La filiera teconologico-professionale verso l’autonomia

La filiera teconologico-professionale verso l’autonomia

di Gian Carlo Sacchi

Nelle richieste di autonomia differenziata diverse regioni avevano segnalato il passaggio dallo stato dell’istruzione tecnica e professionale, al fine di poter meglio integrare l’aspetto formativo con quello produttivo. I due canali, statale e regionale, si sono rivelati un dispendio di risorse, la rigidità del primo, dentro la riforma della scuola superiore, è sempre più a rischio, data la scarsa competitività con i licei e l’elevato tasso di dispersione, mentre il secondo, seppure disomogeneo tra le varie realtà territoriali, è in crescita, specialmente dove è maggiore l’efficienza del sistema produttivo, è più flessibile per andare incontro alle esigenze delle aziende che mai come in questo periodo segnalano il disallineamento delle competenze tra formazione e lavoro, ha un rapporto più sistematico con l’UE per il riconoscimento delle qualifiche professionali.

La riforma del titolo quinto della Costituzione, confermando alle regioni il governo del settore formativo di rapido inserimento nelle aziende, aveva introdotto un nuovo canale denominato Istruzione e Formazione Professionale, con l’intento di riunificare i vari indirizzi professionalizzanti ed anche se non detto in maniera esplicita nel tentativo di regionalizzare l’intero settore, più facilmente collegato al grado superiore non accademico, sul quale si è compiuto un notevole investimento proprio nel tentativo migliorare la preparazione dei giovani per una più rapida occupabilità.

La distanza tra i due canali è rimasta più o meno inalterata da molto tempo, nonostante tentativi di avvicinamento in occasione dell’innalzamento dell’obbligo scolastico/formativo ai sedici anni culminato con integrazioni parziali tra bienni scolastici tradizionali e corsi regionali, ognuno dei quali cammin facendo ha mostrato i suoi limiti: da una parte una scuola obbligatoria teorica e demotivante, dall’altra percorsi accolti di buon grado dagli studenti, magari come seconda opportunità, ma bisognosi di maggiori competenze generali. In passato la direzione di marcia era quella di privilegiare la formazione della persona attraverso le discipline dalle quali trarre gli elementi di applicazione ai contesti reali e produttivi, la sfida odierna è, al contrario, partire dal lavoro con le sue caratteristiche innovative, estraendo da questo, con l’aiuto di un solido apparato culturale, gli elementi di trasversalità e di generalizzazione delle competenze.

Come si può vedere una tale situazione richiede una doppia dose di autonomia, una interna nella definizione dei curricoli, capaci di affrontare una realtà mutevole e complessa, in cui gli studenti stessi possano partecipare alla definizione del proprio percorso di studi e l’altra esterna, in grado di aderire alle esigenze del mondo produttivo nei diversi territori.

Qui c’è un grosso incaglio sul piano culturale e politico. Da una parte si teme che l’autonomia possa creare delle disparità, ma dall’altra una proposta formativa omogenea su tutto il territorio nazionale rischia di rendere tutto più opaco, come gli attuali programmi ministeriali, e quindi non in grado di ottimizzare la preparazione degli allievi in relazione alle esigenze del mercato professionale. Non si può nemmeno sostenere che cercare un rapporto efficace tra domanda e offerta di formazione/lavoro sia consegnare la scuola alle aziende, anzi anche queste ultime ormai non rinunciano più alla formazione generale, il problema rimane di tipo metodologico e di preparazione degli insegnanti.

L’alternanza scuola-lavoro, con i due tutor, uno scolastico e l’altro aziendale e le loro esperienze maturate in contesti diversi, non ha soltanto il compito di avviare i giovani ai profili lavorativi, ma cambia le modalità di progettare l’intero curricolo e non solo quella parte che si svolge in azienda, nonché di valutare il percorso stesso mediante un processo di accrescimento progressivo delle competenze che porti all’acquisizione di crediti sempre maggiori, in modo naturale e di aderenza al compito.

La riforma dell’istruzione tecnico-professionale è entrata tra quelle richieste dal PNRR ed il ministero ha visto l’opportunitàper riconsiderare l’intero comparto, secondario e terziario, attraverso una formula sperimentale che riordini il ciclo scolasticoe lo colleghi più efficacemente con quello successivo, riproponendo il problema della governance tra stato e regioni, eoffrendo a queste ultime la facoltà di aderire attraverso accordi con lo stato, come sarebbe per una parte di loro nell’ambito delle predette richieste di  maggiore autonomia.

La più importante novità riguarda l’attivazione di percorsi quadriennali nell’istruzione secondaria tecnico-professionale. Si tratta di un allineamento a diversi paesi europei con quanto ne consegue sul piano del riconoscimento di qualifiche e di crediti, senza dimenticare la conclusione del percorso scolastico a 18 anni, allineato a sua volta con il “diritto dovere”, per la conquista oltre che di un titolo di studio anche di una qualifica professionale e per inserirsi nei predetti percorsi superiori ed esercitare un contatto più diretto con il mondo del lavoro, provenendo spesso da progetti di alternanza. Si tratta di un’offerta formativa integrata con la formazione regionale, che fornisce anch’essa un titolo quadriennale e richiede un quinto anno per arrivare alla pari con l’istruzione professionale statale. I quattro anni semplificanomolto il groviglio di offerte presenti tra l’istruzione statale e la formazione regionale e il difficile passaggio tra i due.

Restano ferme però le disposizioni vigenti in materia di esami di stato, utile più al rilascio dei titoli di studio che ad una efficace valutazione, che si suppone rimanga anche per gli anni intermedi, per la quale, anche in considerazione alle disposizioni impartite per il ciclo terziario, e un po’ meno rigide negli istituti professionali, sarebbe preferibile un’analisi del processo di apprendimento ed una conclusione in termini di crediti più che di titoli, anche in considerazione della presenza dell’INVALSI per quanto riguarda l’analisi del sistema.

L’iniziativa ripassa alle regioni, non solo in termini di generica programmazione territoriale, ma proprio nel merito del singolo progetto, sono infatti gli accordi tra queste e gli uffici territoriali dell’amministrazione scolastica a progettare la filiera tecnologico-professionale, come viene chiamata, là dove sono resi necessari dai processi economici e produttivi; alle intese partecipano gli ITS academy, le università ed altri soggetti pubblici e privati che possono migliorare l’offerta, in modo da creare reti che il progetto ministeriale vuole chiamare “campus”, termine che troviamo già nella riforma Moratti, ma che non ha dato quei risultati in termini di coesione e di orientamento per i quali se ne poteva prevedere l’istituzione, essendo stati costituiti in maniera burocratica in base ai numeri dei vari istituti conferenti e non alle esigenze del territorio. Oggi i sedicenti campus sono agglomerati formati da licei e da istituti, che andrebbero riconvertiti, oppure bisognerebbe accentuare la loro funzione riorientativa. In alcune realtà locali a questo fine erano già stati accorpati istituti tecnici e professionali dello stesso indirizzo, già un passo verso le nuove istituzioni, ma non si deve dimenticare che gli istituti statali non hanno autonomia gestionale, soprattutto per quanto riguarda il personale e saranno sempre in difficoltà di fronte ai più flessibili centri regionali e per non parlare di enti privati e imprese, e men che meno potranno dare origine ai previsti campus multiregionali e multisettoriali dovendo gestire organici legati ai territori provinciali. 

La sfida che il decreto propone sulla base delle richieste di competenze venutasi a creare in questi ultimi anni, è quella di costruire percorsi in grado di offrire un rapporto efficace tra la formazione generale e professionale, in relazione alle specifiche esigenze dell’indirizzo di studi, ma qui non basta il decreto, occorre un importante investimento sulla didattica, soprattutto per quanto riguarda i laboratori e le esperienze dirette degli studenti.

La flessibilità dei percorsi sul piano didattico e organizzativo consentirà di passare tra diversi settori, non solo per offrire la possibilità agli studenti di mantenere una certa capacità orientativa, ma in considerazione della complessità pluridisciplinare sempre più praticata dai comparti tecnologici e produttivi.

Un’altra novità che viene raccomandata è la stipula di contratti di prestazione d’opera con esperti esterni per le attività di insegnamento. Qui ci sono precedenti negli ITS e nel sistema regionale non solo all’interno di tirocini aziendali, ma la rigidità delle politiche del personale docente porrà dei grossi problemi alle classi di concorso, che andrebbero rese più aperte e interdisciplinari, mentre sono ancora legate ad un sapere parcellizzato e ad una didattica trasmissiva e inadatte a veicolare contenuti sempre più complessi. Il tentativo di avere anche soltanto una parte dell’organico negoziato direttamente con le scuole, introdotto dalla “buona scuola”, è stato progressivamente affossato e quando ancora venivano assegnati a scopo di potenziamento docenti che da quel determinato tipo di scuola non erano richiesti.

La sperimentazione potrà altresì prevedere accordi di partenariato volti a definire la coprogettazione dell’offerta formativa e la definizione di contratti di apprendistato. Questo chiama in causa non solo una giustapposizione di attività con soggetti esterni, ma che questi entrino nel merito della progettazione stessa, come accade per i patti territoriali o per svolgere progetti formativi a partire dal lavoro, sapendo quanto di più è caro al docente, la sua libertà di insegnamento.

La scuola, secondo il ministro, potrà diventare un laboratorio non solo per l’apprendimento, ma anche per la produzione e il mercato. La capacità di valorizzare le opere dell’ingegno e di proprietà industriale, finora confinate in remote possibilità previste dai decreti di contabilità, ritornano alla ribalta, ponendo alla scuola un forte impegno, ma anche il prestigio di poter stare al passo con le imprese. Allora torniamo all’antico, ai tempi del boom economico nel quale era la scuola stessa a trainare il sistema produttivo locale, prima che seppur con il nobile fine della formazione dei giovani diventasse una struttura burocratica pesante da sopportare oltre che per gli studenti anche per la realtà del territorio. Si spera che la nuova filiera tecnologico-professionale possa riprendere oltre che qualità anche vivacità per stare in un rapporto con autorevolezza e svolgere la sua funzione formativa per lo sviluppo sociale e produttivo.