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Agenda del Dirigente scolastico 2016-2017

Le copie possono essere richieste alla segreteria nazionale o alle segreterie provinciali Uil Scuola
(gli indirizzi e i recapiti sul sito Uil Scuola nella sezione ‘dove siamo’)

La sindrome del libro di testo

La sindrome del libro di testo

di Giovanni Fioravanti

 

Con l’inizio dell’anno scolastico si ripropone il tema del caro scuola per le famiglie, scuola mia quanto mi costi! La scuola chiede a ciascuno di attrezzarsi: libri, materiale didattico e quant’altro; è perfino invalso l’uso che, soprattutto all’ingresso nella scuola primaria e secondaria di primo grado, gli insegnanti forniscano alle famiglie la lista delle strumentazioni necessarie ad affrontare l’impegno scolastico, solitamente un impegno di banco, ascolto e attenzione. Ovviamente su tutto prolifica l’industria dell’editoria scolastica e l’indotto che gravita attorno ad essa. C’è una sorta di vegetazione che si innesca nel corpo della scuola che ormai si dà per scontata e che si alimenta per via di simbiosi parassitaria, qualcosa di cui nonostante l’autonomia gli istituti scolastici pare non siano in grado di liberarsi.

Secondo i dati del rapporto Eurydice del 2012, i soli paesi europei che impongono agli insegnanti l’uso dei libri di testo sono Grecia, Cipro e Malta, che sono, peraltro, gli unici paesi in cui la selezione dei libri di testo è compiuta a livello centrale.

E allora c’è da chiedersi perché nonostante l’autonomia didattica, organizzativa e di sperimentazione sancita del DPR 275 del 1999, nelle nostre “buone scuole” continui a resistere un arnese così vecchio ed equivoco come il libro di testo in tempi di nuove tecnologie che mettono a disposizione in tempo reale la biblioteca e l’emeroteca più grandi del mondo. Come mai dai tempi di “Dio, patria e caramella” alla biblioteca di lavoro di Mario Lodi il libro di testo continua a resistere come sintomo di una scuola incapace di cambiare se stessa? È una questione grave che denuncia una scarsa spinta al rinnovamento e la resistenza di ampie sacche di pigrizia e di ignoranza.

Nell’altra società, che è il mondo separato della scuola in cui da noi s’usano aggregare per ore quotidiane le infanzie e le adolescenze, si continuano a celebrare antiche usanze e rituali che hanno negli insegnanti i loro sacerdoti, mentre la forza del verbo risiede tra le pagine dei libri di testo, tutti uguali come i messali in chiesa, specificatamente scritti per l’uso scolastico, per onorare le richieste del sacro dio “programma” o “curricolo standard”, secondo una versione più aggiornata del lessico.

Pensiero, intelligenza, creatività non abitano le nostre aule dove la mediocrità degli insegnamenti nutre altra mediocrità negli allievi in una sorta di coazione a ripetere.

Del resto perché meravigliarsi, quando il sito del Miur celebra il libro di testo come “…lo strumento didattico ancora oggi più utilizzato mediante il quale gli studenti realizzano il loro percorso di conoscenza e apprendimento. Esso rappresenta il principale luogo di incontro tra le competenze del docente e le aspettative dello studente, il canale preferenziale su cui si attiva la comunicazione didattica.”

Non so se l’autore di questo testo, lo stesso ministero, si rendano conto dell’idea di scuola che propagandano: il libro di testo come percorso di conoscenza e apprendimento… luogo di incontro tra docenti e studenti… canale della comunicazione didattica… Questa sarebbe la buona scuola del ventunesimo secolo? L’idea più malinconica di scuola, di sapere in pillole, di morte della ricerca, di costruzione del sapere, di confronto tra intelligenze. In questa scuola cattedre, banchi e libri di testo sono gli unici ad essere a loro agio, ciò che non potrà mai essere a proprio agio sono le menti dei nostri studenti.

C’è da chiedersi se esistono docenti in grado di far scuola senza il pannolone del libro di testo, c’è da chiedersi cosa si faccia nel nostro paese per far crescere professionalità docenti del tutto nuove, al passo con le sfide dei tempi che viviamo, ma che soprattutto attendono la vita delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi. Le nostre sono scuole ancora chiuse al sapere, non c’è vita, non c’è dinamica, e soprattutto sono troppo costose per le famiglie che pagano cara una formazione sempre più scadente.

Ma pare che almeno in materia di libri di testo il ministero preferisca stare dalla parte del “si è sempre fatto così” quello che la “Buona scuola” al suo esordio si proponeva di superare, per “pensare in grande”, prometteva. Per il momento il grande non si vede e il “si è sempre fatto così” resiste con la partigianeria dello stesso Miur.

Realizzare una scuola aperta, quale laboratorio permanente di ricerca, sperimentazione e innovazione didattica…” “Scuola aperta”, “laboratorio permanente”, dove “permanente” è l’opposto di “saltuariamente”, mica l’hanno scritto persone da una vita didatticamente eversive come il sottoscritto, è solo il testo del comma 1 dell’articolo 1 della legge 107 di riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione. Al momento le uniche cose che le nostre scuole promettono di aprire sono le pagine dei quaderni e dei libri di testo sui banchi nelle aule.

Continuo a credere che “la buona scuola” non sia in grado di curare i mali del nostro sistema nazionale di istruzione e formazione, perché neppure l’accanimento terapeutico può pretendere di tenere in vita nel terzo millennio un “sistema” scolastico, sottolineo sistema, che ha fatto da tempo il suo tempo e che meriterebbe di conquistarsi finalmente il riposo eterno.

Il doposcuola Abracadabra

Il doposcuola Abracadabra
Primi passi per nuove opportunità culturali e sociali a disposizione della comunità

di Federica Artioli

 

Introduzione

Il doposcuola Abracadabra-Cadè rientra nel progetto Campus, promosso dal Comune di Reggio Emilia nella stagione 2015-2016, che coniuga attività scolastiche, ricreative e sportive rivolte a sedici realtà territoriali del Comune.

Il progetto Campus ha inteso offrire spazi educativi pomeridiani in cui sia stato possibile svolgere i compiti, ma anche praticare attività ludico-motorie ed è stato realizzato in stretta collaborazione con le società sportive e il volontariato sociale.

Nella frazione di Cadè, che conta circa un 25% di cittadini non italiani residenti, l’attività di doposcuola, rivolta ai bambini della locale scuola primaria, era iniziata già due anni prima, grazie all’iniziativa di alcuni volontari, e si teneva nei locali della parrocchia. Il recente ingresso dell’iniziativa in un progetto comunale strutturato ed il trasferimento del doposcuola all’interno dell’edificio scolastico tendono a sottolineare la centralità della scuola nell’ambito della “città educante”, con l’edificio che si apre al territorio e alle famiglie, nell’ottica di generare un embrione che potrebbe portare, nei prossimi anni, alla creazione – dentro alla scuola – di un piccolo spazio culturale dotato di giochi, libri e attività di supporto a servizio di questa zona del forese [1].

 

Utenti, obiettivi e attività di Abracadabra

Nella nostra realtà, i bambini della scuola primaria “Paola Valeriani” di Villa Cadè che frequentano l’iniziativa sono stati proposti dalle insegnanti, con le quali il nostro gruppo di volontari è stato costantemente in contatto, che hanno segnalato gli alunni maggiormente bisognosi di sostegno scolastico e socio-relazionale.

Abbiamo ricevuto una trentina di adesioni iniziali, ma gli accessi settimanali non sono risultati costanti per gli arrivi in corso d’anno e la discontinuità nella frequenza da parte di alcuni, registrando una presenza media di 24 bambini.

Gli obiettivi posti sono di aumentare l’autonomia nello svolgimento dei compiti, migliorare l’autostima dei bambini, incentivare spazi di socialità e condivisione, accrescere la responsabilizzazione dei bambini nei confronti dei propri doveri scolastici e nell’aiuto e rispetto reciproci, sviluppare  relazioni  interpersonali  positive, che limitino le occasioni e gli stati di disagio ed emarginazione, promuovere le  attitudini  e le inclinazioni innate di  ogni  singolo  alunno, migliorare la sensibilità nel rispetto dell’ambiente in cui si vive (scolastico, familiare, sociale) [2].

Le attività del doposcuola Abracadabra sono di tipo didattico e comprendono sostegno nello svolgimento dei compiti e supporto nell’acquisizione del metodo di studio e di abilità organizzative, ma anche di tipo ludico-motorio, con giochi e attività sportive in palestra. Lo scopo non è di terminare i compiti della settimana, ma seguire e supportare i bambini nel loro percorso di apprendimento e stimolare socializzazione e comunicazione attraverso il canale non verbale. Per questo, ai genitori, è stata spiegata la mission dell’iniziativa che però non tutti hanno condiviso, forse per la scarsa conoscenza della lingua o altri bisogni, tanto che, a volte, qualche bambino ha insistito per rimanere al banco anziché unirsi subito agli altri per le attività in palestra.

Le attività del doposcuola sono iniziate nel mese di ottobre 2015 e si sono tenute tutti i giovedì pomeriggio dalle 15 alle 17.30, fino al mese di dicembre, nei locali della parrocchia. Da giovedì 7 gennaio 2016 le attività di Abracadabra si sono trasferite nei locali della scuola, dove è stato possibile usufruire anche della palestra scolastica, e si sono protratte fino alla prima settimana di giugno 2016.

La fascia oraria dalle 15 alle 16.30 è dedicata ai compiti: per una migliore organizzazione, i bambini hanno formato gruppi in base alla classe frequentata, ciascuno dei quali è stato seguito da due o più volontari, in base alla disponibilità. Il gruppo più numeroso è stato quello di quinta, di cui chi scrive si è occupato insieme ad altri tre volontari, contando inizialmente dodici/tredici bambini, per poi ridursi negli ultimi mesi a otto/dieci. Dalle 16.30 alle 17.30 un educatore incaricato dal Comune di Reggio Emilia ha seguito i bambini nelle attività ludico-motorie.

 

Il doposcuola Abracadabra cambia casa: la parola ai bambini

Durante il mese di dicembre 2015 avevamo preannunciato ai bambini l’imminente cambiamento di sede del doposcuola e chiesto al gruppo di quinta cosa ne pensassero. Si erano mostrati abbastanza contenti, ma l’avvenimento non mostrava per essi un forte coinvolgimento. Evidentemente il luogo non rivestiva fondamentale importanza: era un luogo, punto.

Il 7 gennaio 2016 ci siamo ritrovati davanti al cancello della scuola, pronti ad entrare. Abbiamo atteso che la bidella ci aprisse e poi ci siamo recati al primo piano, nelle aule che ci avevano assegnato. Per la maggior parte dei volontari tutto ciò costituiva una novità, mentre per molti di noi, nati e cresciuti nella frazione, si trattava di “un ritorno” e sapevamo muoverci con disinvoltura tra scale, locali e corridoi. I bambini, con naturalezza e padronanza, prendevano posto attorno ai tavoli. Abbiamo stimolato i bambini di quinta a descrivere con una parola o una frase le prime impressioni, il loro stato d’animo, i loro sentimenti rispetto alla nuova sistemazione.

Ecco ciò che hanno espresso: “forte”, “eccitante”, “fantastico”, “una cosa strana”, “rumoroso”, “entusiasmante”, “bello”, “favolistico”, “mitico”, “stupefacente”.

La maggioranza dei bambini si è espressa in modo molto positivo rispetto alla nuova esperienza. Qualcuno aveva già percepito però alcuni aspetti critici del nuovo assetto e li aveva evidenziati. Le aule del primo piano, spaziose e luminose, richiedevano la convivenza di due o più gruppi nella stessa stanza, a differenza dei locali della parrocchia in cui vi erano locali in numero sufficiente per permettere ad ogni gruppo-classe la propria autonomia.

La rumorosità indirizza però verso un aspetto educativo: stimola i bambini ad acquisire maggiore attenzione nei confronti degli altri e verso sé stessi, abituandosi a parlare sottovoce e a muoversi lentamente nel rispetto degli spazi e delle persone.

A conclusione dell’esperienza, è possibile affermare che i bambini hanno migliorato i loro comportamenti, in termini di educazione e rispetto dei compagni che abitavano gli stessi spazi. Grazie all’osservazione, abbiamo nei mesi attuato spostamenti, per giungere ad abbinare gruppi nella stessa aula con l’intento di stimolare comportamenti positivi e fare in modo che potessero individuare modelli di condotta da imitare, soprattutto per coloro che mostravano maggiori difficoltà nel mantenere l’attenzione e il controllo dei movimenti.

 

Conclusioni e possibili sviluppi futuri

L’iniziativa del doposcuola si affianca ai laboratori musicali e artistici che si sono tenuti nell’anno scolastico da poco concluso presso la scuola di Cadè in altri giorni della settimana. In questo modo, tutti gli alunni della scuola hanno avuto la possibilità di svolgere attività pomeridiane.

Il doposcuola rappresenta una notevole risorsa per contrastare la dispersione scolastica. Il disagio su cui si cerca di intervenire è legato allo scarso rendimento scolastico, ma è anche di tipo psicosociale.

Il doposcuola dovrebbe configurarsi come luogo di promozione del benessere, di opportunità per bambini italiani e stranieri per socializzare con i pari, vivere relazioni positive con gli adulti, essere seguiti, motivati e sostenuti nell’affrontare le difficoltà scolastiche. L’ideale sarebbe aprire le attività del doposcuola a tutti i bambini della scuola che richiedano uno spazio in cui poter passare del tempo con i coetanei, coinvolgendo anche coloro che non presentano difficoltà di apprendimento o problemi di tipo relazionale.

Rivolgendosi prioritariamente a una utenza costituita da alunni stranieri, a forte rischio di emarginazione sociale, di trascuratezza da parte delle famiglie e di insuccesso e abbandono scolastico, il doposcuola può correre il rischio di configurarsi come un “ghetto” o come un “servizio sociale”, con conseguente allontanamento della comunità e delle sue risorse. Se invece il doposcuola si pone come un soggetto inserito nella comunità e nel territorio, aperto all’esperienza di tutti i bambini, il rapporto con le famiglie diventa maggiormente interattivo e reciprocamente arricchente [3].

Siamo consapevoli che un pomeriggio alla settimana possa essere inadeguato rispetto alle necessità dei bambini: essi stessi lo hanno sottolineato dicendo: “Io vorrei che ci fosse tutti i giorni il doposcuola!”. Auspichiamo di poter aumentare il numero di pomeriggi di apertura del doposcuola, anche per poter accogliere altri bambini che frequentano la scuola di Cadè, costituendo per l’intera comunità scolastica un luogo di aggregazione, di accoglienza, di inclusione, di relazione, di sostegno e di arricchimento.

Tra gli sviluppi futuri di questa attività individuiamo un possibile coinvolgimento dell’Università, attraverso la presenza di tirocinanti per attività in classe e nel doposcuola, rappresentando un ponte tra l’esperienza scolastica e le attività pomeridiane; figure che, a stretto contatto con i bambini, possano cogliere i loro reali bisogni ed orientare il sostegno didattico e relazionale nel modo più idoneo per ciascuno di essi.

A metà gennaio, alle attività di doposcuola, è stato affiancato un corso di alfabetizzazione per le donne straniere, molte delle quali mamme di bambini della scuola. Questo corso si è svolto negli stessi locali della scuola e nella fascia oraria in cui i bambini sono in palestra ed ha costituito una opportunità per le mamme straniere di entrare a far parte della comunità scolastica e sociale del territorio in cui vivono, di dimostrare ai propri figli la loro volontà a essere parte attiva nella loro crescita e di collaborare nella rete educativa in atteggiamento di reale incontro tra le agenzie educative, impegnandosi a favore della crescita armonica delle nuove generazioni [4].

 

Bibliografia e Sitografia

 


[1] http://www.municipio.re.it/retecivica/urp/retecivi.nsf/PESIdDoc/B7B1F6A1F5762495C1257EBC0041F3F5/$file/villacella_19_novembre_laboratorio2.pdf

[2] http://www.ilfarosociale.it/node/181

[3] De Bernardis A. (a cura di), Educare altrove: l’opportunità educativa dei doposcuola, FrancoAngeli srl, Milano, 2005, pp.13-14

[4] Toffano Martini E., Ripensare la relazione educativa, Edizioni La Biblioteca Pensa MultiMedia, Lecce, 2007, p. 89

Gambe claudicanti?

Gambe claudicanti?

di Domenico Ciccone

 

La struttura del Mega apparato di valutazione delle scuole italiane, lungi dall’assomigliare, almeno alla lontana, a quelli dei sistemi scolastici che hanno una tradizione in tal senso più o meno lunga ma rilevante, si pone sempre di più come un ulteriore e preoccupante fardello per le Scuole Autonome.

Nel corso di qualche lustro, le scuole italiane hanno imparato ad autovalutarsi, lo hanno fatto senza grossi clamori, senza autocelebrazioni, con rigore e scrupolo. La dimostrazione di quanto affermo sta nei risultati del RAV, con il quale, per ammissione pubblica, da parte di qualunque portatore di interesse, la scuola militante ha dimostrato di saper essere obiettiva, di saper riflettere, di saper fare problem posing e problem solving, senza compromettere la propria organizzazione e , soprattutto, il proprio equilibrio istituzionale.

Nel frattempo, le tre gambe, INVALSI, INDIRE e Corpo Ispettivo, hanno continuato la loro incessante opera di supporto e di sostegno alle scuole che, non avendo altro da fare, hanno , dal canto loro, continuato a divagare su rubriche di valutazione, priorità strategiche, potenzialità e limiti delle proprie attività.

Peraltro, tutte le scuole hanno anche fondato, quest’anno stesso, un Piano Triennale dell’Offerta formativa nel quale la coerenza del rapporto tra le criticità, le attività intraprese per arginarle e superarle e le relative pianificazioni di miglioramento per stabilizzarne gli esiti positivi, hanno dimostrato , nella maggior parte dei casi, capacità, coerenza ed equilibrio. Sono, infatti, residuali ed ininfluenti, sul piano numerico, le Istituzioni scolastiche che mostrano scollamenti ed incoerenze strutturali, di natura insanabile, tra il RAV, Il PdM ed il POF triennale. Quella che il mio amico e mentore Giancarlo Cerini ha chiamato, fin dall’inizio, “ Quarta Gamba “ del Sistema Nazionale di Valutazione e cioè LA SCUOLA AUTONOMA, ha retto bene; robusta, efficiente ed efficace nel mettere in sesto quanto le riguarda in materia di Valutazione.

Per adesso, quasi nessuno si è accorto di aver avuto supporti decisivi dalle altre tre gambe.

L’INVALSI svolge un lavoro rigoroso ed incontestabile sul piano scientifico e dal canto del rigore statistico. Tuttavia, se ancora oggi, uno strumento come le prove standardizzate, che sono quasi l’unica attività cui Villa Falconieri attende, non ha ancora messo d’accordo tutti gli attori di questo processo e non consente ad essi di fruire appieno delle potenzialità offerte da una rilevazione standardizzata degli apprendimenti, certamente non è soltanto colpa delle scuole e dei loro insegnanti.

L’INDIRE, si è limitato a mettere a disposizione un modello per il Piano di Miglioramento, che ha messo in crisi non poche scuole ancorché pensato come modello non obbligatorio ma semplice riferimento procedurale. Abbiamo tutti passato non poche notti per decifrarne l’astruso sistema che, pur nella sua organicità indiscutibile, ha rappresentato per gli operatori impegnati un ulteriore problema da affrontare, per ricomporne , a livello locale, la struttura fortemente complessa, pensata erga omnes, e pertanto poco adatta alla logica dell’Autonomia scolastica.

E veniamo alla terza gamba. Il Corpo Ispettivo scolastico italiano, composto da professionisti intelligenti, capaci, super selezionati. Nel caso dell’ultimo concorso per titoli ed esami, la commissione ha ritenuto, sulla scorta delle prove concorsuali, di non poter nemmeno portare a compimento il mandato di selezionare 145 persone, tra tutti i concorrenti, fermandosi a meno della metà. Quindi, troppo pochi gli ispettori, per seguire e supportare le scuole, tante scuole in attesa di ricevere consigli, suggerimenti, modelli e procedure per migliorare la qualità dei servizi di formazione erogati.

E allora si ricorre ad un’altra soluzione, quella di selezionare, tra personale scolastico e non, mediante una procedura discutibile ma consueta, altri professionisti capaci di seguire, con efficacia e rigore, le scuole nel difficile compito del miglioramento e della valutazione, intesa quest’ultima non come compito premiale ma come processo di verifica e ristrutturazione di processi e modelli. Non mi soffermo sulle polemiche, proteste, esposti e ricorsi; di questi ultimi mesi, per ciò che attiene alla suddetta procedura, e di questi ultimi giorni per l’arroganza e la supponenza di taluni. E taccio, sul tema, per opportunità e stile.

Credo che allo stato attuale, però, sia importante e necessario riflettere su una serie di questioni irrinunciabili:

  • Le scuole hanno ancora la speranza che nei difficili compiti e nelle importanti sfide che le attendono ci siano tre gambe solide a supportarle?
  • Il personale della scuola, Dirigenti scolastici in testa, può confidare in approcci rigorosi, efficaci, leali e, soprattutto, competenti da parte dei consulenti e dei gruppi che le visiteranno?
  • Il Servizio Nazionale di Valutazione, seppure non nato indipendente, autonomo e libero, alla stregua dell’OFSTED britannico, potrà essere lo strumento per rendere migliore il nostro sistema scolastico o diventerà un’ altra pesante zavorra da gestire e da trasportare, insieme alle quotidiane, settimanali, mensili, annuali e pluriennali incombenze che già ci affliggono?

Questa serata afosa di fine agosto mi lascia con serie preoccupazioni.

Amusia: la scuola italiana è pronta ad affrontare tutti i DSA?

Amusia: la scuola italiana è pronta ad affrontare tutti i DSA?

di Giuseppe Toto

 

Lo studio dei Disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) in Italia si è indirizzata nell’ultimo quindicennio nella diagnosi e nel trattamento di alcuni deficit che compromettono alcune abilità scolastiche tralasciandone altre. La diagnosi dei DSA sono formulate seguendo importanti indicazioni provenienti da autorevoli documenti com la CC-ISS del 2011 e si concentrano aprioristicamente solo su alcune abilità dei soggetti (es. lettura, scrittura o calcolo). Negli stessi anni in cui in Italia furono pubblicati i primi documenti sui DSA, in America a partire dal 2003 fiorirono le prime ricerche sull’Amusia, un disturbo che solo recentemente ha ricevuto attenzione sulle riviste specialistiche italiane.

L’Amusia, ampiamente studiata e dibattuta riguarda la compromissione della comprensione, memorizzazione e della produzione di una melodia (o di suono) e, più in generale delle abilità e competenze musicali. La pedagogia speciale descrive due tipologie principali di amusie: quelle espressive, cioè determinanti la perdita di produzione delle abilità musicali, e quelle ricettive in cui è compromessa la comprensione di brani musicali. La semplificazione proposta semplifica e ascrive il deficit alla specificità dell’ambito musicale, in realtà la letteratura neuroscientifica lo rappresenta come un disturbo complesso e latente che non invalida un’unica abilità, ma molteplici aree e funzioni cognitive. Faccio riferimento alla compromissione della mobilità fine nell’esecuzione di brani (aprassia), al disturbo di scrittura del brano musicale (agrafia), alla difficoltà di lettura dei suoni (alessia) e non da ultimo alla dimenticanza delle melodie (amnesia). La ricerca clinica ha anche rilevato l’esistenza di casi di comorbilità di più disturbi come per esempio l’Afasia, cioè i disturbi di comprensione e produzione del linguaggio. La sovrapposizione di questo deficit ad altri maggiormente conosciuti traccia una pista di ricerca nuova nel percorso neuroscientifico, poiché ne permette la descrizione da altri punti di vista e la formulazione di ipotesi sul loro ‘funzionamento’.

L’idea di fondo che veicola e pervade la ricerca non solo in ambito educativo è quella di dover supportare abilità immediatamente spendibili o che siano invalidanti rispetto alla vita quotidiana. In ambito psicopedagogico non è accettabili che il diritto alla ri-educazione riguardi soltanto, o principalmente, abilità cognitive di base e non la persona nella sua globalità. Suggestioni importanti circa questo approccio alla ricerca giungono da una ricerca americana del 2008 in cui si dimostra come un apprendimento efficacie delle lingue straniere sia correlato ad una maggiore attitudine all’apprendimento musicale nei bambini di scuola elementare, postulando la possibilità, già indicata da molti, che le competenze musicali e linguistiche potrebbero in parte essere elaborate su meccanismi neurali condivisi. Se il disturbo specifico di apprendimento ha una sua peculiarità, allora l’Amusia compromette una tipologia di apprendimento, di saperi e di conoscenze musicali, precipui del sistema formativo italiano.

La descrizione della molteplicità di sfaccettature che il disturbo presenta, non esime la riflessione pedagogica e psicologica dalla ricerca di strategie di diagnosi, di trattamenti e di eventuali riabilitazione del deficit, poiché evidenze sperimentali di autorevoli studi hanno inequivocabilmente testimoniato il completo recupero di questo deficit nei bambini (rispetto agli adulti, nei quali i trattamenti correttivi hanno prodotto risultati scarsamente valutabili) se preventivamente diagnosticati e affrontati con la giusta conoscenza dei metodi e delle teorie. Non da ultimo va ricordato come le abilità musicali soprattutto nei bambini siano fin dalla prima infanzia precursori di abilità sociali con il caregiver e tra pari e siano veicolo dell’intelligenza musicale. La riflessione pedagogica e psicologica, pertanto, non può esimersi dall’indagare l’impossibilità di uno studente ad acquisire abilità e sviluppare un’intelligenza musicale o la compromissione in un adulto di poter comprendere e eseguire un brano musicale. In quest’ottica, il recupero parziale o totale di queste abilità non può essere subordinato a concezioni di indispensabilità rispetto alla quale sia prioritario o esclusivo perseguire ciò che è utilizzabile nel quotidiano.

Sulla chiamata diretta, alias “incarico”

Sulla chiamata diretta, alias “incarico”
Commento su possibili effetti della l.107/15 e della nota min. 2609/16

di Gabriele Boselli

 

Da una ventina d’anni il nome di Minerva, dea della conoscenza, non riceve più onori nelle sale del Palazzo a lei intitolato di viale Trastevere; né in quei lunghi corridoi s’intravede più uno straccio d’idea da moltissimi anni. Vi sono tutti i sintomi della carenza di pensiero politico alto. Nella miglior tradizione del pensiero d’Occidente la politica (la politica, non il mestiere dei politicanti) non era un luogo, era il luogo di stabilimento dei fini, l’ambito di tutti gli ambiti, il punto da cui venivano stabiliti i valori comunemente riconosciuti nello Stato a ogni valore, il luogo della decisione su criteri del potere. Oggi il “dove” e “l’a che scopo” della società degli uomini, il “così deve essere”, in altre parole il “mondo dei fini” di cui scrisse l’ultimo Kant, l’intenzionalità politica riformatrice in genere non sono considerati se non retoricamente; vengono sostituiti con obiettivi cortissimi e coincidenti strettamente con quelli dei gruppi al potere. Vedi alternanza scuola/lavoro ai licei, che sottrae tempo ed energie alle discipline senza gran guadagno in termini di preparazione al lavoro.

Non che l’ideologia manchi ma si propone non come tale ma come “dato di fatto”; non sorprenda allora la sempre più diffusa demotivazione dei docenti e l’inversamente proporzionale esaltazione della dirigenza. A mancare sono certamente le idee. E senza queste, Plato docet, non vi è vero governo ma allestimento di strutture d’arbitrio e soggezione.

 

Uno strumento di possibile arbitrio

Una di queste è la chiamata diretta, alias “incarico” conferito dal Dirigente scolastico. Dopo essere stata sperimentata per secoli ed esserlo ancora nel sud d’Italia nell’assunzione dei braccianti agricoli, la chiamata diretta viene ora estesa dal Governo di Matteo Jobsact anche agli insegnanti. In verità manca ancora l’istituzione del caporalato ma diamo tempo al tempo e del resto qualche preside (raro ma perniciosissimo) si appresta già a tale ruolo.

Mentre esiste qualche requisito oggettivo di scelta nel caso dei braccianti (aspetto robusto, muscolatura possente, sguardo basso) e delle braccianti (bell’aspetto, etc.) nel caso dei docenti e delle docenti questi requisiti vengono a perdere di significato e l’interpretazione del curriculum e della congruità con il PTOF viene lasciata di fatto alla discrezionalità (ma anche al possibile arbitrio) del capo d’istituto. Gli stessi criteri prospettati dal MIUR sono non vincolanti ma “indicativi e non esaustivi” (nota min. 22 07 16). Nulla potrebbero contare anni di studio disciplinare ed esperienze, pubblicazioni cartacee o elettroniche presso riviste e collane di fascia A, contributi creativi apportati alle varie diramazioni del sapere. Potrebbero invece essere privilegiati soggiorni reali o virtuali presso enti accreditati (con quali criteri?), certificazioni linguistiche rilasciate da enti privati, frequenza di corsi per attività espressive e danza (trullallero trullallà!), l’insegnamento in aree a rischio (favoriti ancora una volta gli insegnanti delle scuole private campane); conoscere bene l’italiano o la matematica sarà del tutto indifferente. In ogni caso il sig. superDirigente getterà una rapida occhiata e deciderà tra sé e sé, senza specifici controlli interni o esterni alla scuola scientificamente attendibili, chi deve professionalmente vivere o morire. Discrezionalità di fatto illimitata, senza un credibile sistema di deterrenza dalle (poco probabili ma possibili) deviazioni eticamente condannabili o tecnicamente insostenibili.

 

Spessore culturale di poca ma sempre troppa dirigenza

La grande maggioranza dei dirigenti scolastici è composta di persone oneste, di elevata cultura e moralità che amano studiare, hanno molto da dire e da dare, non vedono gli insegnanti come dipendenti e sanno intrattenere (non “gestire”) con essi relazioni armoniche. Non amanti del prepotere, cercheranno di cavarsela con 107 e 2609 arrecando il minor danno possibile alla propria dignità e a quella delle persone –ora è proprio il caso di dirlo- assegnate.

Daremo anche per scontato il rispetto della legalità di tutti i dirigenti e dunque la loro insensibilità nella decisione ad argomenti quali il denaro o il sesso; consideriamo pure universalmente accertata la loro capacità di resistenza alle sollecitazioni delle eventuali sedi di zona di mafia, camorra o n’drangheta. Tale resistenza potrebbe fa l’altro trovare supporto nelle reti di ambito: queste, variando i confini del potere amministrativo, potrebbero consentire al dirigente onesto di eluderne i dettati.

Occorre però, fatto più grave sul piano numerico, considerare i limiti della capacità di pochi ma sempre troppi dirigenti nel riconoscere il talento, dato che solitamente la capacità di riconoscerlo è riservata a chi ne possiede. Una parte della dirigenza è stata assunta senza veri concorsi per titoli ed esami oppure li ha superati in regioni (es. Campania o Sicilia) ove i candidati dichiarati idonei erano il triplo dei posti messi a concorso. Candidati che poi sono stati sistemati anche nelle regioni ove i concorsi erano stati condotti con il giusto rigore.

Va anche considerata la debole resistenza dei culturalmente meno solidi agli effetti perversi dei corsi di formazione; ivi ha dominato un’ideologia padronale ovvero managerialistica, giuridicistica o efficientistica, comunque tutt’altro che pedagogica ma da “uomo solo al comando” della “squadra”. Gli effetti di questi corsi si potrebbero riverberare anche nella scelta dei docenti, privilegiando in essi l’obbedienza su ogni altra virtù.

Piacerebbe alla sorella di Nietsche questa tipologia di superdirigenti resa “al di là del bene e del male” da normative recenti come la 107/2015 ma anche da un clima politico neoautoritario (vedi riforma della Costituzione); è una frazione certamente minima ma in grado comunque di intristire molte, troppe vite di docenti preparati e vocati all’insegnamento. Anzichè dialogare sui propri studi e sui propri alunni molti docenti finiranno per parlare solo di PTOF, tabelle di valutazione e altri orpelli di cattiva burocrazia, quando non per sgomitare e farsi belli agli occhi del Superdirigente. Certo, la conflittualità fra docenti non può che aumentare, accrescendo di riflesso il potere di che dirige.

 

Possibilità di resistenza

Se la diagnosi è fin troppo facile, la cura di stati di malattia prevedibilmente rari ma gravissimi come il mal di I S I S ( Io Sono Il Signore) nei dirigenti e di RATTO (Ruffianeria Anomia Tempismo Tafazzismo Obbedienza) nei docenti è obiettivamente difficile ma non impossibile:

sostenere come Collegio (innominato nella più recente normativa ma non ancora abolito) il criterio dell’esperienza e della preparazione culturale e scientifica su ogni altra considerazione;

stringersi attorno ai sindacati, dato che per limitata che sia la loro capacità di difesa non ne abbiamo molte altre;

fare sistematicamente ricorso ai giudici del lavoro e/o ai TAR: la normativa in proposito è contraddittoria specie rispetto alla norma costituzionale per cui i posti pubblici vanno attribuiti per concorso.

Anche per quando riguarda la libertà d’insegnamento, è chiaro che l’incertezza e la possibilità della non chiamata (o di finire negli elenchi del Provveditorato come quelli-che-nessuno-vuole) costituiscono un vulnus assai grave. Consola che dalle nostre parti non riusciamo a far bene le cose buone, ma nemmeno quelle potenzialmente esiziali, quindi i danni apportati alla funzione docente dovrebbero essere limitati.

Assegnazione temporanea triennale del docente con figli di età inferiore a tre anni

Scuola: assegnazione temporanea triennale del docente con figli di età inferiore a tre anni

I benefici previsti dall’art. 42-bis d.lgs. 151/01 in materia di ricongiungimento familiare sono fruibili anche dal docente con figli di età inferiore a 3 anni.

(a cura dell’Avv. Giancarlo Visciglio del Foro di Lecce)

 

A pochissimi giorni dalla pubblicazione dei trasferimenti e dell’apertura dei termini per la presentazione delle domande di assegnazione provvisoria – “ultima spiaggia” per chi, all’esito dei primi, non avrà ottenuto una sede che permetta di far fronte alle esigenze della propria famiglia – per i docenti con figli di età inferiore a tre anni si presenta una possibilità in più che si affianca, senza sostituirla, all’assegnazione provvisoria del personale docente, educativo ed A.T.A. disciplinata dal vigente Contratto Collettivo il quale, come noto, li colloca tra le ultime posizioni, dopo i beneficiari della L. 104/92, con chance di accoglimento delle relative istanze spesso pressoché nulle.

I Tribunali di tutta Italia, da Lecce a Sondrio, passando da Roma, Milano, Salerno, Perugia, Mantova, Verona, Monza, Ivrea, Lucca, Siena, ecc., con decine di ordinanze, molte delle quali collegiali, rese in favore di docenti patrocinate dallo scrivente avvocato, hanno ormai definitivamente sancito il diritto del docente con figli di età inferiore a tre anni, ai sensi e per gli effetti dell’art. 42bis D.lgs. 151/01, di godere della c.d. “assegnazione temporanea” per un periodo della durata complessiva non superiore a tre anni, presso una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale l’altro genitore esercita la propria attività lavorativa, subordinatamente alla sussistenza di un posto vacante e disponibile di corrispondente posizione retributiva e previo assenso delle amministrazioni di provenienza e di destinazione.

L’ultima ordinanza favorevole è stata resa l’11.7.2016 dal Tribunale di Torino, che ha condannato il M.I.U.R. a disporre l’assegnazione temporanea triennale di un’insegnate in provincia di Catania, ai sensi dell’art. 42-bis del d.lgs. n. 151/2001, accogliendo il ricorso d’urgenza con cui la stessa, assistita dallo scrivente avvocato, si era vista negare il ricongiungimento familiare nella provincia ove l’altro genitore del bambino prestava l’attività lavorativa.

La pronuncia, che segue precedente ordinanza collegiale che aveva definito i confini della fruibilità del beneficio nel comparto scuola, chiude una vicenda giudiziaria lunga e travagliata iniziata nel settembre 2015. Il caso posto all’attenzione del Tribunale ha visto protagonista, suo malgrado, un’insegnante di scuola primaria, titolare in provincia di Torino e madre di un bimbo di età inferiore a tre anni, che aveva richiesto di poter essere assegnata a prestare servizio per tre anni, come previsto dalla norma, ad una sede ubicata nella provincia di Catania ove il padre del bambino svolgeva la propria attività lavorativa. Per quanto le ragioni sottese all’istanza presentata fossero evidentemente di assoluto rilievo e la docente fosse in possesso di tutti i presupposti previsti dalla legge (essendo assunta a tempo indeterminato, avendo un figlio di età inferiore a tre anni ed essendo, ovviamente, abilitata all’insegnamento), il M.I.U.R. non dava accoglimento all’istanza, omettendo persino di comunicare le obbligatorie ragioni del dissenso.

La docente, pertanto, proponeva ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c. innanzi al Giudice del Lavoro del Tribunale di Torino il quale, con l’ordinanza in commento, ha stabilito che le ragioni di tutela del diritto al ricongiungimento familiare e all’assegnazione temporanea fossero prevalenti sulle esigenze di servizio della pubblica amministrazione.

Lavoratrici madri e lavoratori padri dipendenti del comparto scuola della Pubblica Amministrazione, dunque, oltre alla domanda di assegnazione provvisoria, possono presentare l’ulteriore e diversa domanda di assegnazione temporanea, disciplinata dall’art. 42 bis del D.Lgs. 151/2001.

 

UN OCCHIO ALLA LEGGE

(a cura dell’avv. Giancarlo Visciglio del Foro di Lecce – tratto dal sito www.avvocatovisciglio.it)

L’ASSEGNAZIONE TEMPORANEA DEL PUBBLICO DIPENDENTE

AI SENSI DELL’ART. 42 BIS DEL D.LGS. 151/01.

Il Decreto Legislativo n. 151/2001 [“Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità”], nel disciplinare “i congedi, i riposi, i permessi e la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori connessi alla maternità e paternità di figli naturali, adottivi e in affidamento, nonché il sostegno economico alla maternità e alla paternità”, reca in sé un complesso di norme davvero importante per la tutela e il sostegno della famiglia.

Una delle più rilevanti, anche alla luce della durata del beneficio che è in grado di assicurare, è certamente quella contenuta nell’art. 42 bis in cui il Legislatore, recependo le direttive comunitarie dirette a tutelare l’istituto della famiglia, ha previsto che: “1. Il genitore con figli minori fino a tre anni di età dipendente di amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, può essere assegnato, a richiesta, anche in modo frazionato e per un periodo complessivamente non superiore a tre anni, ad una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale l’altro genitore esercita la propria attività lavorativa, subordinatamente alla sussistenza di un posto vacante e disponibile di corrispondente posizione retributiva e previo assenso delle amministrazioni di provenienza e destinazione. L’eventuale dissenso deve essere motivato e limitato a casi o esigenze eccezionali. L’assenso o il dissenso devono essere comunicati all’interessato entro trenta giorni dalla domanda. 2. Il posto temporaneamente lasciato libero non si renderà disponibile ai fini di una nuova assunzione.”.

La norma rientra inequivocabilmente tra quelle poste a tutela dei valori inerenti la famiglia e, in particolare, la cura dei figli minori in tenerissima età con entrambi i genitori impegnati in attività lavorativa, assicurati dagli art. 29, 30, 31 e 37 della Costituzione i quali, nel postulare i diritti-doveri dei genitori di assolvere gli obblighi loro assegnati nei confronti della prole, promuovono e valorizzano gli interventi legislativi volti a rendere effettivo l’esercizio di tale attività.

Lungi dal mirare a riconoscere un beneficio al lavoratore, dunque, nell’esclusivo interesse del minore, vero soggetto debole della tutela, l’art. 42 bis D.lgs. n. 151/2001 ha la finalità precipua di favorire il ricongiungimento di entrambi i genitori ai figli ancora in tenera età e la loro contemporanea presenza accanto ad essi nella fase iniziale della loro vita, garantendo, in tal modo, la massima unità familiare e salvaguardando esclusivamente le esigenze organizzative e funzionali della P.A., allorché pone quale condizione di applicabilità del beneficio la “… sussistenza di un posto vacante e disponibile di corrispondente posizione retributiva”.

Il prodotto della volontà legislativa è stato quindi un istituto volto a garantire il diritto del figlio sia naturale che adottivo a godere dell’assistenza materiale e affettiva di entrambi i genitori durante i primi anni di vita, come tradito anche dal fatto che la norma è contenuta nell’ambito del Testo Unico in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, nel contesto della c.d. legge sui congedi parentali (L. 8.3.2000 n 53).

Ambito di applicazione

Il richiamo della norma alle “amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni”, fa sì che del beneficio possano goderne i dipendenti di tutte le amministrazioni dello Stato e, pertanto, tutti i dipendenti di:

  • ministeri della Repubblica Italiana e loro articolazioni territoriali (ad es. motorizzazione civile, direzioni territoriali del lavoro, ufficio scolastico regionale ecc.);
  • istituti e scuole italiane di ogni ordine e grado, istituzioni universitarie (università e scuole superiori universitarie);
  • aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo (aziende autonome);
  • regioni, province, comuni, comunità montane e loro consorzi e associazioni;
  • enti pubblici di ricerca, istituti autonomi case popolari, camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni;
  • tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali (es.: ACI e ARPA);
  • amministrazioni, aziende sanitarie locali ed enti del Servizio sanitario nazionale;
  • Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e agenzie fiscali di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 (es.: agenzia delle dogane e dei monopoli, agenzia del territorio, agenzia del demanio, agenzia delle Entrate).

Presupposti

Il beneficio dell’assegnazione temporanea disciplinato dall’art. 42 bis del D.Lgs. 151/01 può essere richiesto in presenza dei seguenti presupposti soggettivi in capo al richiedente:

  1. essere dipendente a tempo indeterminato di una P.A.;
  2. essere genitore di un bambino di età inferiore a tre anni e avanzare l’istanza prima del compimento del terzo anno di vita del figlio; sul punto si evidenzia che la norma è pienamente applicabile anche ai genitori affidatari ed adottivi, ai sensi dell’art. 45 del D.Lgs 151/01, a condizione che l’istanza venga presentata entro i primi tre anni dall’ingresso del minore nella famiglia, indipendentemente dall’età dello stesso;
  3. essere in possesso della professionalità corrispondente al posto da ricoprire (ad es., l’insegnate abilitata all’insegnamento nella scuola dell’infanzia, non potrà richiedere l’assegnazione temporanea nella scuola primaria).

Dal punto di vista oggettivo, altresì, l’accoglimento dell’istanza è subordinato alla verifica della sussistenza di un posto vacante e disponibile di corrispondente posizione retributiva ed all’assenso delle amministrazioni di provenienza e di destinazione. L’istanza, per questo, dovrà essere inoltrata sia all’amministrazione di provenienza (per il rilascio del nulla osta) che a quella di destinazione (per l’adozione del provvedimento di accoglimento).

Durata del beneficio

La norma prevede che Il genitore con figli minori fino a tre anni … può essere assegnato … per un periodo complessivamente non superiore a tre anni….”.

È evidente, pertanto, che il beneficio possa estendersi al massimo per tre anni. Ciò è stato chiarito dal Dipartimento della Funzione Pubblica che con parere 192 del 4 maggio 2004, ha chiarito l’inciso Il genitore con figli minori fino a tre anni …” indica il requisito soggettivo dell’età del bambino, entro il quale può essere richiesto il beneficio, laddove invece quello “per un periodo complessivamente non superiore a tre anni…” indica la durata massima che lo stesso potrà avere indipendentemente dall’età del minore.

Diritto soggettivo o interesse legittimo?

Secondo la Giurisprudenza dominante, l’art. 42 bis, in deroga a qualsivoglia ulteriore configgente portato normativo, con l’unico limite obiettivo della disponibilità di posti ed in presenza degli specifici requisiti soggettivi, configura in capo al lavoratore richiedente un diritto soggettivo non assoluto e incomprimibile, ovvero, “diritto condizionato”, quello che la giurisprudenza amministrativa in materia qualifica come “interesse legittimo” cedevole di fronte a riconosciute superiori esigenze organizzative dell’Amministrazione, identificabili con il buon andamento del servizio (Tar Lazio-Roma, sez. I quater, 22.3.2007, n. 2488).

Tale inquadramento ha visto d’accordo anche tutta la Giurisprudenza del Lavoro che, implicitamente o esplicitamente, nell’esaminare le istanze avanzate dallo scrivente in favore di insegnanti e personale amministrativo del comparto scuola della P.A., da Sondrio a Lecce, si è posta sulla stessa linea.

Certamente non si è di fronte ad una mera facoltà in capo all’amministrazione di concedere discrezionalmente il trasferimento di sede, alla luce del principio di completezza dell’ordinamento giuridico che non ammette vuoti normativi né norme inutili o ridondanti. Ed infatti, pur utilizzando, il legislatore, l’espressione “il genitore… può essere assegnato”, non può essere taciuta la necessità di attribuire alla norma una qualche utilità, un “quid pluris” che altrimenti verrebbe a mancare, se si lasciasse il lavoratore in balia della discrezionalità della P.A. di concedere il consenso in presenza degli altri requisiti (età del figlio, presenza del posto in organico). Ciò è tanto più ragionevole ove si consideri che, se non fosse riconosciuta all’art. 42 bis la portata di un vero e proprio diritto soggettivo, nei limiti anzidetti, la norma non avrebbe una effettiva utilità nell’ambito dell’ordinamento. Anche senza la disposizione in parola, infatti, ben potrebbe il datore di lavoro accordare, su richiesta del lavoratore, l’assegnazione temporanea, sulla scorta dei propri poteri di organizzazione del personale (poteri che già gli erano riconosciuti certamente prima della novella), senza perciò dover essere vincolato ad un precipuo obbligo.

Del resto, pare evidente che, anche aderendo a quella minoritaria Giurisprudenza che ritiene sussistere in capo alla P.A. una mera facoltà di accogliere o meno l’istanza, tale facoltà avrebbe bisogno di ben precisi limiti, consistenti nel carattere non arbitrario e strumentale delle decisioni, affinché il vaglio della stessa non si risolva nell’esercizio da parte della P.A. di un potere meramente discrezionale, affrancato da qualsiasi controllo e sindacato anche da parte del Giudice. In questa direzione conduce l’onere di motivare il diniego posto dall’art. 42 bis in capo alla P.A., di modo che, verificata la congruenza e consistenza delle motivazioni addotte, l’interessato, prima, ed eventualmente l’organo giurisdizionale, poi, possano verificare la correttezza del suo operato.

A ciò si aggiunga che la norma è stata recentemente oggetto di importantissima modifica che rende ancora più ristretto lo spatium deliberandi del dissenso che la P.A. può opporre rispetto all’assegnazione temporanea.

L’art. 14, comma 7, della Legge 7 agosto 2015, n. 124, in vigore dal 28.8.2015, ha infatti modificato il primo comma dell’art. 42-bis inserendo, in coda all’inciso “L’eventuale dissenso deve essere motivato” già contenuto nella vecchia formulazione della norma, il seguente: “e limitato a casi ed esigenze eccezionali”.

La modifica, che bilancia in maniera evidente a favore del lavoratore la ponderazione di interessi che il datore di lavoro può compiere nel momento in cui individua ostacoli all’esercizio della prerogativa di riunione del nucleo familiare che la disposizione tende a favorire, pertanto, comporta non solo che la motivazione dovrà essere seria, ragionevole e verificabile e non mera formula di stile (ex plurimis: Trib. di Roma, ord. Coll. 8/8/2013), ma che dovrà anche esprimere esigenze realmente eccezionali, tali da giustificare il sacrificio dell’interesse, anch’esso costituzionalmente protetto, ma oggi certamente preponderante, alla tutela del nucleo familiare, e non potrà più essere identificato col mero disagio, ma con l’effettivo vero e proprio pregiudizio all’attività della p.a..

Conclusioni

La finalità del Legislatore di favorire il ricongiungimento di entrambi i genitori ai figli ancora in tenera età e la loro contemporanea presenza accanto ad essi nella fase iniziale della loro vita, richiederebbe, da parte delle PP.AA., un’attenta analisi delle istanze e, conseguentemente, una motivazione congrua e seria, idonea a far sì che il minore, soggetto debole cui si è inteso assicurare tutela, non venga ingiustamente privato dell’affetto e delle cure di entrambi i genitori.

Purtroppo, ancora oggi, non sono pochi i casi in cui le amministrazioni esitano negativamente le istanze, ricorrendo spesso a motivazioni sterili e formule vuote. Occorre pertanto non accettare passivamente le immotivate (o mal motivate) decisioni della PA, impugnandole davanti Giudici del lavoro ed amministrativi che, per fortuna, le hanno sin qui pesantemente censurate non poche volte. Da questo punto di vista, lo sforzo profuso dallo scrivente nella specifica questione, da ché è stata affrontata per la prima volta e sino ad oggi, è stato sempre massimo e tale continuerà ad essere, patrocinando e presenziando personalmente alle udienze di fronte all’organo Giudicante al fine di assicurare il maggiore sforzo per il raggiungimento dell’obbiettivo finale.

Modalità di presentazione della domanda.

La presentazione è subordinata, dal punto di vista soggettivo, alla sussistenza dei seguenti presupposti:

  1. che l’istante sia docente, educatore o A.T.A. con contratto a tempo indeterminato;
  2. che l’istanza venga inoltrata prima del compimento del terzo anno di vita del figlio;
  3. che l’istante sia in possesso della professionalità corrispondente al posto da ricoprire (nel senso che, ad es., chi ha conseguito l’abilitazione all’insegnamento nella scuola dell’infanzia, non potrà richiedere l’assegnazione temporanea nella primaria, ecc.).

Dal punto di vista oggettivo, altresì, l’accoglimento dell’istanza è subordinato alla verifica della sussistenza di un posto vacante e disponibile di corrispondente posizione retributiva ed all’assenso delle amministrazioni di provenienza e di destinazione. L’istanza, per questo, andrà inoltrata sia all’USP della o delle province presso cui si intende essere assegnati che a quello di titolarità per il rilascio del nulla osta.

L’Istanza, infine, dovrà essere corredata da:

  1. dichiarazione sostitutiva di certificazione dello stato di famiglia (a firma dell’istante);
  2. dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà (a firma del coniuge) che attesti l’attività esercitata e la provincia in cui viene svolta (in alternativa, può essere presentata dichiarazione a firma del datore di lavoro).

Sentenza

La svolta dell’autonomia? Sulla “chiamata diretta”

La svolta dell’autonomia? Sulla “chiamata diretta”

di Alessandro Basso

Alla fine la chiamata diretta ci sarà, i docenti saranno assunti direttamente dai dirigenti scolastici per completare l’organico dell’autonomia.

Fra le tante questioni problematiche, alcune a tratti dirimenti della legge sulla buona scuola, questa sicuramente è quella più innovativa perché scardina completamente l’attuale sistema di assunzione del personale.

L’atto finale deve ancora essere licenziato, attraverso la forma , probabilmente, delle linee guida da parte del Ministero.

Si tratta di una decisione politica molto forte, forse tra le più forti che sono state prese negli ultimi mesi, come se il governo trovasse l’ispirazione per prendere le decisioni forti nel mese di luglio.

La partita preparatoria non è stata semplice e ha visto protagonisti i sindacati e il sottosegretario Faraone, il quale, così come altre volte è accaduto, parrebbe essere stato disponibile (è d’obbligo il condizionale) a cedere molto di piu’, trovando un accordo per accontentare un po’ tutti e nessuno.

Un accordo con le parti sociali avrebbe avuto sicuramente il beneficio di diminuire la tensione che già il bonus sta rendendo piuttosto accesa. Di contro, però, avrebbe di fatto annacquato ulteriormente il senso della buona scuola, creando una gran confusione tra quello che è il dettato legislativo e la norma applicativa, peraltro cosa non assolutamente nuova nel nostro paese e nella scuola.

Negli scorsi giorni chi scrive si era sbilanciato notevolmente e in modo negativo contro la decisione di abbandonare la chiamata diretta e le righe che seguono servono per dare atto di una decisione più illuminata.

Si è riflettuto molto sull’ equità di questa operazione, non trovando, difatto, la composizione di un equilibrio tra l’esigenza di scegliere l’insegnante migliore e farlo con la massima trasparenza ed equità.

Riproporre una categoria di titoli sulla base della quale il dirigente avrebbe potuto fare la scelta delle persone per il proprio organico non era comunque la soluzione giusta, perché rischiava di sottoporre i capi d’istituto ad un’operazione inutile che poi, a tempo debito, non si sarebbe potuto spiegare agli utenti del servizio per motivare le scelte compiute.

Non che ora il dirigente possa fare quello che vuole: dalle prime anticipazioni si apprende che saranno forniti degli indicatori con una categoria di titoli più ampia, preventivamente indicati da parte della scuola per trovare la persona migliore.

Un’ampia gamma di criteri unita alle esperienze professionali, anche con un possibile colloquio, potranno costituire un passo avanti nel tentativo di cucire addosso all’Istituto l’offerta formativa.

La strada non sarà sicuramente tutta in discesa. Il concetto di ambito non è stato ancora ben compreso, i sindacati sono pronti ad una vera e propria lotta armata.

L’importante, però, è che adesso i dirigenti scolastici siano davvero protagonisti di questa operazione e non cedano alla tentazione di lamentarsi perché devono fare un’operazione complessa in un momento dell’anno in cui ci sono tante incombenze, tra cui una forse banale, quella delle ferie.

Come categoria, dobbiamo dare dimostrazione di essere in grado di determinare fortemente questa svolta e di farlo con la professionalità che ci contraddistingue.

Ci saranno sicuramente obiezioni in ordine all’arbitrarietà delle assunzioni e, diciamocelo con franchezza, anche rispetto alle capacità di alcuni di noi, non siamo certo tutti uguali.

Proprio per questo motivo, mai come ora, dobbiamo cercare di essere organici con la nostra amministrazione e fare in modo di non compiere errori perché questa partita è una vera e propria sfida che si compie alla vigilia del rinnovo contrattuale e parallelamente all’introduzione del sistema di valutazione della dirigenza scolastica.

Se tutto andrà per il verso giusto, un po’ di autonomia in arrivo a settembre.

Stili e poteri della dirigenza scolastica

Stili e poteri della dirigenza scolastica

di Stefano Stefanel

 

Poiché sono abbastanza disinteressato alle polemiche e alle lamentele che invece stanno molto interessando il mondo della scuola (chiamata diretta, organico dell’autonomia, concorsi ordinari, bonus premiante il merito, piani della trasparenza, accordi di rete, ecc.) il mio sguardo pur essendo immerso negli stessi argomenti spazia altrove. L’altrove è il mondo delle organizzazioni che ha nella scuola dell’autonomia un elemento di grande interesse e di possibile profonda lettura. Quando di questi tempi leggo le molte polemiche, le molte invettive e le molte lamentale di docenti e dirigenti sulle varie applicazioni della legge 107 e di quant’altro di nuovo è entrato nella scuola (fondi PON ad esempio, ma anche BES) mi chiedo: “Perché vogliono governare con sistemi vecchi un qualcosa di nuovo? E’ possibile governare efficacemente e con efficienza nuovi scenari didattici ed economici con sistemi nati in altri contesti?”. Mi rispondo di no, ovviamente, ma vedendo che molti vogliono continuare a farlo mi chiedo anche perché.

VICARI COME SPECCHIO DEL POTERE

Con la nascita della dirigenza scolastica (1999) e le successive e molte (troppe!) riforme la vecchia figura del vicario è da subito sparita. Non se ne trova traccia nelle norme, non se ne trova traccia nei contratti. Sarebbe interessate sapere quanti dirigenti scolastici nominano ancora “vicari” e sarebbe ancora più interessante sapere quanti ancora agiscono attraverso il “vicepreside”. Questi dati pur non essendo disponibili sono facilmente intuibili: quasi tutti. Interessante è osservare come l’estensione dei poteri di nomina fino al 10% dell’organico, introdotto dalla legge 107/2015, interessa o scalda poco o niente, perché magari l’organico non può concedere esoneri alla classe di concorso del proprio “vicario”. La questione attiene tutta al potere piramidale: la sommità della piramide è fatta dal dirigente scolastico, che “crea” una figura inesistente ma suggestiva (il vicario) e la affianca da un’altra ugualmente non esistente (il secondo collaboratore): entrambe le figure stanno sopra gli altri docenti ma sotto il dirigente scolastico. Ciò che la legge non prevede e non concede (delega di funzioni e delega di poteri: da lì nasce il problema delle reggenze) è ciò che affascina molti di noi. Una volta definita l’organizzazione della scuola come una struttura rigida il suo governo diventa immediatamente piramidale e questo tende a riportare qualsiasi novità verso quel meccanismo (che per me è perverso) per cui l’esonero dall’insegnamento viene dato alla persona e non alla funzione, quasi che il dirigente scolastico possa creare nell’organico didattico qualcosa che va a presidiare la gestione amministrativa dell’organizzazione scolastica. C’è in questo molto paternalismo: “so io chi può fare il bene della scuola!”. Concentrare l’esonero sulla persona e non sulla funzione è dare all’esonero un ruolo che non ha (che è di tipo gestionale e amministrativo). Il d.lgs 165/2001 diceva: “Nello svolgimento delle proprie funzioni organizzative e amministrative il dirigente può avvalersi di docenti da lui individuati, ai quali possono essere delegati specifici compiti”. Compiti, non funzioni o deleghe.

Vedo in tutto questo una sottovalutazione dell’entità del problema su alcuni elementi fondanti l’autonomia e l’applicazione della legge 107/2015, che certamente ha complicato la questione della governance scolastica. Elenco alcuni settori dove il governo della scuola richiede deleghe di compiti a soggetti che non hanno competenze dirigenziali e dove la struttura piramidale è d’inciampo:

  • Organico dell’autonomia: non è più un questione di “fare le supplenze”, chiunque diriga un Istituto comprensivo plurisede sa che la cosa non si risolve col vicario; la questione è invece quella di gestire in forma innovativa un organico complesso, funzionale, legato a obiettivi, progetti, interventi diretti su studenti e progetti.
  • Fondi Pon: ci vogliono competenze forti per la gestione di progetti e risorse molto ampie, che presentano peculiarità di grande progettualità e che attraverso una gestione piramidale rischiano di far deragliare tutta l’organizzazione scolastica.
  • Piano Nazionale Scuola Digitale: anche in questo caso le risorse in campo richiedono competenze diffuse e certificate.
  • Rapporto di Autovalutazione, Piano di Mglioramento, Piano Triennale dell’Offerta Formativa: in queste aree semiesoneri possono creare la coerenza tra progetti, documenti, sensibilizzazione, perché il redattore ha tempo per lavorare e confrontarsi con gli altri docenti.
  • Gestione decentrata dei plessi: anche in questo caso la funzionalità dell’organico della scuola primaria ha permesso già molto nel senso di una gestione della scuola più collegiale.

Gli esempi sopra riportati non sono esaustivi e sono solo esemplificativi. Se però osserviamo lo sconcerto sul non poter dare esoneri a “certe” persone ci troviamo di fronte ad una gestione della scuola che vuol essere paternalistica e impiegatizia. Il vicario è perfetto per la scuola degli adempimenti, mentre per quella del governo del cambiamento non serve a niente.

La questione del potere del dirigente connesso al suo stile di dirigenza mi pare invece ancora centrale: nel momento in cui è necessario ampliare i raggi di governo chi invece ritiene di dover dirigere un ente amministrativo che ha come primo obiettivo gli obblighi e gli adempimenti ha per forza di cose la necessità di costruire una piramide di gestione che è anche una piramide di potere. Re, vassalli, valvassori, valvassini, insomma, in un simpatico “dividi et impera” in cui si comanda magari attraverso rapporti stretti con la parte amministrativa della scuola, che affascina soprattutto chi non ci capisce nulla di amministrazione (e ci prende poco coi conti).

LE RETI DI AMBITO COME SISTEMA COMPLESSO

Non so che fine faranno le reti di ambito, ma la loro complessità è già sotto gli occhi di tutti, mentre la loro forza sta spaventando tutti quei dirigenti che amavano esercitare il potere a casa propria creando piccole piramidi locali, molto chiuse e molto forti, con cerchi magici dispensatori di classi, giornate libere, poche ore buche, incarichi, ecc.. Le reti di ambito portano il governo della scuola fuori dalla vecchia piramide (istituto, ambito territoriale il più simile possibile al provveditorato, ufficio scolastico regionale, ministero) e dentro un luogo in cui il governo viene gestito nella propria area da un rapporto tra pari. Come può essere appassionato da un rapporto tra pari chi nomina il “vicario” anche se questo non esiste più nel fatto e nel diritto? Chi persegue il potere piramidale a casa propria come può essere affascinato da un potere diffuso e da ridisegnare?

Anche perché reti, PON, piano nazionale scuola digitale, progetti nazionali e altre simili diavolerie stanno portando molti soldi e molto organico nelle scuole e il governo diventa complesso. Il personale amministrativo è contro tutto questo perché porta “più lavoro”. E quindi il cambiamento è spesso contro la parte amministrativa di una scuola, non favorito da essa. In realtà questo cambiamenti dovrebbero far sostituire il lavoro inutile con quello utile, ma poiché molti ancora stampano le PEC mi è ben chiaro cosa si sta difendendo. Mai come in questo momento lo stile e il potere del dirigente si intrecciano creando quella dimensione organizzativa che trasmette senso alla scuola, ma che con la nascita degli ambiti territoriali darà il senso anche a tutto il territorio di riferimento.

Gestire il nuovo col vecchio non si è mai potuto fare e anche le Restaurazioni che si sono succedute nella storia hanno battuto il passo davanti alle innovazioni che non si sono fatte ingabbiare. Ma se la questione attiene alla gestione del potere e chi lo perde invece di comprendere il nuovo assetto sbraita per cercare di ripristinare il vecchio assetto la scuola si trova con un problema in più.

Se le aree di interesse diventano plurime, se i centri di spesa diventano sempre più progettuali e sempre meno ordinari, se la questione della gestione dell’organico sta più dentro ad un piano di miglioramento della scuola che agli equilibri di un orario vuol dire che i vecchi arnesi della scuola degli adempimenti vanno eliminati e va creata una governance nuova in cui entri meno la questione del potere e della piramide e più quella dell’organizzazione e della cultura della gestione per obiettivi e processi.

In questo momento è molto grave avere docenti conservatori (non si sa per conservare cosa), ma avere dirigenti conservatori in questa fase è proprio una davastazione: speriamo che la valutazione attraverso il Piano di Miglioramento faccia mettere le ali alla parte innovativa che – magari in quantità diverse – c’è in ognuno di noi.

Le problematiche minorili secondo la Carta di Ottawa

Le problematiche minorili secondo la Carta di Ottawa

di Margherita Marzario

Abstract: L’Autrice presenta una panoramica di un documento internazionale che si occupa della promozione della salute, illustrandone i contenuti in relazione alle problematiche di bambini e ragazzi

 

Materie: diritto internazionale, diritto minorile, diritto delle persone

 

  1. Introduzione

Etimologicamente “problema” significa “ciò che si getta o mette avanti o si presenta” e, per natura della vita, sono così le situazioni riguardanti bambini e ragazzi, perché si presentano nuove ogni volta e per ognuno.

Il principale problema che si pone è la loro salute, che deve divenire “progetto” (che ha lo stesso significato etimologico di “problema”) di ben-essere e di vita e in questo viene in aiuto la Carta di Ottawa per la promozione della salute, sottoscritta nel Canada nel 1986 (a conclusione della prima Conferenza Internazionale sulla Promozione della salute), un atto all’avanguardia ma sottovalutato e poco perseguito.

  1. L’amore

La prima fonte di ben-essere è sicuramente l’amore: “La salute è creata e vissuta dalle persone all’interno degli ambienti organizzativi della vita quotidiana: dove si studia, si lavora, si gioca e si ama. La salute è creata prendendosi cura di se stessi e degli altri, essendo capaci di prendere decisioni e di avere il controllo sulle diverse circostanze della vita” (dalla Carta di Ottawa). È una delle poche fonti normative in cui si parla esplicitamente dei luoghi in cui si ama. L’amore (secondo alcuni studiosi, dal latino “a mors”, non morte, cioè vita) è prendersi cura di se stessi e degli altri, essendo capaci di prendere decisioni e di avere il controllo sulle diverse circostanze della vita. Da qui la necessità dell’educazione sentimentale e sessuale dei bambini e dei ragazzi, non come disciplina scolastica ma come stile relazionale ed esempio relazionale. Il primo ambiente d’amore è la famiglia che deve (o dovrebbe) tener conto di tutto ciò, ma purtroppo sono in aumento le famiglie lacerate e quelle, poi, ricomposte o ricostituite. A tale proposito la psicologa e psicoterapeuta Anna Oliviero Ferraris spiega: “Separazioni e divorzi sono sempre un lutto per il figlio, che subisce la creazione di una nuova famiglia. Imporsi o farsi imporre come nuovo genitore è quasi sempre la mossa sbagliata: saranno solo i ragazzi, con il tempo, a decidere che ruolo potrà avere questo “terzo genitore” nella propria vita, se quello di un amico o di uno «zio»”. Le persone separate o divorziate e con figli, prima di intraprendere nuove relazioni sentimentali o di avere altri figli dalle nuove relazioni sentimentali, si facciano guidare da consapevolezza e responsabilità e non solo dal desiderio di rifarsi una vita, perché ogni loro scelta avrà sempre più riverberi in una reazione a catena e ricordando che ciò che è desiderio non sempre è un diritto e che è prioritario l’interesse superiore del fanciullo, tanto di quello già nato quanto dell’eventuale nascituro. Un altro aspetto importante in seno alla famiglia è la cosiddetta “memoria emozionale”, per la quale Duccio Demetrio, professore di filosofia dell’educazione, propone: “Una famiglia che abbia l’intenzione educativa a sviluppare il senso dei ricordi nei propri figli ha davanti varie strade. In primo luogo credo che uno dei miti da tramandare riguardi gli eventi legati alla nascita dei figli. I genitori dovrebbero tenere un diario, per esempio, del tempo antecedente il parto, di quello immediatamente successivo. Questo genere di diario familiare è spesso legato all’uso e all’abuso delle immagini mentre io sono convinto che, oggi sempre più, una mitologia familiare si costituisca dando spazio alla narrazione orale e alla possibilità di fermare con la scrittura queste immagini e questi ricordi. La foto del pancione non si carica di forza emotiva perché quelle immagini risultano comunque un po’ fredde e stereotipate, mentre la narrazione orale e quella scritta mantengono un livello di comunicazione emotiva e affettiva molto forte”.

Dopo l’amore familiare, nei ragazzi subentra l’esigenza e l’impulso d’amore per l’altro da sé, e dei ragazzi si dice: “Sicuramente hanno bisogno di un amore-per-sempre, checché ne dicano le statistiche. L’amore parte da lì e non si schioda da lì. I ragazzi e le ragazze hanno bisogno di dare alla sessualità un significato più bello di quello di ginnastica sessuale, di potere dell’uno sull’altro” (mons. Domenico Sigalini, esperto di tematiche giovanili). È necessario educare i ragazzi non solo all’amore (ed anche a fare l’amore e non a fare sesso), ma innanzitutto alla vulnerabilità nell’amore e dell’amore e così nella vita. Come afferma lo psichiatra Eugenio Borgna: “Le persone fragili sono quelle che sono infinitamente più sensibili nel cogliere lo strapotere delle certezze. E quindi la fragilità è anche indice della coscienza del limite, del confine. Se ho consapevolezza di che cos’è la fragilità, cercherò di essere cosciente delle cose che possono mettere in pericolo la mia condizione, e soprattutto del rischio mortale che hanno le sicurezze. Le certezze in psichiatria – come nella vita – sono pericolosissime”. Nella Carta di Ottawa si legge: “La promozione della salute sostiene lo sviluppo individuale e sociale fornendo l’informazione e l’educazione alla salute, e migliorando le abilità per la vita quotidiana. In questo modo, si aumentano le possibilità delle persone di esercitare un maggior controllo sulla propria salute e sui propri ambienti, e di fare scelte favorevoli alla salute. È essenziale mettere in grado le persone di imparare durante tutta la vita, di prepararsi ad affrontare le sue diverse tappe e di saper fronteggiare le lesioni e le malattie croniche. Ciò che deve essere reso possibile a scuola, in famiglia, nei luoghi di lavoro e in tutti gli ambienti organizzativi della comunità. È necessaria un’azione che coinvolga gli organismi educativi, professionali, commerciali e del volontariato, ma anche le stesse istituzioni” (dalla Carta di Ottawa).

  1. La scuola

Un altro degli “ambienti organizzativi della vita quotidiana: dove si studia, si lavora, si gioca e si ama” è la scuola in cui aumentano le difficoltà da individuare e affrontare, tra cui l’ADHD (disturbo da iperattività e deficit di attenzione): “Non si parla di ADHD se un bambino è vivace e irrequieto ma questo suo modo di essere non compromette il suo rapporto con gli altri, consente buone relazioni con la famiglia e i compagni, non condiziona la vita sua e di chi gli sta vicino. Lo stesso vale per eventuali disturbi di apprendimento che non incidano, in maniera significativa, sul rendimento scolastico. Quando, però, queste condizioni impediscono a una famiglia di andare tranquillamente a cena da amici o a un ragazzo, di intelligenza normale o superiore alla media, di raggiungere gli obiettivi scolastici che potrebbe conseguire, si deve intervenire” (Stefano Vicari, neuropsichiatra infantile). “[…] Chi bussa a questi centri, e non ha l’ADHD, presenta di solito disturbi di ansia o di altro tipo. Ignorare il malessere e le difficoltà dei nostri figli, o peggio ancora finendo per dare la colpa a loro, oppure a noi come genitori o educatori, non aiuta nessuno” (Roberta Villa, medico e giornalista scientifica). “È come per la miopia: nessuno viene stigmatizzato o considerato “malato” perché ha bisogno degli occhiali per leggere alla lavagna. Una volta molti disturbi della vista non venivano riconosciuti per le stesse ragioni per cui non si riconoscevano ADHD e disturbi dell’apprendimento. Oggi, però, abbiamo gli strumenti per rispondere a un disagio le cui radici sono in parte genetiche e in parte ambientali” (Antonella Costantino, neuropsichiatra infantile). Per le varie situazioni problematiche relative a bambini e ragazzi anziché ricorrere subito all’etichettamento e alla medicalizzazione bisogna far maturare la consapevolezza nei soggetti coinvolti e in quelli interagenti. “La discussione non deve concentrarsi sul fatto di dare o meno dei farmaci ai bambini, ma piuttosto sull’offrire a ognuno la cura migliore per quel particolare momento. Per i disturbi dell’apprendimento non servono medicine, ma strumenti compensativi: ad esempio, il cd rom con la registrazione della lezione o l’uso del computer o della calcolatrice in classe svolgono lo stesso ruolo degli occhiali nel caso della miopia; e ancora, strumenti dispensativi, previsti dalla legge che richiede agli insegnanti di non far leggere ad alta voce i dislessici, non fare dettati, lasciare loro più tempo per svolgere i compiti assegnati” (S. Vicari).

  1. La salute mentale

Oltre a questi disturbi che compromettono la carriera scolastica (e non solo), quella più a rischio, anche in giovane età, sembra essere la salute mentale in toto. “In Italia si rimuove l’idea del disturbo mentale, perché restiamo ancorati a una visione psicologica per cui se un ragazzo soffre di una malattia mentale, diversamente da uno colpito dal diabete, ci deve essere una responsabilità sua o della famiglia. Questo fa mettere la testa sotto la sabbia ignorando il dato per cui sono tra il 10 e il 15 per cento gli adolescenti che hanno una vera malattia mentale” (R. Villa). Le patologie mentali non sempre sono causate dal circuito familiare e non riguardano solo l’ambito familiare. “La promozione della salute è il processo che mette in grado le persone di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla. Per raggiungere uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, un individuo o un gruppo deve essere capace di identificare e realizzare le proprie aspirazioni, di soddisfare i propri bisogni, di cambiare l’ambiente circostante o di farvi fronte. La salute è quindi vista come una risorsa per la vita quotidiana, non è l’obiettivo del vivere. La salute è un concetto positivo che valorizza le risorse personali e sociali, come pure le capacità fisiche. Quindi la promozione della salute non è una responsabilità esclusiva del settore sanitario, ma va al di là degli stili di vita e punta al benessere” (dalla parte iniziale della Carta di Ottawa).

Si registrano problemi di salute mentale che portano sempre più a varie sindromi, casi di depressione giovanile e suicidi: “[…] la morte, prima di essere una questione che ci riguarda tutti, è un discorso affettivo personale di cui ciascuno deve ogni volta imparare le regole e l’alfabeto da capo. Sarà anche normale che una madre muoia prima del figlio, ma non è normale per quel figlio, per cui quella è la sola madre che avrà mai al mondo e quella morte sarà per lui la prima della storia, l’unica che lo lascerà orfano. Tutte le famiglie hanno avuto un malato di tumore, ma ogni cancro ammala una famiglia in modo diverso, sconvolgendone le dinamiche e costringendo tutti a convivere con una dimensione della fragilità che le persone sane non sono mai costrette a incontrare, se non di striscio negli ospedali in cui la fragilità è stata efficientemente esiliata. Sapere che la persona che ami di più al mondo sta scomparendo come un colore vivace che si attenua ti costringe a organizzare l’addio con molto anticipo, sviluppando risposte all’assenza quando ancora la presenza amata è lì, palpitante a dispetto del termine” (la scrittrice Michela Murgia). Occorre educare al senso della morte per educare al senso della vita, al rispetto di sé e dell’altro, affinché le nuove generazioni non temano la morte né la cerchino o la sfidino. Ciò rende possibile anche l’attuazione di quanto previsto in una disposizione della prima parte della Carta di Ottawa: “L’azione della promozione della salute punta a rendere favorevoli queste condizioni tramite il sostegno alla causa della salute”.

  1. La buona salute

“Di sicuro, siamo un Paese in cui i bambini e gli adolescenti non sono considerati cittadini con diritti propri, ma neppure come soggetti su cui sarebbe doveroso, oltre che utile, investire” (la sociologa Chiara Saraceno). Investire, soprattutto a livello relazionale, sui bambini e sugli adolescenti significa salvaguardare e promuovere il “ben-essere” di tutti, perché, tra l’altro, si possono prevenire problemi e patologie, quali bullismo, ludopatia, dipendenze, disturbi del comportamento alimentare. “[…] riconoscere che la salute e il suo mantenimento sono un importante investimento sociale e una sfida” (dalla Carta di Ottawa).

Un modo per prevenire è puntare su sport, danza, teatro e altre attività affini, che sono e rimangono scuole di vita. “Essere i migliori e non guardare mai in basso. Arrivare in vetta, osservare intorno e poi salire più su, oltre i propri limiti. È la sfida con cui ogni uomo in fondo è chiamato a misurarsi, perché nello sport, così come nella vita, siamo chiamati a mettere da parte la mediocrità. Non bastano fortuna e talento per riuscire in un’impresa. Ci vuole anche «uno zaino pieno di volontà», con qualche benda per curare le ferite delle sconfitte” (Giovanni Bettini, giornalista sportivo). Fondamentale e polivalente è l’attività sportiva per tutti, ma ancor di più per i bambini e i giovani. “I cambiamenti dei modelli di vita, di lavoro e del tempo libero hanno un importante impatto sulla salute. Il lavoro e il tempo libero dovrebbero esser una fonte di salute per le persone. Il modo in cui la società organizza il lavoro dovrebbe contribuire a creare una società sana. La promozione della salute genera condizioni di vita e di lavoro che sono sicure, stimolanti, soddisfacenti e piacevoli” (dalla Carta di Ottawa).

Le attività suindicate favoriscono pure la conoscenza di sé, del sé, di altro e dell’altro, portatore di alterità e alienità. I minori, o meglio le persone in via di formazione, devono essere educati alle differenze e alla consapevolezza delle differenze per il loro “ben-essere” (quel benessere più volte menzionato nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). “Pare dunque venir meno oggi la distinzione tra umano e animale, e tra umano e meccanico. Ma anche per quanto riguarda quell’idea di umanità che abbiamo sempre avuto sono messe in discussione differenze che in passato sembravano naturali. La distinzione tra i sessi, ad esempio, viene trasformata in una differenza puramente culturale tra vari “generi”. Allo stesso modo vengono annullate, tecnicamente e medicalmente, le specificità che sono proprie delle varie fasi della vita, le quali vengono ricondotte a un unico modello falsamente giovanile” (Adriano Fabris, docente di filosofia morale). “La promozione della salute focalizza l’attenzione sul raggiungimento dell’equità in tema di salute. Per mettere in grado tutte le persone di raggiungere appieno il loro potenziale di salute, l’azione della promozione della salute punta a ridurre le differenze nello stato di salute attuale e ad assicurare pari opportunità e risorse. Tutto ciò comprende solide basi su un ambiente favorevole, sulla disponibilità di informazioni, su abilità personali e su opportunità che consentano di fare scelte sane. Le persone non possono raggiungere il loro pieno potenziale di salute se non sono capaci di controllare quei fattori che determinano la loro salute. Ciò va applicato in egual misura agli uomini e alle donne” (dalla Carta di Ottawa). La costruzione dell’identità avviene mediante un processo di identificazione e differenziazione, pertanto le differenze non possono e non devono essere né escluse né eluse. Ada Fonzi, esperta di psicologia dello sviluppo, precisa: “C’è, infine, un’altra importante agenzia di socializzazione, sovraordinata sia alla famiglia che alla scuola. Sto parlando del clima culturale in cui viviamo e, soprattutto, dei valori di cui la nostra società è portatrice. La migliore delle famiglie e la migliore delle scuole non avranno pieno successo nell’educazione alla prosocialità, se guerre, mafie, ingiustizie continueranno a prevalere. Credo, anzi, che educazione alla prosocialità ed educazione alla pace siano le due facce di un’unica medaglia”. La sanità delle relazioni è fonte di salubrità per le persone, di solidarietà e di solidità della società.

Bisognerebbe recuperare il profondo senso di società (“essere uniti”) e farla coincidere con civiltà (“essere cittadini, cioè coloro che abitano nella città e sono capaci di goderne gli onori e i benefici”). “[…] la questione è delicata perché riguarda tutta la società e, nel contempo, la rapidissima, radicale, trasformazione cui è andata incontro, nell’ultimo secolo, ma prima ancora il suo futuro che, da queste generazioni, dipende. Fino a pochi decenni fa, il sistema educativo era molto rigido, la struttura familiare e sociale solida, le regole chiare e solo a una piccolissima percentuale della popolazione era richiesto quel che oggi è la norma per tutti: concentrarsi per molte ore e per lunghissimi anni a scuola; quindi, imparare, presto e bene, a leggere, scrivere, fare di calcolo. A un contadino dell’Ottocento non raggiungere queste competenze non cambiava la vita. Pochissimi bambini, solo tra quelli che riuscivano meglio, continuavano a studiare. La maggior parte delle persone era impegnata in attività per le quali tutto questo non era indispensabile alla piena realizzazione” (R. Villa). “Le nostre società sono complesse e interdipendenti, e non è possibile separare la salute dagli altri obiettivi. Gli inestricabili legami che esistono tra le persone e il loro ambiente costituiscono la base per un approccio socio-ecologico alla salute. Il principio guida globale per il mondo, […], è la necessità di incoraggiare il sostegno e la tutela reciproci: prendersi cura gli uni degli altri, delle nostre comunità e del nostro ambiente naturale” (dalla Carta di Ottawa).

“Una buona salute è una risorsa significativa per lo sviluppo sociale, economico e personale ed è una dimensione importante della qualità della vita. Fattori politici, economici, sociali, culturali, ambientali, comportamentali e biologici possono favorire la salute, ma possono anche danneggiarla” (dalla Carta di Ottawa). Parole che si possono parafrasare riferendole ai giovani, a cominciare con: “Una gioventù in buona salute è una risorsa significativa per lo sviluppo sociale, economico e personale ed è una dimensione importante della qualità della vita di tutti”. Giovane (“colui che combatte, che difende, che respinge”), salute (etimologicamente “integrità, salvezza”), vita (dal verbo concreto “vivere” da cui, poi, è derivato il nome astratto di vita): questo il connubio in cui credere, crescere, far credere, far crescere. Questo il “progresso materiale o spirituale della società” (dall’art. 4 Costituzione) cui ognuno deve concorrere con la propria attività o funzione, in primis con la funzione genitoriale che è un vero lavoro (“fatica”).

“Chi colpisce una comunità in ciò che ha di più prezioso, i bambini in primo luogo, deve ricevere una risposta dall’intera collettività. Insieme siamo più forti. Insieme troviamo più coraggio. Insieme recuperiamo speranza” (lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro). Forza, coraggio, speranza: i giovani sono questo, hanno diritto a questo! Insieme, si può, si deve!