiore economia nella gestione.
E’ nell’area vasta che si deve riproporre la riflessione sugli strumenti di governance che nel recente passato avevano introdotto sistemi misti in aiuto soprattutto alle difficoltà economiche dei comuni ed alla eccessiva complicazione burocratica nell’applicazione della normativa degli enti locali a tali servizi e nella gestione dei loro bilanci (si veda ad esempio l’impossibilità di omogeneizzare le funzioni degli educatori dei nidi di infanzia comunali e degli altri impiegati dell’ente), che non dovevano andare a gravare eccessivamente sulle tasche dei cittadini. Sembra che i comuni vadano verso la privatizzazione tout court, il che mette a rischio la fruizione di un diritto ritenuto sempre più universale per lo sviluppo del bambino e non solo un sostegno alle famiglie a fronte di una pura convenienza economica. Tra le deleghe della legge 107 c’è anche la riforma del ciclo 0-6 anni per superare un servizio ancora oggi definito a domanda individuale e quindi molto condizionato dai costi e dalle disponibilità economiche delle famiglie, per farlo diventare servizio pubblico, con l’intervento dello Stato. Sicuramente si tratta di un passo avanti sul fronte finanziario, ma anche questo segmento deve rientrare nella più ampia discussione sul governo complessivo del sistema per evitare che diventi parte di una rigidità della particolare amministrazione scolastica, come già accade per la scuola dell’infanzia, sganciandolo dall’intimo rapporto con il comune e la comunità di riferimento.
Fin dall’introduzione dell’autonomia della scuola nel 1998 la personalità giuridica delle scuole autonome venne conferita con atto unilaterale dello Stato, in base a parametri numerici di popolazione scolastica indipendentemente dalle scelte di programmazione territoriale e di organizzazione locale dei servizi con i quali le scuole stesse avrebbero dovuto venire in contatto. Oggi sembra necessario rivedere tali assetti sulla base del riordino dei comuni e quindi dell’organizzazione funzionale del predetto 0-6, ma anche del primo ciclo per il quale dovranno essere generalizzati gli “istituti comprensivi” ,che si completerà con il passaggio degli istituti superiori dalle province ai quali potrà essere utile mantenere il modello del campus, che favorirà il rapporto tra diversi indirizzi di studio, anche nell’ottica di un maggior e più efficace orientamento. Il tutto andrà posto in relazione con il sistema di istruzione e formazione professionale che la riforma costituzionale affida alle regioni e agli Istituti Tecnici Superiori gestiti da Fondazioni con la partecipazione delle università e delle imprese; dei poli tecnologici, dei laboratori territoriali per l’occupabilità previsti dalla predetta legge 107.
E’ necessario che quanto prima anche la programmazione scolastica, insieme a quella sanitaria, dei servizi sociali e per il lavoro, divenga una prerogativa regionale e si possa arrivare ad un’Azienda Scolastica Locale, con l’individuazione di “ambiti ottimali di servizio”, già indicati dal DL 233/1998 e ribaditi dalla legge 1907, che dovrebbe unificare sul territorio l’organizzazione istituzionale e l’assegnazione del personale (che siano i presidi o meno a scegliere gli insegnanti). La volontà di questo governo è di “completare l’autonomia scolastica”, ma ciò sarà impossibile se le scuole rimarranno legate a doppio filo all’ufficio scolastico regionale e se lo stato, proprio in sede di riforma costituzionale, cerca di ritornare in possesso di tutte le competenze di governo, anche di quelle che in un primo tentativo con la riforma del 2001 si era cercato di condividere, purtroppo senza andare fino in fondo, con le regioni.
I predetti ambiti sono scelte di area vasta che possono comprendere tutti gli ordini e i gradi di scuola, che in primis verranno identificati all’interno delle regioni, ma che attraverso intese, come si è detto, potranno andare oltre, al fine di ottenere migliori risultati sul piano educativo, sociale ed economico. Autonomia vuol dire esercizio pieno dei poteri previsti per le scuole dal DPR 275/1999 e rappresentanza a livello territoriale, regionale, fino ad arrivare al consiglio nazionale delle scuole autonome, strumento di dialogo con l’amministrazione centrale per quanto riguarda le politiche di indirizzo e di controllo.
Alla debolezza delle governance nei vari settori, che si nota anche per la disomogeneità di sviluppo tra i territori del nostro Paese, non si pone rimedio con le “agenzie nazionali” , ma con un’integrazione effettiva delle politiche da realizzarsi nel nuovo senato delle autonomie, altrimenti resta da capire quale sarà il suo ruolo se alla parola autonomia non corrisponderà nessun potere reale e nessuna responsabilità.
E’ illusorio pensare che ci possa essere una ripresa se prima di tutto non si rilancerà sulla motivazione e sull’intraprendenza delle realtà locali, ponendo al centro la scuola come elemento di sviluppo, assicurando ad essa il necessario sostegno economico e politico per quanto attiene alla sua funzione per tutto il Paese, ma lasciando spazio ad un’autonomia “pedagogica” che può far rilevare il valore aggiunto. Non si vorrebbero paragoni mal compresi, ma il modello sanitario potrebbe essere utile: qualità professionale, finanziamento nazionale, gestione regionale e locale.
Il rapporto tra stato e regioni a questo riguardo sembra il passaggio più ambiguo di tutta l’operazione. Lo stato vuole conservare, come si è detto, tutti i poteri sul piano gestionale, e ciò ha provocando il fallimento della precedente riforma costituzionale e gli intralci che hanno prodotto un enorme contenzioso; ora il nuovo titolo quinto della costituzione sembra voler ricentralizzare l’ordinamento scolastico, ma lascia ancora spazio per una revisione interna ed esterna del governo degli istituti scolastici, anch’essi oggetto di una delega della legge 107. Le regioni però non si sono mai rivelate entusiaste di una tale acquisizione per paura di dover ereditare situazioni che non sono mai state in grado di controllare, a differenza ad esempio, della formazione professionale, e in grave difficoltà finanziaria.
Oggi qualche passo in avanti è stato fatto con l’incremento da parte dello stato degli organici per il “potenziamento” dell’offerta formativa, nei rapporti con i privati, soprattutto con le aziende, per quanto riguarda l’importante settore del lavoro, nonché la riconsiderazione dei servizi 0-6 anni da parte dei comuni, causa una spesa non più sostenibile. E’ dunque l’occasione per rimettere a posto il mosaico, ridistribuendo poteri e risorse.
Contro il federalismo devolutivo che ha moltiplicato i centri di decisione ed i livelli di conflittualità questo governo vorrebbe realizzare, come ha detto il ministro Boschi, un regionalismo cooperativo, anche se il testo della riforma sembra più attribuire alle regioni competenze amministrative di area vasta.
Quest’ultima deve rimanere una prospettiva innovativa e di sviluppo e non può rischiare di diventare una forma depressiva di risparmio.

Tramonta il principio di sussidiarietà?

Tramonta il principio di sussidiarietà?

di Gian Carlo Sacchi

 

Nella carta europea delle autonomie locali si dice che “l’esercizio delle responsabilità pubbliche deve, in linea di massima, incombere di preferenza sulle autorità più vicine ai cittadini. L’assegnazione delle responsabilità ad un’altra autorità deve tener conto dell’ampiezza e della natura del compito e delle esigenze di efficacia e di economia”. L’Unione fissa gli obiettivi e lascia agli Stati la competenza per quanto riguarda la forma e i mezzi. Ci sono competenze esclusive dell’UE e competenze condivise con gli Stati che sono regolate dal principio di sussidiarietà: in queste ultime rientrano la salute, l’industria, la cultura, il turismo, l’educazione, la formazione professionale, la gioventù e lo sport, la protezione civile e la cooperazione amministrativa. Su questo impianto è stata modellata la riforma del titolo quinto della nostra Costituzione approvato nel 2001, nel quale lo Stato doveva proporre le “norme generali sull’istruzione”, mentre nel governo del settore intervenivano competenze “concorrenti” con le Regioni.

Tale principio deve operare in tutti gli stadi della procedura legislativa, in riferimento alla capacità di azione non solo dello Stato, ma anche delle entità regionali e locali. Esso infatti riconosce da un lato la piena responsabilità dei diversi livelli di governo di una comunità e giustifica la supplenza da parte di un’istanza superiore comune resasi necessaria per assumere iniziative che non avrebbero successo se condotte a livello locale.

Non si tratta però soltanto di una gerarchia di livelli di governo, la sussidiarietà per attivare le risposte ai bisogni della società stando sempre più vicini ai cittadini, deve rilanciare la partecipazione nella società civile, chiedendo al pubblico di fissare le regole, ma lasciando al privato la possibilità di organizzarsi per svolgere servizi, anche pubblici, a vantaggio di tutta la comunità. Le amministrazioni hanno sempre meno risorse e quindi delegano a soggetti esterni che possono essere anche l’aggregazione di cittadini stessi e di famiglie. La sussidiarietà coniuga la libertà dell’iniziativa con la responsabilità per il bene comune, ma deve fare i conti con l’adeguatezza del servizio pubblico, che comporta da un lato criteri per l’accreditamento di soggetti privati (si pensi al dibattito tutt’ora in corso sulle “tages mutter”), e, dall’altro, evitare di incorrere in un uso lobbistico dei finanziamenti degli enti pubblici.

La polemica politica coinvolge maggiormente questo secondo tipo di sussidiarietà, che da un lato viene tacciata come disimpegno delle amministrazioni rispetto ai servizi di pubblico interesse, ma dall’altro i sindaci individuano in essa un’arma contro gli sprechi, per la trasparenza e la responsabilità nell’uso delle risorse. Tutto questo è anche affermato nell’epoca del federalismo fiscale. E’ a livello del Comune che si poteva fare sintesi tra la sussidiarietà verticale, nei confronti con le Regioni e lo Stato e orizzontale nel rapporto con i privati.

Papa Benedetto XVI aveva puntualizzato che la sussidiarietà deve coniugarsi con la solidarietà, senza della quale scadrebbe nel particolarismo sociale, viceversa si avrebbe un assistenzialismo che umilia il portatore del bisogno (Caritas in Veritate n.58).

Più società e meno stato è lo slogan che è circolato agli inizi del terzo millennio quando nel nostro Paese era maturata una convinzione comune circa il superamento del centralismo statalista, anche se c’era chi premeva per il coinvolgimento dei privati in una programmazione di enti pubblici ma territoriali. Quello che veniva definito “servizio pubblico integrato” di cui aveva dato prova il sistema dei servizi per l’educazione dell’infanzia della Regione Emilia Romagna e culminato sul piano nazionale con la legge n.62/2000.

Un’altra possibilità era legata all’affidamento a privati accreditati di funzioni pubbliche, e qui facendo leva sull’autonomia delle istituzioni scolastiche si proponeva un unico sistema pubblico che accredita le scuole indipendentemente dal soggetto che le gestisce. Nel mezzo ci stanno altrettante politiche a sostegno del diritto allo studio considerato dai più in maniera univeralistica, eccettuate alcune operazioni lobbistiche per favorire l’accesso alle scuole paritarie. Un tentativo “bipartisan” è sfociato in una proposta di legge sull’autogoverno delle istituzioni scolastiche, approvata dalla Camera nel 2012 .

Il principio di sussidiarietà pur con i noti profili di ambiguità ha tentato di ispirare il governo dei servizi agganciandolo alle dinamiche europee, soprattutto ad un’Europa delle Regioni, ed una sua equilibrata applicazione avrebbe potuto consolidare una prospettiva federalista ed una governance territoriale sostenuta dalle diverse parti politiche.

Dai recenti provvedimenti legislativi, a cominciare dalla “controriforma” del titolo quinto della Costituzione, questo principio sembra essere stato cancellato ed è stato messo in atto un ritorno al centralismo statalista al quale si accompagna una forma di privatizzazione del sistema: tutto ripassa attraverso il ministero che tratta le politiche internazionali, gli ordinamenti e i rapporti con Confindustria per l’alternanza tra scuola e lavoro.

Sussidiarietà voleva il potenziamento dei corpi intermedi, mentre la legge 107 li indebolisce: è lo Stato che interviene anche sulla didattica finanziando e approvando i progetti delle scuole o chiamandole a partecipare a bandi nazionali. Non sarà la sussidiarietà orizzontale a far crescere la capacità di risposta ai bisogni dei cittadini, l’efficienza, l’economicità del servizio, la maggiore responsabilità e la semplificazione amministrativa, ma la valutazione e la competitività tra le scuole. Non sarà la sussidiarietà verticale a far dire al ministro Giannini che se la Sicilia non è capace di fare formazione professionale allora ci deve pensare il ministero.

Erano i corpi intermedi a stimolare l’elaborazione politica, oggi è il governo che convoca i tavoli sulle riforme ed il mondo associativo svolge funzioni occasionalmente consultive, anziché essere quest’ultimo ad innescare un processo partecipativo che arriva fino al livello nazionale, compreso il riconoscimento della rappresentanza alle scuole autonome. Un tale processo a livello locale non è più un valore educativo e di coesione sociale, ma anche i comuni organizzano gare di appalto come se i servizi alla persona, ai bambini, agli anziani, ecc. non fossero una parte della stessa vita e sviluppo della comunità, ma semplicemente procedure amministrative.

Un fronte caldo della sussidiarietà ha riguardato il finanziamento delle scuole e le provvidenze regionali per il diritto allo studio, soprattutto nei confronti del predetto rapporto tra pubblico e privato. E’ pronto a decollare lo school bonus che favorisce la detrazione fiscale da parte di chi finanzia non solo le paritarie, questione in atto da tempo, ma anche la scuola statale, così come per una serie di servizi al secondo ciclo si cerca di coinvolgere le imprese offrendo flessibilità nel curricolo e ricercando spazi di lavoro. Bisognerà vedere se la defiscalizzazione verrà prodotta nei confronti dello Stato o della singola scuola, o sotto forma di voucer da spendere da parte delle famiglie, per sapere se ci sarà veramente autonomia finanziaria degli istituti scolastici, cosa che per ora non si vede, rimanendo ancora tutto legato alla legge di stabilità. Mentre sembrava che il dibattito richiamasse i concetti di libertà di educazione e di laicità all’interno di un sistema delle autonomie territoriali e di una politica finanziaria multilivello e sussidiaria, ora è lo Stato stesso che fa intese con i privati, sia sul versante delle entrate che delle spese.

Alcune Regioni hanno impugnato la legge 107 davanti alla Corte Costituzionale accusandola di neocentralismo che esclude il coinvolgimento di altri livelli di governo, soprattutto perché funzioni avocate allo Stato non tengono presenti le caratteristiche dei territori uscendo così dalla cultura della sussidiarietà.

Da indagini effettuate emerge che i cittadini preferiscono servizi erogati da corpi sociali piuttosto che dallo Stato, il che sembra normale in un Paese dove si respira davvero aria di democrazia.

Il territorio sfasciato

IL TERRITORIO SFASCIATO 
di Gian Carlo Sacchi

Una notevole quantità di provvedimenti andrà presto ad influire sulla programmazione del servizio scolastico e dintorni. In parte sono l’epilogo dell’eredità lasciata dalle varie riforme degli enti locali e della pubblica amministrazione messe in atto nell’ultimo decennio del secolo scorso ed in parte riguardano la recente revisione del titolo quinto della Costituzione in vista dell’abolizione delle province e anticipata dalle unioni/fusioni dei Comuni e dalla riorganizzazione dei poteri statali di cui si parla nella legge sulla “buona scuola”.

Gli amministratori in questa prima fase sono più preoccupati di altri servizi: anagrafe, demanio, polizia locale, ecc., meno di tutto ciò che ruota attorno al più generale sistema educativo; nel frattempo lo Stato sta riprendendo in mano non solo quanto nell’ultimo ventennio stava andando verso il decentramento, ma anche ciò che è oggi appannaggio dei Comuni, ai quali potrebbero essere poi conferite le competenze delle Province, oppure quelle che erano soggette esclusivamente alla legislazione regionale. Dentro a questo insieme di scatole cinesi ci dovrebbe essere l’autonomia delle scuole, le quali, come abbiamo più volte sottolineato in questa rubrica, non è una scatola alla pari delle altre nella rete territoriale (statuto delle scuole autonome e loro rappresentanza nei diversi livelli politico-territoriali), ma è dentro a quella più grossa dello Stato (rete tra scuole) che ne delimita il perimetro e ne condiziona i principali strumenti di funzionamento.

La nuova Costituzione mantiene allo Stato l’ordinamento scolastico, si sta statalizzando il segmento 0-6 e si pensa di costituire un’agenzia nazionale con annessa sperimentazione su istruzione e formazione professionale. Alle Regioni un ritorno al DPR 616/1977 per organizzare il servizio scolastico.

Dalle predette unioni/fusioni dei Comuni si dovranno disegnare nuove istituzioni scolastiche, che alcune regioni intenderebbero farle coincidere con i servizi socio-sanitari. In sede di prima applicazione dei provvedimenti sull’autonomia era demandato infatti alle stesse di individuare “gli ambiti territoriali ottimali” e ad una concertazione tra autonomie scolastiche ed enti locali eventuali modifiche successive. Tale impostazione però non fu mai del tutto seguita, perché fu lo Stato ad attribuire l’autonomia sulla base di parametri quantitativi, e così si rimase in balia di un sostanziale conflitto tra le Regioni che deliberavano sulla rete (modificando magari le stesse determinazioni di comuni e province) e il ministero che doveva attribuire il personale; oggi sono gli UUSSRR a definire anche gli “ambiti territoriali” nei quali i dirigenti scolastici andranno a scegliere l’organico e si costituiranno le reti tra le scuole.

Sempre da parte del ministero dell’istruzione sono state emanate linee guida per l’insediamento o il mantenimento di scuole nelle zone di montagna o disagiate del territorio (aree interne).

In conclusione, da una parte c’è di nuovo il sicuro potere del ministero che brandendo l’arma del personale interviene sia nella fornitura dell’organico degli istituti mediante l’approvazione dei piani triennali dell’offerta formativa, sia nella ripartizione dello stesso per ambiti territoriali. Questa situazione pur emancipando la capacità delle scuole stesse di gestire in modo più flessibile le risorse umane, le lascia comunque confinate in un quadro dato. Dall’altra parte c’è la assai più fragile azione degli enti territoriali ai quali manca ancora un quadro generale di programmazione, ma non se ne vede nemmeno l’impegno per una sua rapida elaborazione.

Come si è detto questi temi non sembrano prioritari e sono poco presenti nel pur vivace dibattito in atto sul riordino degli enti locali. Autonomie scolastiche e nuovi agglomerati comunali, senza le province, devono misurarsi con parametri numerici, magari da spending review, che lo Stato potrebbe far crescere: è un po’sibillina l’affermazione contenuta nella legge 107 circa il futuro ridimensionamento del numero delle dirigenze, con esigenze dei territori e nel rapporto tra servizi sociali.

Ricostruire una governance territoriale non sarà ne facile ne breve; a livello intercomunale si può lavorare sul primo ciclo: sarebbe già una conquista se si riuscisse a generalizzare il modello degli istituti comprensivi, anche in vista di una più organica riproposta del predetto percorso 0-6.

Per quanto riguarda il secondo ciclo le attuali province sui generis rischiano di chiudere le scuole per mancanza di riscaldamento, ma non mollano, mentre potrebbe essere proprio questo periodo di transizione il più opportuno per una nuova organizzazione anche qui dei nuovi comuni.

Sul versante dell’istruzione e formazione professionale infine solo alcune regioni hanno cercato di adeguare il proprio impianto legislativo, spingendolo però verso le esigenze del lavoro, mentre il governo nazionale ha già inquadrato tutta la materia riportandola sempre di più sotto l’egida statale: agenzie nazionali per il lavoro e la formazione professionale, apprendistato, linee guida sull’alternanza, laboratori territoriali per l’occupazione.

L’evolversi dei processi normativi da l’idea di un territorio sfasciato e disorientato, incapace di riprendersi una leadership di governo a partire dai peraltro tanti movimenti locali che esprimono esigenza di partecipazione civica. Non si riesce e per certi versi non si vuole ricostruire a partire dal basso, unica modalità che potrebbe far riavvicinare i tanti delusi alle istituzioni.

Le articolazioni della Repubblica rischiano di essere decorative se tutto viene manovrato dal centro ed il recente aspro conflitto tra governo e regioni, oltre ad alcune questioni di merito, fa capire il tentativo in prospettiva di ridurle, come si è detto altre volte, ad uno strumento di gestione amministrativa di area vasta. Nel nostro settore esse sono perlopiù un contenitore nel quale continua a governare indisturbato, anche dalla riforma della pubblica amministrazione, l’ufficio scolastico regionale.