Archivi categoria: Scuola e Territorio

Dimensionamento e competenze concorrenti

Il dimensionamento e le competenze concorrenti tra Stato e Regioni

di Gian Carlo Sacchi

Le competenze concorrenti tra stato e regioni nel settore dell’istruzione sono state sancite dalla riforma del Titolo Quinto della Costituzione, in un periodo storico-politico nel quale si prevedeva il decentramento delle prerogative statali verso le regioni, gli enti locali e le scuole autonome. Numerosi provvedimenti avevano già previsto il passaggio dei poteri, compresa l’introduzione del federalismo fiscale, ma sulla riforma costituzionale si consumò il compromesso: gli aspetti generali dell’ordinamento rimanevano allo Stato, la formazione professionale alle Regioni e una molteplicità di interventi di tipo prevalentemente gestionale dovevano essere condivise, conferendo il primato legislativo alle realtà periferiche a cui andava il governo del territorio.

La situazione si presentò subito molto ingarbugliata, da un lato chi si aspettava un radicale cambiamento di prospettiva, mentre dall’altro c’erano coloro che volevano mantenere il potere sull’intero settore a livello centrale. E questo generò un conflitto di attribuzioni che portò diverse questioni al cospetto della Corte Costituzionale.

Dopo l’approvazione popolare del nuovo Titolo Quinto, in diversi settori si inizio la sua applicazione nell’ordinamento vigente, ma nell’istruzione non fu così; i tentativi di regolamentazione furono vanificati un po’ da entrambe le parti: l’amministrazione scolastica non collaborò nemmeno a predisporre gli atti necessari, ma anche le regioni insistettero più di tanto, in quanto si era diffusa l’opinione che lo Stato avrebbe passato i poteri senza le relative risorse economiche, lasciando sole le Regioni a dover finanziare l’intero settore.

Risultato che non furono identificate le materie sulle qualicostituire le norme generali, appartenenti allo Stato nazionale e le competenze concorrenti iniziarono ad essere trascinate da una parte e dall’altra dei due contendenti, per cui si rese necessario l’intervento della suprema Corte. Le sentenze furono numerose, in sede di contenzioso si dovettero stabilire le diverse prerogative, ma lo spirito dei pronunciamenti si poteva ritenere aperto al decentramento, ammettendo l’intervento delle regioni nell’organizzazione del servizio scolastico sul territorio, in un’ottica di “leale collaborazione”.

Anche se mancava una definizione a monte dei poteri, l’intesa tra Stato e Regioni, sancita attraverso la “conferenza unificata”,consentiva di comporre i diversi interessi, quello delle norme generali, definite in proprio dallo Stato e delle esigenze dei territori, composte a livello di enti regionali. Questa modalità di gestione durò diversi anni, con un contenzioso limitato,assicurando un equilibrato governo del settore, senza sostanzialiinterferenze di carattere politico, nonostante le divere maggioranze che si sono succedute nei vari governi.

L’investimento nel sistema regionale ha cercato di compiere un ulteriore passo verso il regionalismo differenziato, finestra lasciata aperta dalla predetta riforma, che l’attuale governo si sarebbe impegnato a realizzare nell’ambito di un’ulteriore modifica costituzionale, ripresa da un prossimo dibattito parlamentare.

Ma la recente approvazione della legge sul dimensionamento degli istituti scolastici autonomi, alla quale ha fatto seguito un altro intervento della Corte Costituzionale, richiesto da un ricorso presentato da alcune regioni, ci ha fatto tornare ai vecchi tempi, senza la possibilità di comporre i diversi punti di vista, con la riesumazione di un ragionamento giuridico che non eravamo più abituati a sentire in tema di istruzione, che di fatto chiudeva sul fronte delle richieste regionali, ergendo la norma statale a principio generale. 

Il mancato accordo in sede di Conferenza Unificata su questo tema è stato utilizzato dallo Stato per un intervento sostitutivo unilaterale, motivato dalle strette esigenze temporali del PNRR,che prevedeva un intervento sul dimensionamento degli istituti scolastici in relazione al decremento demografico degli alunni. Insomma potremmo incolpare il PNRR di aver messo discordia nei rapporti istituzionali del nostro sistema, anche se sarebbe interessante sapere come mai le regioni non sono state chiamate ad intervenire a monte di tale progetto, anche la dove destinatari degli interventi erano i comuni, mentre tutto si è svolto tra l’UE e i ministeri, quando poi diverse materie di quelle richiamate dallo stesso progetto europeo sono di competenza regionale.

La questione del dimensionamento non ha comportato da parte dello Stato un’analisi delle funzioni delle scuole sul territorio e sul governo delle rete scolastica regionale, ma solamente ha voluto rendere più efficiente il lavoro dei dirigenti scolastici e amministrativi, definendo però in modo unilaterale le modalità di calcolo delle nuove unità scolastiche, giungendo alla composizione di mega-istituti difficili da governare sia sul paino delle relazioni interne, sia nei rapporti con gli enti locali, che a loro volta sono stati magari oggetto di ristrutturazioni territoriali. La riorganizzazione delle autonomie scolastiche e dei comuni, in considerazione del decremento demografico e dello spopolamento delle aree a bassa densità abitativa avrebbe dovuto andare di pari passo proprio per cercare di mantenere un equilibrio territoriale, ma non solo, sia in un caso che nell’altro era prevista una consultazione della popolazione, mentre la soppressione delle dirigenze delle scuole è avvenuta sulla base di combinazioni numeriche che non hanno tenuto conto delle caratteristiche socio-economiche e culturali delle realtà che si andavano ad intaccare.

Il provvedimento vale per i prossimi tre anni (a valere del PNRR?), ma si ha motivo di ritenere che la riduzione di tali figure dirigenziali rimarrà come criterio regolatore anche delle prossimefinanziarie. E la loro distribuzione sul territorio torna saldamente nelle mani degli UUSSRR, “sentite” le regioni, proprio quando sembrava, al contrario, che queste ultime, proprio in relazione ad una più efficiente copertura dei posti, avrebbero potuto intervenire nella gestione degli organici. Ogni promessa infatti di inizio dell’anno scolastico con tutti i docenti al loro posto cozza sempre contro una gestione inefficiente da parte dell’amministrazione scolastica. E’ su questa base organizzativa che diverse regioni hanno chiesto il passaggio della scuola nel regionalismo differenziato.    

Un compromesso è stato trovato nel mantenimento delle competenze regionali nell’indicazione qualitativa dei componenti della rete scolastica, ma il quadro è dato dai numeri nazionali, anche se si lavora sulla popolazione regionale e non su dimensioni del singolo istituto. Diverso sarebbe stato attribuire un certo numero di personale sulla base di parametri di natura economica, lasciando alla realtà regionali (USR/Regione) di attribuirne la titolarità, non solo per i dirigenti, ma anche per l’altro personale, magari attraverso la formazione di organici di istituto e con la chiamata diretta almeno per una quota di attività autonome.

Ma se la materia è ritenuta, anche dall’alta Corte, di esclusiva competenza statale, il ministero quindi può entrare anche nel dettaglio gestionale, cosa che ha sempre fatto, senza che vi sia definizione oggettiva delle norme generali, come dice l’art. 117 della Costituzione. A maggiore complicazione aggiungasi la normativa sulla formazione delle classi.  Quest’ultima operazione infatti interferisce a sua volta con il dimensionamento dell’istituto, generando a sua volta un contenzioso nei tribunali amministrativi regionali tra i comuni intervenuti per la ristrutturazione degli edifici, magari con gli stessi finanziamenti del PRR, e la soppressione di classi o l’istituzione di pluriclassi. 

La Sentenza n. 223/2033 ammette l’interferenza nelle competenze regionali, ma fa prevalere quelle statali, cioè definite in maniera unilaterale dallo stato stesso. Un’operazione chiaramente neostatalista, quando tra le forze politiche c’è chi pensa che l’autonomia regionale sia dietro l’angolo, ed il dibattito parlamentare sul ddl Calderoli è prossimo; se è vero bisogna avvertire il ministro appartenente allo stesso partito, che ha difesostrenuamente questo provvedimento. Per il momento però molte di queste disposizioni sono state rinviate al prossimo anno: speriamo che si possa tornare allo spirito autentico delle competenze concorrenti.

Il comportamento delle regioni di fronte a questo provvedimento è risultato tutto sommato ambiguo, in quanto rivendica giustamente la competenza al dimensionamento schierandosi contro un avanzamento delle loro prerogative nei confronti delle politiche dell’istruzione. Probabilmente al rischio di avere un sistema arcobaleno occorre contrapporre la prospettiva di un accordo che dia allo stesso tempo garanzia di unitarietà del sistema stesso, ma di una gestione che sappia venire incontro con la necessaria flessibilità alle esigenze dei territori.

I Divari territoriali e l’Agenda Sud

I Divari territoriali e l’Agenda Sud

di Gian Carlo Sacchi

I divari tra nord e sud dell’Italia nella filiera dell’istruzione sono noti da tempo su entrambi i fronti, sia quello della domanda che dell’offerta. L’ultimo rapporto SVIMEZ (2022) ci parla della frammentazione dei servizi per la prima infanzia sia sul fronte delle strutture che della spesa pubblica delle amministrazioni locali; il tentativo del PNRR di diffondere e migliorare il servizio si è scontrato da un lato con le situazioni finanziarie dei comuni, che dovrebbero essere in grado di mantenerlo dopo i primi finanziamenti europei e dall’altro con una scarsa sensibilità politica e pedagogica sul valore della formazione nella prima infanzia, prima ancora che rispetto alla conciliabilità dei tempi di lavoro, soprattutto per le madri.

In questi ultimi anni però la copertura dei posti nei nidi è aumentata rispetto alla popolazione infantile, dovuta soprattutto al decreto sullo 0-6 anni che ha visto scendere in campo le risorse statali e la promozione della gratuità per famiglie in difficoltà economica. Il divario però non è colmato in quanto al nord ci sono state le maggiori richieste dei fondi PNRR per un ampliamento ulteriore del servizio dovuto non solo ad una maggiore domanda, ma anche ad una diversificazione del servizio stesso, sia per quanto riguarda i tempi e la flessibilità organizzativa, che per l’arricchimento del modello educativo.

Per quanto riguarda la scuola dell’infanzia e primaria la frequenza supera il 90%, ma a sfavore del mezzogiorno ci sono gli orari: solo il 4,8% della scuola dell’infanzia fruisce di un tempo lungo e solo il 18,6% ha il tempo pieno nella primaria dove il 79% degli alunni non fruisce di un servizio di mensa. Solo in Puglia è presente una buona dotazione di palestre nonostante la generalizzazione dell’educazione motoria a cura di un docente specialistico, ma anche il 57% degli allievi delle scuole secondarie di secondo grado non ha accesso ad una palestra.

Il tempo scuola, che va oltre il calendario scolastico tradizionale, sta diventando una variabile fondamentale per migliorare il servizio scolastico, con l’arricchimento del curricolo, per organizzare nuovi ambienti di apprendimento, riproporre modalità di socializzazione che cerchino di attenuare il disagio che si diffonde sempre più tra i giovani anche dopo il lockdown fino ad aumentare l’abbandono. Anche qui oltre ai problemi strutturali che mettono a nudo carenze sul piano finanziario inutilmente denunciate, senza però grandi risultati, c’è proprio un pericoloso vuoto culturale che né la politica ma nemmeno la pedagogia si prodigano di colmare.

Per valorizzare la dimensione formativa non basta la delega a istituzioni specifiche, che di volta in volta dovrebbero occuparsi dell’immagine culturale del Paese, o della cittadinanza quando i valori della convivenza e della democrazia sembrano a rischio, o di soddisfare la richiesta di mano d’opera da parte delle imprese, ma tutta la società deve sentirsi coinvolta e la formazione deve essere presente nelle scelte che interessano soprattutto il futuro dei giovani.

Sul versante della domanda ogni anno l’INVALSI ci pone inesorabilmente di fronte al divario relativo alle competenze degli studenti, fino a decretarne una dispersione implicita, cioè l’incapacità di far fronte agli impegni culturali del nostro tempo. Nord-Sud ancora una volta su fronti diversi con risultati inversamente proporzionali tra valutazioni interne, da parte dei docenti, ed esterne da parte di agenzie indipendenti. I 100 e lode che brulicano agli esami di maturità al sud non rappresentano la preparazione rilevata dall’INVALSI e nemmeno si può dire di non avere al meridione insegnanti poco preparati essendo coloro che studiano al sud ma vengono ad insegnare al nord, che ha sempre meno docenti autoctoni.

Avvicinare le due realtà non è solo un problema di incentivazione del personale che opera in zone difficili, da tanto tempo previste nei contratti nazionali, ma pur stimolando la scuola a riassumere il ruolo di ascensore sociale, da sola non può aiutare i giovani a scalare qualcosa che non c’è, anzi sempre di più il contesto socio-economico-culturale delle famiglie diventa elemento divisivo. Anche la situazione migratoria è destinata a raggiungere obiettivi rilevanti per i figli della seconda generazione, quando vede queste famiglie integrate nella società e nel mondo del lavoro.

Il sistema non può essere equo se si limita ad assicurare pari opportunità in senso formale, occorre, come rileva l’INVALSI, che tali opportunità devono essere efficaci per tutti e per ciascuno. E questo per alcuni territori vale anche per l’istruzione tecnica e professionale, dove gli studenti conseguono risultati eccellenti, anche se in generale si lascia il primato ai licei, pensando per questi ultimi ad una seconda opportunità di livello inferiore.

Mentre all’inizio la nostra scuola doveva essere governata centralisticamente per sostenere l’unità nazionale, ora assicurati dallo stato i livelli essenziali delle prestazioni, a garanzia del rispetto dei principi costituzionali, è l’autonomia a perseguire l’equità attraverso la diversificazione delle attività sui territori, che consentono lo spazio e il modo per raggiungere uguali obiettivi. E’ il centralismo ad aver permesso che le disuguaglianze di fatto potessero contribuire all’abbassamento della qualità del sistema stesso.

Sembra che l’autonomia produca guasti in una realtà che va polarizzandosi sempre di più, ci vuole il coraggio di intervenire a seconda delle esigenze locali, investendo di più dove c’è di meno, ma soprattutto lasciando alle scuole le decisioni necessarie per definire le priorità, non solo sulla carta, per l’efficacia e qualità dell’azione didattica.

Per superare tale divario furono impiegati per diverso tempo fondi europei con progetti di miglioramento della scolarizzazione e di contrasto all’abbandono, tra le principali cause di scarsa efficienza del sistema, senza però ottenere risultati, anzi dopo l’istituzione dell’INVALSI e la partecipazione dell’Italia alle inchieste internazionali sugli apprendimenti, il fenomeno che in passato aveva fatto meno scalpore, visto sotto la copertura del governo centralistico dell’istruzione, viene ogni anno evidenziato con molta preoccupazione, anche se dopo le prime attenzioni mediatiche ben poco viene destinato in termini di risorse economiche e di strutture al fine superare tali disagi e insufficienze rispetto agli standard elaborati in sede europea.

Il PNRR è stata ed è la grande occasione, la sfida per la scuola italiana a ridare equità ai cittadini attraverso una formazione di qualità per tutti ed un obbligo nei confronti dell’unione europea per rendere competitivi i risultati scolastici, motore dello sviluppo economico e sociale dell’intero continente.

Da parte del Governo che ha curato la prima stesura del Piano il superamento del divario è stato considerato tra le priorità per gli interventi nel settore, con l’aiuto dell’INVALSI che ha segnalato le scuole dove si erano rilevate le maggiori difficoltà di apprendimento da parte degli studenti, affinchè fossero destinatarie di interventi, nonché dei fattori che influiscono sui divari nei risultati tra nord e sud.

Si pensava di mettere a disposizione delle scuole un repertorio di interventi, attraverso enti di ricerca, cui  potevano rifarsi in autonomia e con piena intraprendenza, per coniugare al meglio le misure da realizzare in relazione al contesto e alle risorse professionali, strutturali ed economiche.

L’attuale dicastero intende realizzare il PNRR attraverso l’Agenda Sud, con azioni rivolte alle regioni del Mezzogiorno, della durata di un biennio, data nella quale occorre rendicontare il Piano stesso in sede Comunitaria, centrate perlopiù sugli aspetti pedagogico-didattici e organizzativi delle scuole, sul sostegno alla formazione dei docenti e all’introduzione di figure particolari individuate più in generale a supporto degli apprendimenti. Si parla di favorire le attività sportive e come ultimo dei dieci punti in cui si articola l’agenda sud si fa riferimento a progetti speciali d’intesa con il territorio per far decollare le potenzialità delle aree interessate.

Due impostazioni alquanto diverse, nella prima le difficoltà della scuola venivano prese in carico dal territorio: enti locali, associazioni del terzo settore, fondazioni di comunità, parti sociali, ecc., che proprio nell’emergenza in cui ci troviamo potrebbero agire in modo concentrico (patti territoriali) sulle principali difficoltà incontrate dai giovani (si veda ad esempio come nel periodo della pandemia, una tale collaborazione abbia reso la possibilità di realizzare la didattica a distanza), mentre nell’agenda sud tutto rientra tra le mura scolastiche e l’intervento degli enti locali viene relegato al sostegno indiretto alle comunità.

Nel primo caso si valorizza il protagonismo delle scuole stesse che con la loro autonomia sono in grado di stipulare accordi e progetti insieme ad altri attori locali, non solo per essere aiutate a migliorare la loro stessa azione, ma anche perché l’educazione appartiene a tutta la comunità, seppure ognuno con le proprie competenze, ma unite da un obiettivo e da un percorso comuni. Nel secondo caso le scuole sono sotto la tutela dell’INVALSI e dell’amministrazione che mantiene il pieno controllo della gestione dell’intervento. E se queste da sole finora non hanno ottenuto risultati c’è da dubitare che agenda sud li possa ottenere perpetuando la medesima governance.

Ripercorrendo gli obiettivi di tale progetto ministeriale si può ritenere utile quanto è previsto sul fronte della formazione dei docenti, ma già partendo dall’insegnamento personalizzato è difficile pensarlo al di fuori del contesto sociale e territoriale in cui l’alunno vive e ciò faciliterà anche il compito di eventuali tutor scolastici e docenti orientatori, nonché il coinvolgimento delle famiglie che in certe aree disagiate hanno bisogno di un’attenzione particolare da parte di tutta la comunità.

Realizzare la scuola aperta tutto il giorno ed accrescere il tempo pieno sono sicuramente aspetti importanti dell’organizzazione, ma è evidente come ciò richiede, è vero un po’ per tutte le scuole, la convinzione e l’impegno oltre che delle famiglie, degli amministratori locali. Quanto alla promessa di più docenti sarà da verificare con le strettoie poste ogni anno dall’autorizzazione degli organici.

Agenda sud prende le mosse da rilevazioni effettuate dall’INVALSI che richiedono interventi urgenti soprattutto per quanto riguarda il recupero delle competenze di base e trasversali, ma c’è un prima che deve essere considerato, quello dei servizi per l’infanzia che non sembra essere collegato efficacemente con la scuola, che invece è noto possa porre solide basi per il successo nei cicli successivi, c’è un durante che, come si è detto, possa affiancare le scuole nella comune elaborazione di una pedagogia sociale, e c’è un dopo, quello dell’orientamento e dei rapporti con l’istruzione professionale, che va di pari passo con lo sviluppo economico e imprenditoriale dei territori, al quale anche la scuola con la sua didattica laboratoriale può contribuire.

In casi di tanto disagio si può incarnare la massima di don Milani di non fare parti uguali tra soggetti differenti e l’incancrenirsi del fenomeno dei divari è dovuto anche al fatto che i diversi territori non hanno avuto la possibilità di intervenire in modo specifico in base alle loro esigenze, ma hanno dovuto sempre riferirsi al ministero centrale. Forse l’uniformità di trattamento ha cercato di garantire il diritto di tutti, ma ha dimenticato le esigenze di ciascuno.

La filiera teconologico-professionale verso l’autonomia

La filiera teconologico-professionale verso l’autonomia

di Gian Carlo Sacchi

Nelle richieste di autonomia differenziata diverse regioni avevano segnalato il passaggio dallo stato dell’istruzione tecnica e professionale, al fine di poter meglio integrare l’aspetto formativo con quello produttivo. I due canali, statale e regionale, si sono rivelati un dispendio di risorse, la rigidità del primo, dentro la riforma della scuola superiore, è sempre più a rischio, data la scarsa competitività con i licei e l’elevato tasso di dispersione, mentre il secondo, seppure disomogeneo tra le varie realtà territoriali, è in crescita, specialmente dove è maggiore l’efficienza del sistema produttivo, è più flessibile per andare incontro alle esigenze delle aziende che mai come in questo periodo segnalano il disallineamento delle competenze tra formazione e lavoro, ha un rapporto più sistematico con l’UE per il riconoscimento delle qualifiche professionali.

La riforma del titolo quinto della Costituzione, confermando alle regioni il governo del settore formativo di rapido inserimento nelle aziende, aveva introdotto un nuovo canale denominato Istruzione e Formazione Professionale, con l’intento di riunificare i vari indirizzi professionalizzanti ed anche se non detto in maniera esplicita nel tentativo di regionalizzare l’intero settore, più facilmente collegato al grado superiore non accademico, sul quale si è compiuto un notevole investimento proprio nel tentativo migliorare la preparazione dei giovani per una più rapida occupabilità.

La distanza tra i due canali è rimasta più o meno inalterata da molto tempo, nonostante tentativi di avvicinamento in occasione dell’innalzamento dell’obbligo scolastico/formativo ai sedici anni culminato con integrazioni parziali tra bienni scolastici tradizionali e corsi regionali, ognuno dei quali cammin facendo ha mostrato i suoi limiti: da una parte una scuola obbligatoria teorica e demotivante, dall’altra percorsi accolti di buon grado dagli studenti, magari come seconda opportunità, ma bisognosi di maggiori competenze generali. In passato la direzione di marcia era quella di privilegiare la formazione della persona attraverso le discipline dalle quali trarre gli elementi di applicazione ai contesti reali e produttivi, la sfida odierna è, al contrario, partire dal lavoro con le sue caratteristiche innovative, estraendo da questo, con l’aiuto di un solido apparato culturale, gli elementi di trasversalità e di generalizzazione delle competenze.

Come si può vedere una tale situazione richiede una doppia dose di autonomia, una interna nella definizione dei curricoli, capaci di affrontare una realtà mutevole e complessa, in cui gli studenti stessi possano partecipare alla definizione del proprio percorso di studi e l’altra esterna, in grado di aderire alle esigenze del mondo produttivo nei diversi territori.

Qui c’è un grosso incaglio sul piano culturale e politico. Da una parte si teme che l’autonomia possa creare delle disparità, ma dall’altra una proposta formativa omogenea su tutto il territorio nazionale rischia di rendere tutto più opaco, come gli attuali programmi ministeriali, e quindi non in grado di ottimizzare la preparazione degli allievi in relazione alle esigenze del mercato professionale. Non si può nemmeno sostenere che cercare un rapporto efficace tra domanda e offerta di formazione/lavoro sia consegnare la scuola alle aziende, anzi anche queste ultime ormai non rinunciano più alla formazione generale, il problema rimane di tipo metodologico e di preparazione degli insegnanti.

L’alternanza scuola-lavoro, con i due tutor, uno scolastico e l’altro aziendale e le loro esperienze maturate in contesti diversi, non ha soltanto il compito di avviare i giovani ai profili lavorativi, ma cambia le modalità di progettare l’intero curricolo e non solo quella parte che si svolge in azienda, nonché di valutare il percorso stesso mediante un processo di accrescimento progressivo delle competenze che porti all’acquisizione di crediti sempre maggiori, in modo naturale e di aderenza al compito.

La riforma dell’istruzione tecnico-professionale è entrata tra quelle richieste dal PNRR ed il ministero ha visto l’opportunitàper riconsiderare l’intero comparto, secondario e terziario, attraverso una formula sperimentale che riordini il ciclo scolasticoe lo colleghi più efficacemente con quello successivo, riproponendo il problema della governance tra stato e regioni, eoffrendo a queste ultime la facoltà di aderire attraverso accordi con lo stato, come sarebbe per una parte di loro nell’ambito delle predette richieste di  maggiore autonomia.

La più importante novità riguarda l’attivazione di percorsi quadriennali nell’istruzione secondaria tecnico-professionale. Si tratta di un allineamento a diversi paesi europei con quanto ne consegue sul piano del riconoscimento di qualifiche e di crediti, senza dimenticare la conclusione del percorso scolastico a 18 anni, allineato a sua volta con il “diritto dovere”, per la conquista oltre che di un titolo di studio anche di una qualifica professionale e per inserirsi nei predetti percorsi superiori ed esercitare un contatto più diretto con il mondo del lavoro, provenendo spesso da progetti di alternanza. Si tratta di un’offerta formativa integrata con la formazione regionale, che fornisce anch’essa un titolo quadriennale e richiede un quinto anno per arrivare alla pari con l’istruzione professionale statale. I quattro anni semplificanomolto il groviglio di offerte presenti tra l’istruzione statale e la formazione regionale e il difficile passaggio tra i due.

Restano ferme però le disposizioni vigenti in materia di esami di stato, utile più al rilascio dei titoli di studio che ad una efficace valutazione, che si suppone rimanga anche per gli anni intermedi, per la quale, anche in considerazione alle disposizioni impartite per il ciclo terziario, e un po’ meno rigide negli istituti professionali, sarebbe preferibile un’analisi del processo di apprendimento ed una conclusione in termini di crediti più che di titoli, anche in considerazione della presenza dell’INVALSI per quanto riguarda l’analisi del sistema.

L’iniziativa ripassa alle regioni, non solo in termini di generica programmazione territoriale, ma proprio nel merito del singolo progetto, sono infatti gli accordi tra queste e gli uffici territoriali dell’amministrazione scolastica a progettare la filiera tecnologico-professionale, come viene chiamata, là dove sono resi necessari dai processi economici e produttivi; alle intese partecipano gli ITS academy, le università ed altri soggetti pubblici e privati che possono migliorare l’offerta, in modo da creare reti che il progetto ministeriale vuole chiamare “campus”, termine che troviamo già nella riforma Moratti, ma che non ha dato quei risultati in termini di coesione e di orientamento per i quali se ne poteva prevedere l’istituzione, essendo stati costituiti in maniera burocratica in base ai numeri dei vari istituti conferenti e non alle esigenze del territorio. Oggi i sedicenti campus sono agglomerati formati da licei e da istituti, che andrebbero riconvertiti, oppure bisognerebbe accentuare la loro funzione riorientativa. In alcune realtà locali a questo fine erano già stati accorpati istituti tecnici e professionali dello stesso indirizzo, già un passo verso le nuove istituzioni, ma non si deve dimenticare che gli istituti statali non hanno autonomia gestionale, soprattutto per quanto riguarda il personale e saranno sempre in difficoltà di fronte ai più flessibili centri regionali e per non parlare di enti privati e imprese, e men che meno potranno dare origine ai previsti campus multiregionali e multisettoriali dovendo gestire organici legati ai territori provinciali. 

La sfida che il decreto propone sulla base delle richieste di competenze venutasi a creare in questi ultimi anni, è quella di costruire percorsi in grado di offrire un rapporto efficace tra la formazione generale e professionale, in relazione alle specifiche esigenze dell’indirizzo di studi, ma qui non basta il decreto, occorre un importante investimento sulla didattica, soprattutto per quanto riguarda i laboratori e le esperienze dirette degli studenti.

La flessibilità dei percorsi sul piano didattico e organizzativo consentirà di passare tra diversi settori, non solo per offrire la possibilità agli studenti di mantenere una certa capacità orientativa, ma in considerazione della complessità pluridisciplinare sempre più praticata dai comparti tecnologici e produttivi.

Un’altra novità che viene raccomandata è la stipula di contratti di prestazione d’opera con esperti esterni per le attività di insegnamento. Qui ci sono precedenti negli ITS e nel sistema regionale non solo all’interno di tirocini aziendali, ma la rigidità delle politiche del personale docente porrà dei grossi problemi alle classi di concorso, che andrebbero rese più aperte e interdisciplinari, mentre sono ancora legate ad un sapere parcellizzato e ad una didattica trasmissiva e inadatte a veicolare contenuti sempre più complessi. Il tentativo di avere anche soltanto una parte dell’organico negoziato direttamente con le scuole, introdotto dalla “buona scuola”, è stato progressivamente affossato e quando ancora venivano assegnati a scopo di potenziamento docenti che da quel determinato tipo di scuola non erano richiesti.

La sperimentazione potrà altresì prevedere accordi di partenariato volti a definire la coprogettazione dell’offerta formativa e la definizione di contratti di apprendistato. Questo chiama in causa non solo una giustapposizione di attività con soggetti esterni, ma che questi entrino nel merito della progettazione stessa, come accade per i patti territoriali o per svolgere progetti formativi a partire dal lavoro, sapendo quanto di più è caro al docente, la sua libertà di insegnamento.

La scuola, secondo il ministro, potrà diventare un laboratorio non solo per l’apprendimento, ma anche per la produzione e il mercato. La capacità di valorizzare le opere dell’ingegno e di proprietà industriale, finora confinate in remote possibilità previste dai decreti di contabilità, ritornano alla ribalta, ponendo alla scuola un forte impegno, ma anche il prestigio di poter stare al passo con le imprese. Allora torniamo all’antico, ai tempi del boom economico nel quale era la scuola stessa a trainare il sistema produttivo locale, prima che seppur con il nobile fine della formazione dei giovani diventasse una struttura burocratica pesante da sopportare oltre che per gli studenti anche per la realtà del territorio. Si spera che la nuova filiera tecnologico-professionale possa riprendere oltre che qualità anche vivacità per stare in un rapporto con autorevolezza e svolgere la sua funzione formativa per lo sviluppo sociale e produttivo.

Autonomia e riorganizzazione rete scolastica

LE CONTRADDIZIONI DELLA POLITICA TRA AUTONOMIA E RIORGANIZZAZIONE DELLA RETE SCOLASTICA

di Gian Carlo Sacchi

Due ministri dello stesso partito, uno sta cercando di decentrare i poteri alle regioni (Calderoli), tra i quali non potranno non rafforzarsi quelli di programmazione della rete scolastica, l’altro (Valditara) è difensore di un provvedimento introdotto nell’ultima legge di bilancio nella quale viene avocata allo stato l’autorizzazione delle scuole autonome secondo il numero degli studenti, lasciando alle regioni solo scelte all’interno del territorio.

I due interventi non hanno gli stessi tempi, ma ci si sarebbe aspettato andassero nella stessa direzione, invece mentre l’uno asseconda le necessità del risparmio statale, l’altro, nell’ottica del regionalismo differenziato, ancora da approvare, parrebbe orientato ad attribuire alle regioni ulteriori competenze con i relativi finanziamenti, secondo quanto sarà derivato dal federalismo fiscale.

La rete scolastica è forse il tema principale in cui si consumano le incertezze politiche nei rapporti tra centro e periferia, in quanto fin dall’attribuzione della personalità giuridica alle scuole fu trasferita alle regioni la competenza nella programmazione territoriale, mentre l’assegnazione delle risorse finanziarie e di personale sono rimaste allo stato. Anche le scuole autonome avrebbero dovuto dire la loro nei provvedimenti di modifica della rete stessa, ma nonostante la Costituzione facesse salva la considerazione dellaloro autonomia, furono estromesse dalle iniziative di riorganizzazione avvenute nel corso degli anni ed assistettero loro malgrado a provvedimenti emanati dall’amministrazione che non tenevano conto ne della coerenza tra gli indirizzi, ne dell’aggregazione dei plessi in base alle esigenze del territorio.

Questa diarchia fin dall’inizio provocò proteste da parte delle regioni e pronunciamenti della Corte Costituzionale finirono per accettare la reclamata competenza regionale ad esempio nell’assegnazione del personale, ma le sentenze non furono applicate da parte dello stato, ed il contenzioso continuò con successo nell’ambito di ricorsi ai TAR da parte di genitori e comuni circa l’autorizzazione delle classi. 

La chiusura netta da parte del ministero circa l’applicazione delle “competenze concorrenti”, peraltro sancite dalla riforma costituzionale del titolo quinto, ha mosso le regioni a statuto ordinario a richiedere il regionalismo differenziato per dare maggiore efficienza all’organizzazione del sistema, sull’onda dell’autonomia già presente in quelle a statuto speciale.

Oggi come allora nello stesso governo di centro-destra si riapre il processo legislativo, in vista della conclusione del decentramento delle competenze , quello cioè relativo all’assegnazione del personale ed al finanziamento, che dovrebbe conferire maggiore spazio di manovra nell’organizzazione del servizio da parte delle autonomie territoriali e scolastiche. Cambiando cioè le modalità di calcolo delle risorse ci potrebbe essere un’offerta più aderente alle esigenze dei territori, magari sviluppando maggiore qualità e perequazione. 

Diverso se, come prevede la finanziaria, il sistema deve seguire il calo degli alunni, la conseguente diminuzione delle dirigenze e quindi la riaggregazione dei plessi di tutti i gradi scolastici, obbedendo a logiche di risparmio e non di reinvestimento che si avrebbe sicuramente mantenendo gli attuali numeri, ad esempio quelli assicurati dal governo Draghi, che andrebbero a beneficio della qualità, dell’equità e di una maggiore flessibilità per potersi accompagnare alle modifiche dei comuni e di altre strutture locali.

Volendo operare un ridimensionamento del sistema su tutto il territorio nazionale, addirittura in un ottica pluriennale, sulla base di stime demografiche, che sappiamo bene non corrispondere al reale movimento della popolazione, non si poteva che mettere in azione un ulteriore contenzioso, ed anche se nella legge è previsto un piccolo coefficiente di compensazione regionale, si è persa un’occasione storica per dare risposte a quelle zone disagiate sul piano territoriale e sociale che della scuola hanno bisogno per la vita della comunità stessa.

Benchè si riaffermi in tutte le occasioni il ruolo della scuola come presidio culturale, come centro civico, e si indichi la plurifunzionalità tra i criteri per le nuove architetture, i parametri dettati dalla burocrazia economica continuano ad essere prevalenti, senza che si possa intervenire per modificare il modo di procedere che non necessariamente, sull’onda di una maggioreautonomia locale, comporterebbe un impegno più oneroso per lo stato, perché si tratterebbe di chiamare il territorio stesso a contribuire, se davvero il servizio fosse una componente ritenuta indispensabile dalla comunità.  

Cosa dirà la Corte Costituzionale questa volta, visti i precedenti ? C’è sicuramente un problema di numeri, che toglie le classi piccole, ma non riduce quelle grandi e concentra le scuole nelle aree urbane, di cui conosciamo le difficoltà e che la pandemia ci ha segnalato la pericolosità, ma quello che conta sono le competenze regionali che di nuovo vengono messe in discussione, mentre un’altra legge dello stesso governo dice di voler ampliare. Agli inizi del secolo questo problema vide in lotta due schieramenti politici opposti, ora il tutto si svolge all’interno dello stesso partito: e a rimetterci è sempre la scuola.

La mancata applicazione dell’ art. 117 della Costituzione ha messo in sofferenza il centralismo ministeriale di fronte ad evidenti disservizi che si sarebbero potuti attenuare o eliminare con una gestione più decentrata, ma quello che più ha nuociuto al sistema è stata la disequità delle condizioni sociali ed economiche delle diverse aree del nostro paese che spesso si accompagnavano ai fallimenti scolastici ed ai fenomeni di abbandono, che la rigidità delle disposizioni nazionali non consentiva di intervenire adeguatamente rispetto alle domande locali.

La proposta di legge del ministro Calderoli dice di voler rispettare i principi di unità giuridica ed economica, di indivisibilità del paese, in attuazione del decentramento amministrativo, che forse verrà completato ? L’attribuzione di funzioni di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia è consentita subordinatamente alla determinazione dei “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, come prevede la stessa Costituzione. Tali livelli servono a favorire un’equa ed efficiente allocazione delle risorse e il pieno superamento dei divari territoriali, in risposta alle richieste soprattutto del sud d’Italia, ma che devono guardare anche alle aree interne, alle isole e ad altre realtà territorialmente disagiate.

La procedura indicata è assai complessa, vuole coinvolgere tutti i soggetti istituzionali e la maggiore autonomia viene sancita attraverso un’intesa sottoscritta dal presidente del consiglio dei ministri e dalla regione richiedente. Per chi non entra a far parte delle intese è garantita comunque l’invarianza finanziaria, quella decisa dai predetti livelli essenziali. Sono questi ultimi infatti a richiedere  risorse perequative, come previsto dall’art 119 della Costituzione.

Sono le singole regioni ad avanzare le richieste di maggiore autonomia. Ormai quasi tutte si sono mosse con pronunciamenti più o meno ufficiali e forse solo Veneto e Lombardia hanno pensato ad un trasferimento del sistema scolastico, tenuto conto anche del fatto che in base alla legge Moratti del 2003 entrambe avevano già ipotizzato un intervento sul curricolo locale, mentre ad esempio l’Emilia Romagna aveva demandato tali poteri alle autonomie scolastiche; nessuna delle altre vorrebbe avere tale competenza in via esclusiva. Quindi l’ordinamento generale della scuola potrebbe essere contenuto nelle norme generali che la Costituzione attribuisce allo Stato, ma quasi tutte le regioni si dichiarano interessate ad intervenire sull’istruzione tecnica e professionale, al fine di stabilire un raccordo con il sistema produttivo territoriale e l’apposito canale formativo regionale.

E’ facile pensare che rimanga una scuola statale su tutto il territorio nazionale per quanto riguarda il ciclo di base ed una componente unitaria del secondo ciclo, mentre una maggiore flessibilità è richiesta per gli indirizzi della scuola superiore,  per un collegamento più efficace con l’istruzione terziaria accademica e non. Detto questo però bisogna pensare ad un decentramento della gestione, già iniziata nel 1998 e proseguita con il federalismo fiscale, che ancora però rimane sospesa, procurando disservizi per l’utenza e disagi per il personale. Per quest’ultimo infatti, pur mantenendo un contratto nazionale, si potrebbe pensare ad una dipendenza funzionale dalle regioni, come aveva già sentenziato la Corte Costituzionale nel 2004 per quanto riguardava l’assegnazione, le quali, come avviene nelle province autonome, dovrebbero poter applicare meccanismi incentivanti, previa contrattazione, in base alle esigenze del territorio, compreso il caro vita. Così come, una volta soddisfatti i predetti livelli essenziali, si dovrebbero consentire maggiori investimenti finanziari da parte degli enti territoriali.

Come si vede si può mantenere il sistema unitario rendendolo più flessibile e adatto a soddisfare le esigenze locali; una maggiore autonomia sarebbe utile a tutti, soprattutto a coloro che si trovano in difficoltà se motivati a migliorare la loro situazione, con adeguate garanzie perequative.

Il dimensionamento della rete scolastica

Il dimensionamento della rete scolastica per quale modello di scuola?

di Gian Carlo Sacchi

In passato l’istituzione di una nuova scuola era il risultato di un negoziato tra il ministero centrale e le comunità locali, magari con l’intermediazione dei parlamentari del territorio. Oltre a pochi istituti storici, soprattutto licei, presenti da prima dell’unità d’Italia, la maggior parte fu istituita nel secondo dopoguerra, per assecondare l’ampliamento dell’obbligo scolastico, soprattutto nelle zone rurali, e per lo sviluppo dell’istruzione tecnica e professionale richieste dalle realtà produttive locali.

Il supporto al funzionamento veniva attribuito ai comuni e alle province ed il sistema ha goduto per anni di una certa stabilità. Con l’introduzione della gestione sociale e degli organi collegiali il rapporto tra stato ed enti locali si aprì ad altri contributi, portatori di istanze provenienti dalla società e dall’economia, iquali premevano per introdurre sperimentazioni che soprattutto nella secondaria superiore fecero mutare la fisionomia degli indirizzi. Una stagione di riforme a legislazione invariata alla quale anche il ministero partecipò con proprie iniziative innovative e in non pochi casi ci fu una oscillazione delle iscrizioni e molte scuole aumentarono le loro dimensioni oltre che l’offerta formativa.

Tali modifiche ordinamentali apportarono un notevole aggravio della spesa pubblica che la politica non seppe o non volle utilizzare per espandere il valore dell’innovazione a beneficio di un miglioramento dei rapporti tra formazione e mondo del lavoro o sviluppo dei saperi e delle strategie didattiche; con la riforma Gelmini-Tremonti tutto venne “normalizzato”, consolidando quegli aspetti che proprio riscuotevano un grande interesse sociale, ma con una stretta sugli orari e gli organici, secondo parametri praticamente imposti dal ministero dell’economia.

La stagione dell’innovazione fece compiere un passo in avanti al protagonismo delle scuole, che il ministero cercò in tanti modi di contenere, ma che ebbe un supporto politico da diversi fronti per trasformare la partecipazione in più evidente autonomia. Su questo fronte erano schierati sia coloro che pensavano ad una scuola autonoma come ad un comune, sia chi ne auspicava una prospettiva aziendale. Entrambe le posizioni costituivano una grossa preoccupazione per l’amministrazione scolastica e il compromesso fu l’attribuzione della personalità giuridica ad ogni istituto di qualsiasi ordine e grado in qualunque territorio collocato, ma la decretazione di un’autonomia “funzionale”.

Appena riconosciuta una tale prerogativa vennero stabiliti i parametri quantitativi ai quali le scuole dovevano corrispondere, accorpando abbastanza sommariamente plessi e sedi scolastiche, in modo che al nuovo istituto così formato fosse assegnato un dirigente ed un direttore dei servizi amministrativi. In quel periodoiniziarono momenti di instabilità, relativi al variare della popolazione scolastica sempre più vicina ai limiti massimi, al numero dei docenti sempre in crescita, senza tenere conto delle variazioni che erano intervenute nell’organizzazione degli enti locali, soprattutto per i comuni più piccoli nel frattempo colti dallo spopolamento, nonché dell’abolizione delle competenze originarie delle province.

Che la situazione del continuo riaccorpamento di plessi e sedi scolastiche, anche con indirizzi del tutto disomogenei , non fosse più sostenibile era cosa nota, ma i numeri restavano inflessibili, ed allora sorse lo stratagemma di mantenere le scuole ma senza dirigente/direttore, costringendo questo personale alle così dette “reggenze”, senza o con scarse figure intermedie. Dopo qualche anno le soglie furono abbassate nei comuni montani e nel frattempo progetti innovativi  venivano finanziati dai fondi europei per la coesione territoriale.

L’arrivo del PNRR poteva sembrare risolutivo in quanto prevedeva di ripensare all’organizzazione del sistema scolastico tenendo presente la riduzione del numero degli alunni, ma ponendo altresì il superamento dell’identità tra classe demografica e aula anche al fine di rivedere il modello di scuola. E’ su talemodello che si doveva fare leva per evitare di fare cassa sulla dirigenza; infatti è sulle “scuole nuove”, peraltro messe a bandonello stesso progetto europeo e di cui si cerca la presenza nell’ultimo piano nazionale per l’edilizia che si doveva insistereper riparametrare anche la rete scolastica. Esse dovevano rappresentare da un lato ambienti di apprendimento flessibili per l’esercizio di una pluralità di intelligenze e di metodologie,aumentati dall’uso delle tecnologie e dall’altro strutture inclusive e punti di riferimento per tutta la comunità.

Si tratta di  assumere la densità  degli abitanti per chilometro quadrato come principale indice di riferimento, mentre se ne parla come elemento integrativo al numero degli iscritti, salvaguardando le specificità derivanti dalle istituzioni presenti nelle zone di montagna e nelle piccole isole, come previsto nella legge sui piccoli comuni.      

I parametri indicati dalle recenti politiche di bilancio costituiscono comunque un taglio al numero delle istituzioni autonome, contribuendo ad ampliarne le dimensioni ed il numero dei docenti e costringendo ad una riorganizzazione delle sedi scolastiche che mutano le dirigenze, con un disagio maggiore per le realtà più piccole e fragili.

E’ interessante nelle indicazioni del ministero l’attribuzione alle regioni di un contingente di istituzioni scolastiche che le stesse potranno organizzare autonomamente  senza i parametri legati al numero minimo di alunni. La loro competenza nella pianificazione della rete a livello locale avrebbe richiesto un maggiore coraggio per decentrare completamente anche l’assegnazione del personale, elemento che assieme alla gestione delle risorse finanziarie contribuirebbe finalmente a realizzare la completa autonomia delle scuole e delle amministrazioni territoriali nel settore dell’istruzione.

I provvedimenti appena varati ricalcano ancora un governo centralistico del sistema per quanto riguarda classi e organici che nel corso degli ultimi decenni sono sempre andati calando, ma il mondo cambia e la didattica esige spazi diversi. Non si tratta di fare nuove scuole per coprire le esigenze demografiche, ma proprio la situazione di decremento dovrebbe farci assumere pratiche innovative che in parte il PNRR aveva intrapreso e che rischiano di arretrare. Oggi va riconsiderato lo spazio di apprendimento che non può più coincidere con l’aula e con un numero rigido dei suoi occupanti, ma come ambiente multidimensionale. Non disperdiamo le competenze architettoniche e progettuali messe insieme per le scuole nuove; la scuola può essere un presidio pedagogico ed un elemento di rigenerazione urbana.

Un nuovo appuntamento per il regionalismo differenziato

Un nuovo appuntamento per il regionalismo differenziato

di Gian Carlo Sacchi

Al varo di ogni nuova maggioranza politica viene riproposto il tema del “regionalismo differenziato”, cioè un aumento di poteri dato alle Regioni a statuto ordinario per  meglio adeguare l’azione di governo alle esigenze dei territori. C’è chi pensa che sia un’iniziativa legata al federalismo di stampo leghista, già anticipato con una legge di carattere fiscale che però non ha avuto sostanziale applicazione; anche il centro sinistra avendo sostenuto la riforma del titolo quinto della Costituzione con l’art 116, oltre al decentramento delle competenze dello Stato, proponeva una riorganizzazione istituzionale che valorizzasse le autonomie locali, comprese quelle scolastiche. Forza Italia addirittura optava per la privatizzazione del sistema formativo con la trasformazione delle scuole in Fondazioni. L’unica forza politica che non aveva espresso nessuna opinione al riguardo era Fratelli d’Italia, che oggi si trova al vertice del nuovo esecutivo di fronte alla proposta, ripresa da maggioranza e opposizione.

E’ noto che il principale partito di governo si stia battendo per il presidenzialismo e chissà potrebbe accadere che al vertice si possa avere un concentramento dei poteri nelle mani di un presidente, eletto dal popolo, come in Francia, ma alla base il governo venga attribuito a regioni ed enti locali, come accade in tanta parte d’Europa. Ci sono ancora realtà, soprattutto al sud d’Italia, che temono una penalizzazione in termini di risorse economiche, ma tutte sono ormai d’accordo sul fatto che il centralismo nazionale è sempre meno efficiente e meno equo, perché legato alla spesa storica, secondo parametri astratti e poco aderenti alle vere esigenza dei territori.       

E’ ripartito il dialogo tra il governo centrale e le regioni, attraverso una proposta di legge del ministro per le autonomie regionali, Calderoli, che nel 2009 aveva firmato la legge sul federalismo fiscale, e dopo  tredici anni torna per cercare di mettere un punto fermo sulla questione. I corsi e i ricorsi……Nel frattempo ci sono state alcune timide prove di intesa con il governo Gentiloni, referendum e deliberazioni da parte di alcune regioni in senso positivo, ma altrettante in senso contrario soprattutto al meridione.

La sfida attuale è tenere insieme tutte le istanze, sempre espresse in modo trasversale alle diverse appartenenze politiche, che oltre ad incontri tra centro e periferie sono sfociati in una proposta di legge che possa coinvolgere tutti gli attori istituzionali: governo centrale, regioni e parlamento, e non proseguire per atti bilaterali, come sembrava l’interpretazione della prima ora.

Torniamo all’applicazione del titolo quinto della Costituzione approvato nel 2001, per le materie indicate nell’art. 117,  tra le quali compare l’istruzione, fatta salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche, che possono essere oggetto di trasferimento in base al predetto art. 116, con un’eventuale azione di sussidiarietà verticale prevista dall’art. 119. Nel quadro di questa legge ci stanno le richieste delle regioni, le quali, sentiti gli enti locali, presentano una delibera in tal senso per arrivare ad un’intesa che può riguardare una o più materie. L’approvazione avviene ad opera del consiglio dei ministri e poi l’intesa sottoposta alle commissioni parlamentari.

Il punto sul quale si è ricostruita l’unanimità delle regioni è la definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) la cui prima comparsa si perde nella notte dei tempi, ma che ora è la conditio sine qua non perché l’iter autonomistico possa giungere al termine.  I LEP vengono ritenuti indispensabili per l’istruzione, la tutela dell’ambiente e dei beni culturali, della salute e nella sicurezza sul lavoro; devono essere stabiliti dal governo nazionale a valere su tutto il territorio della Repubblica. Le risorse finanziarie non sono più stanziate mediante la spesa storica, ma vengono calcolati, com’è noto, i fabbisogni standard e i costi standard, già previsti nella predetta legge sul federalismo fiscale. In questo modo le regioni possono compartecipare al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale. Le funzioni amministrative saranno a loro volta trasferite agli enti locali.

Ogni anno sarà prevista una valutazione dei profili finanziari dell’intesa e la legge statale potrà stabilire in relazione al ciclo economico e all’andamento dei conti pubblici, misure transitorie a carico delle regioni a garanzia dell’equità nel concorso al risanamento della finanza pubblica con contestuale adozione di analoghe misure per altre regioni.

Oltre al nuovo governo l’occasione per affrontare di petto la questione da parte di tutti gli interlocutori istituzionali, a cominciare dal Presidente della Repubblica, è stato il primo festival delle Regioni, un appuntamento che sarà annuale, per fare il punto sull’Italia delle Regioni. Un luogo che esprime la peculiarità territoriale, ma che nell’ambito delle Conferenze offrono un contributo all’unità nazionale: far vivere insieme l’autonomia nell’unità.

La sfida per il futuro dunque è per tutti il nuovo regionalismo e la ricerca di un nuovo pensiero regionalista. Il PNRR vede tra le priorità di intervento trasversale il riequilibrio territoriale e la ripresa del processo di convergenza e di inclusione sociale e territoriale. Nel rapporto EURISPES 2022 si evidenzia che una maggiore autonomia delle regioni è auspicata da due italiani su tre, in aumento rispetto allo scorso anno, mentre un maggior potere al governo non convince la metà degli intervistati.

Siamo dunque all’ultimo miglio ? Maggiori poteri alle regioni è un’operazione ormai condivisa da tutti i Governatori, da nord a sud; tali poteri non hanno intenti destabilizzanti. Tutti si impegnano al rispetto del dettato costituzionale e dei diritti civili e sociali ed alle esigenze perequative, su tutto il territorio nazionale. Un processo da costruire in un’ottica di solidarietà e di interdipendenza, a cominciare dalla definizione dei LEP. E in questo quadro si inserisce anche il capitolo istruzione, senza gridare allo sfascio della scuola italiana, ma ripartendo dalle “norme generali” indicate dallo Stato come previsto dall’art. 117 della Costituzione, da un ordinamento che manterrà il valore dei titoli di studio per tutto il Paese, mentre di deve arrivare alla gestione decentrata dei servizi, comprese le risorse finanziarie che rientrano nel “fabbisogno standard” e del personale, un concorso tra regioni e stato, sia nell’assunzione che nella distribuzione, che già una sentenza della Corte Costituzionale del 2004 aveva sancito, applicando per quanto riguarda il curricolo le norme che già ci sono per la componente nazionale, quella regionale e di istituto, adottando ogni opportuna flessibilità, in modo che vi possa essere una maggiore intesa con le realtà locali ed il mondo del lavoro.    

Si può essere ormai tutti d’accordo che il centralismo deve essere superato, ed è proprio dalle regioni più in difficoltà che deve venire la richiesta di maggiore autonomia, per avere più margini di manovra anche nei bilanci; una volta stabilito il quadro finanziario fra stato e regioni si potrebbero verificare risparmi derivanti da migliori capacità gestionali, il che dovrebbe stimolare comportamenti virtuosi anche nella definizione dei “costi standard”.  L’elaborazione e la gestione del PNRR sono la dimostrazione che anche in questo caso il centralismo non paga e che un maggiore coinvolgimento delle regioni avrebbe da un lato avuto più riscontro rispetto alle esigenze dei territori e dall’altro avrebbero potuto meglio interagire ed aiutare gli enti locali.

Einaudi nel presentare la carta costituzionale diceva che “ognuno dovrà avere l’autonomia che gli spetta”; dopo oltre vent’anni dalla riforma del Titolo Quinto i tempi per una maggiore responsabilizzazione delle Regioni sono maturi da un punto di vista storico e culturale, per un ammodernamento ed un efficientamento delle nostre strutture istituzionali.

Pluriclasse, TAR e Comune

PER LA PLURICLASSE IL TAR DA’ RAGIONE AL COMUNE

di Gian Carlo Sacchi

La legislazione che ha introdotto l’autonomia delle istituzioni scolastiche portava con sé una serie di disposizioni relative al decentramento delle competenze in materia di istruzione dallo Stato alle Regioni ed agli EELL; era il periodo in cui la valorizzazione delle autonomie territoriali sembrava essere l’obiettivo di una deburocratizzazione del sistema e per una maggiore responsabilizzazione delle realtà locali in merito alle esigenze delle diverse comunità, con particolare riferimento a quelle più fragili che dalla scuola si aspettano un sostegno alla qualità della vita ed allo sviluppo del territorio stesso.

Regioni ed EELL sono entrate a pieno titolo nella programmazione del servizio, insieme al parere obbligatorio delle scuole per la modifica della loro struttura istituzionale. La rete scolastica diventava di competenza dei territori, mentre le risorse per il suo funzionamento, in particolare l’assegnazione del personale, rimaneva di competenza statale, sia sul piano economico in termini di posti, sia sulle modalità per la loro distribuzione. La Conferenza Stato-Regioni doveva trovare un’intesa, che non sempre è stata trovata, per la composizione degli organici, mentre tra Ministero e sindacati si doveva provvedere al riempimento delle caselle nelle varie scuole, in modo che ci fosse un’applicazione uniforme su tutto il territorio nazionale.

Una rete scolastica che aveva molti vincoli, a monte, per quanto riguarda la consistenza dei diversi istituti autonomi, e a valle circa il numero degli addetti da assegnare. Un’affermazione di autonomia piuttosto aleatoria, perché la scelta avveniva sul quale e non sul quanto che restava saldamente ancorato al bilancio dello Stato, ed anche se le Regioni potevano aggiunger risorse proprie restò impossibile incidere sulle modalità organizzative per far valere, come era invece nell’ispirazione di quella legislazione, le diverse esigenze locali. E’ da circa un ventennio che è aperto un contenzioso, che ogni anno si rinnova, tra gli uffici dell’amministrazione scolastica, che vedono il problema dal punto di vista finanziario e delle prerogative autorizzative, ed i comuni che guardando alle esigenze della cittadinanza e si appellano alle regioni per far valere le istanze del territorio considerando la loro prerogativa nella definizione della rete scolastica.

Agli inizi del secolo la Corte Costituzionale aveva espresso l’avviso che le regioni fossero coinvolte nell’assegnazione del personale, ma non se ne fece nulla e nessun altro provvedimento, come ad esempio la legge sui piccoli comuni, che prevedeva un apposito piano per la scuola in aree montane, potè scalfire le prerogative sindacal-ministeriali; ogni anno un decreto interministeriale cercava di adeguare le decisioni amministrative alle richieste dei territori, ma una volta decretato deve essere così per tutto il Paese, senza contare i cambiamenti che si possono determinare a seguito dello spostamento della popolazione, alle scelte di indirizzi didattici, nonché alle condizioni di disagio di particolari realtà a rischio di abbandono.

Anche quest’anno il ministro Bianchi sembrava aver raggiunto un buon accordo con la conferenza delle Regioni sul mantenimento dei posti a fronte del decremento demografico, delle aree interne, considerando il fabbisogno per progetti o convenzioni di particolare rilevanza didattica e culturale. Tutto questo però non basta se non c’è una compartecipazione alla previsione di organico, magari pluriennale, con margini di adeguamento alle esigenze delle realtà che cambiano e soprattutto sono diverse nei territori: quindi le tensioni rimangono.  Un tentativo in tal senso fallì, così come furono tentate inutilmente sperimentazioni di organici di istituto.

La normativa dunque non cambia e nonostante venga continuamente proclamata l’importanza della scuola nel territorio non si ha il coraggio di togliere di mezzo i maggiori vincoli che allo stesso tempo impediscono proprio il raggiungimento dell’obiettivo. Come avviene in altri settori quando la politica non vuole intervenire, scendono in campo i tribunali. 

Una pluriclasse assegnata dall’Ufficio Scolastico Territoriale ad una scuola media della provincia di Piacenza è stata annullata da una sentenza del Tar. Tra i ricorrenti, oltre ad una famiglia, c’è anche l’Amministrazione Comunale che è riuscita a far sentire la propria voce in una decisione dalla quale i Comuni sono semprestati esclusi.

Si sa che la formazione delle classi è una prerogativa dell’amministrazione scolastica; il ministero dell’istruzione emana un’ordinanza che regolamenta l’organizzazione dei gruppi-classe sulla base delle iscrizioni a quel determinato tipo di scuola. Tale normativa, com’è noto, è calibrata sugli organici dei docenti autorizzati dal ministero dell’economia, che cala sui territori come una coperta sempre corta, facendo spesso litigare i genitori, gli amministratori, i sindacati; una modalità legata alla spesa pubblicain modo abbastanza rigido, che impone un criterio numerico, tenendo scarsamente conto, come si è detto, delle esigenze del territorio e che produce da un lato accorpamenti di alunni di età diverse e dall’altro le così dette classi pollaio, con numeri che a volte vanno ben oltre quegli stessi previsti, ma che non riescono a rientrare nei limiti di spesa.

Nei comuni di montagna la normativa prescrive la costituzione di classi con un numero di alunni non inferiore a 10 e pertanto anche in considerazione dell’insufficienza dell’organico assegnato alla provincia, viene costituita una pluriclasse: nel caso specifico gli iscritti in prima e seconda media erano 8 e quindi una pluriclasse di 16 alunni.

Oltre al merito dell’operazione interessanti sono i principi enunciati dal TAR: in primis si considera il Comune un “ente responsabile della comunità”, niente di nuovo se non fosse che per la materia qui considerata non aveva mai avuto voce in capitolo, anzi, prendendo atto delle disposizioni statali doveva poi adoperarsi per garantire le necessarie risorse strumentali per il buon funzionamento della pluriclasse. Il TAR ha ribaltato il punto di vista, se il Comune ha motivato le diverse iniziative messe in campo per il miglioramento della scuola lo Stato avrebbe dovuto tenerne conto, autorizzando classi separate: il ricorso è ritenutofondato.

In secondo luogo vengono evidenziate dai ricorrenti le criticità derivanti dalla conduzione di due classi accorpate, che il tribunale accoglie, decretando l’illegittimità dei provvedimenti impugnati, in quanto la valutazione della scelta di attivare la pluriclasse risulta “illogica” perchè non ha “correttamente valutato i diversi interessi pubblici in gioco, in primis quello degli alunni a ricevere una formazione differenziata ed adeguata ai propri livelli”. 

Il pensiero pedagogico è andato oltre alla tradizionale formazione impartita in aula, normalmente per classi di età;  con una didattica aumentata dalle tecnologie la diversa organizzazione dei gruppi a volte risulta una ricchezza, ma è la normativa che dovrebbe aprire le scuole a diverse modalità organizzative, anche oltre la classe, e l’organico andrebbe tarato sul piano dell’offerta formativa, lasciando alle scelte didattiche, che com’è noto vengono discusse con le realtà del territorio, comune compreso, ed assegnato all’istituto e non alle singole classi. La norma amministrativa richiama la valutazione dello stato di necessità e delle condizioni particolarmente disagiate, il che da un lato va oltre la pura considerazione dei numeri e dall’altro potrebbe aprire la strada alla voce degli enti locali, così come indicato dalla predetta sentenza della Corte Costituzionale.

Ancora il TAR rileva che proprio in periodo di pandemia l’amministrazione scolastica avrebbe dovuto agire in modo prudente mantenendo separate le classi, in considerazione del fatto che poteva rendersi necessario il ricorso alla DAD e “tale strumento di insegnamento risulta particolarmente difficile nel caso di pluriclasse, atteso il fatto che i singoli alunni hanno bisogni formativi del tutto diversi…… (oltre) ad assicurare l’applicazione di misure di distanziamento”. Anche sul fronte della pandemia le scuole di montagna avrebbero potuto costituire un rifugio sul piano climatico e per la costruzione di comunità scolastiche più omogene e facilmente isolabili, al punto che in alcuni borghi si è vista incrementare la popolazione residente, e questo avrebbe potuto avere la scuola alleata nella vita culturale del territorio (civic center). Quanto lo stesso ministero con una mano cercava di dare per alleviare il disagio, con l’altra  toglieva risorse sul piano della sopravvivenza delle scuole e del funzionamento delle classi.

E’ molto probabile che la sentenza comparirà in appello davanti al Consiglio di Stato, ma intanto è stata aperta una finestra su ciò che diverse regioni intendono realizzare nell’ambito del regionalismo differenziato. Altre amministrazioni locali potrebbero seguire l’esempio di questo Davide che ha avuto l’ardire di combattere contro Golia, aprendo la strada a molti altri che in Italia richiedono una modalità per organizzare l’attività didattica più rispettosa dell’autonomia delle scuole e delle loro collaborazioni con le realtà del territorio.

Le scuole in territori fragili

Le scuole in territori fragili

di Gian Carlo Sacchi

Il Governo ha presentato di recente un disegno di legge sulla montagna, per tutelare e sostenere i Comuni che si trovano in quei territori. Il nostro Paese infatti è in gran parte montuoso e in preda a rischi di carattere sismico e idrogeologico; governare quelle realtà anche per effetto di un inarrestabile spopolamento risulta sempre più difficile, dopo l’abolizione delle Comunità Montane e le scarse attitudini da parte degli stessi Comuni ad associarsi per la gestione dei servizi. 

Diverse sono le materie che prevedono interventi di carattere economico e organizzativo, manca però l’attenzione alla semplificazione burocratica, che oggi richiede le stesse procedure sia al piccolo comune come alla grande città.

Tra i servizi indicati sono da segnalare la scuola e la sanità, alle quali sono dedicati incentivi per il personale disposto a prestare la propria opera in quelle zone, ma mentre per quest’ultima si tratta di un governo regionale con aziende sanitarie locali dotate di autonomia sul piano gestionale e finanziario, per le attività scolastiche resta la normativa di carattere statale, valida su tutto il territorio nazionale; poteva essere invece l’occasione per rivedere alcuni dispositivi di carattere soprattutto amministrativo che favorendo una maggiore autonomia delle scuole e dei contesti locali, avrebbe consentito più flessibilità nell’offerta formativa, per aderire alle esigenze dei territori.

Con questi provvedimenti soltanto si torna all’antico, quando le scuole elementari della montagna avevano a disposizione l’appartamento, sopra alle aule, per l’insegnante, al/la quale erano attribuiti punteggi preferenziali per la discesa al piano. Era un percorso che coinvolgeva perlopiù giovani docenti che utilizzavano le situazioni di disagio anche per corroborare la propria attività didattica; una sorta di tirocinio in un’ottica di emancipazione professionale, via via superata in ragione della costituzione di classi di alunni omogenee per età e della conclamata unicità della funzione docente sostenuta dalla contrattazione sindacale. Con la riforma del 1985 poi ci fu un salto di qualità dovuto all’introduzione del team degli insegnanti per aree disciplinari.

Oggi la situazione si inverte, in montagna si arriva per effetto di una progressiva privazione dei mezzi di cui dispongono le scuole di città: le pluriclassi dovute al progressivo spopolamento, la diffusione della didattica a distanza ammesso e in ancora troppi casi non concesso che esistano le connessioni adeguate. Siamo sicuri che basteranno incentivi economici per motivare un personale che vede un orizzonte piuttosto incerto per le scuole in quelle zone ? Non parliamo poi della scuola media la cui vita in montagna non è stata facile fin dall’inizio: si pensi al mezzo televisivo utilizzato per anni per raggiungere paesi e frazioni che presentavano difficoltà di comunicazione e che anch’essi potrebbero fruire di internet quando sarà, non certo a breve, a disposizione di tutti e dove riesce difficile mantenere le diverse discipline. 

L’organizzazione degli Istituti Comprensivi che raggiungono il ciclo di base, con la presenza della scuola per l’infanzia, che avrebbe potuto offrire un percorso didattico più integrato oltre che creare una regia unica di tipo amministrativo sul territorio, andrebbe adeguata alle Unioni dei Comuni, mentre resta in mano all’amministrazione scolastica con la rigidità dei numeri per l’istituzione e la soppressione di classi e plessi, con una programmazione della rete scolastica che è si passata alle regioni, ma rimane statale per quanto riguarda la previsione e l’assegnazione del personale, anche se con piccoli correttivi per quanto riguarda le zone di montagna e le piccole isole.

Su questi numeri negli anni si è combattuta una battaglia di spesa pubblica in continua oscillazione, fino ad abolire per poi ripristinare, sempre per effetto di leggi finanziarie, dirigenti scolastici e amministrativi degli istituti situati in territori particolarmente fragili. Nei programmi di coesione per le aree interne messi a punto dall’allora ministro Barca, i sindaci coinvolti avevano unanimemente  richiesto la presenza della scuola oltre che come elemento di qualificazione del territori anche come deterrente allo spopolamento, ma il presidio scolastico, a differenza di quello sanitario, non può essere garantito anche se il territorio stesso mostrasse un’amministrazione virtuosa, perché nel primo non sono indicati i livello essenziali delle prestazioni, come invece sono presenti nel secondo, il che consente di rendere più autonoma l’organizzazione del servizio.

Un altro tassello è costituito dalla legge sui piccoli comuni, gran parte dei quali si trovano in montagna, che prevedeva un piano per la presenza delle scuole, dal quale si sarebbe potuto ottenere una nuova tipologia di istituzione per quelle zone, che invece non ebbe seguito, così come i servizi per l’infanzia 0-6 anni, oggi di competenza di regioni e comuni, verranno per gran parte della loro attività portati sotto il governo statale, con l’effetto che le comunità locali siano sempre meno coinvolte, come accade con la rinuncia da parte dei comuni stessi agli investimenti del PNRR sui nidi.

La programmazione dei servizi formativi è di competenza degli enti territoriali, ma la gestione è saldamente nelle mani del potere statale che ne impone il funzionamento omogeneo su tutto il territorio nazionale; non è stato portato a termine l’annunciato decentramento delle competenze amministrative, nonostante una sentenza della Corte Costituzionale che già molti anni fa aveva ammesso la partecipazione delle regioni all’assegnazione del personale ed in tempi più recenti alcuni Tribunali AmministrativiRegionali legittimavano la presenza dei Comuni nella formazione delle pluriclassi.

Tanti piccoli provvedimenti riguardanti le scuole nelle zone fragili che se da un lato vorrebbero sostenere quei territori dall’altro le mettono continuamente a rischio di sopravvivenza; tali servizi hanno aiutato le comunità periferiche ad emanciparsi, la loroabolizione oggi può contribuire al degrado di realtà in stato di abbandono, con buona pace di internet. L’unica cosa interessante dell’ultimo progetto di legge sulla montagna è la compilazione di un testo di norme dedicate, per poter recuperare un disegno che sia coerente e che preveda un adeguato e stabile investimento, non soggetto alle temperie politiche, con la relativa governance locale.

Il PNRR per il rilancio della Scuola

IL PIANO NAZIONALE DI RIPRESA E RESILIENZA PER IL RILANCIO DELLA SCUOLA

di Gian Carlo Sacchi

La cultura delle riforme scolastiche diffusa nel nostro Paese riguarda soprattutto i contenuti che si devono trasmettere e la discussione verte su quali finalità essi devono raggiungere, se cioè deve prevalere la linea della tradizione da tramandare o quella dell’innovazione da affiancare al cambiamento tecnologico e sociale; se la scuola deve servire all’economia ed alla competitività nel campo della produzione e del lavoro, o se deve dedicarsi alla formazione critica delle persone. Nel tempo ha prevalso in maniera più evidente qualcuna di queste tendenze alle quali si è cercato di adeguare strutture e competenze, però sempre poche risorse finanziarie che servivano a consolidare i diversi obiettivi, in base alle scelte politiche del momento, creando così un sistema complessivamente debole perché costruito su strade che continuamente si incrociano e pur esprimendo ciascuna una certa potenzialità alla fine dovevano sopportare contraddizioni che hanno determinato insuccessi e inefficienze.

L’esigenza attuale è di mantenere le tre dimensioni portandole ai livelli di una società complessa dove i giovani devono allo stesso tempo avere memoria del cambiamento, essere inseriti nella realtàpresente, ma capaci di intravvedere il futuro, in campo tecnologico, ambientale, professionale e sociale. Si tratta di passare da una visione piuttosto frammentata del sapere e dei diversi mestieri per arrivare ad una ricomposizione evolutiva, superare l’addestramento per una più ampia professionalità epromuovere l’azione unitaria della persona in formazione.

E’ proprio una tale svolta che non può più essere finanziata come una piccola riforma, ma deve cogliere l’occasione per sostenere le basi del sistema, offrendo una più ampia autonomia e richiedendo una maggiore qualità. Il PNRR è proprio questa opportunità, che deve far compiere il salto: la notevole quantità di risorse a disposizione quindi non può soddisfare solo una lista di ritocchi, ma deve costituire un investimento in grado di innovare profondamente il sistema stesso perché sia in grado di avere istituzioni scolastiche capaci di “autonomia pedagogica” che interviene sulla crescita delle persone, ma anche sullo sviluppo dei territori e sull’integrazione con il mondo del lavoro.

I pilastri del sistema sui quali occorrerà intervenire, sia a livello micro, cioè di un singolo istituto, o macro, dell’intero Paese riguardano i tempi, gli spazi e il personale. Va ripensato il tempo necessario in cui bisogna stare a scuola e che quest’ultima deve dedicare alla comunità in cui opera, per favorire non solo l’istruzione formale, evidenziando già la differenza tra il curricolo nazionale e locale, ma l’intervento in quella non formale, per far incontrare le generazioni, agire sull’analfabetismo di ritorno, nei rapporti con il lavoro, anche al fine di recuperare situazioni di disagio che potrebbero alimentare l’allontanamento sia dalla formazione che dal lavoro stesso. L’istruzione informale poi è entrata di recente ma in maniera altrettanto dirompente nella vita delle persone e delle istituzioni formative, non solo per la necessità di alimentare l’educazione digitale e mediatica, ma proprio per prevenire e contrastare l’uso strumentale e criminoso della comunicazione.  Ad una scuola che deve poter gestire il proprio tempo, e lo vediamo anche nelle situazioni di emergenza pandemica, va assicurata la capacità di fronteggiare in modo autonomo le diverse situazioni con adeguate risorse umane e finanziarie.

Tempi e funzioni devono ispirare una revisione dei criteri di progettazione ed utilizzo degli spazi. L’edilizia scolastica è la vera piaga delle nostre strutture, come si è detto si è sempre curato il contenuto lasciando ammalorare il contenitore; oggi non è più possibile vedere soltanto la stabilità e la sicurezza, pur doverose, ma occorre che architettura e pedagogia inizino un percorso di collaborazione, da un lato per garantire determinati standard costruttivi, ma dall’altro per inserire la dimensione formativa, che deve andare oltre le tradizionali aule, nell’ambiente naturale, sociale e lavorativo in cui deve operare. Le indicazioni per fronteggiare i cambiamenti climatici, le attività che la scuola deve compiere anche come centro civico e “laboratorio territoriale per l’occupazione”, devono essere alla base dei progetti delle così dette “scuole nuove”, che pur essendo già state finanziate con la legge del 2015 non hanno dato i risultati attesi se non in rari casiquelli in cui si è vista la partecipazione delle autonomie territoriali, così da creare un sistema locale.

Tempi e spazi richiedono una nuova organizzazione, sia per gli studenti, perché siano gli artefici del loro apprendimento, con l’uso flessibile della scuola, per far vivere una struttura “aumentata” dalle tecnologie e dai modelli organizzativi di classi e gruppi, sia per i docenti che oltre ad avere luoghi personalizzati in forma laboratoriale, dispongano di spazi di lavoro individuale e collettivo. Su questo delicato aspetto di innovazione ediliziasarebbe necessario un attento monitoraggio da parte dello Stato, per non rischiare di trovarci ad uno di quegli incroci che dopo un inizio promettente si venga sviati soltanto da emergenze strutturali: scuole e comuni a questo riguardo dovrebbero lavorare insieme. Così come sul piano dei contratti di lavoro del personale non si sente parlare di queste nuove competenze e quindi modalità organizzative che devono essere previste, sia come status e trattamento economico, sia come azioni di valorizzazionenell’ambito dell’autonomia.

C’è bisogno di un cambiamento vero ed i fondi del PNRR lo consentirebbero, la politica, ma soprattutto l’amministrazione e il sindacato lo vogliono veramente ? Il rischio che se questi fondi vengono impiegati solo per le classi pollaio et similia ci troveremo ben presto ancora al crocevia, perdendo un’altra volta il treno dell’innovazione che altri Paesi avranno implementato, il che aumenterà ancora di più il gap nei loro confronti e ci farà ripiombare di nuovo nella miseria delle annuali leggi di bilancio.

Con la relazione del Presidente del Consiglio al Parlamento si dà inizio all’attuazione del PNR, vengono indicati gli obiettivi e i traguardi a cominciare dalla fine dell’esercizio 2021: l’Italia rispetta l’impegno a conseguire tutti i primi 51 obiettivi per quest’anno. Si parla di strutture e strumenti per migliorare l’attuazione del piano, assicurando il coinvolgimento degli enti locali e delle parti sociali. 

Per quanto riguarda il  comparto dell’istruzione sono previste, com’è noto, diverse riforme: dalla carriera degli insegnanti ed il loro reclutamento, all’istituzione di un sistema di qualità per le scuole, ma anche, da parte del settore universitario, di nuove classi di laurea per favorire percorsi interdisciplinari, sempre più necessari al miglioramento dell’apprendimento in una società complessa. Fa capolino l’istituzione di una scuola di alta formazione per accompagnare lo sviluppo professionale del personale ed in particolare dei dirigenti scolastici.

Un consistente investimento viene dedicato alla transizione informatica per potenziare le scuole 4.0 con nuove aule didattiche e laboratori ed un portale dedicato agli operatori sui contenuti dell’educazione digitale. Entro il corrente mese di gennaio il comitato per la transizione digitale ha assunto l’impegno di mettere in campo il bando relativo alla “scuola connessa” per una spesa di 261 milioni che vedrebbe coinvolte circa dieci mila istituzioni scolastiche.

In corso di definizione sono interventi per l’orientamento, con specifici supporti professionali, anche attraverso accordi tra scuole e università; la riduzione dei divari territoriali a partire dalla eterogeneità delle competenze di base e la mancanza di equità. Sarà attivato il potenziamento dell’apprendimento delle discipline STEM e delle lingue, nonché la formazione professionale terziaria, per arrivare alla riforma degli istituti tecnici e professionali.

I primi bandi, emanati nel dicembre scorso, a beneficio degli enti locali riguardano l’edilizia scolastica, per i servizi di cura della prima infanzia, le mense, le infrastrutture per lo sport, la costruzione di nuove scuole mediante la sostituzione degli edifici, oltre ad un piano per la messa in sicurezza e riqualificazione delle attuali strutture. Le scadenze per la presentazione dei progetti sono fissate per febbraio 2022, un tempo troppo breve (?), soprattutto per i piccoli comuni che non hanno competenze tecniche al loro interno, ed anche se il ministero promette attività di accompagnamento, sarebbe più aderente alle esigenze dei territori l’organizzazione di reti di consulenza a livello locale che mettano in relazione i comuni e le scuole per sostenere la progettazione in area vasta.

Sia per le mense che per i servizi alla prima infanzia gli investimenti in infrastrutture dovranno poi fare i conti con le scarse disponibilità degli enti territoriali a mantenerli in futuro, nonché alla fornitura di personale che per quanto riguarda la spesa corrente rimane difficoltosa. Sarà inoltre necessario sensibilizzare gli amministratori locali sull’efficacia del tempo scuola per lo sviluppo delle persone dei bambini, per incentivare la costruzione di tali servizi, e non solo utili alla conciliazione dei tempi di lavoro dei genitori. La dove infatti c’è disoccupazione femminile la domanda di detti servizi diminuisce.

E’ interessante poi vedere nella scuola un centro per il territorio, ma non solo i locali devono servire a diverse attività durante la giornata, ma è l’occasione perché alla medesima venga attribuito un ruolo di “presidio pedagogico”, in collaborazione con altri enti ed associazioni, senza farsi vicariare dal privato sociale. Un punteggio premiale sarà attribuito a quei progetti che si svilupperanno nelle zone con tassi di disagio negli apprendimenti.

Efficienza energetica, riduzione di emissioni inquinanti, riqualificazione degli edifici; sostituzione di parte del patrimonio edilizio obsoleto, con l’obiettivo di creare strutture sicure, moderne, inclusive e sostenibili; progettazione degli ambienti scolastici tramite il coinvolgimento di tutti i soggetti interessati all’azione educativa con l’obiettivo di incidere positivamente sull’insegnamento e l’apprendimento degli studenti, lo sviluppo sostenibile del territorio e di servizi volti a realizzare la comunità.

La proposta progettuale dovrà rispettare gli indici, su scala nazionale, previsti dal DM 18-12-1975, norme che si tentò di abrogare con la legge n. 23/1966 per elaborarne di più vicine alla scala locale, nell’ottica di un decentramento del governo delle scuole stesse. Le superfici di allora consideravano condizioni di affollamento che dovrebbero essere riviste alla luce del distanziamento sociale. Con tali vincoli sarà difficile che l’edificio   sia uno strumento educativo a tutto campo, nonostante il bando preveda soluzioni condivise tra l’ente locale e la comunità scolastica. 

E’ ormai assodato il superamento dell’aula tradizionale per arrivare a differenti “ambienti di apprendimento” improntati alla massima flessibilità; nel 2013 il MIUR emanò linee guida che seppur volesse ricondurre ad indirizzi progettuali omogenei sul territorio nazionale vedeva la scuola come il risultato del sovrapporsi di diversi tessuti ambientali per realizzare un principio di autonomia di movimento per lo studente che solo uno spazio flessibile e polifunzionale può garantire e per il docente che può muoversi tra i vari gruppi che si organizzano. 

L’adattabilità degli spazi si estende, come si è detto, anche all’esterno offrendosi alla comunità locale ed al territorio. L’aula moderna infatti è uno dei tanti momenti di apprendimento centrati sullo studente. Tante ricerche al riguardo son state compiute a livello internazionale e potrebbero essere utili per i nuovi progetti.

Un nuovo indirizzo politico e la vecchia burocrazia

Un nuovo indirizzo politico e la vecchia burocrazia

di Gian Carlo Sacchi

Gli atti di indirizzo politico dei ministri dell’istruzione all’inizio del loro mandato non sono mai stati un capolavoro di originalità; le solite problematiche ancora non risolte, ereditate dai governi precedenti, che facilmente passeranno a quelli successivi, anche perché com’è noto le questioni scolastiche hanno tempi di maturazione piuttosto lunghi, soprattutto da un punto di vista del cambiamento culturale e di professionalità degli operatori, per cui gli interventi amministrativi che ne derivano spesso non producono gli effetti desiderati e quindi vengono presto archiviati.

L’atto recentemente emanato dal ministro Bianchi presenta invece una serie di interventi che non si limitano ad indicare l’orizzonte politico e le ricadute sull’amministrazione, ma entrano nella sfera di competenza di altri soggetti, a cominciare dai docenti, e prevedono alcuni risultati che avranno bisogno di passaggi legislativi. Sarà perché certe innovazioni erano già annunciate nel PNRR o seguono il tracciato dell’agenda 2030, o perché ungoverno che sembra più debole per l’eterogeneità della sua maggioranza politica finirà per fare più cose di altri, fatto sta che il ministro si accinge a sfornare una quasi riforma.

Tutti esordiscono  con l’intento di assicurare il diritto ad un’istruzione di qualità, ma in questo documento si indica anche il tipo di istituzione chiamata a soddisfarlo: quella cioè centrata sui giovani studenti e coerente con le loro inclinazioni, ma contemporaneamente in linea con le nuove competenze richieste dal mercato del lavoro. Se tali enunciazioni non devono essere soltanto delle finalità astratte, ma devono poter incidere sulla struttura attuale, il sistema necessita di un profondo cambiamento culturale, per quanto riguarda innanzitutto portare in primo piano l’approccio psicologico (iniziative calibrate ai bisogni degli studenti), spostando a funzione ancillare il lavoro sui contenuti. Una tale impostazione è stata ricercata in tutta l’ultima parte del secolo scorso nelle scuole di base, senza grande risultato se consideriamo i tassi di ripetenza e di abbandono.

Ripartire da qui per rendere più efficaci le azioni antidispersione, di cui dice di volersi occupare, per migliorare le funzioni di orientamento, ed in modo più specifico perché corrispondano alle esigenze del mondo produttivo. Se la scuola debba proprio andare in questa direzione forse dovremmo chiederlo agli italiani, come hanno fatto i finlandesi prima di innalzare l’obbligo scolastico a 18 anni, o se si debbano soltanto ammodernare i saperi per farli corrispondere alle aziende 4.0.

Al di la di un dibattito pubblico su questi grossi nodi, come realizzare tutto ciò se non attraverso un sistema che si rende più flessibile, che agisca sulla valutazione degli studenti, sulla riorganizzazione degli spazi e delle strutture, sulla formazione professionale del personale, sulla realizzazione dei “patti educativi di comunità” con il territorio. Qui bisogna dunque affrontare il tema della governance, che pur se non poteva essere sviluppato in un documento destinato all’amministrazione, data l’ambizione dello stesso, meritava almeno un’indicazione di insieme.

Infatti  ciò che viene detto sull’autonomia scolastica non cambia l’attuale quadro normativo e metterla in relazione con la valutazione risulta pleonastico, in quanto è sempre “funzionale”, anche se si parla di rilancio e sostegno, cioè limitata alle funzioni accordate dal DPR 275/1999 che restringe il campo rispetto alla legge 97/1997. Si prevede anche l’istituzione di una struttura consulenziale, forse perché ci sono scuole che ancora non la vogliono non la sanno usare, ma varrebbe la pena di offrire alle stesse la possibilità di sperimentare maggiore autonomia, conadeguati incentivi e relativa implementazione delle buone pratiche, come si richiede tra l’altro da parte di alcune regioni in base all’art. 116 della Costituzione.    

Nel documento viene annunciato a chiare lettere un “ripensamento dei tradizionali meccanismi di funzionamento della pubblica amministrazione” che però non vengono esplicitati se non per riaffermare la capacità amministrativa e gestionale del ministero e dei suoi uffici periferici. Ciò che sarebbe veramente necessario per raggiungere gli obiettivi indicati nell’atto politico è quel “governo multilivello” di cui si fa un vago cenno e lo si applica solo e in maniera tendente al centralismo nel coinvolgimento dei Comuni per la costruzione dei poli dell’infanzia e nell’integrazione dei sistemi educativi da zero a sei anni.

E’ su quel multilivello che andrebbe costruito il rapporto tra le autonomie scolastiche e quelle territoriali, per arrivare come dice il ministro ad un modello più partecipato.  Qui occorre capire se si vuole veramente un sistema aperto dove “le decisioni  politico-amministrative vengano confrontate e condivise con gli stakeholder pubblici e privati del territorio” o se per ragioni di efficienza si demandi alla digitalizzazione dei processi l’ennesimo tentativo dell’amministrazione di appropriarsene attraverso le note piattaforme, come ad esempio avviene per i bilanci degli istituti che sono controllati non più attraverso adempimenti burocraticima procedure informatiche pur sempre vincolanti.

Flessibilità e autonomia se si vuole veramente il “coinvolgimento costante delle comunità scolastiche”; non si devono più fare parti uguali per situazioni differenti, ma intervenire a supporto delle esigenze specifiche delle realtà locali, che servano anche a ridurre i divari territoriali in regime di sussidiarietà. Vanno responsabilizzate le regioni per quanto riguarda la costruzione della rete scolastica, a cominciare dalla eliminazione delle classi pollaio, al dimensionamento degli istituti, all’assegnazione del personale, all’edilizia, in relazione agli enti locali ed ai servizi alla persona, compresi quelli per la salute, così come andrebbe ripreso il piano per l’istruzione indicato nella legge sui piccoli comuni al fine di valorizzare le aree interne e favorire il ripopolamento di quelle zone che progressivamente scadono nel disagio economico e sociale.

Qui tornano alcune questioni che sono aperte fin dalla riforma del titolo quinto della Costituzione, che i ministeri hanno sempre boicottato e che una politica debole non ha mai avuto il coraggio di portare a termine così come era iniziata. Il ministro Bianchi sembra evocare sotto traccia quel dibattito e forse potrebbe essere il caso di riprenderlo in modo più esplicito, perché è chiaro che la direzione che sta prendendo l’atto politico non può realizzarsi compiutamente se non attraverso un sistema decentrato e fatto di autonomie locali, compresa dunque quella scolastica, che collaborano tra di loro.

Si può dire che il ministro Bianchi stia tentando di realizzare una riforma del sistema, che potrebbe fare capolino nel momento in cui l’opinione pubblica è concentrata sulle tante attenzioni organizzative richieste dalla pandemia e la politica potrebbe favorirla anche semplicemente non occupandosene. Un tentativo che ha un precedente illustre nel ministro Falcucci che tentò la riforma della scuola secondaria superiore per via amministrativa (la commissione Brocca) quando le proposte di legge dei partiti non riuscivano a trovare un’intesa. Il problema restano i tempi, molto stretti, anche per l’utilizzo dei fondi europei. E’ interessantevedere che questo atto di indirizzo venga previsto per l’anno in corso e si prolunghi nel triennio 2022-2024, un buon auspicio per il completamento della legislatura.

Una Scuola aperta al Territorio

UNA SCUOLA APERTA AL TERRITORIO CHE MANTIENE IL GOVERNO DELLO STATO CENTRALE

di Gian Carlo Sacchi

Quando si insedia un nuovo Governo ciascun ministro espone al Parlamento il proprio programma, che di solito avviene in tono abbastanza dimesso quasi per adempiere ad un obbligo, senza tanta partecipazione; un documento preparato dagli uffici del ministero anche per sostenere un politico spesso paracadutato su quella determinata poltrona senza che abbia avuto il tempo di documentarsi adeguatamente. Non è il caso del prof. Bianchi di cui si sentiva parlare da tempo, soprattutto a conclusione del gruppo di esperti nominati dalla precedente ministra di cui è stato coordinatore ed al quale il documento programmatico si è largamente ispirato.

Il neo ministro non ha assecondato la routine, ma si è lanciato in un vero e proprio panel di riforme che ha coinvolto l’intero sistema scolastico e formativo toccando temi che sono da tempo alla ribalta sui quali tuttavia non è entrato con specifiche proposte, basta però il taglio dato all’intervento per capire in quale direzione intenderebbe portare la nostra scuola, senza pensare magari alla durata di un esecutivo che molti definiscono di emergenza, con due compiti, quello di uscire dalla pandemia e di costruire un progetto capace di raccogliere i tanti soldi che proverranno dall’Europa. 

Per la politica in generale la preoccupazione per la scuola riguarda soprattutto la sicurezza sanitaria ed anche il dibattito stato-regioni è servito più che altro a ribadire chi dei due contendenti doveva esercitare il potere, con il risultato che i dirigenti scolastici che aspettavano come d’abitudine le direttive del ministero si vedevano tagliare la strada dalle ordinanza regionali. Ma il ministro Bianchi è partito immediatamente ribadendo la centralità della scuola “motore del Paese”, lanciando un patto nazionale che pochi sembrano fin qui disposti a sottoscrivere, perché per fare qualche passo avanti nelle diverse direzioni indicate occorre il consenso della popolazione scolastica, interna ed esterna al sistema, impresa ardua in questo momento dove prevalgono le esigenze di salvaguardare i riti burocratici relativi all’anno che ormai si chiude più che trasformare l’emergenza in opportunità innovative. 

Il programma parla di primo passo di un processo di riforma di cui si intende avviare la fase costituente, con il rischio che rimanga tale, quando arrivano da più parti avvertimenti che per fare le riforme, anche quelle richieste dall’UE pena i mancai finanziamenti, serve una maggioranza politica uscita dalle urne, ma chissà, nella storia del nostro Paese è capitato che certe leggi venissero approvate proprio da un quadro politico debole, come l’attuale; il tempo però è poco e certi nodi sono duri da sciogliere. E’ comunque utile raccogliere dalla comunicazione del Ministro i nuclei fondamentali sui quali intende intervenire, anche se le ricadute operative richiedono una semplificazione del quadro normativo e la valorizzazione delle autonomie scolastiche non solo sul piano didattico, ma più in largo su quello della gestione finanziaria e del personale, che non sembrano a portata di mano, ne sul versante del ministero dell’economia, ne per quanto riguarda le trattative sindacali.

Le risorse stanziate con il PNRR non sono poi tante se si pensa di potenziare veramente i servizi per l’istruzione dagli asili nido all’università, passando per la generalizzazione del tempo pieno nella scuola primaria e per una decisa innovazione del secondo ciclo per metterlo in condizione di dialogare veramente con il mercato del lavoro. Se poi si vuole che alla scuola sia affidato un ruolo guida nelle transizioni digitale e ambientale, non solo per i giovani, ma anche per gli adulti, allora è necessario investire in infrastrutture e in professionalità che al momento sono presenti in maniera alquanto esigua, come si è dimostrato con l’inadeguatezza ad affrontare le implicazioni del virus. Se ancora essa deve stare al centro dell’Agenda 2030 allora va decisamente superata l’ingessatura burocratica per aprirla nei modi, tempi e contenuti, al territorio. Intanto le risorse per l’avvio del prossimo anno non sono aumentate, si contano gli studenti che diminuiscono e nemmeno si adeguano gli organici la dove aumentano, così il permanere delle classi pollaio nelle quali andrà imposto il distanziamento, senza flessibilità nel curricolo e nell’organizzazione dell’orario.

Il ministro pone in primis la questione sociale, soprattutto la dove ci sono fragilità negli allievi e nelle famiglie, prevede azioni di mentoring per accompagnarli e combattere la dispersione e favorire l’orientamento. Per questa ultima attività sono previste 30 ore annue nella scuola di secondo grado, da finanziare con il suddetto PNRR; è augurabile che siano svolte non solo in uscita, per gli studi superiori o l’ingresso nel mondo del lavoro, ma anche in entrata: le scelte sbagliate sono infatti una delle principali cause del fallimento. Attività di mentoring sono stare realizzate in alcune scuole, ma con risorse esterne e figure competenti di cui il sistema scolastico non dispone. Oltre l’abbandono esiste anche la “dispersione implicita”, cioè il mancato raggiungimento, specialmente nella scuola della preadolescenza, dei traguardi di apprendimento, per i quali è necessario intervenire subito, non solo con una scuola estiva facoltativa, e qui il secondo nucleo programmatico, la necessità di allineare i traguardi educativi agli standard internazionali, comprendendo la valutazione dei risultati, esperienza tentata più volte senza risultato. 

Il Ministro entra nel merito della didattica, parla di metodologie innovative, della costruzione delle conoscenze, il che ricade anche sugli spazi che diventano parte costitutiva dei processi di apprendimento; interviene sugli ambiti disciplinari utili ad interpretare la realtà e l’utilizzo delle nuove tecnologie per dare efficienza all’insegnamento. Il centro della proposta pedagogica riguarda il curricolo che deve favorire in modo flessibile la relazione tra conoscenze scolastiche e mondo reale, personalizzazione degli itinerari di studio attraverso una quota di opzionalità da parte degli studenti. Si intende garantire il raccordo tra la formazione iniziale, formale, e quella non formale e permanente degli adulti, al fine di contemperare l’occupabilità con lo sviluppo umano e culturale. Sarebbe utile qui richiamare i decreti che introducono percentuali di flessibilità nel curricolo per vedere come nell’applicazione pratica, specialmente negli istituti tecnici e professionali dove massima dovrebbe essere l’adattabilità degli insegnamenti alla realtà del territorio e del lavoro, vincoli burocratici di orari, materie calate dall’alto e classi di concorso di fatto ne irrigidiscano l’organizzazione; allo stesso modo per quanto riguarda l’organico di potenziamento e quello più recente così detto del covit, sottoposti a costanti tentativi di decurtazione.

La novità sono i patti educativi di comunità, non solo tra docenti e genitori, ma con il coinvolgimento di altre agenzie del territorio che possono decidere l’aumento dell’orario e l’ampliamento della fruizione degli spazi, superando anche le classi per moduli più aperti, fino ad ampliare la sperimentazione degli istituti quadriennali, riconsiderando magari il quinto anno per l’alternanza scuola-lavoro, rapporti con scuole all’estero, servizio civile. L’impegno dovrà essere quello di qualificare l’offerta per favorire un’uscita a diciotto anni per tutti e il conseguimento del diploma di secondo grado. Dovrà essere generalizzato inoltre il percorso da 0 a 6 anni con una governance multilivello e l’integrazione tra istruzione e formazione professionale: percorsi statali e regionali. Andranno rilanciati gli ITS nel contesto dell’istruzione terziaria professionalizzante, rafforzandone la presenza nel tessuto imprenditoriale e nei rapporti con l’università.  

Con il dimensionamento della rete scolastica pensiamo si voglia trattare di un aggiornamento rispetto al dimensionamento dei comuni ed al ripristino del personale (dirigenti scolastici, DSGA, ecc.) gradualmente sottratto ai tempi dei risparmi Gelmini-Tremonti; il PNRR inoltre porterà con se la riforma degli istituti tecnici e professionali per allineare i curricula scolastici  alle richieste del tessuto produttivo.    

Un passaggio suggestivo del documento ministeriale individua la scuola come “architettura relazionale”, dove i muri non siano confini ma interfacce per la socialità e il dialogo, per una condivisione che vada oltre gli organi collegiali: meglio i patti dei consigli ? Si fa anche cenno alla formazione dei docenti senza toccare il problema del reclutamento e del precariato, della mancanza di una preparazione di base orientata alla professione, andando oltre alla semplice laurea e ai 24 crediti di carattere didattico, peraltro acquisiti in ambito accademico, mentre si ipotizza in modo preciso una scuola di alta formazione per la formazione in servizio, con strutture per la documentazione, che sembra fatta apposta per rinforzare l’INDIRE.

Si  sorvola una problematica peraltro assai nota, che va oltre le competenze del governo, entrando negli aspetti più pertinenti alle professioni educative e facendo riferimenti ad altri soggetti politici territoriali senza far capire bene quali responsabilità verranno loro attribuite nei rapporti con il sistema scolastico; sembra rinviaretutto al predetto patto sulla scuola che chiamerà tanti soggetti alla sua elaborazione, senza che poi nessuno di questi verrà incaricato di realizzarlo se non il ministero di cui il Ministro auspica una maggiore efficienza. Quando si arriva infatti alla governancesembra che il titolo quinto della Costituzione non sia mai stato approvato, si fa cenno ad un quadro normativo sull’autonomia scolastica, niente decentramento verso gli enti territoriali, e la parola regionalismo, che peraltro costituisce tuttora una partita aperta, non viene mai pronunciata, dimenticando dieci anni di impegno come assessore regionale.

Il richiamo all’unità nazionale del sistema ben conosciuto da tutti i destinatari del documento poteva essere superfluo se non fosse per ricordare alla fine chi governerà davvero, cioè lo stato centrale, e per l’autonomia si torna all’aggettivo funzionale, ripetuto più volte, introdotto con il decreto del 1999 per evitare che quellasancita dalle leggi Bassanini e che aveva ben altre ambizioni scappasse di mano. E chiaro che ormai l’impostazione data all’intervento programmatico, di un sistema scolastico aperto, sempre più capace di “portare la scuola nel mondo ed il mondo nella scuola”, in rapporto con il territorio, per crescere insieme, e con il mondo del lavoro, capace di valorizzare anche altri spazi educativi, ha bisogno di un’autonomia forte e di un vero decentramento dei poteri, invece ancora il 50% delle decisioni delle scuole vengono assunte da organismi burocratici sovraordinati. 

Il cambio di passo invocato dal ministro Bianchi avrebbe potuto suscitare discussione in merito alla scelta di piegare il sistema formativo verso quello produttivo e invece si perde nelle condizioni di realizzabilità di tutte le indicazioni fornite e cioè nel governo del sistema, che arretra rispetto agli organi collegiali, fa avanzare lo strumento pattizio senza che la scuola sia in grado di corrispondere con propri poteri a quelli dei diversi enti territoriali, perché il referente di ciascuna istituzione scolastica resta l’ufficio amministrativo e non la sua personalità giuridica e la leadership interna.

E’ stato ripetuto in tante occasioni che per rilanciare, come si vorrebbe, l’autonomia delle istituzioni scolastiche, occorre che vengano definiti i livelli essenziali delle prestazioni per tutti i cittadini, al fine di garantire l’unità del sistema e che lo stato applichi il principio della sussidiarietà verticale, mentre pare ci sia un rimprovero alle scuole che “non sempre hanno avuto un atteggiamento intraprendente per valorizzare i propri spazi di autonomia”. Viene riproposto in definitiva la catena di comando: ministro-provveditore (USR)-preside che nelle scuole della Repubblica si pensava di aver superato a beneficio di un governo locale e partecipato: per far parte del sistema bastano i suddetti livelli essenziali ed il progressivo innalzamento degli standard di apprendimento e funzionamento, dei quali non si parla, mentre pare scontato che il sistema nazionale continui a dipendere dal governo centrale, facendo così parti uguali tra diversi, che abbiamo visto in tutti i modi non essere efficace. 

Infine alla medicina scolastica andrà dedicata una rinnovata attenzione, non solo per i bisogni speciali ma per tutti i bisogni educativi e relazionali che la pandemia ha messo in evidenza. Le scuole hanno necessità di queste competenze per rilanciare lo “star bene” delle persone e delle comunità, ma anche la sanità territoriale deve superare l’aspetto puramente medico facendosi carico di tutte le professionalità necessarie a sostenere, insieme alla scuola, la salute ma anche la crescita e lo sviluppo.

La didattica a distanza una nuova riforma

La didattica a distanza una nuova riforma

di Gian Carlo Sacchi

La didattica a distanza (DAD) è entrata nel sistema scolastico dalla porta stretta dell’innovazione, di cui di solito si occupa una minoranza di docenti, spesso in solitudine, tra l’indifferenza e a volte la diffidenza dei colleghi, così come è capitato per tante altre novità soprattutto se introdotte dall’esterno, che hanno finito con il tempo per rinsecchire a fronte della sempre verde routine. Il recente tentativo di generalizzare l’uso delle tecnologie nell’apprendimento, avviato dalla legge 107 del 2015 con il piano nazionale della scuola digitale, si è rivelato traballante dato  lo scarso investimento economico per la diffusione delle attrezzature e il superficiale intervento nella formazione del personale.

Nessuno avrebbe pensato che a causa della pandemia si sarebbe dovuto usare quella piccola riserva innovativa per tutti gli alunni costretti a rimanere a casa. I balbettii del ministero con le immancabili circolari che hanno sempre la pretesa di fare parti uguali tra realtà differenti, hanno dimostrato l’inadeguatezza di una riorganizzazione nazionale del sistema ed anche le scuole si sono precipitate a riversare nel web gli stessi contenuti che sarebbero stati somministrati in aula, con la preoccupazione più delle procedure valutative che dell’efficacia del processo didattico.

Improvvisamente da alcune regioni viene l’indicazione che la DAD diventi un nuovo canale istituzionale, a scelta delle famiglie, per ovviare soprattutto ai rischi del contagio, scaricando così le responsabilità dalle amministrazioni poste talvolta sotto attacco per un servizio che non viene garantito come si dovrebbe in base ai diritti costituzionali dei cittadini o che non sia sicuro dal punto di vista sanitario. Di fronte all’emergenza infatti le scuole sono le prime a chiudere e le ultime a riaprire, sono diventate un’arma di contesa con il governo nazionale, messe sullo stesso piano degli esercizi commerciali o di altri servizi; ciò dimostra che della scuola interessa più l’aspetto sanitario che il valore formativo e sociale. E benchè siano state adottate misure di sicurezza e sia dimostrata la limitata contagiosità rispetto ad altri ambienti e modalità di organizzazione sociale, le regioni ne fanno spesso il capro espiatorio.

 Lasciare sole le famiglie nella scelta della DAD sarebbe quasi come addossare ad esse la responsabilità dell’eventuale contagio, anziché costruire un “patto educativo di comunità” in cui scuola ed enti del territorio possano agire nella direzione della cura ma soprattutto della prevenzione e dello sviluppo, agendo, come si è potuto largamente constatare, in senso educativo e rieducativo sui comportamenti di giovani e adulti, che la scuola può contribuire a costruire, ma che fuori di essa spesso diventano deleteri sul piano sociale ed anche sanitario. Se, come si dice, dopo la pandemia niente sarà come prima, la prima cosa che dovrà ispirare il cambiamento è una diversa etica nelle relazioni, nel lavoro, nel tempo libero, capace di pensare non solo al consumo del territorio stesso, ma alla rigenerazione del bene comune.

Alcune Regioni hanno decretato unilateralmente la chiusura delle scuole, mentre alla loro riapertura provvede il governo nazionale, in riferimento alle “zone” del contagio, e tutto questo deve considerare anche i poteri dei sindaci che rimangono pur sempre autorità sanitarie locali, senza contare che sul piano didattico le autonomie scolastiche sono tutelate dalla Costituzione.  Se per fronteggiare l’attuale situazione pandemica il Parlamento ha approvato lo stato di emergenza è evidente che le scelte politiche al riguardo competono allo Stato, d’intesa con le regioni alle quali è demandata l‘organizzazione del servizio sanitario, mentre sul versante dell’istruzione le stesse non hanno poteri sul piano della gestione del sistema scolastico, limitandosi ad un’azione di programmazione della rete dei servizi ed alla totale capacità di azione sulla istruzione e formazione professionale. Non avendo applicato in quest’ultimo settore la riforma del titolo quinto della Costituzione non è competenza regionale la revisione dell’ordinamento, come si vorrebbe fare da parte di certune attribuendo alla DAD un valore di nuovo canale istituzionale, ed è per questo limitato potere di intervento che è in atto la trattativa di ulteriore regionalismo differenziato ai sensi dell’art. 116 della stessa Costituzione, per arrivare ad avere un rapporto “concorrente” tra Stato e Regioni in entrambi i settori. Mentre sul fronte sanitario c’è una trattativa tra i due contraenti, che le regioni a loro volta dovrebbero aver mediato con gli enti territoriali, per le scuole non c’è mai stata un’intesa specifica, ma si registrano interventi unilaterali del ministero e delle stesse regioni ed i cittadini per rivendicare i loro diritti ed essere ascoltati sono dovuti ricorrere alle dimostrazioni  di piazza o ai ricorsi al TAR.

Le “competenze esclusive e concorrenti” previste dal suddetto titolo quinto, tra istruzione e sanità, si confondono, forse anche perché è la prima volta nella storia recente che le nostre istituzioni sono così gravemente sollecitate  dall’emergenza sanitaria, ma sul versante scolastico le regioni non possono porre le famiglie di fronte al dilemma tra lezioni in presenza o DAD, scambiato per libera scelta, esse hanno il compito di adeguare il funzionamento della rete dei servizi formativi alle esigenza del territorio, compreso il negoziare con lo Stato un incremento ed una adeguata distribuzione del personale.

 Se poi come accade un po’ovunque la DAD è una modalità di gestione del curricolo e non un altro rivolo ordinamentale, destinato ad essere definitivo una volta scelto, come per tante altre questioni sugli orari delle lezioni, sulla formazione delle classi, ecc., allora è affare della scuola, anche in tempo di pandemia, e deve essere lasciato all’autonomia degli istituti, ai quali gli enti territoriali devono dare sostegno e non porre ulteriori vincoli: lo Stato deve indicare le norme generali che tutti devono rispettare, ma dalle quali non devono dipendere in maniera rigida, le autorità sanitarie devono lavorare insieme per garantire la sicurezza e contrastare gli eventuali contagi; i patti di corresponsabilità educativa tra docenti e famiglie devono gestire il processo didattico, compresi la flessibilità deli orari, dei gruppi e delle eventuali variazioni di calendario.

Le scuole sanno gestire la pandemia e le politiche territoriali si occupino di come può costituirsi un favorevole ambiente circostante, a cominciare dai trasporti, dalle mense e da tutti i rapporti che sono necessari per l’espletamento della loro funzione nella realtà locale e la si smetta di farle oggetto di facete polemiche politiche, perché anche i banchi a rotelle possono essere utili non solo per il distanziamento, ma per modalità innovative di apprendimento se abbinati a spazi altrettanto flessibili, all’utilizzo di tecnologie aumentative e quindi per soluzioni didattiche integrate e non per far rimanere immobili gli studenti, sulle ruote, per ore e ore di un insegnamento consegnativo, che va superato per ragioni efficacia oltre che di sicurezza.

Ci voleva la pandemia per dimostrare come può funzionare una scuola a chi ne ha troppo vecchi ricordi; ogni istituto con la sua autonomia deve progettare e realizzare il suo curricolo, con orari e organico funzionali, dove i “gruppi” sono la variabile organizzativa che gestisce gli apprendimenti, i rapporti con la realtà esterna, utili anche per garantire la sicurezza. Questi infatti possono all’occorrenza essere facilmente isolati, con i più piccoli in spazi idonei, con i più grandi nei laboratori e per creare un minimo di socialità ai disabili. Ad essi ci si potrebbe riferire anche per regolare la provenienza degli allievi ed i loro spostamenti  da casa a scuola.

Speriamo che il ritorno alla normalità non sia una ricerca dello status quo ante, quello che è accaduto in questi mesi non ha portato come in passato un cambiamento dall’esterno, che i più potevano lasciare ad altri, qui tutti nella comunità scolastica ed anche fuori di essa sono stati coinvolti in prima persona almeno nella volontà di non contagiarsi. E quindi davvero non sarà come prima.

Il federalismo alla prova

Il federalismo alla prova

di Gian Carlo Sacchi

Tra governo e regioni era iniziato un percorso che avrebbe potuto portare a quel “regionalismo differenziato” richiesto nell’ambito dell’art. 116 della Costituzione. Una maggiore autonomia dei poteri periferici era ormai matura ed i cittadini avevano dimostrato di gradire proprio dai sondaggi realizzati in occasione delle recenti elezioni regionali. Questa possibile intesa avrebbe altresì potuto celebrare degnamente i 50 anni dalla istituzione delle regioni stesse, ricorrenza di cui si era iniziato a parlare nelle più alte sedi istituzionali confermando il loro protagonismo nello sviluppo dell’intero Paese e nel processo di integrazione europea.

Si stava cercando di risolvere gli immancabili conflitti di natura economica che avevano fin qui bloccata l’attuazione della riforma costituzionale, si discuteva sulle materie da decentrare dalle competenze statali e si poneva l’attenzione, questa volta in maniera operativa, su quei “livelli essenziali delle prestazioni” che dovevano essere garantiti a tutti i cittadini italiani, che poi le singole regioni avrebbero potuto sostenere maggiormente con politiche virtuose.

La pandemia ha fatto precipitare detto itinerario, che agli occhi dell’emergenza è sembrato un po’ troppo accademico, costringendo lo stato centrale e le autonomie regionali ad intervenire velocemente sul servizio sanitario e sulla governance territoriale con un quadro legislativo ancora incompleto, il che ha creato non pochi conflitti tra poteri e responsabilità. Bisogna contenere il virus, ma nello stesso tempo non deprimere i territori e quindi da un lato, quello della salute, le regioni avevano già le necessarie competenze ed hanno operato in maniera autonoma, mentre dall’altro gli ormai famosi DPCM sono intervenuti imponendo a tutti le medesime condizioni, facendo storcere il naso a molti per la limitazione delle libertà. Un tentativo di mediazione abbastanza riuscito è stato il funzionamento delle conferenze stato-regioni che hanno creato un cuscinetto tra gli interventi statali e quelli regionali.

Il mancato completamento legislativo del processo indicato dal nuovo titolo quinto della Costituzione ha determinato una sovrapposizione di competenze, che questa volta ha fatto sentire le disfunzioni in modo drammatico, ma che è in atto da tempo e sul quale è intervenuta più volte anche al Corte Costituzionale. Lo scenario che abbiamo di fronte è da un lato il decentramento che ha messo in evidenza le differenze degli interventi delle diverse regioni, rispetto quindi ai servizi che garantiscono lo stesso diritto alla salute a tutti i cittadini, e dall’altro ai provvedimenti dello stato centrale al quale si imputa la mancata conoscenza delle peculiarità dei diversi territori e quindi a sua volta trattare in maniera uguale realtà differenti. Non vogliamo pensare che le differenze di colore politico tra livelli di governo abbiano creato conflitti più o meno espliciti sulla pelle della salute dei cittadini, ma è solo la diversità delle competenze che può evitare i soliti giochetti propagandistici e l’unitarietà degli obiettivi finali che può determinare la riuscita complessiva dell’operazione su tutto il territorio nazionale e su quelli locali definiti dalle politiche regionali.

 Se non sono chiare le attribuzioni i poteri vengono contesi dai diversi organismi, nazionali e regionali, mentre le responsabilità si scaricano più facilmente sugli altri, soprattutto se si ritrovano a fare le stesse cose modalità di governo di diversa coloritura politica; quello che sta accadendo nell’attuale clima di emergenza è dovuto alla mancanza di  chiarezza istituzionale e  tutto questo genera  confusione tra DPCM e ordinanze dei presidenti di regione, mettendo in difficoltà i cittadini un po’ su tutti i fronti, sia sul piano del comportamento sociale che su quello  dell’esercizio di attività economiche. Ciò dimostra la necessità di superare l’affermazione di “competenze concorrenti” tra stato e regioni, contenuta nel nuovo titolo quinto della Costituzione, intendendo un concorso/conflitto sugli stessi temi, mentre andrebbero separate le funzioni più che i contenuti, lasciando allo stato centrale le “norme generali”, come già indicato dalla predetta riforma costituzionale, che si era iniziato ad elaborare in vista delle predette intese sul progressivo decentramento statale.

Un quadro normativo più chiaro avrebbe reso l’azione amministrativa più efficace anche sotto la pressione della pandemia, cosa che invece mette a rischio l’autonomia stessa dei territori: c’è già chi sostiene che passata l’emergenza andranno ridimensionate le regioni, mentre il centralismo nazionale nella gestione continua a rivelarsi inefficiente e lontano dai bisogni reali del territorio. Nel settore della sanità il principio di “leale collaborazione” tra organi dello stato tiene, si mettono in atto collaborazioni tra regioni per la soluzione di problemi analoghi; ognuna di esse a sua volta interagisce con gli enti locali del proprio territorio e insieme si coordinano con i ministeri, e se nell’organizzazione del servizio si evidenziano disparità nell’organizzazione dei servizi non si tratta di annullarle ma di sostenerle, secondo l’ottica della sussidiarietà, in modo che migliorino la propria azione. Il corona virus ha messo in luce disfunzioni trasversali a tutto il Paese e non attribuibili soltanto ad alcune regioni, al nord piuttosto che al sud, e questo da un lato dovrebbe far intervenire lo stato centrale, e dall’altro stimolare le regioni stesse a migliorare le prestazioni, in vista degli obiettivi che il governo nazionale si è dato d’intesa con i governi regionali, nell’ambito delle predette “conferenze”, in attesa che una nuova riforma costituzionale istituisca la Camera delle autonomie locali. La mancanza di intese in altri settori, come il commercio, il trasporto pubblico, il turismo, ecc. hanno evidenziato  tutto il disagio degli operatori che pur dovendo perseguire obiettivi di salute, indicati a livello nazionale, possono organizzare le loro attività in base alle esigenze del territorio.

Il servizio sanitario è già una competenza regionale, il problema semmai è quello del coordinamento a livello nazionale e la differente efficienza delle prestazioni; le conferenze stato-regioni possono garantire costantemente tale rapporto, mentre le difficoltà in cui vengono a trovarsi i territori di fronte alla pandemia rappresentano le diverse esigenze che devono dialogare tra di loro, la tipicità dei territori con le relative sensibilità e l’impegno dei governi locali. Nonostante le difficoltà in cui sembra che diverse realtà vengono a trovarsi, che non sono divise, come di solito si dice, tra nord e sud del Paese, nessuna regione sembra voglia rinunciare alle proprie prerogative, ma forse si tratta di agire maggiormente sulle responsabilità sociali e politiche; c’è chi magari era abituato ad amministrare con leggerezza ed oggi cerca di raccogliere ciò che magari non ha seminato, ma questo non giustifica una rinazionalizzazione delle competenze che ha già dimostrato, ed anche il commissario covit ne è una prova, come il governo centrale non riesca ad assicurare un trattamento equo ed efficiente su tutto il territorio nazionale. Ci sono ricerche che attestano che è proprio il centralismo a creare disuguaglianze e disservizi: se gli ospedali non funzionano forse non accade solo in questo momento, quindi occorre darsi da fare per una maggiore qualità sul territorio, magari senza infiltrazioni di interessi particolari e corruzione politica.

Al contrario la scuola è una competenza statale, anche se il predetto titolo quinto l’avrebbe posta tra quelle concorrenti, fatte salve le norme generali dal lato dell’ordinamento  e i livelli essenziali delle prestazioni per quanto riguarda la garanzia dei diritti sociali dei cittadini. Com’è noto la normativa costituzionale non è mai stata applicata in questo settore ed oggi la difficile situazione aumenta il conflitto tra i diversi soggetti, creando disorientamento tra gli utenti. Sulla base della normativa vigente le indicazioni date dal governo nazionale (decreti, ordinanze, circolari) dovrebbero valere per tutto il Paese, ma nelle regioni si registrano dati diversi in relazione ai contagi ed ai conseguenti comportamenti ordinati dalle autorità sanitarie regionali e dai sindaci.

A parte il dibattito sui dati circa i focolai virali nati all’interno delle scuole, ciò che stiamo vedendo sono conflitti tra  livelli di governo a colpi di tribunali amministrativi anziché “leale collaborazione” tra istituzioni, motivati da esigenze dei territori stessi nei rapporti con il sistema sanitario, dei trasporti, ecc. Le normative scolastiche sono rigide e poi vengono disattese e lo stato che dovrebbe provvedere a tutte le scuole d’Italia è sempre in ritardo nelle nomine, nelle forniture, ecc. e nonostante questa volta fossero aumentati i finanziamenti le procedure rimangono lente e faragginose, ed è proprio per questo ritardo cronico della burocrazia che quelle regioni che hanno richiesto un supplemento di autonomia hanno incluso l’istruzione tra le materie da togliere in tutto o in parte dalle competenze statali.

Mentre nella sanità, come si è detto, ci potrebbe essere un problema di coordinamento a livello nazionale, nella scuola, che è l’altra faccia della medaglia dei servizi alla persona, c’è l’esigenza opposta, cioè quella di procedere ad un maggior decentramento e se si fosse applicato l’ormai famoso titolo quinto avremmo avuto un ordinamento scolastico statale uguale per tutti ed una gestione del servizio regionale e locale, come in parte già avviene per la rete delle scuole, alla quale si dovrebbe aggiungere la gestione del personale, di cui in passato si era occupata in modo favorevole la Corte Costituzionale. I recenti provvedimenti non hanno nemmeno valorizzato l’intensa attività degli istituti che durante l’estate hanno messo in sicurezza edifici, spazi, ingressi, aule: in tante zone sindaci e dirigenti scolastici avevano collaborato fattivamente per preparare la riapertura del nuovo anno, inserendo la didattica a distanza tra le innovazioni e non solo tra le emergenze.

Non si vuole entrare nel merito delle azioni messe in atto dai diversi soggetti istituzionali per il contrasto al virus, ma rimanendo al discorso della governance si può constatare la maggiore efficacia di un sistema decentrato che veda il livello nazionale impegnato su un disegno complessivo circa gli obiettivi da raggiungere e quelli territoriali nella gestione dei servizi e nell’interazione costante con i cittadini. Anche se il momento non sembra dei migliori bisogna portare a termine il progetto sul regionalismo differenziato perché sia in grado di irrobustire le gambe degli enti territoriali, in modo che si assumano le loro responsabilità e possano agire secondo il predetto principio di leale collaborazione. Rimane per tutti un problema di etica politica che si era cercato di risolvere nel decreto applicativo della legge sul federalismo fiscale, circa la ricandidabilità di personaggi che avevano agito in modo scorretto o assecondando interessi di parte, il che sarà favorito, come si è detto, se i diversi ambiti legislativi e amministrativi avranno competenze ben definite e non sovrapposte, come si vede infatti anche ora nel dibattito tra regioni con maggioranze politiche diverse che emanano provvedimenti concordati, sanno interagire con i rispettivi enti locali e insieme sanno essere interlocutori del governo nazionale.

Autonomia, adesso o mai più

Autonomia, adesso o mai più

di Gian Carlo Sacchi

Le difficoltà in cui si dibatte la nostra scuola in vista dell’apertura del nuovo anno hanno mobilitato forse per la prima volta nella sua storia contemporaneamente istituzioni e realtà sociali a cercare modalità di ripresa dopo una lunga chiusura che ha creato non pochi disagi alla didattica ed alle relazioni tra le persone e le comunità, cercando di schivare un’eventuale recrudescenza della pandemia che ha imposto comportamenti ai quali mai prima si sarebbe pensato e che adesso diventano centrali nell’organizzazione.

Il rapporto tra scuola e società è in discussione da tempo, ma finora si è trattato di timide aperture alla partecipazione e se pur una pluralità di soggetti si trovava insieme in organismi chiamati collegiali per evidenziarne l’aspetto democratico, questi non avevano nessun potere reale di governo rimasto saldamente nelle mani dello Stato che lo esercita attraverso il suo apparato amministrativo.

Bisognava andare oltre l’aspetto partecipativo e nel periodo di riforma della pubblica amministrazione attuata, alla fine degli anni settanta del secolo scorso, si fece largo il concetto di autonomia appannaggio perlopiù di regioni ed enti locali, che venne riconosciuta anche alle scuole, le quali avrebbero dovuto abbandonare la dipendenza dall’amministrazione per potersi relazionare direttamente con le istituzioni del territorio. Ma la cosa si concluse a metà, in quanto si volle evitare la frammentazione di un servizio destinato a tutti i cittadini, da organizzare a livello nazionale.

La revisione del titolo quinto della Costituzione introdusse lo sdoppiamento delle competenze attribuendo allo Stato le norme generali e i principi fondamentali del sistema ed alle Regioni la governance dei servizi, facendo salva l’autonomia scolastica, la quale però non avendo un’organizzazione delle scuole autonome in grado di rapportarsi con i due interlocutori principali, statale e regionale, fu trattata come il vaso di coccio, in grado di espletare soltanto competenze tecnico-didattiche e non si è mai valorizzato adeguatamente un’autonomia “pedagogica”, nonostante il riconoscimento costituzionale, privilegiando la  dimensione politico-amministrativa.  

Inizia così la contesa tra i poteri dello Stato e quelli delle Regioni, approdata spesso alla Corte Costituzionale; a queste due riforme si è aggiunta la legge sul federalismo fiscale, per arrivare alle proposte relative al regionalismo differenziato, tutte fondate sull’accentuazione dell’autonomia. Nel settore dell’istruzione però il passaggio di attribuzioni agli enti territoriali ed alle scuole c’è stato solo in minima parte e questo fa sì che i vincoli normativi generali e le esigenze locali creino disagio ed inefficienza nel sistema.

L’emergenza sanitaria ha inferto una forte scossa all’organizzazione del servizio, facendo riemergere il tema dell’autonomia degli istituti scolastici e dei poteri di Comuni e Regioni nei confronti del centralismo statale. Si pensi ad esempio al di là dei necessari finanziamenti come l’assegnazione del personale debba passare attraverso l’ordinanza degli organici e modalità di reclutamento standard a livello nazionale, mentre sia importante da un lato diversificare gli interventi con un’assegnazione su base regionale e dall’altro che le scuole abbiano a disposizione un organico di istituto da utilizzare in modo flessibile, sia in relazione al curricolo, sia alle nuove disposizioni sulla sicurezza sanitaria.

Un altro esempio eclatante che incomincia a fare notizia è il totale fallimento dell’Agenzia Nazionale per le politiche attive del lavoro con i relativi navigator, quando le Regioni disponevano già di banche dati sulla domanda e l’offerta, in una collaudata struttura di servizi per l’impiego.

Le scuole devono riaprire a settembre, il tempo stringe, molte sono le cose da fare e le proteste non tardano ad arrivare, soprattutto da parte di chi è abituato a sottolineare le inefficienze statali rimanendo comunque all’ombra delle indicazioni ministeriali, ma la cosa più interessante è che Stato, Enti Locali e scuole stanno facendo la loro parte nell’ottica della leale collaborazione e per la prima volta in questo settore si vede applicato il nuovo titolo quinto, valorizzando la partecipazione (patto educativo con la famiglia), la gestione del servizio e il governo del territorio, fino ad arrivare all’intervento dello Stato a sostenere la qualità del sistema. Riemerge anche il ruolo della sanità pubblica con maggiori competenze sulla salute e sicurezza di alunni ed operatori, non semplicemente con compiti diagnostici e certificativi. 

In apparenza è sembrato che l’inconcludenza politica scaricasse una serie di incombenze sugli anelli più deboli della catena, quelli terminali, ma dopo l’intesa Stato-Regioni si può credere che il cerchio delle responsabilità sia sostenuto da diversi enti, chiamando a collaborare le famiglie e la società civile. Questo dovrà rassicurare i dirigenti scolastici che finalmente faranno il mestiere che tanto hanno rivendicato, cioè il referente del progetto formativo nei rapporti con l’utenza e gli altri soggetti impegnati nelle politiche territoriali (patti educativi di comunità).

E’ raro che un ministro non faccia della retorica sull’autonomia, ma pur con tante incertezze e fragilità questa volta ha espresso la convinzione che “ipotizzare una soluzione uguale per tutti, centralizzata, sarebbe fantascienza….l’autonomia non è una scorciatoia, è l’unica strada possibile”. In questo appoggiata da tutte le forze politiche di maggioranza.

Le linee guida del Governo per l’apertura del nuovo anno scolastico mettono in evidenza le due scuole di pensiero ancora compresenti nell’amministrazione, da un lato quella che sull’onda degli scarsi investimenti pone dei vincoli sul piano organizzativo, e, dall’altro, quella che facendo leva sull’autonomia cerca di forzare le predette limitazioni per lasciare più spazio alle decisioni prese sul territorio. Se ad esempio sono necessarie più risorse per effettuare il distanziamento, con l’assunzione di più personale, perché si deve dar corso all’abolizione delle scuole sottodimensionate, da sempre subite dalle Regioni, alle quali spetterebbe la programmazione della rete, mantenendo un servizio soprattutto nelle zone più disagiate e generalizzando gli istituti comprensivi del primo ciclo anche nelle aree urbane, che permettono un uso promiscuo di spazi e di personale da parte dei vari gradi scolastici.

In tale documento, emanato forse troppo in fretta, seppure in una situazione di emergenza, vengono fornite indicazioni di sistema, che competerebbero al capitolo delle norme generali dello Stato, ma anche di carattere didattico, che andrebbero invece attribuite alle autonomie scolastiche e più legate a scelte territoriali di competenza degli enti preposti. Tavoli operativi regionali, per mettere in pratica le intese Stato-Regioni, e conferenze dei servizi degli EELL, strumenti di gestione dei problemi dei territori, con la partecipazione delle istituzioni scolastiche, che in questo modo si vedono riconosciute e legittimate come interlocutori di costruzione delle strategie a livello locale.

Senza voler entrare nelle disposizioni minute dettate soprattutto dalle necessità di far fronte all’emergenza sanitaria, si accennano alle questioni inerenti l’esercizio dell’autonomia, utili per l’intero sistema anche in tempi di pace. La prima indicazione del documento ministeriale riguarda la flessibilità in tutte le sue applicazioni: la “riconfigurazione del gruppo classe” era già contenuta nel DPR 275/1999, ma la possibilità di costituire “più gruppi di apprendimento” con alunni “provenienti dalla stessa classe o da classi diverse e da diversi anni di corso” e “diverso frazionamento dei tempi di insegnamento”, coinvolge non solo i turni differenziati di frequenza, ma anche il curricolo, la valutazione, la diversificazione degli stessi ambienti nei quali si apprende.

Una didattica integrata, in presenza e a distanza, non può essere ridotta al nozionismo via web, ma trattandosi di flipped classroom vuol dire cambiare la modalità di costruzione della conoscenza, dall’analisi della realtà, ad una pluralità di linguaggi, al coinvolgimento dell’esperienza degli studenti. Non si tratterà più di somministrare un sapere frammentato in tante materie, ma è possibile “l’aggregazione delle discipline in aree o ambiti disciplinari”, riprendendo l’impostazione data alla riforma della primaria con il relativo team docente, che farebbe bene anche alle procedure anticovid. Tale modalità andrà applicata nella secondaria di primo grado, che ha bisogno di aree disciplinari, pena la dispersione non solo cognitiva, ma più in generale il fallimento della scolarità.

La scuola aperta è un’altra indicazione di cui si parla da tanto tempo, che è stata rilanciata anche dalla legge 107/2015, non solo per allungare i tempi della didattica peraltro sempre più richiesti anche dalle famiglie, ma per vedere in essa un “presidio pedagogico del territorio”, un “civic center” a disposizione di un’utenza anche adulta, come previsto dal citato decreto sull’autonomia, ma della cittadinanza intera, dove si intendono promuovere le competenze non formali ed informali, in collaborazione con iniziative degli enti locali,  del mondo aziendale e dell’associazionismo, attraverso i suddetti patti educativi di comunità, nonché i laboratori territoriali per l’occupazione.

Qui bisogna avere il coraggio di investire nel personale rovesciando la procedura in atto a livello sindacal-burocratico, e cioè il piano dell’offerta formativa non può essere contenuto nella rigida struttura oraria dettata dagli accordi sindacali e imposta a livello nazionale, ma ,al contrario, è il progetto di istituto, che diventa di territorio, a dettare le esigenze di organico che si risolve con il potenziamento di quest’ultimo sia con docenti e ATA, sia con altre figure professionali assunte a contratto dal dirigente scolastico, con l’intervento di programmazione delle regioni, come ebbe a dire un bel po’ di tempo fa la Corte Costituzionale.

Il vero rischio paventato anche in questo caso dai detrattori dell’autonomia è quello di avere un sistema che manca di equità, e come sia possibile garantirla adottando soluzioni organizzative diverse. Non v’è chi non veda, e l’INVALSI in questi anni ne è stato buon testimone, che il centralismo non ha ottenuto risultati omogenei e che il nuovo titolo quinto della Costituzione aveva previsto l’elaborazione dei “livelli essenziali delle prestazioni” per tutti i cittadini, tradotti negli “standard minimi di servizio”; è su questi che lo Stato si deve impegnare colmando i vuoti di regioni con scarsa capacità fiscale, con fondi perequativi previsti dall’art.119 della carta costituzionale. Ed è qui che si discute sulle ragioni del regionalismo differenziato.

Al ministero compete di mettere a disposizione degli strumenti, in modo che ogni scuola creerà il proprio vestito su misura: parola di ministro. Tenere la barra sull’autonomia è tra i mille altri problemi l’elemento più interessante di queste linee guida; è da qui che si deve partire per tentare di risolvere le altre questioni di carattere organizzativo, ma anche educativo e didattico, nonché di governo, dove ognuno agisce per le sue competenze e insieme per rilanciare la scuola nel Paese, facendo tuttavia molta attenzione che nel bailamme legislativo, e questa contraddizione è ben presente anche nei recenti provvedimenti, si tenti di riportare continuamente sotto la voce ordinamento non solo le norme generali, indicate dall’art. 117 della Costituzione, ma anche la gestione.

Il triangolo dell’autonomia si chiude con il ruolo che hanno avuto le Regioni  in questa partita, che per la prima volta a loro dire hanno contribuito alla costruzione del Piano Scuola 2020/2021. Una collaborazione  che supera i passati conflitti di competenze, salvaguardando ciò che la Costituzione attribuisce alle scuole. E’ su questa lunghezza d’onda che vediamo dunque applicato il nuovo titolo quinto e che vorremmo vedere il regionalismo differenziato. Recuperare i tagli di personale operati sugli organici degli anni precedenti e distribuirlo con il contributo delle Regioni stesse, come la suprema Corte aveva già indicato nel 2004, aiuta a sostenere l’emergenza e non solo. Intervenire sull’edilizia scolastica, sul sistema integrato per l’infanzia; sostenere le scuole autonome, mantenendone un numero concordato, tenendo conto delle criticità di ciascuna, nei rapporti con i diversi attori locali che possono contribuire all’arricchimento dell’offerta formativa.

Comunità territoriali tra sussidiarietà e corresponsabilità educativa per fornire una visione unitaria del progetto educativo legato però alle specifiche esigenze. In sintesi linee guida che applicano il predetto titolo quinto. In tale contesto famiglie e allievi dovranno continuare a mettere in pratica i comportamenti previsti per il contrasto all’epidemia in un’azione di responsabilità educativa collettiva, che diventeranno vere e proprie azioni formative con adeguate competenze per i più grandi e gioiose routine per i più piccoli.

Se gli edifici non sono sufficienti nel breve periodo vanno integrati con altri spazi anche esterni, mentre nel lungo periodo andranno riconsiderate le iscrizioni, per porre fine alle “classi pollaio”, e l’ampiezza delle autonomie, con una maggiore presenza della componente sanitaria (il medico competente D.Leg.vo 81/2008). Si devono trovare parametri di riempimento degli edifici cui deve corrispondere la misura dell’organico di istituto, anche in relazione ai diversi indirizzi di studio.

Cinquant’anni dalle prime elezioni regionali, vent’anni circa dalla riforma del titolo quinto, scadenze che dobbiamo richiamare proprio in questa emergenza, che ci aiutano non solo nell’allerta sanitaria, ma nel procedere del cammino istituzionale. La Repubblica nasce nel rifiuto del carattere autoritario e centralista dello Stato, per l’identità dei territori che sono la ricchezza della civiltà italiana, dice il presidente Mattarella. Il principio di autonomia delle regioni e degli enti locali, al quale si aggiunge nella riforma costituzionale quella delle scuole, è alle fondamenta della costruzione democratica. Le diversità, se non utilizzate in modo improprio, sono ancora parole della più alta magistratura statale, sono un moltiplicatore di crescita, civile, economica e culturale. Ed anche l’Europa è chiamata a valorizzare la dimensione regionale come vettore per l’integrazione.

Siamo alla vigilia di elezioni regionali e la pandemia nei sondaggi vede la gente apprezzare i presidenti delle regioni in una gestione vicina ai cittadini, nel bene e nel male. Un movimento trasversale che si aggiunge a quello delle cento città, con l’elezione diretta del sindaco, che in passato ha suscitato diffidenza e irritazione da parte della politica centralista di diversi schieramenti. La mappa del potere però sta cambiando e speriamo che la campagna elettorale non ci riproponga i soliti conflitti della politica nazionale. Queste elezioni, che peraltro ci danno il virus ancora presente nelle nostre comunità, dovrebbero essere il banco di prova del cambiamento culturale che ci faccia uscire dagli interessi di bottega e faccia emergere le esigenze dei territori. E’ sotto gli occhi di tutti un rimescolamento delle tradizionali provenienze politiche in relazione alla diversità delle realtà locali che il covid con il suo rapido cambiamento ci fa apprezzare in diretta, da una regione all’altra.

L’Istruzione ai margini degli Stati generali sull’Economia

L’Istruzione ai margini degli Stati generali sull’Economia

di Gian Carlo Sacchi

Una grande consultazione per far ripartire l’economia italiana dopo la pandemia non poteva che annoverare tra i suoi obiettivi la ricerca e la formazione, tanto poi come in tante altre occasioni vengono tralasciate per altre priorità più legate al mondo del lavoro e della produzione. Tant’è che gli stati generali convocati dal presidente del consiglio sembravano appannaggio delle sole categorie economiche senza che aldilà delle generiche buone intenzioni si ravvisassero interventi specifici nel mondo dell’istruzione.

Ad un certo punto della kermesse sono sbucate dieci schede (Dieci schede per la Scuola) che riguardano questo settore in cui venivano elaborate proposte anche molto dettagliate con altrettante previsioni finanziarie, che però hanno fatto una fugace apparizione e non risultano nei documenti finali, facendo temere che si tratti di un’iniziativa estemporanea forse costruita dall’esterno, visto che gli organismi politici e ministeriali in questo momento guardano altrove, ma che comunque varrebbe la pena di recuperare e far giungere a chi di dovere, governo e parlamento, magari per i tempi medi, in quanto potrebbero operare una svolta nel sistema che fa bene anche alla cura istituzionale dopo il corona virus.

Le schede affrontano diversi temi, tutti di grande attualità per l’innovazione scolastica, che seppur ispirate da diverse scuole di pensiero possono comunque costituire un passo avanti per auspicabili processi di riforma sui quali l’attuale classe politica nel suo complesso sembra non aver le idee chiare e gli estensori delle schede potrebbero fornire un importante contributo. Qualunque sia la verità sulla redazione di quei documenti vale la pena di utilizzarli per riaprire il dibattito sulle cose che contano e che bisogna affrontare anche se non sempre ci vengono prospettare soluzioni coraggiose e di effettivo cambiamento.

Delle dieci proposizioni vorremmo soffermarci su due nella convinzione che possano ridare efficacia all’intero sistema con soluzioni che già sono presenti nell’ordinamento ma non realizzate per effetto della debolezza politica da sempre presente sulla scuola e del centralismo burocratico, e altre che necessitano di un percorso legislativo che sarebbe il caso di avviare per non ridurre l’attività del Parlamento alla sola problematica dei precari che oltre alla garanzia del posto di lavoro avrebbero bisogno di una vigorosa iniezione di professionalità.

Il primo tema è tornare a parlare di autonomia, evocato da più parti ma vincolato da una gestione centralistica dalla quale la scheda non prende completamente le distanze. Autonomia vuol dire spazi e tempi per stare sul territorio, risorse economiche e di personale impiegate in base al progetto formativo e rendicontazione soprattutto sul piano sociale dei risultati. Tutte indicazioni già presenti nella normativa che le scuole non utilizzeranno mai se alla fine si pretende da loro comportamenti standard perfino nella strumentazione e prassi amministrativa.

Il curricolo di istituto (80% nazionale e 20% locale)prevede già la possibilità di inserire una componente regionale, che rimarrà lettera morta se deve sottostare a previsioni di organici ministeriali rigide. Sarebbe bello applicare il DPR 255/1999 sull’autonomia didattica, organizzativa, di ricerca e sviluppo, ma ci sarebbe anche il D.legvo 112/1998 per quanto riguarda i rapporti con regioni ed enti locali, la legge 42/1999 e la 107/2015 per quanto riguarda i finanziamenti “multilivello” e la partecipazione alle entrate fiscali del territorio stesso.  

Tutte queste disposizioni hanno un dato in comune, la flessibilità che è appunto il comportamento plastico dell’autonomia e prevede la possibilità di valorizzare diversi ambienti di apprendimento, che potrebbe risolvere anche il problema del funzionamento in relazione all’emergenza sanitaria, mentre siamo ancora nell’ottica dell’adempimento uniforme che conduce lo sguardo delle scuole in verticale, verso il ministero e non come dovrebbe essere in orizzontale per far fronte alle necessità delle realtà in cui esse vivono e non solo lavorano.

Da qui nasce la motivazione a valorizzare le figure professionali, a cominciare dal riconoscimento economico e di carriera dei docenti perlomeno equiparato ai colleghi europei; di questo la politica parla quando è alla ricerca del consenso, ma senza nessun risultato concreto. Si torna a trattare della figura del dirigente, la cui funzione è su un binario morto, ma se l’autonomia è conferire all’istituzione scolastica una pluralità di competenze allora occorre una leadership diffusa, cioè una serie di figure intermedie con adeguata specializzazione. Perfino per l’ispettore scolastico si dovrebbe prevedere autonomia, come avviene in altri Paesi, così potrebbe autorevolmente intervenire in strutture territoriali che si occupano di valutazione del sistema, ma anche di ricerca e di formazione del personale, mentre si ha motivo di credere, anche in vista di un nuovo reclutamento, che continui a trattarsi di figura burocratica alle dipendenza dell’amministrazione scolastica, come del resto avviene per gli stessi dirigenti e per il loro ruolo nell’ambito degli organi collegiali, che andrebbero riformati proprio per valorizzarne l’autonomia.

La scheda non ha però il coraggio di andare fino in fondo, prevedendo il ripristino della funzionalità giuridica e amministrativa degli uffici scolastici regionali e territoriali anziché la loro abolizione, come si era tentato ai tempi delle riforme Bassanini e attorno alla modifica del titolo quinto della Costituzione. Si ricorderà il tentativo di trasformare le prefetture in uffici territoriali del governo unificando le strutture locali dei vari ministeri (D.leg.vo 300/1999): nulla di fatto, anzi quelle regionali della pubblica istruzione hanno più poteri in termini di governance del ministero centrale, ma per ora la logica non cambia, speriamo nel tentativo da parte delle regioni di vedersi attribuite più competenze in tale settore.

Alle scuole autonome manca una rappresentanza sul piano istituzionale e territoriale (Consiglio Nazionale dell’autonomia ?); le reti sono di scopo con compiti di carattere esecutivo e nei territori regionali difficili sono i rapporti tra innumerevoli realtà scolastiche sparse che peraltro rispondono ad un ufficio statale e le emanazioni degli enti locali e della medesima regione.   

L’altra scheda degna di interesse è quella che si occupa delle scuole superiori come campus, che ipotizza una riforma della struttura che potremmo definire leggera e per questo forse più facile da realizzare e capace di conferire una maggiore flessibilità al sistema ed un ordinamento già in grado di recepire le modifiche.

La parola campus venne introdotta dalla riforma Moratti del 2003 e serviva per raccordare a livello territoriale diversi istituti che per effetto del dimensionamento dovuto al riconoscimento dell’autonomia erano stati accorpati, creando un’osmosi tra questi per migliorare l’offerta formativa, il riorientamento degli allievi, nonché rafforzare la formazione generale. Questa indicazione potrebbe essere seguita per la generalizzazione degli istituti comprensivi del primo ciclo e la costituzione dei poli per l’infanzia recentemente introdotti dal D.Legvo 65/2017.

Il secondo cambiamento riguarda la durata quadriennale dei vari gradi di scuola, aggiungendo un anno della primaria alla secondaria di primo grado e finendo le superiori a 18 anni, con la maggiore età,  destinando il quinto ad attività formative non formali ma altrettanto utili, come un erasmus per la scuola, nonché un periodo di servizio civile/ambientale, alternanza scuola-lavoro, anche al fine di accumulare crediti per l’istruzione terziaria, accademica e non ed il mondo del lavoro.

La proposta continua con l’innalzamento dell’obbligo di istruzione alla conclusione del secondo ciclo, e qui bisogna intendersi se devono essere obbligati i giovani, come è accaduto per il biennio, con i risultati che sappiamo sul piano dell’abbandono e dell’insuccesso, di fronte ad un curricolo rigido e uguale per tutti, con risultati attesi nell’arco di una molteplicità di discipline per l’accesso alle classi successive, o se sia l’obbligo del sistema di far raggiungere a tutti almeno il diploma superiore, con la necessaria flessibilità, superando le classi omogenee per età, per un sistema di debiti/crediti, che costruisca il curriculum dello studente con le competenze effettivamente raggiunte.

Gli esami al termine dei due cicli dovranno essere un bilancio del lavoro svolto dagli allievi e dalla scuola, superando gli obsoleti dibattiti sul buonismo con elevati risultati regalati o evocando selezioni senza che vi sia da parte dello studente motivazione e partecipazione alla definizione del piano di studi, con conseguente impegno nell’effettivo apprendimento.

L’epidemia ha portato alle prove finali che abbiamo visto quest’anno, ma potrebbero essere mantenute anche in tempi di pace; da un semplice, ma non tanto, colloquio si può evincere, come hanno detto diversi presidenti di commissione, il dato di personalità e di preparazione. Ancora una volta il nostro ordinamento sarebbe già pronto per andare in quella direzione, avendo anche i necessari riconoscimenti delle competenze a livello internazionale.

Si è voluto enfatizzare il contenuto delle schede ritenute più importanti per un rilancio del sistema scolastico nel suo complesso; sono state solo una provocazione ? Varrebbe la pena comunque riprenderle ed offrirle ad una politica che al di la delle enunciazioni, ormai ovvie, non riesce a strutturare proposte concrete ed efficaci, e che oltre alle questioni sanitarie ha bisogno di aiuto sul piano dell’innovazione didattica e organizzativa.

Chi ha compilato le schede potrebbe farsi carico di riaprire il discorso, richiamando esperti, operatori e la stampa specializzata, coinvolgendo anche i politici e portando le riflessioni alle conclusioni degli stati generali, anche questo vuole essere un piccolo contributo.