Archivi categoria: Bacheca

Organico dell’autonomia o organico del dirigente?

Organico dell’autonomia o organico del dirigente?
di Cosimo De Nitto
Una delle espressioni più usate nel ddl 2994 è “organico dell’autonomia”. Nel testo di legge è un’espressione che ricorre come un mantra per ben 38 volte.

Nel linguaggio burocratico la parola “organico” usata come sostantivo indica la composizione e l’ordinamento del personale di un’amministrazione o di un’impresa, sia pubblica sia privata, in relazione al numero (e anche alle mansioni, al grado gerarchico) dei funzionari, impiegati e subalterni previsti come necessari al funzionamento dei vari uffici.

Nello specifico dell’amministrazione scolastica il sostantivo “organico” viene talvolta connotato con l’attributo “funzionale” o specificato e distinto in “di diritto” e “di fatto”.

Finora, dunque, si era sempre parlato e scritto di “organico funzionale”, “organico di diritto”, “organico di fatto” nella scuola. L’introduzione dell’espressione “organico dell’autonomia” è una novità linguistica del ddl 2994. Perché, con quali scopi significanti è usata questa specificazione? La specificazione “dell’autonomia” dovrebbe distinguere da un possibile “organico” che dell’autonomia non è, oppure è altro. E quale sarebbe questo organico della “non autonomia” visto che le scuole sono per definizione autonome? Che senso ha una specificazione che appare ridondante, inutile e soprattutto che senso ha la sua ripetizione mantrica?
Gli interrogativi sono legittimati anche dal fatto che questa specificazione “dell’autonomia” viene usata solo riferita alle scuole, nonostante che esse non siano le sole ad essere autonome. Il nostro Stato si articola in una ricca e complessa rete di Autonomie, diverse autonomie, infatti, secondo la natura della collettività di riferimento, gli enti autonomi si distinguono in:

– “Enti territoriali”, che hanno come riferimento la comunità territoriale e dunque collettività costituite di tutte le persone stanziate in un determinato territorio come: Comuni, Province, Regioni.

– “Enti ad autonomia funzionale”, hanno come riferimento una parte omogenea della comunità territoriale, una determinata categoria, come ad esempio: Scuole, Università, Camere di Commercio, Ordini e Collegi professionali, Fondazioni bancarie, Autorità portuali, Aziende Sanitarie Locali, Autorità di bacino ecc.

Com’è che il legislatore, dopo aver parlato e scritto sempre e semplicemente “organico” dei Comuni, Province, Regioni, Università ecc ecc, improvvisamente, e rispetto solo ed unicamente alla scuola, sente il bisogno di usare la specificazione “dell’autonomia”?
Perché un governo come questo che della semplificazione, dell’essenzializzazione, della praticità e pragmaticità, del risparmio delle parole si è fatta una filosofia, nel nostra caso invece abbonda pleonasticamente aggiungendo sempre e ovunque una specificazione inutile dal punto di vista del senso, una specificazione che non aggiunge niente alla parola “organico” che già non si sapesse, visto che si parla di organico della scuola e che la scuola è autonoma ai sensi della legge n. 59/1997 ?
Se si trattasse solo di ridondanza e pleonasmo sarebbe solo un rilievo prevalentemente formale, si tratterebbe di una scrittura brutta perché inutilmente ripetitiva e insensata rispetto al significato. Ci deve essere necessariamente dell’altro che non sia il pessimo italiano in cui si scrivono tante volte le leggi.
L’altro sembra il fatto che tutto il ddl è costruito sull’asse di senso politico e giuridico per cui la “autonomia” viene ritenuta sinonimo di “dirigenza”. Il dirigente “è” l’autonomia (e viceversa), è sua incarnazione, sua dimensione operativa concreta, sua possibilità e sostanza giuridica, suo appannaggio esclusivo, suo orizzonte di senso (non si sa perché poi questa personalizzazione, questa individualizzazione nella figura del dirigente come unica persona, perché autonomo non possa essere un team, un organo collegiale. Non si sa perché a questi non possa essere riconosciuta e affidata la “responsabilità” boh!?).
Allora, se questo è, se autonomia vuol dire dirigente e viceversa, dire “organico dell’autonomia” è come dire “organico del dirigente”. E in effetti se si vanno a vedere i poteri (competenze) che il ddl assegna al dirigente rispetto all’organico sarebbe stato più onesto e chiaro scrivere, anziché “organico dell’autonomia”, “organico del dirigente”.
Potrebbe essere un emendamento da proporre al Senato per la trasparenza e l’onestà politica e intellettuale, contro l’ambiguità e la fumosità del linguaggio giuridico e politico del paese degli Azzeccagarbugli vecchi e nuovi.

La Cenerentola della Buona Scuola

La Cenerentola della Buona Scuola

di Mavina Pietraforte

 

“Non è il momento di inserire, nel nostro ordinamento scolastico, lo studio del diritto e dell’economia politica in tutte le scuole superiori!  Non lo è ancora, non lo è mai stato. “

Così scrive l’ Avv. Maria Giovanna Musone (Apidge Piemonte).

Infatti nessuna delle proposte contenute nel documento La Buona scuola sono state recepite nel DDL 2994, come risulta dal testo liquidato alla Camera.

 

L’insegnamento del diritto e dell’economia

Insegnare una materia come quella ricompresa nel diritto e l’economia (classe di concorso A019, per gli addetti ai lavori), è sempre stato un po’ una sfida.

E’ una materia che non ha il profilo certo e inevitabile dell’insegnamento di italiano. Neppure quello sicuro e svelto dell’insegnamento delle lingue. Perché si deve studiare diritto ed economia? Diritto, forse, ognuno ne vede l’utilità, ma economia? Economia politica, poi…! Aziendale, semmai, che si capisce di sicuro. Ai diplomati dell’istituto tecnico e professionale è utilissima e fondamentale, economia aziendale.

Con Cittadinanza e Costituzione è senz’altro più titolato il docente di storia a insegnare la Costituzione rispetto al prof di diritto!

Ma di sicuro ora l’insegnamento del diritto e dell’economia è proprio ricoperto di cenere dal DDL scuola. Come Cenerentola.

Proprio adesso che il liceo economico e sociale sostiene per la prima volta la seconda prova di diritto ed economia.

 

Una narrazione di insegnamento  

Dispiace questo oblio. Lo dico, da insegnante di queste materie che amavo insegnare e che amo tuttora, dopo che ho superato il concorso per dirigente tecnico proprio nel settore discipline giuridiche ed economiche.

Così posso raccontare di come mi sentivo, all’inizio della carriera ad insegnare materie che venivano considerate solo teoriche, allora poi, nel lontano 1987 c’erano solo libri di testo pieni appunto di testo scritto, senza una evidenziazione, un glossario, nulla. Per fortuna i libri di testo con il passare degli anni sono diventati più colorati e facili da consultare.

E soprattutto c’era diritto a far da padrone sull’economia.

I colleghi con cui mi confrontavo erano quasi tutti di giurisprudenza, io venivo da scienze politiche e mi dilettavo a preparare lezioni con piccoli problemi economici. Ero sempre alla ricerca di colleghi di matematica disponibili ad intrecciare le loro lezioni con quello che io volevo spiegare di economia e che abbisognava di strumenti matematici.

Alcuni mi hanno ascoltato, con un collega pubblicai anche delle unità didattiche (come si diceva allora) sul vincolo di bilancio del consumatore per cui occorreva sapere le funzioni di utilità e lui aveva per questo utilizzato il programma applicativo ”derive”.

Era bello proporre ai ragazzi quell’accanimento matematico sull’economia, dovevo cercare di renderlo semplice, di far capire dove volevo arrivare, utilizzando un po’ di funzioni, qualche equazione.

Il viso semplice di una ragazza mi disse che le piaceva l’economia, perché c’era la matematica.

Con il tempo cambiai metodo, volgendo lo sguardo in parte all’economia aziendale, ma lì mi premeva far capire che non di azienda si trattava, ma di scelte per l’economia pubblica, di teorie economiche che potevano influenzare la visione politica delle cose. E allora mi incamminavo decisa verso la storia per cogliere i diversi momenti storici in cui era prevalsa una teoria economica anziché un’altra. E ci voleva il raffronto con il presente. Ma era difficile. Perché era già politica.

Mi veniva in soccorso allora il diritto, quando si doveva parlare dell’ordinamento giuridico, della Costituzione, dei suoi principi e dell’assetto dello Stato sociale. Di filosofia dello Stato.

Non era facile, i ragazzi dell’istituto tecnico non avevano gli strumenti per capire appieno la direzione. Rischiavano di imparare a memoria, giusto per l’interrogazione o la verifica scritta.

Non era facile per loro intuire la correlazione storico-giuridico-economica per la comprensione del sociale e non era facile neanche collegare il rigore della matematica con le “leggi dell’economia”.

 

Il Liceo economico e sociale e il suo futuro.

Ho poi incontrato, ormai da dirigente tecnico, l’opzione economico sociale del liceo delle scienze umane, il liceo economico e sociale, appunto. Qui i ragazzi possono avere qualche marcia in più, più pronti o disponibili per l’approfondimento anche teorico.

Ma già da subito, solo un’opzione, mi è sembrato poco. Ci vorrebbe qualcosa di più. Un indirizzo tout court.

Avvalorato magari dal fatto che con il DDL 2994 il diritto e l’economia sarebbero potute entrare prepotentemente nelle scuole.

E invece no.

Perché? Forse anche per i nostri politici e non solo a volte per gli alunni è difficile da accettare e concepire che a scuola si possa insegnare in modo così aperto e versatile, vedendo il tutto e non una parte, non facendo a pezzi le cose, ma facendone intravedere la rete concettuale che di per sé rappresenta una chiave interpretativa dei fatti del mondo.

O forse perché il liceo economico e sociale non decolla oltre il 2% di iscrizioni?

Mi sono chiesta il perché di questo stallo, altri molto più autorevoli e competenti di me se lo sono chiesto, ovviamente.

Per parte mia, ho guardato due cose: il quadro orario di diritto ed economia dei licei economici e le Indicazioni Nazionali (D.I. 211/10). Entrambi insufficienti. 3 h alla settimana per insegnare ciò che alla rinfusa e in modo alquanto vago viene prospettato nelle Indicazioni. Si dirà, ma non sono mica i programmi di una volta! Sì, ma un minimo di approfondimento per ogni addentellato contenutistico credo sia necessario, per non cadere nella banalizzazione. Soprattutto considerato che gli obiettivi specifici di apprendimento, le linee generali e competenze per il diritto e l’economia dell’opzione economico e sociale sono gli stessi formulati per il biennio del liceo delle scienze umane, limitandosi a formulare altre definizioni di contenuti per il secondo biennio e il quinto anno.

Forse ci vuole uno sforzo ulteriore. Decidere ad esempio il taglio da dare a questi contenuti: se si vogliono curvare verso la matematica, nel primo biennio, sicuramente per la micro e parte della macroeconomia, se nel secondo biennio si vuole privilegiare l’aggancio con la storia e con il diritto.

Comunque rivoluzionare il quadro orario. E far scegliere ai docenti se vogliono insegnare diritto o economia. Coloro che provengono da giurisprudenza sceglieranno diritto e ben venga un approccio al metodo di caso per lo studio del diritto, ma i laureati in scienze politiche ed economia e commercio sicuramente daranno un’impronta più matematica allo studio dell’economia politica, come d’altra parte viene insegnata nelle Università.

Più ore, più ricchezza di metodi e contenuti, nuove Indicazioni che affondino nei contenuti per esaltarne la complessità.

Per esaltare, almeno nei licei economici e sociali, ciò che di giuridico e di economico si è perso negli altri ordini di scuole.

Per una scuola interculturale

Per una scuola interculturale
Quali sono le parole?

di Mariacristina Grazioli

Mediterraneo. La cronaca del momento traccia l’orizzonte di una migrazione di massa, una sorta di inondazione del cosiddetto mondo civile, e sotto l’urto di questa onda – giudicata dai più anomala l’Europa si sgretola in tante fazioni e in altrettante ragioni, dove l’idea dell’accoglienza del profugo che diventa migrante, non appare più scontata.

Cosa succede alla parole dell’Europa oggi? Quelle che vennero pronunciate da Schuman oltre mezzo secolo fa erano chiarissime – “L’Europa non potrà farsi una volta sola, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino una solidarietà di fatto…”. (1)

Mai come ora siamo stati così lontani dai quei traguardi valoriali: che scuola ci sta chiedendo l’Europa? Quali sono le parole irrinunciabili che come educatori dobbiamo ancora avere il coraggio e la forza di testimoniare?

Dalla frontiera all’identità

Dal Trattato di Parigi del 1951 al quello di Lisbona del 2008 sono state costruite parole nuove che hanno fatto cadere le frontiere, non solo in senso fisico, e l’Europa ha visto una embrionale nascita e una crescita costante, seppure spesso difficoltosa.

La frontiera come linea di confine di una civiltà, come rappresentazione della volontà di schierarsi in qualche modo da una delle due inevitabili parti, per definire – e talvolta difendere – la propria identità, è un concetto ed un oggetto che le nuovissime generazioni di cittadini europei non conoscono.

L’Identità non nasce come negazione di tutto ciò che è altro da sé: il processo di comparazione e di diversificazione si categorizza come un percorso sensibile, che condiziona la rappresentazione di ciascun individuo e nella riconferma del gruppo di riferimento. Ma occorre fare leva su una identità culturale che non mette in discussione il valore dell’essere umano come dato assoluto.

La storia delle migrazioni – ora dei gruppi, ora dei singoli – è fatta di nomi e di volti. Come dimenticare il percorso duro e determinato di Samia di “Non dirmi che hai paura?” (2).

Come pensare che il primo articolo della Dichiarazione dei diritti umani sia solo un inutile manifesto?

A livello mondiale è dal 1949 che l’Unesco lotta contro i pregiudizi e non è bastato un programma globale straordinario lungo settanta anni per scalfire l’ancestralità del pregiudizio che radica la diseguaglianza e spinge verso l’idea di una frontiera “giusta”, in nome di una supposta protezione.

La migrazione culturale: lo sconfinamento

I migranti vivono la spaesamento dello straniero, ma non possono rinunciare ad una condizione umana naturale, cioè la sopravvivenza.

Neppure l’uomo europeo – ricco e colto – può rinunciare all’arcaico manifestarsi della necessità migratoria: una migrazione geografica per vivere la realizzazione professionale o per ragioni di studio, ma anche una migrazione legata alla curiosità di possedere il mondo.

Nel progetto di vita – sia del migrante per necessità, che del migrante per volontà – la costruzione dell’identità personale passa attraverso l’identificazione tra il gruppo sociale di appartenenza e l’autodeterminazione. Dunque lo spaesamento geografico e il conseguente spaesamento emotivo sono costanti necessarie, passaggi ineludibili.

La ricollocazione culturale assume il valore di una costanza della società “fluida”e la mobilità migratoria è necessaria, come necessaria pare essere la mobilità del confine e l’abbattimento della frontiera.

Victor Hugo non aveva dubbi e procedeva diretto “oltre la frontiera”; contro la schiavitù del limite, della“fasciatura” e raccomandava: ”Cancellate la frontiera, levate il doganiere, togliete il soldato, in altre parole siate liberi. La pace seguirà.”.

La norma limita, la cultura sconfina. Il passaggio dallo spaesamento temporaneo al concetto dello sconfinamento culturale avviene solo con un “attraversamento linguistico”, con il dià-logos tra singoli, tra gruppi, tra organizzazioni, tra territori, tra Stati.

Ecco allora l’importanza di quelle parole che, con costanza impeccabile, delineano il percorso per costruire ponti e sviluppano approdi.

Le sfide dell’Europa: l’accoglienza

Se questo è l’orizzonte imprescindibile, non si può che raccogliere la sfida dello sconfinamento (3).

La paura del diverso e i conati di razzismo sono confini da ricollocare, ma non possono rimanere frontiere insormontabili.

Accogliere persone e accogliere processi migratori è un fatto che va diffuso capillarmente, una sorta di globalizzazione transazionale che coinvolga tutti e chiunque.

Nulla a che vedere con le prescrizioni etiche: qui si tratta di vivere lo stesso spazio vitale, ossia il mondo e le sue risorse. L’esistente è il tratto temporale da cui nessuno può prescindere: è una sussunzione categorica.

La migrazione spazio- temporale è questa, ossia quella che vediamo nelle strade e che cogliamo dagli articoli allarmati ed allarmistici della stampa. Sulle ragioni non intendo confrontarmi, mi assumo quindi l’arbitrio della sintesi, ossa la rilevanza dei dati di fatto, come elementi ineludibili a cui collegare i migliori pensieri della millenaria cultura dell’Uomo.

L’Unesco ha affidato all’istruzione il compito di eliminare i pregiudizi e gli stereotipi per non riprodurre le diseguaglianze razziali. “ La pari dignità e i diritti di tutti gli individui devono essere il punto di partenza per tutte le azioni, e la misura per il loro successo. Ciò richiede che il dialogo sia alla base del rispetto. E’ necessario comprendere che la ricchezza risiede nella diversità. Ciò significa che tutte le voci devono essere ascoltate e tutti gli individui inclusi” (4).

Dalla parole ai fatti: l’inclusione e l’intercultura

Lo sconfinamento culturale e l’accoglienza necessaria portano ai processi di inclusione collettiva. La migrazione è l’occasione per portare a sistema le azioni educative, sia quelle destinate alla nuove generazioni, sia quelle finalizzate a ri-alfabetizzare gli adulti, attraverso pratiche coordinate e sistemiche che tessono reti di condivisione reale.

Frontiera, confine, identità, migrazione culturale, globalizzazione transazionale, straniero, Europa, internazionalizzazione, accoglienza, inclusione: ecco le parole che occorre sapere usare nei contesti educativi formali ed informali. La sfida non è solo in capo alla scuola, ma a tutto il sistema di istruzione e formazione, fino a giungere alla cooperazione e al terzo settore.

Ed è una sfida che va vinta con fatti e pratiche incessanti.

La scuola italiana è inclusiva? Sì lo è. Qualche parola per sintetizzare un pensiero che potrebbe anche apparire arbitrario? Linee guida, protocolli di accoglienza, mediazioni, kit di primo intervento, progettualità diffusa di apertura all’Europa, alfabetizzazione in L2, arricchimenti linguistici, orientamento, scambi digitali, mobilità professionali, mobilità giovani generazioni, convegnistica promozionale e formazione culturale, ausilio ai gemellaggi di territorio…(5).

L’Osservatorio nazionale per l’integrazione e l’intercultura – Miur – istituito nel 2014 porta all’attenzione di tutti gli interlocutori che si occupano di educazione la dimensione urgente del lavorare con rinnovato impegno.

La riconfigurazione dell’identità personale nella prospettiva della cittadinanza attiva- che legga il mondo in prospettiva interculturale- è al centro del nuovo dibattito educativo.

Le alleanze con gli enti e le associazioni che lavorano attivamente in questi scenari è allora indispensabile “e mentre le classi diventano sempre più multietniche, la scuola è chiamata ad occuparsi di cultura del dialogo non solo in relazione al numero crescente di alunni immigrati, ma per giocare un ruolo davvero centrale nella partita dell’educazione interculturale” (6).

Cosa manca dunque? Manca il patto con la società di riferimento, poiché le pratiche inclusive degli ambienti educativi non possono sopravvivere se, fuori da questi contesti, si respira l’asfissia culturale.

O nasce veramente un accordo condiviso tra il microcosmo educativo e l’intera società di riferimento o i confini non si sposteranno mai e basterà il singolo problema di turno (che non va sottovalutato, ma anzi ricomposto) per creare nuove frontiere, del tutto invalicabili.

Misurare per capire

E’ possibile misurare i livelli di intercultura che un ambiente educativo è riuscito a raggiungere? Sembra di sì.


(1) R. Schuman – dal primo discorso politico sulla Comunità Europea

(2) Giuseppe Catozzella – NON DIRMI CHE HAI PAURA? – I narratori – Feltrinelli editore – 2014

(3) Mariacritina Grazioli – L’accoglienza necessaria – edscuola on line 2012

(4) Irina Bukova, direttrice generale dell’Unesco

(5) prassi educative tratte dalle Linee guida Miur per l’integrazione e l’accoglienza degli alunni stranieri

(6) Stefania Chinzari, Roberto Ruffino DOVE STA LA FRONTIERA. Dalle ambulanze di guerra agli scambi interculturali. Hoepli editore, 2014

La buona scuola: il DDL è viziato da illogicità manifesta

La buona scuola: il DDL è viziato da illogicità manifesta

di Enrico Maranzana

 

Trascrivo quanto ho inviato al Presidente della repubblica.

 

On. Presidente,

lavoro per la scuola e mi interesso dei processi educativi dal 1963 operando anche nel campo dell’aggiornamento insegnanti. Visto il cambiamento in atto, mi permetto di sottoporLe una valutazione critica del documento governativo: esiste una sostanziale contrapposizione tra il modello di scuola che il DDL 2994 vuole introdurre rispetto a quello che negli anni il legislatore ha progressivamente elaborato.

Atti parlamentari – Camera dei deputati – 27 marzo 2015 – capo VII art. 21 comma a) – pag. 23

La stratificazione normativa in materia di legislazione scolastica richiede un intervento organico di coordinamento dell’attuale assetto normativo, mediante la redazione di un testo unico delle disposizioni in materia di istruzione già incluse nel testo unico di cui al decreto legislativo n. 297 del 1994 nonché nelle altre fonti normative. Il citato testo unico infatti, risalente al 1994, non risulta più coerente con la legislazione vigente, a seguito dei numerosi interventi di riforma in materia di istruzione e di pubblico impiego. Si registrano antinomie giuridiche dovute al mancato coordinamento con gli interventi anche d’urgenza che si sono succeduti nel tempo, a cui non è seguita un’armonizzazione della disciplina. In particolare, il testo unico non è in larga parte allineato né con l’introduzione dell’autonomia, a cui è conseguito un nuovo assetto istituzionale, ordinamentale e amministrativo, e con la sua costituzionalizzazione, né con la ripartizione delle competenze tra Stato e regioni a seguito dell’approvazione della riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione. Inoltre, alla luce delle innovazioni previste dal disegno di legge, si rende ulteriormente necessario avviare il processo di riscrittura del testo unico mediante riordino, coordinamento formale e sostanziale delle disposizioni di legge, anche apportando integrazioni e modifiche innovative”.

La Camera dei deputati non ha concesso la delega alla riscrittura del TU. L’art. 21 (23) comma 2) punto 1) del disegno di legge incarica il governo di redigere “un testo unico delle disposizioni in materia di istruzione già contenute nel testo unico di cui al decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 ..” che conferisce mandato

al CONSIGLIO DI CIRCOLO/ DI ISTITUTO di “elaborare e adottare gli indirizzi generali” da elencare sotto forma di competenze generali [comportamenti necessari per interagire positivamente con l’ambiente] per orientare l’attività del Collegio dei docenti, indirizzamento rafforzato dall’indicazione dei “criteri generali della programmazione educativa” che ne caratterizzano la vita.

Sottordinato al Consiglio di istituto è collocato il COLLEGIO DEI DOCENTI che “cura la programmazione dell’azione educativa” per identificare le capacità che le competenze generali presuppongono. Prefigura percorsi finalizzati allo sviluppo e al consolidamento di tali capacità e “valuta periodicamente l’andamento complessivo dell’azione didattica per verificarne l’efficacia in rapporto agli orientamenti e agli obiettivi programmati, proponendo, ove necessario, opportune misure per il miglioramento dell’attività scolastica”. 

Sottordinato al Collegio dei docenti opera il Consiglio di classe che, adattati alla specificità dei soggetti con cui interagisce gli obiettivi indicati dal Collegio, “coordina” gli insegnamenti per farli convergere verso mete condivise.

Alla base della piramide organizzativa si colloca il docente che, oltre a perseguire gli obiettivi collegialmente identificati, fornisce una precisa immagine della disciplina insegnata.

La struttura decisionale elaborata nel 1974 e sistematizzata nel 1994 è stata, nel corso degli anni, più volte, come di seguito riportato, confermata e affinata dalle fonti normative. Rinforzo che il DDL nega, incurante della piattaforma scientifica su cui è stata edificata [“Il citato testo unico infatti, risalente al 1994, non risulta più coerente con la legislazione vigente..”].

1999 – DPR n° 275 – Natura e scopi dell’autonomia delle istituzioni scolastiche – art.1, comma 2.– L’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento”

Perfetta la continuità con l’impianto organizzativo del 1974:

la progettazione formativa, che attiene al rapporto scuola-società, è affidata al CONSIGLIO DI CIRCOLO/DI ISTITUTO: “Il Piano dell’offerta formativa è elaborato dal collegio dei docenti sulla base degli indirizzi generali per le attività della scuola e delle scelte generali di gestione e di amministrazione definiti dal consiglio di circolo o di istituto, tenuto conto delle proposte e dei pareri formulati dagli organismi e dalle associazioni anche di fatto dei genitori e, per le scuole secondarie superiori, degli studenti. Il Piano è adottato dal consiglio di circolo o di istituto” [Capo II art. 3 comma 3].

La progettazione educativa richiama le responsabilità del COLLEGIO DEI DOCENTI che, identificati i traguardi dell’apprendimento, li persegue e li controlla [il piano dell’offerta formativa .. “esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa ed organizzativa” – art. 3 comma 1].

La progettazione dell’istruzione risponde all’esigenza di unificare gli insegnamenti, proiettandoli verso mete condivise.

Infondata l’asserzione del DDL: “Il testo unico non è in larga parte allineato né con l’introduzione dell’autonomia ..”.

2003 – legge 53 – Sistema educativo di istruzione e di formazione – art. 2 comma 2 punto a) “è promosso l’apprendimento in tutto l’arco della vita e sono assicurate a tutti pari opportunità di raggiungere elevati livelli culturali e di sviluppare le capacità e le competenze, attraverso conoscenze e abilità, generali e specifiche, coerenti con le attitudini e le scelte personali, adeguate all’inserimento nella vita sociale e nel mondo del lavoro, anche con riguardo alle dimensioni locali, nazionale ed europea”.

La coerenza giuridica, logica e sistemica dell’enunciato rispetto all’assetto del 1974 è totale:

aspetto formativo: sviluppo di potenzialità “adeguate all’inserimento nella vita sociale e nel mondo del lavoro, anche con riguardo alle dimensioni locali, nazionale ed europea” – elencate sotto forma di competenze generali;

aspetto educativo: “sviluppare le capacità e le competenze .. coerenti con le attitudini e le scelte personali”

aspetto dell’istruzione: “è promosso l’apprendimento ATTRAVERSO conoscenze e abilità”.

aspetto dell’insegnamento: sviluppo delle competenze specifiche

2009 – Decreto Legislativo 27 ottobre n. 150 Dirigenza pubblica – art. 37 – Oggetto, ambito di applicazione e finalità – con riferimento alla dirigenza pubblica, afferma la necessità di “rafforzare il principio di distinzione tra le funzioni di indirizzo e controllo spettanti agli organi di governo e le funzioni di gestione amministrativa spettanti alla dirigenza”.

Il principio di distinzione afferma la necessità di separare, differenziandoli, i soggetti responsabili del COSA deve essere fatto rispetto a quelli che elaborano strategie relative al COME conseguire i risultati. Si tratta dell’architrave della struttura organizzativa introdotta nel 1974: le responsabilità dei diversi soggetti s’incrociano per autogovernare l’istituzione.

Il DDL 2994, senza indagare sulle cause della mancata realizzazione del modello di scuola prescritto dalla legge, ne introduce un altro, funzionale alla staticità della società degli anni cinquanta del secolo scorso.

Per osservare tale divaricazione non è necessario confrontare le norme vigenti con gli articoli del disegno di legge, è sufficiente focalizzarsi le loro chiavi generative.

 

FINALITA’ Il titolo stesso del DDL 2994 dichiara la sua intenzione sovversiva: la funzione educativa è cassata. Da sistema educativo di istruzione e di formazione a sistema nazionale di istruzione e di formazione.

Da un lato una scuola incardinata alle potenzialità degli studenti, dall’altro lato le attività scolastiche gravitano intorno alle conoscenze.

Una contrapposizione rinforzata dal riferimento normativo che ricorre nel testo governativo: la legge 15 marzo 1997, n. 59 in materia d’autonomia delle istituzioni scolastiche aveva validità limitata e conteneva la delega al governo per l’elaborazione di un decreto per regolamentare la vita delle scuole. Il decreto delegato è una rielaborazione dell’oggetto del mandato: la progettazione educativa, la progettazione formativa e la progettazione dell’istruzione sono “la sostanza” della norma. Tre indirizzi contrari al tipo di cambiamento che il DDL 2994 intende realizzare, tre indirizzi inadatti alla professionalizzazione e all’addestramento che la concatenazione istruzione-formazione induce.

Il cuore delle norme vigenti è la progressione formazione-educazione-istruzione: l’individuo trova la sua identità all’interno della società di cui è parte. La conoscenza è strumentale alla promozione delle ”capacità e delle competenze, generali e specifiche”, necessarie per interagire positivamente con la società.

 

STRUTTURA DECISIONALE – Il DDL 2994 rigetta il “principio di distinzione” e reintroduce il modello organizzativo gerarchico lineare: il potere è accentrato in un unico soggetto.

La manifestazione del rifiuto è esplicitamente espressa nel testo rilasciato dal governo in data 27 marzo: art.7 – comma 1 – il dirigente scolastico .. è responsabile delle scelte didattiche, formative ..

E’ implicita nel testo modificato dalla Camera dei deputati. Il termine “formazione” è stato sradicato dal suo naturale campo di definizione: il suo significato è stato stravolto.

La progettazione educativa è stata scaraventata nell’indeterminatezza per cui la mission della scuola è banalizzata e gli organi collegiali privati del loro spirito vitale.

Nell’elenco delle norme collegate al DDL 2994, l’art. 37 d.lgs. 150 del 27/10/2009 è assente.

Una dimenticanza che premia la sistematica omissione di atti obbligatori negli ordini del giorno degli organismi collegiali, origine della loro sterilizzazione.

La legge e il DDL 2994 percepiscono le problematiche scolastiche in modo difforme, da cui derivano rappresentazioni del campo del problema contrapposte:

complessità
VS  semplicità;

abbattimento della complessità
VS parcellizzazione;

strategie di lungo periodo
VS strategie di breve periodo;

dinamicità e complessità del mondo contemporaneo
VS situazione attuale semplificata;

dettami della scienza
VS tradizionale, obsoleto, inefficace dell’organizzazione modello organizzativo;

progettazione, formulazione d’ipotesi per il conseguimento della finalità del sistema educativo   VS  itinerari per l’acquisizione delle conoscenze e delle competenze richieste dalla società del momento;

materie come “strumento e occasione” per “promuovere
VS conoscenze e competenze.

Copia della presente è trasmessa per conoscenza al Presidente del Consiglio e al Ministro del Miur.

Con l’occasione Le auguro buon lavoro e La ossequio,

Enrico Maranzana

Parlare di scuola, tra grandi narrazioni e storytelling

Parlare di scuola, tra grandi narrazioni e storytelling

di Piervincenzo Di Terlizzi

Di cosa parliamo, quando parliamo di scuola?

“Dalla scuola si vede il vuoto della politica”, così intitola Massimo Cacciari la sua settimanale nota su L’Espresso: mancherebbe insomma, nel disegno di legge detto della “buona scuola” un approccio complessivo, un’ampia visione politica dell’istituzione scolastica -cosa che, secondo l’ex sindaco veneziano, ne segna un elemento di debolezza.

Posto pure che si voglia riconoscere anche questo come uno dei limiti della proposta del Governo (uno tra i tanti, che in queste settimane vengono da più parti indicati), appare peraltro vero che la mancanza di una “grande narrazione” (per usare la nota immagine del libro di Lyotard del 1979) sulla scuola è cosa ben più antica del d.d.l. 2994.

Una conferma, in merito, la fornisce anche una significativa battuta del presidente del Consiglio, il quale durante una trasmissione televisiva della domenica ha affermato che è finita l’era del “sei politico” nella scuola: un riferimento, appunto, che è  parte di un immaginario collettivo sulla vicenda scolastica che rimonta, almeno, nella sua formazione, a 40 anni fa (e che è di origine universitaria), ad anni in cui le “grandi narrazioni” ancora avevano cittadinanza.

Una “grande narrazione”, peraltro, (e non certo solo da oggi) non appare propria né della scuola, né del resto del nostro vivere sociale: si tratta di uno dei noti segni della condizione postmoderna, sulla quale, quanto alla scuola, ha scritto pagine illuminanti Antonio Scurati ne Il sopravvissuto e ne Il bambino che sognava la fine del mondo.

Senza nostalgie -buone per consolarsi, ma poco utili per comprendere le cose-, una “narrazione” della scuola, più che “grande racconto” oggi ha, caso mai, le fattezze dello storytelling che nasce dalla condivisione vissuta  dell’esperienza.

Essa difficilmente può eludere lo status “iperlocale” di ogni singola scuola, la quale è nodo di una rete di relazioni, che partono dai singoli territori (magari piccoli, ma non certo semplici -cosa c’è di semplice in un sia pur piccolo quartiere di un qualsiasi luogo, oggi?) e guardano verso la complessità del mondo.

Qui entra in gioco il carattere specifico della scuola, che è la mediazione le micro e le macrodimensioni di questa complessità (giusto per fare un esempio, dando un contributo a rendere comprensibili, nelle singole comunità, quegli opendata che tanto dicono di noi, ma che vanno sempre contestualizzati), garantendo, nello sforzo di conoscenza attiva e partecipata, la coerenza sociale.

Qualunque discorso si faccia oggi sulla scuola, di qui, inevitabilmente, ogni tentativo di senso e racconto al suo riguardo ha da passare.

La radiosa lettera di maggio 

LA RADIOSA LETTERA DI MAGGIO


di Alessandro Basso


Abbiamo tutti i ricevuto la lettera che il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha inteso inviare al corpo docenti italiano.

In premessa, anche per unirsi nell’omologazione critica e non esserne tagliati fuori completamente, viene da considerare che la scelta della lettera risulti essere un po’ contraddittoria con il modello della “renzizzazione” così come riesce difficile immaginare il nostro premier davanti ad una lavagna con il gessetto bianco, simulacro di una scuola che non c’è più e che non vogliamo far risorgere.

Se è stata una scelta politica, non è sembrata poi così efficace, nonostante le doti comunicative del premier permangano e risultino essere financo attrattive, con la viva possibilità, ahinoi,che la lettera faccia la fine dell’agenda di morattiana memoria. 

Il dibattito politico sul disegno di legge “La buona scuola sta procedendo a Palazzo così come sta procedendo tra i corridoi delle scuole la vis polemica che ha caratterizzato l’ultimo periodo lo si coglie osservando gli sguardi perplessi degli insegnanti che si sentono in qualche modo obbligati a mantenere questa posizioneallo stesso tempo pur non comprendendone pienamente la portata e il significato, per ragioni ideologiche entro le quali sono trascinati.

Una folta platea di insegnanti sta portando avanti la propria personale battaglia leitmotiv Nessuno mi può giudicare” purché non si debba scegliere se valutare prima i presidi o prima gli insegnanti:  meglio non valutare nessuno, la strada dell’omologazione e dell’appiattimento è in discesa e a proteggere tutti c’è lo scudo del preside scerifforambo-tiranno-sindaco-despota.

Non vale la pensa spiegare che il preside non avrà poteri ,ancorchécalmierati dagli emendamenti, ma sarà il fulcro e il responsabile di quell’autonomia di cui ci laviamo la bocca da quasi vent’anni.

I sindacati propongono corsi e formazioni sull’autonomia, persino la Costituzione la ha consacrata, ma è bella finché non si realizza compiutamente. Molto più comodo rimpiangerla, criticarla e sacrificarla all’altare del qualunquismo.

E allora la lettera specifica che nessuno può essere licenziato, che le aziende non avranno alcun ruolo all’interno del Consiglio d’Istituto, quasi fossero una contaminazione della purezza della conoscenza purché il mondo del lavoro rimanga silenzioso al di fuori delle pareti scolastiche nel Paese con la disoccupazione giovanile al 40%. L‘alternanza scuola lavoro e gli stage svolti durante l’estate sono sembrati una forma di schiavismo, non una forma per fare introdurre i nostri giovani all’interno del mondo del lavoro.

Sono rimasto anche molto perplesso dal fatto che il nostro capo del governo si sia sentito in obbligo di specificare che non si toccano i giorni di vacanza, quasi a voler far breccia nel cuore di migliaia di professionisti della scuola che in questo tabù intravvedono la grande muraglia della sopravvivenza stessa della categoria, quasi a far finta che nessuno si sia mai accorto, dentro e fuori la scuolache i due mesi di vacanza all’anno esistono veramente, perlomeno per un gran numero di insegnanti del primo ciclo (scusate, non sono vacanze, ma periodi di interruzione didattica; il preside sceriffo potrebbe pur sempre convocare un collegio docenti a luglio in caso di cataclisma).

Qualcuno si sarà mai chiesto se una svolta contrattuale potesse proprio arrivare dal rivedere questa strutturazione anche  perrecuperare credibilità nei confronti del mondo del privato che non ha mai capito questa scelta e non ha mai nemmeno capito l’orario di lavoro settimanale dei docenti?

Lavoro al quale si aggiunge lavoro a scuola, nella scuola, per la scuola oltre che nella preparazione delle lezioni e nella correzione dei compiti.

Per compiere questa svolta si dovrebbe guardare oltre il dito dietro al quale siamo nascosti per parlare di quanti lavorano le famose 17 ore 59 minuti e 59 secondi che tanto apprezzamento hanno avuto in un mio scritto precedente, cui si contrappongono, a parità salariale, gli insegnanti che sacrificano i propri sonni per i loro ragazzi (che in termini quantitativi, fortunatamente, sono la maggioranza). 

Sarebbe opportuno si parlasse del doveroso tentativo di recuperare l’autorevolezza sociale del mestiere dell’insegnante anche senza scomodare i cliché del parroco, del sindaco e della maestra di 50 anni orsono, ma dovremmo sgombrare il campo e dire  della apprezzabile “serietà che ha caratterizzato uno sciopero indetto nella giornata delle prove INVALSIunica forma di valutazione esistente all’interno della scuola e come tale destinataria di tanta veemenza.

Nessuno, però, ha avuto  il coraggio di dire che lo sciopero era contro le provein quanto scioperare contro le prove Invalsi ècome scioperare contro il ciclo delle stagioni: e qualcuno dovrebbe anche spiegare il ruolo dei collaboratori scolastici nello sciopero contro il sistema di valutazione nazionale degli apprendimenti.

Un ulteriore proposta di caratterizzazione professionale è rappresentata dal blocco degli scrutiniper il quale si è scomodato persino il giudice Imposimatoche pare aver smesso le vesti da giurista per indossare quelle di lider maximo rischiando di rubare il mestiere ai segretari della triplice.

In questa dialettica ci si sta domandando se bloccare gli scrutini e le prove Invalsi sia a favore dei nostri ragazzi? È stato spiegato questo ai genitori che hanno scelto, in alcune zone del paese, di non far fare le prove Invalsi ai propri figli?

Non è forse la scuola che deve insegnare che il merito, al netto degli slogan facilmente sdoganabili, non è una parolaccia, che vainstillato nelle menti dei nostri ragazzi onde non cedano alla tentazione di puntare al ribasso anziché per aspera ad astra?

Dovremmo insegnare loro che è il cambiamento è necessario ma bisogna che lo facciamo noi stessi in prima linea e non che si attenda che a farlo siano gli altri.

Sicuramente non diventeremo una potenza super culturale attraverso l’assunzione di decine di migliaia di precari: ormai si è capito che si deve fare, è giusto che venga fatto, ma non si svilisca l’operazione in una contrattazione in cui spostare l’asticella dalle graduatorie ad esaurimento, ai PAS, ai TFA, ai non abilitati come se il precariato non fosse mai esistito e non fosse una patologia da eradicare. Si rischia di dare adito ai maligni che vedono nell’operazione un’ulteriore, legittima,  occasione occupazionale piuttosto che l’ardore incessante  della fiamma sacra dell’insegnamento.

La valutazione della parrucchiera

La valutazione della parrucchiera

di Stefano Stefanel

                  I ferventi sommovimenti che stanno percorrendo il mondo della scuola sono sempre più spesso accompagnati da insulti a Renzi e ai dirigenti scolastici in una deriva di boicottaggi, scioperi, dileggiamenti, attacchi personali che mostrano un tessuto scolastico nel complesso molto lacerato e poco tollerante. La valutazione degli insegnanti – come ho già avuto modo di scrivere – soffre il vulnus originario dal non essere preceduta dalla valutazione dei dirigenti. Un modo molto semplice per rendere i dirigenti valutatori e far scemare il “dibattito” sull’assunzione diretta di amanti, parenti, mafiosi, raccomandati sarebbe quello di privatizzare ulteriormente il rapporto di lavoro dei “dirigenti che assumono e valutano”, togliere la nostra valutazione dal contratto e prevedere il licenziamento (come avviene per i dirigenti privati) per chi viene valutato negativamente dall’amministrazione. La precarizzazione della dirigenza pubblica (uniformata a quella privata) renderebbe difficile mantenere alto il livello degli insulti, visto che apparirebbe chiaro a tutti che uno se si gioca il suo posto di lavoro tenderebbe a fare le cose per bene. E quindi le farebbe “per male” solo se non è capace di farle.A quel punto sarebbe divertente vedere le garanzie richieste dai sindacati dei dirigenti e dai dirigenti stessi, e valutare se sarebbero diverse da quelle richieste dai docenti. O se magari anche quelle non si attardassero sulla moralità dei valutatori ministeriali.

La memoria corta di molti non aiuta a capire cosa c’è sul campo. Se si analizzano i documenti normativi sulla valutazione degli insegnanti si comprende subito come la “conventio ad escludendum” sia stato il patto esplicito tra uno stato che vuole inserire la scuola nella pubblica amministrazione e una scuola che vuole rimanere “porto franco”:

  • il d.lgs 286 del 30 luglio 1999 scrive testualmente: “Il presente decreto non si applica alla valutazione dell’attività didattica e di ricerca di professori e ricercatori delle università, all’attività didattica del personale della scuola” (art. 1, comma 4);
  • il d.lgs n° 150 del 27 ottobre 2009 recita: “Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca e con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono determinati i limiti e le modalità di applicazione delle diposizioni dei Titoli II e III del presente decreto al personale docente della scuola e delle istituzioni di alta formazione artistica e musicale, nonché ai tecnologi e ai ricercatori degli enti di ricerca. Resta comunque esclusa la costituzione degli Organismi di cui all’articolo 14 nell’ambito del sistema scolastico e delle istituzioni di alta formazione artistica e musicale” (art. 74, comma 4). Questo decreto non è mai stato emanato.

Può essere interessante notare come nel 1999 si escludevano i docenti dalla valutazione all’inizio del decreto (così non si doveva neanche fare la fatica di leggerlo), mentre nel 2009 il falsamente arcigno Renato Brunetta l’esclusione la metteva alla fine, dopo che uno aveva letto tutto e si era spaventato. Il messaggio era però sempre lo stesso e sempre chiaro: i docenti non si valutano.

Ci sono due passaggi molto interessanti dell’intervista al Segretario dello Snals Marco Paolo Nigi (OrizzonteScuola.it del 13 maggio 2015) che cito testualmente estrapolandoli dal contesto:

  • E chi l’ha detto che il lavoro dell’insegnante si può valutare? Non si riesce a valutare l’operato di un metalmeccanico figuriamoci quello di chi svolge una professione intellettuale come il docente”
  • Il punto per me non sta nella valutazione dei docenti, che è un falso problema.”

Nigi ribadisce a chiare lettere quello che dicevano i due decreti sopra citati.

La questione delle Prove Invalsi si situa in questo contesto: i docenti nel complesso rifiutano qualsiasi valutazione esterna su se stessi e sul proprio lavoro, sia se viene fatta sulla professionalità sia se viene fatta sugli esiti. Lo Stato con leggi abbastanza strambe ha reso obbligatorie le prove Invalsi, inserendole anche in quel grande spreco di denaro, tempo e credibilità che è l’esame di stato conclusivo del primo ciclo d’istruzione. Non ha reso però obbligatorie le correzioni delle prove dando per scontato che, essendo dentro un processo di valutazione, rientrassero tra i compiti previsti dall’art. 29 dell CCNL del 29 novembre 2007 o tra i compiti deontologici della funzione docente. Per larga parte è così e i dati ci sono. Quello che manca è un interesse reale sui dati, un sentirli propri, un considerarli come il punto di misurazione da cui far partire le osservazioni sulla propria professione e la propria didattica. Comunque si interpretino i pensieri dei docenti nel complesso la correzione delle Prove Invalsi è vissuta o come un lavoro gratuito fatto per altri, o come la connivenza col nemico aziendalista che ci distruggerà, o come una perdita di tempo o come lavoro interessante ma che si somma a quello quotidiano.

Rifiutando la valutazione su professionalità ed esiti le scuole si affidano però a valutazioni forti ma poco controllate. Una delle più egemoni è quella delle parrucchiere. Un negozio di acconciature sia di una grande città, sia di un piccolo paese con una buona clientela e una decina di postazioni si trova a contatto con i pareri sulla scuola e sugli insegnanti di moltissime signore (madri e nonne) che forniscono informazioni, dicerie, opinioni, dati, osservazioni, ecc. durante le attese o nel momento dell’acconciatura-taglio. Dai barbieri intanto i signori (padri e nonni) parlano di politica e calcio. Questo enorme numero di informazioni viene rielaborato dalla parrucchiera che poi può fornire motivati pareri e informazioni davanti a dubbi e non a certezze. Se una cliente (del cui parere sulla propria professione le parrucchiere sono interessatissime in quanto professioniste sul mercato) esprime un’opinione su un insegnante o su una scuola la parrucchiera ascolta. Se, invece, chiede un’opinione la parrucchiera la può dare con cognizione di causa e dire con certezza di quale fama gode un insegnante o una scuola. Così si crea una rete informativa reputazionale cittadina che transita da un soggetto che diventa suo malgrado competente, ma che forse non ha le credenziali dell’Ocse o dell’Invalsi. Le scuole e gli insegnanti così hanno reputazione e sono valutati, ma in modo molto empirico. Provate però a combattere un giudizio cattivo su una scuola, un insegnante e un’attività scolastica che ha il forte sostegno di una parrucchiera e poi vedrete in che difficoltà vi troverete.

Davvero vogliamo continuare a farci valutare così?

Che ve ne sembra della valutazione?

Che ve ne sembra della valutazione?
Un ispettore dice la sua.

di Mavina Pietraforte

 

Un prisma risplendente con tante facce, così si può immaginare la valutazione.

La valutazione interna, esterna, di sistema o accountability, quella dei docenti e quella dei dirigenti scolastici.

E allora, forse vale la pena di provare a guardare le tante facce del prisma valutazione e soprattutto di scorgerne i bagliori comuni.

 

La valutazione è interna ed esterna

Interna, degli apprendimenti, che spetta ai docenti , insieme alla certificazione   delle competenze acquisite (art. 4 comma 4 del dpr 275/99; art. 3 comma 1 punto a L. 53/03), e al consiglio di classe, come ricorda il dpr 122/09, art. 4 primo comma.

Esterna, dei livelli di apprendimento, da parte dell’INVALSI, il cui compito è quello di “effettuare verifiche periodiche e sistematiche sulle conoscenze e abilità degli studenti” in tutte le scuole del Paese al fine di identificare a livello centrale standard di apprendimento relativi agli obiettivi nazionali.

Se  Le tendenze nazionali ed internazionali sono sempre più protese verso forme di valutazione esterna (INVALSI) e verso indagini comparative (OCSE-PISA, IEA-PIRLS, TIMSS), molto c’è ancora da riflettere per capire come accomunare tale valutazione esterna, che misura i livelli di conoscenze e abilità disciplinari, con quella interna degli apprendimenti.

Sì, perché la misurazione degli apprendimenti è un dato primario per la valutazione esterna, ma secondario e strumentale per le scuole. Secondario in quanto segue alla valutazione interna, ma strumentale perché è proprio dagli esiti delle prove standardizzate che si possono mettere a punto strategie di miglioramento della didattica per lo sviluppo degli apprendimenti.

Per migliorare la qualità delle conoscenze e delle abilità disciplinari funzionali allo sviluppo di competenze personali degli alunni.

Dunque, valutazione interna ed esterna sono aspetti della valutazione tra loro interconnessi; due facce speculari.

Questo il fil rouge tra valutazione interna ed esterna che porta dritto alla valutazione di sistema, o accountability.

 

Valutazione di sistema o accountability

La rendicontazione, o in altri termini la c.d. accountability, ovvero l’esigenza per le scuole di render conto dei risultati ottenuti in termini di apprendimento degli studenti di fronte alla comunità sociale e al committente pubblico, cioè al Ministero della pubblica istruzione, è conseguenza diretta della valutazione esterna.

Ma la valutazione esterna porta alla ponderazione delle strategie didattiche e agli obiettivi di miglioramento correlati, e dunque per questa via si arriva alle altre facce del “prisma valutazione”, quelle inerenti alla valutazione dei docenti e del dirigente scolastico.

Sì, perché il nodo cruciale a questo punto diventa la qualità degli insegnamenti e della leadership esercita dal dirigente scolastico, a capo di una organizzazione complessa che ha vita propria ma che deve essere ben orchestrata per diventare un coro armonioso.

Una valutazione di sistema dunque che non può essere solo esterna, ma anche e prioritariamente una autovalutazione o a autoanalisi di istituto.

Le facce ancora da guardare sono quindi quelle dell’autovalutazione e della valutazione del personale della scuola, docenti e dirigenti.

Per quanto riguarda la prima, passi avanti sono stati fatti proprio con la nascita del SNV (Sistema Nazionale di valutazione del sistema educativo), avente i seguenti obiettivi: “valutare l’efficienza e l’efficacia del sistema educativo di istruzione e formazione” (art. 2 dpr 80/13).

 

Il SNV

Con il dpr 80/13, il regolamento sulla valutazione, sono stati individuati i soggetti , l’INVALSI, l’INDIRE, il contingente ispettivo del SNV, il cui coordinamento è stato affidato all’INVALSI .

Non a caso, il primo architrave di  questo sistema, è stato quello di fornire alle scuole un apposito strumento di autovalutazione. A mente del dpr 80/13, l’INVALSI “mette a disposizione delle singole istituzioni scolastiche strumenti relativi al procedimento di valutazione”, che deve svilupparsi “in modo da valorizzare il ruolo delle scuole nel processo di autovalutazione”.

E’ nato così il format unico di rapporto di autovalutazione, il c.d. RAV, battezzato a Roma in pompa magna lo scorso novembre 2014 che, dopo opportune misure di accompagnamento, è nella disponibilità delle scuole in questi mesi, in un work in progress fino a luglio, quando tale rapporto sarà reso pubblico.

 

L’autovalutazione e il RAV

Il format unico Rav ricomprende in sé e sintetizza molte prospettive di diagnosi di autovalutazione, o di autoanalisi di istituto, per lo più  fondate su una matrice epistemologica di tipo psicosociale che assume la qualità come concetto plurale e il compito valutativo come confronto ed elaborazione delle diverse prospettive di qualità di un evento formativo. Inoltre, si ispira al precedente sistema messo a punto dall’Istituto di Frascati per valutare la qualità del servizio scolastico, il modello denominato C.I.P. (contesto-input-prodotti), concepito appositamente per guidare l’esame metodico di un sistema educativo calato nella realtà e non in situazioni sperimentali.

Il RAV infatti ha un notevole pregio, che è quello di privilegiare il miglioramento e a tale scopo parte da una preliminare valutazione degli input, delle risorse e dei processi attivati in un determinato contesto, nonché degli esiti degli studenti, sia quelli interni che quelli esterni risultanti dalle prove INVALSI.

 

Prima del Rav

Non sono mancate precedenti esperienze di autovalutazione, promosse a livello centrale, come il progetto qualità promosso dal Ministero della pubblica istruzione (Premio Nazionale Qualità e Merito) 2010/11, e il più recente VALES:

Anche a livello regionale si è sperimentato molto. Basti citare il modello CAF, o le sperimentazioni storiche come quelle della RETE STRESA (strumenti per l’efficacia della scuola e l’autovalutazione), cercando sempre di integrare la valutazione interna con quella esterna in una prospettiva di miglioramento.

 

Punti di forza e debolezza di questa prima fase di autovalutazione

 

Punti di forza

Con l’autovalutazione guidata dal RAV,  le istituzioni scolastiche autonome vengono riconosciute come un soggetto che definisce la propria identità formativa nella relazione dialettica che instaurano con due polarità: da una lato il sistema nazionale di valutazione, il quale definisce il quadro delle finalità formative, degli obiettivi di apprendimento e degli standard di qualità del servizio entro cui declinare la propria identità peculiare; dall’altro la comunità locale, la quale rappresenta il contesto territoriale entro cui definire la specifica risposta alla domanda formativa – implicita o esplicita – posta al servizio scolastico.

Ogni Istituto è chiamato a far emergere e rafforzare la propria specifica identità formativa, come condizione per riconoscersi ed essere riconosciuti dai propri interlocutori e dal proprio territorio.

Una scuola senza identità, o con un’identità debole, è destinata a ridimensionare la propria immagine e le proprie potenzialità, sia in termini di capacità di attrazione dell’utenza, sia in rapporto alla costruzione di regole d’azione comuni e di processi condivisi tra gli operatori scolastici.

Il valore euristico dell’autovalutazione sta nel configurare il processo di creazione di senso come occasione di apprendimento collettivo, come processo strutturato di interazione dialettica tra esperienza e significato, tra informazione e schema cognitivo.

Tutte le considerazioni di cui sopra, fanno senz’altro emergere una positività dell’azione dell’Invalsi, quale fattore propulsivo all’interno del SNV, così come pure del ruolo culturale di aggiornamento e formazione tradizionalmente svolto dall’INDIRE.

 

Punti di debolezza

Poco chiaro appare invece il ruolo del “contingente ispettivo”, di cui non viene specificata la quantità, ma che risulta essere al massimo quello di coordinare i nuclei esterni di valutazione.

Pure se un dirigente tecnico (uno solo!) andrà a far parte della “Conferenza per il coordinamento funzionale del S.N.V.”, (art. 2, comma 5 del dpr 80/13), sostanzialmente il ruolo del contingente ispettivo appare essere esecutivo nella fase esterna della valutazione, ovvero quella di verifica, di situazioni non adeguate agli    “indicatori di efficienza ed efficacia” (art. 6 comma 2, lettera b) dpr 80/13), stabiliti preventivamente dall’INVALSI.

 

La valutazione di sistema o accountability e dunque la valutazione dei docenti

Gli ultimi due decenni sono stati caratterizzati sicuramente dalla richiesta di un aumento progressivo della valutazione dell’operato degli insegnanti, nell’ottica di responsabilizzazione dei risultati, ovvero degli esiti scolastici.

Un po’ di storia: il progetto Valorizza dell’allora Ministro Gelmini

Il   Ministero della pubblica istruzione nel lontano 2010 avviò una    valutazione sperimentale, su base volontaria, sia delle scuole, con  il progetto VSQ (valutazione per lo sviluppo della qualità delle scuole) che dei docenti, con il progetto Valorizza.

Il MIUR affidò all’Associazione TreeLLLe e alla Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo il compito di redigere un Rapporto di ricerca sull’efficacia del metodo “Valorizza” che tenesse conto di tutte le critiche e i suggerimenti provenienti dalle scuole.

Il rapporto di ricerca venne presentato a Roma il 7 dicembre, alla presenza dell’allora Ministro Francesco Profumo, dell’OCSE e della Banca d’Italia).

La finalità del progetto Valorizza era quella di premiare gli insegnanti migliori con una mensilità di stipendio in più, sul presupposto di individuare gli insegnanti che godessero di buona reputazione professionale nella loro scuola.

Finalità a quanto pare condivisa anche nel disegno di legge sulla “buona scuola”, dove è previsto un riconoscimento monetario da assegnare per la valorizzazione del merito del personale docente.

 

La valutazione dei docenti nel DDL scuola

Il modello di valutazione dei docenti delineato nel DDL scuola, è invece quello di un Comitato di valutazione che individuati i criteri per la valutazione dei docenti, demanda l’ assegnazione del premio in denaro al dirigente scolastico.

Il Comitato di valutazione è ben noto ai docenti, essendo un organismo istituito dal T.U. Istruzione, il D.lgs 297/94.

Nel DDL scuola, in analogia a quanto già previsto dal T.U. Istruzione, all’art. 448, primo comma, è lo stesso docente che può chiedere la valutazione del proprio servizio.

Ma l’analogia finisce qui, perché mentre nel T.U. tale valutazione si configura come un riconoscimento che il docente chiede sul proprio operato, e che “non si conclude con un giudizio complessivo, né analitico, né sintetico e non è traducibile in punteggio”, ( comma 3 dell’art. 448), nel DDL tale valutazione è finalizzata ad introdurre riconoscimenti in denaro, come se la funzione docente che “è intesa come esplicazione essenziale dell’attività di trasmissione della cultura, di contributo alla   elaborazione di essa e di impulso alla partecipazione dei giovani a tale processo e alla formazione umana e critica della loro personalità”, secondo quanto recita l’art. 395 del T.U., fosse monetizzabile con un importo in più una tantum e non invece destinataria di una retribuzione che assicuri “un’esistenza libera e dignitosa”, come stabilito dall’art. 36 Cost.

Proseguendo in un breve confronto tra il DDL e il T.U., profondamente diversa sarà pure la composizione del Comitato di valutazione, in quanto il comma 3 bis dell’art. 11 del DDL scuola sostituisce integralmente la composizione di tal e Comitato come prefigurato dal T.U., dove la composizione privilegiava i docenti e la designazione degli stessi da parte del Collegio docenti, mentre nel DDL si prevede oltre ai docenti, anche la presenza dei genitori, anche quella dei rappresentati dei genitori e degli studenti, a somiglianza di quanto avviene in un organo partecipativo quale a d es., il Consiglio di Istituto, con la differenza che qui si tratta di un organo che dovrà giudicare, valutare e stabilire criteri per arrotondare lo stipendio dei prof.


Cosa fanno i nostri vicini in tema di accountability

Gettando uno sguardo all’Europa, sicuramente diversi paesi europei hanno implementato sistemi di incentivazione, guardando ai risultati, come in Germania, Francia e Inghilterra, Danimarca, o lasciando che sia il dirigente scolastico ad individuare i meritevoli accordando loro miglioramenti salariali come avviene in Finlandia, Olanda e Norvegia.

In Belgio la valutazione ha un carattere potenzialmente sanzionatorio in quanto può comportare il licenziamento dei docenti che non ottengano risultati soddisfacenti.

In Germania, in Francia e in Inghilterra i risultati nella valutazione sono legati anche alla possibilità di ottenere una promozione. In Inghilterra, in particolare i docenti sono valutati annualmente dal capo d’istituto con il supporto di un consulente esterno e da alcuni membri dello Governing Body, l’organo di gestione della scuola, sulla base di standard professionali che ne definiscono i compiti, le conoscenze e le competenze a ogni tappa della carriera.

Nei Paesi più simili al nostro per tradizioni culturali e amministrative, quali la Francia, la Germania, la Spagna, già funzionano da anni sistemi di valutazione basati su un corpo specialistico di ispettori, centralizzato – come nel caso della Francia – o decentralizzato – nel caso di Spagna e Germania. Si tratta di valutazione dell’insegnante individuale ed esterna.

Le modalità di valutazione prevedono ispezione individuale (osservazione diretta dell’attività didattica, colloqui individuali), il giudizio del capo di istituto, i risultati oggettivi degli apprendimenti. Gli ispettorati possono dipendere dalle autorità centrali, come in Francia, o essere sotto la tutela delle autorità regionali incaricate dell’istruzione, come in Germania e in Spagna.

Caso emblematico quello dell’Inghilterra, dove la scuola deve render conto sia al livello centrale attraverso l’ispezione dell’OFSTED (Office for Standards in Education, Children’s Services and Skills ), sia alle autorità educative locali da cui dipende, sia alle famiglie poiché la libera scelta della scuola è accompagnata da un sistema molto avanzato di informazioni sulle performance delle scuole stesse con la messa online del rapporto dell’OFSTED e la pubblicazione dei risultati dei test degli alunni.

Come si vede, non si riscontra un modello omogeneo di valutazione dei docenti e neppure un modello prevalente, ma di sicuro in molti paesi la valutazione degli insegnanti viene effettuata attraverso una ispezione svolta da un corpo di specialisti esterni, come  garanzia di terzietà per i docenti, per gli alunni, per le famiglie, e per il dirigente scolastico.

 

Una idea alternativa

Ma, tornando alle facce della valutazione interna ed esterna, legate tra di loro da una valutazione di sistema attenta ai risultati delle prove standardizzate, come afferma l’esperto D.Nevo, occorre stare in guardia dal finalizzare l’accountability   alla volontà di governare le scuole mediante i test e di distribuire premi o punizioni a seconda dei risultati perché questo crea effetti distorsivi nelle scuole. Tra cui non solo il famoso “teaching to test”, ma anche una disaffezione e una estraneità del corpo docente ai test stessi, come è accaduto anche in Inghilterra, patria di un’“odissea senza significato”, come scrive M.Lawn nel bel libro “”Le scuole degli altri. Le riforme scolastiche nell’Europa che cambia”, a cura di F. Gobbo.

Inoltre i test non coprono tutti gli aspetti dell’azione delle scuole né quelli della preparazione e della persona di uno studente. Gli economisti sostengono che, per competere nel mercato globale, gli studenti hanno bisogno della matematica e delle scienze. Ma se si vuole che siano veramente preparati alle sfide del mercato globale, si deve valutare l’importanza della precisione, della tenacia, della motivazione.

E non c’è test che sia in grado di verificarle.

In alternativa, interessante appare l’idea dei professori Cecchi-Ichino, (Lineamenti di una proposta per la valutazione degli studenti nelle scuole, di D.Checchi, A.Ichino, G. Vittadini) di abbinare i risultati degli studenti nelle suddette prove ai dati socio-demografici, rilevabili dall’anagrafe nazionale degli studenti correlandolo così al singolo operatore della scuola la performance degli studenti e premiarlo conseguentemente .

 

La valutazione dei dirigenti scolastici

Anche la valutazione dei dirigenti scolastici ha avuti diversi prodromi, famoso il SI.VA.DI.S (sistema di valutazione di Dirigenti scolastici) che fu adottato in via sperimentale per l’a.s. 2003/04, volto a valorizzare, oltre ai risultati, anche la qualità dei programmi e dei processi di miglioramento avviati dal Dirigente scolastico nell’ambito delle sue responsabilità. Del SI.VA.DI.S si sono perse le tracce, inabissato come un fiume carsico. Ma la questione della valutazione del dirigente scolastico, o del “preside”, come si soleva chiamare, torna eccome.

Così appare alla ribalta nel DDL scuola, dove, all’art. 7 comma 8 bis, si prospetta un apposito Nucleo per la valutazione dei ds, composto sulla base dell’art. 25 comma 1 del D.lgs 165/01, ovvero “presieduto da un dirigente e composto da esperti anche non appartenenti all’amministrazione stessa.”

Alla dizione generica dell’art. 25 del D.lgs 165/01, che non specifica di quale dirigente possa trattarsi, né tantomeno chi sarebbero questi esperti, anche estranei all’amministrazione, lasciando nell’indeterminatezza la stessa qualifica di esperto che, in quanto estrano all’amministrazione, non si supporrebbe essere tale, il DDL rimedia con la specifica previsione che la valutazione del ds venga fatta da “dirigenti tecnici in servizio presso il Miur”, a cui “possono essere attribuiti incarichi temporanei”.

Quindi, da un lato si qualificano quali debbano essere i dirigenti e gli esperti, e con certezza si dice che sono i dirigenti tecnici (DT), ma quali? Quelli già in servizio presso il Miur, certo. Ce ne sono infatti provenienti dalle fila del concorso di più di venti anni, ancora in servizio, oppure vincitori del concorso del 2008, oltre a quanti già sul campo esercitavano funzioni ispettive con appositi incarichi temporanei. Sembrerebbe, dalla lettura della norma del DDL che si voglia incrementare il numero totale dei dirigenti tecnici reclutando in particolare questi ultimi, stabilizzandone il ruolo.

In successivi emendamenti al DDL, presentati in questi giorni alla Camera, si veda il sito http://www.camera.it/leg17/824?tipo=A&anno=2015&mese=05&giorno=09&view=filtered&commissione=07# , nelle more di un concorso da indirsi entro 3 anni dall’approvazione del DDL, per mettere in piedi il Nucleo per la valutazione dei dirigenti scolastici, si prospetta infatti la necessità di reclutare ipso facto tutti quei dirigenti scolastici e docenti finora investiti temporaneamente della funzione tecnica.

Ma, come è stato scritto anche da un ispettore di lungo corso, Gabriele Boselli, in un recente articolo su edscuola, Aprile 2015, https://www.edscuola.eu/wordpress/?p=60591, Aggiornamenti sulla questione ispettiva, “si dovrebbe tornare a divenire ispettori o dirigenti amministrativi solo attraverso il superamento di pubblico e rigoroso concorso per esami e titoli. (…) La nomina a tempo (ex art.19) di un ispettore tecnico non giova alla Scuola e può generare discontinuità e conseguenze negative sulla funzione tecnica, sulla qualità del servizio, sul valore delle terzietà dell’in-spicere, sulla responsabilità dirigenziale a cui sono tenuti gli ispettori tecnici con qualifica dirigenziale (ex DPR n.748/72, novellato dal d.lg. n.80 del 1998)” .

Dunque, che venga prima e principalmente il concorso pubblico a rimpinguare le fila degli ispettori, senza attingere a sistemi di reclutamento che potrebbero avere un prevalente sapore di interesse individuale anziché di esigenza di sistema, peraltro ineludibile.

Laddove in un sistema di valutazione dalle molte facce, che necessita anche di ispettori, questi devono poter valutare quanto di loro competenza in completa libertà e indipendenza di giudizio. I valutatori,  come la moglie di Cesare, devono essere al di sopra di ogni sospetto.

Inoltre, a voler ben guardare, non occorre peraltro costituire un apposito pletorico   organismo con una logica verticistica e centralistica.

La leva per far funzionare un sistema che ha un assetto autonomistico dovrebbe essere la flessibilità.

 

Proposte

La valutazione, quella sui docenti e sui dirigenti scolastici dovrebbe essere affidata al corpo ispettivo non solo per la patologia, come già avviene per entrambi o, prefigurando un apposito organismo.

Il compito vero di esperti della scuola quali si ritiene che siano i Dirigenti Tecnici, in un sistema di valutazione “maturo” dovrebbe essere quello di supportare e affiancare le scuole, aiutandole e accompagnandole verso il miglioramento o segnalando le eccellenze, in coordinamento con i dirigenti scolastici, i docenti e gli stakeholder, in un’ottica di valutazione di “sistema”.

Tutto ciò potrebbe essere realizzato efficacemente con apposite task force costituite negli Ambiti Territoriali, che sono strutture sicuramente più vicine ai bisogni delle comunità locali, rispetto agli Uffici Scolastici Regionali, strutture verticistiche che si frappongono tra il Ministero e le istituzioni scolastiche autonome.

 

Conclusioni

Per finire, la valutazione ha molte facce, nessuna di esse trascurabile e ognuna con una sua specificità.

Semplificare con soluzioni tampone affidando la valutazione ora agli umori degli utenti, ora al rigore degli ispettori, potrebbe far perdere di vista l’unitarietà dell’intento valutativo che comunque dovrebbe essere ben chiara a livello amministrativo centrale, oltre che esplicitata dai decisori politici.

Il Ministero, come esecutivo e il legislatore, come fonte normativa, hanno come compito quello di fissare le norme generali sull’istruzione, ma è tempo ormai di arrivare alla determinazione dei livelli essenziali di prestazione (art. 117 Cost. , secondo comma, lettera m) di un diritto civile e sociale quale quello all’istruzione e alla formazione, prioritario diritto di cittadinanza.

Allora sì che sarebbe fatta salva l’autonomia scolastica, come vuole la Costituzione (ancora art. 117 Cost., terzo comma) e nel contempo garantiti gli standard uniformi di insegnamenti e apprendimenti sul territorio nazionale, monitorabili con le prove standardizzate.

Perché è necessario stare dalla parte dei docenti

Disegno di legge “la buona scuola”

PERCHE’ E’ NECESSARIO STARE DALLA PARTE DEI DOCENTI

Gli emendamenti al DDL: la logica è quella del compromesso fra i poteri (del nulla) all’interno della scuola

di Giuseppe Guastini

 

Dopo lo sciopero del 5 maggio il governo, per il tramite di esperti del PD, ha dichiarato la disponibilità a patteggiare alcune modifiche al testo del DDL 2994 la “buona scuola” (molti ormai lo chiamano la “bona scuola”).

Tra gli emendamenti proposti il più osservato riguarda la “scelta” dei docenti da incaricare nella singola istituzione scolastica.

http://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0029700.pdf

Art. 2

9. Il piano triennale dell’offerta formativa è elaborato dal dirigente scolastico, sentiti il collegio dei docenti e il consiglio d’istituto nonché con l’eventuale coinvolgimento deiprincipali soggetti economici, sociali e culturali del territorio.

 

Art. 7

3. L’attribuzione, da parte dei dirigenti scolastici, degli incarichi ai docenti, avviene nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri:

a) attribuzione di incarichi di durata triennale rinnovabili…..;

b) pubblicità dei criteri che ciascun dirigente scolastico adotta per selezionare i soggetti cui proporre un incarico, tenuto conto del curriculum del docente;

c) pubblicità degli incarichi conferiti e della relativa motivazione…..e pubblicità del curriculum nel sito internet istituzionale della scuola;

4. I ruoli del personale docente sono regionali, articolati in albi territoriali, suddivisi in sezioni separate per gradi di istruzione, classi di concorso e tipologie di posto.

 

CHI PUO’ AVERE INTERESSE A UMILIARE I DOCENTI ?

Le relazioni inter-professionali prima del DDL potevano essere riferite al modello detto della comunità professionale, ossia un’organizzazione:

  1. a) pensata per integrare competenze diverse (DS, docenti, personale ATA) in funzione della

comune mission educativa;

  1. b) consistente non nella semplice sommatoria degli individui che la compongono ma dotata di una

propria identità globale, in grado di influenzare (nel bene e nel male) i comportamenti dei singoli

(vedi i sistemi complessi secondo E. Morin).

Questo modello ha funzionato poco e male ma soprattutto a causa delle gravi carenze delle politiche governative (potrei farvi un elenco sterminato di gravi e gravissimi errori governativi ma dovrei scrivere un libro; per cui fidatevi di quello che vi dico).

Il DDL 2994 sconvolge completamente il modello della comunità professionale collocando la funzione docente nella triste posizione del dover “essere scelto” (non importa da chi) per tre anni e, eventualmente, rinnovato nell’incarico.

Chi può avere interesse a trasformare la funzione docente in un prodotto da bancone dove andare a fare shopping ? Si può ragionevolmente presumere che l’idea governativa alla base di siffatto modello sia questa: la necessità di essere preferiti e rinnovati spingerà i docenti a migliorarsi continuamente e l’intero sistema ne beneficerà.

Insomma, dopo la legge elettorale, ci troviamo di fronte ad un ulteriore modello pedagogico (nel senso che “insegna” agli insegnanti a migliorarsi).

Se ci fate caso, il nuovo sistema di reclutamento ricorda vagamente il caporalato.

Ma il ragionamento governativo mostra le natiche: tutte le teorie delle organizzazioni e le buone pratiche attestano infatti che sono i sistemi cooperativi e non quelli competitivi ad essere i più produttivi.

La vera soluzione al problema della qualificazione dei docenti sta, ancora una volta, nel buon governo della scuola; chi ha responsabilità di governo deve assicurare:

  1. a) chi accede alla funzione docente deve essere in possesso del profilo di competenze necessario

per esercitare questo mestiere;

  1. b) la manutenzione costante del predetto profilo.

Un buon governo non può operare in deficit rispetto a queste elementari regole e poi delegare ad altri il compito di scegliere.

Tra l’altro, tutti i docenti riportati negli albi territoriali dovranno, in un modo o in un altro, essere tutti scelti; quindi…..

 

IL NOCCIOLO DELLA QUESTIONE

Dai resoconti giornalistici si ricava la sensazione che il criterio-guida alla base degli emendamenti governativi corrisponde non tanto a esigenze di qualità, funzionalità o dignità professionale quanto a trovare un compromesso fra poteri, in particolare tra quelli del dirigente scolastico e docenti.

L’intento evidentemente è quello di acquietare (o magari dividere) i sindacati.

Si tratta di un atteggiamento mentale tipico del politico medio italiano, sviluppato attraverso l’esercizio continuo ed estenuante della mediazione fra interessi.

E’ del tutto evidente però che la vera questione non è “chi” sceglie ma il fatto che si dia luogo alla scelta. La circostanza che gli emendamenti governativi potranno comprendere il compromesso di affiancare al DS uno o più “comitati” rappresentativi degli interessi dei docenti non cambia la sostanza: il docente da attore della comunità scolastica viene sospinto oltre la frontiera sud, quella della forza-lavoro a chiamata, scelto da un potere superiore e privo di una identità scaturente dalla appartenenza.

La comunità scolastica, a sua volta, sarà sempre più ricondotta a anonima sommatoria di scelti (talvolta desiderati, talaltra imbucati), sempre meno in grado di determinare quel valore aggiunto che solo l’identità comunitaria può esprimere.

Tutto questo non farà certamente bene alla scuola italiana.

Senza titolo

Senza titolo: non ce ne sono più

di Claudia Fanti

 

E ora siamo qui a provare a resistere ancora una volta all’attacco di una politica che definirla sconclusionata è un eufemismo.

 

Per chi insegna e apprende ogni giorno è una faticaccia dover sopportare una volta di più.

 

Sì, perché il dispendio di energie è eterno e infinito: da un lato c’è ogni bambino e bambina, ogni ragazzo e ragazza da affiancare e stimolare negli apprendimenti con accorgimenti e azioni volte a renderli autonomi, ad acquisire autostima, a non cedere se anche il mondo esterno invia messaggi violenti, disumani, contraddittori. Da un altro lato si deve tentare con ogni mezzo di non farsi portar via entusiasmo, saperi pedagogici e educativi da una politica rampante, veloce, arrogante, che tutto pretende di sapere e conoscere del mondo della scuola, una politica che detta ricette e non ne riceve bollando quelle altrui una volta come arretrate, una volta come antiquate, un’altra come perdenti, una come autoreferenziali e ciò senza entrare mai nel merito delle contestazioni.

 

Si ha un bel provare a far riflettere chi (politici al governo e loro aiutanti, opinionisti a vario titolo) non è ora in situazione di lavoro effettivo nelle aule, con manifestazioni e scioperi, sulla complessità del sistema scolastico composto da soggetti adulti e giovanissimi che nella quotidianità devono interagire per ovvi motivi di tenuta del sistema e lavorare in relazione costante; si ha un bel dire che nell’attuale società ciò che conta nella formazione della persona non è un’ennesima riforma, ma un approccio delicato e lento alla consuetudine a riconoscere le emozioni o i propri gesti mentali, per dirla con De La Garanderie, o al fare tesoro della Pedagogia Istituzionale, per ricordare Canevaro, due grandi fra i grandi che hanno sviscerato e rivoltato come un calzino l’idea di insegnamento-apprendimento.

 

Nulla, ascolto zero, pregiudizio verso le masse di docenti e studenti alle stelle. Esse sono invece chiamate a competere, a essere efficaci ed efficienti nelle scelte di indirizzo dentro il sistema scolastico, sia esso indirizzo della sede di lavoro sia delle scelte di metodologie sia quello relativo ai curricoli personalizzati e via dicendo…veloci è bello, veloci e allevati a batterie di quiz è ancor più bello, il tutto condito con raccomandzioni al favorire valutazioni a suon di voti, alla selezione sia di adulti, sia di studenti piccoli o meno che siano!

 

La mattina, quando ci si sveglia, la mente va al “cosa ci sarà di nuovo oggi per la scuola?”. Si trema un po’ e poi si ricomincia a credere che quel che si sta studiando, facendo, costruendo per il futuro, ha un senso che va oltre la politica contingente con i suoi diktat, con i suoi annunci e controannunci, con le sue farraginose elucubrazioni.

 

Gli anni passano e ai docenti vien detto una volta che son vecchi e un’altra che non lo sono abbastanza per essere collocati a riposo. Una volta si dice loro che non sono in grado di innovare e un’altra che sono il fulcro della società. Un balletto confusionario, un frullato di parole in libertà.

 

Ma si va avanti, perché si hanno delle certezze e cioè quelle relative a un tempo dell’apprendimento che raccolga le speranze di apprendere di ogni bambino e bambina, all’ascolto delle ipotesi su ogni segmento dell’apprendimento, dei ragionamenti dei bambini e delle bambine, i quali ci sono grati se li aspettiamo, se li induciamo a parlare, se dalle loro parole prendiamo spunto per affiancarli nei loro sforzi, grandi, per uscire dai bozzoli delle difficoltà di concentrazione, di espressione, per scrivere ciò che pensano e vivono. E mentre facciamo ciò, la mente quest’anno è presa dalla sensazione del pericolo incombente di un ennesimo stravolgimento epocale stile Gelmini. Non va bene sentirsi in pericolo, non fa bene alla scuola e al futuro. No, decisamente no, ma questo è ciò che accade a tanti che credono nella libertà di insegnamento di ognuno, anche di chi non la pensa allo stesso modo della politica scolastica in auge

 

So che a molti non interesserà minimamente il pensiero nascosto di tante maestre e a volte non interesserà perfino le maestre che un tempo simpatizzavano con slancio per le visioni di Gardner, Morin, Gordon, De La Garanderie, Perticari, Canevaro, per citarne soltanto alcuni Infatti alcune hanno cominciato a vacillare, a pensare al voto come a un segnale per le famiglie, a pensare che alcuni bambini non ce la faranno mai! E’ così. E mi sembra impossibile lo sia! Si sentono discorsi che fan rabbrividire. Ci sono voluti anni, ma è ormai cosa diffusa udire frasi del tipo: “Se non ce la fanno ad ascoltare, sono fatti loro, io spiego e rispiego, quindi non ci posso far niente”. C’è voluto quasi lo stesso numero di anni che tante e tanti impiegarono per abbandonare le certezze di una scuola cattedratica, trasmissiva, una scuola per alcuni e non per altri. Ogni riforma, un colpo verso il basso. Risultato: dispersione alle stelle.

 

Ma oggi la cosa è più nascosta: la si nasconde dietro ai progetti, alle feste, ai mercatini, alle fanfare o fanfaronate del mettersi in mostra. Perfino nell’organizzazione di eventi del territorio per l’infanzia, si invitano le scuole a produrre lavori di “eccellenza” per mostrare al pubblico di adulti adoranti le magnifiche produzioni dei figli e delle figlie, i quali inorgogliti gonfiano il petto per un giorno, prima un po’ stupiti, poi convinti che “mostra” è bello!

 

Ma chi insegna sa che bambini e bambine godono molto di più quando ce la fanno a superare ostacoli, a comprendere passaggi, a scoprire regole, a scrivere un testo corretto, a ragionare su un problema, a realizzare forme, a dipingere, a danzare…Chi insegna sa che quell’alunno considerato l’ultimo dalla pedagogia della fretta, da quella dell’addestramento che sottrae tempo ai perché condivisi per capire, quello lì, quell’ ultimo che nessuno ormai vorrebbe più in classe perché ne abbassa la media, è quello che dovrebbe dare il ritmo e la voglia di cambiare e approfondire ogni sapere, perché non c’è sapere che per essere tale non presupponga la revisione e l’adattamnto ai contesti di vita vissuta con l’altro che dovrebbe trovare con compagni e compagne la possibilità di produrre e imparare conversando, ragionando, scambiando idee e riflessione sui percorsi adottati da se stesso e dagli altri. L’arte dell’insegnare è quella che continuamente tenta e ritenta, si aggiorna per quell’ultimo e mentre lo fa per lui, trova incredibili strade per tutti gli altri e le perfeziona, le affina., ma non certo per essere insegnante più bravo e più richiesto dei colleghi e delle colleghe. Se invece il merito, tanto invocato da media e governi, dovesse essere la molla di un bravo docente, sarebbe l’ennesima motivazione estrinseca su cui si basano tanti meschini rapporti umani oggi, sarebbe veramente la fine della libertà d’insegnamento sancita dalla Costituzione. Si profilerebbe nel tempo, non subito per tutti, una figura di insegnante che applica alla lettera le ultime novità ministeriali, senza mettersi in discussione, senza inventare, senza più osare.

 

Il pericolo della libertà negata è il nostro mestiere, ed è un pericolo da casco dentro la mente, molto più grave del calcinaccio che piove sul fuori, senza nulla togliere anche a quello. E’ il pericolo del rimbambimento a suon di semplificazioni dei rapporti e degli apprendimenti. Un pericolo costante di riduzione di tempi nella classe con i compagni e le compagne che cooperano: si sente parlare e si legge di possibili destrutturazioni della classe, ma essa in Italia è il luogo laboratorio di ogni apprendimento, delle età evolutive che vengono a confronto, non del grado di intelligenza! La classe è l’insieme strutturato che consente di interagire con compagni e compagne noti con i quali si va imparando come si può vivere e quali norme si possono conquistare insieme; la classe consente riflessioni profonde su cittadinanza e stili di apprendimento; i gruppi di vocazione o di livello invece sono, in una situazione come quella italiana, uno specchietto per le povere allodole del qui e ora, senza pensare alle conseguenze della frammentazione di una comunità, di un microcosmo ricco di stimoli, conflitti e diversità da riportare ad armonia.

 

Infine il pericolo è anche quello che schiere di genitori, a furia di sentirsi ripetere che quiz, voti, addestramenti, questionari di gradimento procureranno il vero innalzamento del livello di professionalità dei docenti, ci credano e comincino a far fare test a casa ai figli (a fronte dei tanti che hanno protestato contro le prove censuarie Invalsi, in molte case si stanno già esercitando i figli con libretti e schede invece di farli vivere dialogando, raccontando storie, giocando, riordinando i propri giocattoli…).

 

Il mondo degli adulti continua a far confusione, ad aggrapparsi a qualche mito e così facendo priva l’infanzia e l’adolescenza dell’arte del narrare, dell’osservare, dello spiegare ragioni, del misurare spazi con i propri corpi, dell’appassionarsi a una melodia, del riflettere sulle difficoltà familiari e degli altri…).

 

 

 

Una proposta comunque per la valutazione dei “risultati” già presente in un emendamento del ddl potrebbe essere questa: la frequenza dei corsi d’aggiornamento seguiti dagli insegnanti anche da parte dei genitori interessati a valutare i propri insegnanti con competenza e rigore. Sì, perché un comitato di valutazione che si definisca organo della scuola ovviamente richiede tempi di studio, di rielaborazione e di approfondimento delle sue componenti, le quali, se proprio non avessero pari competenze dei docenti di lungo corso, almeno qualche infarinatura dovrebbero formarsela. O no?

 

La scuola vorrebbe cambiare di nuovo per recuperare il buono che rimane nei libri e nelle idee, ma non a suon di annunci di soldi comunque dovuti o di confusione organizzativa, bensì a suon di persone-insegnanti che stiano in relazione continuativa e costante con studenti e colleghi e di pedagogia del cambiamento con la giusta serenità per fare ricerca. Invece si odono frasi fatte di opinionisti legati a una scuola inadatta alle problematiche della società frantumata. E ancora adesso si sente ripetere che la scuola è in mano alla sinistra, la quale poveretta è frantumata e confusa come la società, invece di udire parole di riflessione su un’autonomia di ricerca che possa scegliere modalità didattiche e pedagogiche all’altezza dei tempi e delle richieste di attenzione per ogni stile di apprendimento, in classi numerose con la presenza di molteplici diversità. E per realizzare ciò i docenti dovrebbero essere messi nelle condizioni di realizzare il cambiamento collaborando e studiando insieme dentro le scuole, ritornando a parlare di qualcosa che vale senza spendere tempo inutile in stesure di protocolli, programmazioni per competenze, registri elettronici e addestramento alle prove Invalsi e obiettivi da raggiungere nel tempo voluto dalle stesse, invece di quelli dei soggetti in apprendimento-insegnamento.

Aggiornamenti sulla questione ispettiva

Aggiornamenti sulla questione ispettiva

di Gabriele Boselli

 

“E allora sorge spontanea una domanda: si ha bisogno di dirigenti tecnici?” (Mavina Pietraforte, EDSCUOLA, Aprile 2015)

 

Nel mutamento della forma-Stato tutti i sistemi ispettivi, da quelli sanitari a quelli scolastici e delle P.A. a quelli dell’economia etc. , andrebbero rimessi in grado di funzionare al meglio per dare alle istituzioni della Repubblica i necessari strumenti di analisi e progettazione scientificamente rigorosi e delle garanzie di equità e controllo.

Gli ispettori della P. I., da qualche tempo chiamati “dirigenti tecnici”, vanno impiegati per l’orientamento culturale e il miglioramento della qualità dei servizi, settori in cui la loro preparazione culturale, scientifica e tecnica e l’indipendenza di giudizio potrebbero costituire un elemento di impulso e di qualificazione dell’autonomia scolastica e un argine ai casi di strapotere dei politici e/o dei dirigenti amministrativi e scolastici.

 

Alla bella domanda sopra riportata della neoispettrice Mavina Pietraforte su Edscuola darei questa risposta: il bisogno ci sarebbe, e tanto, ma per troppi anni è apparso meglio soffocarlo, occultarlo, far morire di inedia la già gloriosa schiera. Ma non siamo morti, solo assopiti e possiamo svegliarci e realizzare appieno le possibilità di questo bel mestiere.

Vedrò di argomentarne, traendo in buona parte le mie considerazioni da quanto da me scritto per il Manifesto degli ispettori tecnici della Pubblica Istruzione. Per la qualità dello Stato e della scuola: la questione ispettiva, a cura di A. Bori, G. Boselli, R. Murano, C. Romano. Il manifesto avrebbe dovuto essere discusso in un convegno MIUR già fissato in Roma per il 29 gennaio 2008; fu poi improvvisamente disdetto “per imprevista assenza del sig. Ministro (Gelmini)” e rinviato sine die. Ancora oggi lo aspettiamo, se non altro per curiosità dato che gran parte degli estensori sono stati indesideratamente mandati in pensione. Pensione indesiderata, sì, perche far l’ispettore è nonostante tutto, a saperselo costruire, un mestiere tanto bello per chi lo pratica quanto strategicamente utile ai cittadini.

 

1. Idea di Stato

Quale il ruolo degli ispettori nella forma-Stato che si va profilando, anche per i mutamenti della Legge fondamentale? L’idea di Stato è stata e per me sarebbe ancora quella di un Ente che istituzionalizza (dà forma, garantisce, stabilizza) rapporti sociali ed economici altrimenti destinati al conflitto e alle prevaricazioni. Ma che ne è oggi dello Stato? La macchina dei media vi individua un orpello-fardello dell’Ottocento che dovrebbe dissolversi in una organizzazione politico-amministrativa molto snella, operante in regime di diritto privato e più funzionale all’economia. In questa prospettiva “liberista”, gli ispettori sono percepiti come inutile intralcio, tenditori di lacci e lacciuoli, al meglio semplicemente inutili, poiche il vero giudice della qualità sarebbe solo il Mercato.

Oltre le contingenze, dobbiamo invece sperare in una transizione di forma dello Stato -anche nelle sue varie articolazioni scolastiche- da sistema d’istituzioni pre-costituite ai soggetti individuali e collettivi, tendenzialmente autoreferenziali e preregolate da norme fisse a costellazione di istituzioni-servizio continuamente riprogettata in funzione dei soggetti fruitori reali e possibili. Con ispettori tecnici dei vari settori come punto di riferimento scientifico e agenti di controllo della qualità dei servizi resi. Il passaggio non dovrebbe infatti voler dire rinuncia delle strutture della Repubblica ad una propria intenzionalità etico-pedagogica, a una capacità di analisi scientifica e al dovere di prospettare agli operatori scolastici una gamma di scelte giuridicamente e scientificamente corrette.

Nella scuola gli ispettori sono soprattutto –insieme agli insegnanti- una manifestazione dello Stato come soggetto pensante oltre che vigilante. Il mutamento della forma/sostanza dello Stato comporterà una revisione profonda delle strutture organizzative generali e territoriali e dunque una ulteriore evoluzione della sua soggettualità: da Stato (scuole) “di tutti” a Stato (scuole) che sia anche “di ciascuno” assolva alla funzione di catalizzatore non unilateralmente selettivo del sapere.

 

2. Si divenga ispettori solo per concorso pubblico per esami e valutazione delle pubblicazioni

Tutta la funzione dirigente, amministrativa e ispettiva, è insidiata da alcuni fattori di discredito che vanno eliminati perché non più accettabili dalla coscienza etica del Paese. Bando dunque alle cooptazioni partititiche; si dovrebbe tornare a divenire ispettori o dirigenti amministrativi solo attraverso il superamento di pubblico e rigoroso concorso per esami e titoli. I nuovi “ispettori” nominati ai sensi dell’art.19 del DL 165/2001, tra cui non mancano in verità persone serie, preparate e moralmentemente rigorose, in buona parte sono insegnanti e presidi divenuti oggi   “ispettori” senza aver superato alcun concorso specifico per l’esercizio della funzione ispettiva.

Questo non è più accettabile: un dirigente ha come dover essere quello di un funzionario dello Stato, non del Governo pro tempore; il suo imperativo categorico è servire il Paese, la qualità della Scuola e non la coalizione partitica vincente. La latitanza dei concorsi pubblici per titoli ed esami (in verità l’assunzione per vie diverse investe tutti i ruoli), l’affido al sistema clientelare, l’estrema discrezionalità nella valutazione dei risultati nonché il sorvolare su presupposti di fatto e di diritto non rappresentano solo delle ingiustizie, ma costituiscono fattori di sfiducia presso docenti, dirigenti scolastici, utenti del pubblico servizio scolastico.

La nomina a tempo (ex art.19) di un ispettore tecnico non giova alla Scuola e può generare discontinuità e conseguenze negative sulla funzione tecnica, sulla qualità del servizio, sul valore delle terzietà dell’in-spicere, sulla responsabilità dirigenziale a cui sono tenuti gli ispettori tecnici con qualifica dirigenziale (ex DPR n.748/72, novellato dal d.lg. n.80 del 1998).

La funzione ispettiva peraltro contiene implicazioni di carattere costituzionale a garanzia della qualità del servizio scolastico nazionale. Essa deve dunque essere ridefinita sia dal punto di vista organizzativo che funzionale e tale compito non può essere svolto senza il fattivo contributo della stessa categoria degli ispettori tecnici. Per i prossimi concorsi occorrerà peraltro vigilare sulla impostazione altamente scientifica delle prove e sulla trasparenza nella valutazione di titoli e pubblicazioni.

 

3. Il (buon) lavoro degli ispettori presso il Ministero e negli Uffici Scolastici Regionali e Provinciali

Sul piano nazionale la normativa vigente già prevede che gli ispettori assolvano a compiti di alta consulenza tecnico-scientifica, facciano parte dei concorsi dirigenziali (anche dei quelli per dirigenti scolastici), redigano annualmente una relazione nazionale del corpo ispettivo, concorrano organicamente alla valutazione della costellazione scolastica. Tutto questo dovrebbe essere necessariamente ed effettivamente assicurato.

Per la funzionalità del ruolo ispettivo e per il bene della scuola appaiono necessari–

—Ripristino della Relazione annuale del Corpo Ispettivo (da redigersi anche sulla base delle Relazioni regionali)

—Istituzione di un organismo nazionale rappresentativo degli ispettori, che elegge democraticamente il Coordinatore e un gruppo ristretto di coordinamento nazionale. Tale organismo designa due ispettori presso il Comitato d’Indirizzo dell’INVALSI

— Possibilità di assegnazione agli uffici di ambito territoriale, alias UAT, al pari degli altri dirigenti di seconda fascia dell’area 1 (dirigenti ammnistrativi)

 

Anche negli Uffici regionali e provinciali si registra sovente l’assunzione in proprio da parte del dirigente amministrativo (direttamente o attraverso impiegati o distaccati di fiducia) anche delle competenze tecniche, con conseguente rallentamento o impedimento del lavoro dell’ispettore.

Bisognerebbe stabilire chiaramente che:

  1. Il dirigente tecnico si consulta con il dirigente amministrativo, risponde al Direttore generale USR per i riflessi amministrativamente rilevanti ed ha potere di autonoma decisione in campo tecnico nonchè di emissione e di firma sui documenti tecnico-pedagogici indirizzati alle scuole.
  2. Il DT può spedire comunicazioni alle scuole (es. invito a riunioni di studio o pareri tecnici di carattere generale), se la riunione non comporta spese, senza che il dirigente amministrativo abbia necessariamente autorizzato la spedizione.
  3. La concertazione sugli atti più rilevanti di ordine tecnico con il dirigente amministrativo ha necessario complemento in quella del dirigente tecnico sugli atti amministrativi di particolare importanza dell’Ufficio territoriale e dell’USR.
  4. I comandati e l’altro personale addetto all’ “Ufficio studi” fanno capo funzionalmente al dirigente tecnico titolare della funzione o dell’ufficio.
  5. Il coordinamento del GLIP va affidato esclusivamente ad un dirigente tecnico, anche di altra provincia se localmente non disponibile.

 

4. La missione (non “mission”, prego) di questo bel mestiere: riportare la cultura e la persona realmente al centro teleologico dell’organizzazione scolastica

Occorre più che mai che gli ispettori, un po’ impropriamente chiamati dirigenti tecnici (non dirigiamo, additiamo le direzioni di senso, un mondo dei fini; non siamo tecnici, ma essenzialmente persone di scienza e di penna), possano produrre e far valere una elaborazione culturale alta come base della progettazione nazionale regionale e provinciale e dello stesso modus operandi di tutti i membri dei vari Uffici, in modo da riportare la cultura e la persona realmente al centro di massimo impegno teleologico dell’organizzazione scolastica. Per questo i concorsi dovrebbero puntare all’accertamento del contributo dato dal candidato alle scienze dell’educazione.

Noi non abbiamo potere deterrente; solo se ci è dato modo di essere riconosciuti soggetti davvero capaci di magistero, attuatori di cultura e di scienze dell’educazione, potremo giustificare la nostra presenza. Per incrementare ulteriormente la qualita’ della scuola serve un corpo ispettivo che ne favorisca lo sviluppo, che la renda davvero di tutti e di ciascuno. Quella ispettiva può essere una stupenda funzione a garanzia di obiettivita’ e trasparenza; solo la sua terzieta’ le puo’ assicurare. L’autonomia degli ispettori accompagnerà le scuole nei nuovi scenari del mondo plurale e iperinfomatizzato.

La scuola ospita da sempre saperi di lungo respiro che –incontrandosi con il nuovo- portano a pensare le cose non solo come sono oggi ma come sono state e probabilmente muteranno. Nelle (rare) stagioni in cui è libera di lasciarsi muovere dal pensiero, quando sa essere crogiuolo del conoscere (anzichè catena di montaggio delle competenze e campo di espansione di interessi diversi), la scuola diventa organismo magistrale, posto sopra le oscillazioni della contingenza. E’ comunità di Maestri, (ovvero quel che ogni donna è uomo di scuola dovrebbe rappresentare) i quali seguono in primo luogo non le prescrizioni dei governi che passano ma le indicazioni che attraversano le epoche, che costituiscono il senso della storia, che preparano il futuro. Pur nella modestia delle sue forze, pur nella diffusa incomprensione del suo valore, è in-tesa a ogni area e stagione del Possibile. Gli ispettori siano i Maestri dei Maestri.

In vista di questa gamma di fini non dobbiamo cedere alla delusione, ma impegnarci per un forte rilancio della nostra funzione, da svolgersi nella pienezza di esercizio di quello spessore culturale, di quella fondazionalità scientifica, di quella serenità di valutazione e di espressione e di quella terzietà che caratterizzano lo status e le competenze ispettive; queste sono, e restano, non surrogabili. Un buon servizio ispettivo può essere l’inizio di una forte ripresa della nostra scuola, come di ogni altra attività dello Stato.

Ancora tre o quattro cose di buona scuola

Ancora tre o quattro cose di buona scuola

di Nicola Puttilli

 

1- Ogni inizio di anno scolastico è paragonabile a un piccolo percorso di guerra. C’è sempre qualche posto da titolare da coprire, ma non ci sono mai le graduatorie utili per nominare i supplenti giusti in via definitiva e comincia la via crucis dei contratti cosiddetti ex art. 40 “…in attesa di avente diritto”. E l’avente diritto arriva dopo due o tre mesi dall’inizio della scuola, dopo che, a volte, sulla stessa stessa classe si sono avvicendati anche tre o quattro supplenti.

Ci sono classi particolarmente sfortunate il cui insegnante titolare riesce ad ottenere per più anni l’assegnazione provvisoria o l’utilizzazione e che quindi per più anni sono sottoposte a questo indecoroso percorso ad ostacoli. C’è stato un anno in cui i docenti appartenenti a una quasi mitica “quarta fascia” hanno scalzato i supplenti in servizio alla fine di gennaio; nella mia scuola ce n’era una bravissima su un disabile grave che se ne è dovuta andare fra la costernazione incredula dei genitori e la disperazione del piccolo alunno.

E’ così almeno dal 1981, da quando ne ho conoscenza diretta avendo cominciato a “gestire” come direttore didattico questi passaggi aberranti; per quel che mi riguarda ho sempre cercato di evitare, almeno, i disastri più penosi derivanti da queste regole assurde, destreggiandomi ai limiti della normativa, non certo per interessi personali. Qualche volta ci sono riuscito, molte altre no e di questo mi rammarico.

E’ questo il “Sistema Nazionale di Istruzione” che dobbiamo difendere a tutti i costi? La garanzia dei diritti costituzionali di tutti, meno che degli alunni e, in particolare, dei più deboli tra loro?

L’organico funzionale assegnato alle autonomie scolastiche può essere la condizione di base per superare una volta per tutte questo sistema di assegnazione del personale ingiusto e primitivo e provare a dare continuità e qualità, fin dall’inizio dell’anno scolastico, all’organizzazione della scuola.

 

2- L’ultimo grande intervento di formazione in servizio del personale risale al 1992 dopo i Nuovi Orientamenti per la scuola dell’infanzia ed era stato preceduto da uno ancora più vasto relativo ai Nuovi Programmi per la scuola elementare del 1985. Aveva richiesto impegni finanziari considerevoli e il supporto di un organo tecnico qualificato come l’IRRSAE. Non tutti gli insegnanti avevano ovviamente tratto lo stesso giovamento da queste iniziative, ma si era comunque trattato di un grande momento di partecipazione e di crescita professionale collettiva, non sufficiente ma comunque necessario per porre in essere programmi allora fortemente innovativi e non meno impegnativi.

Subito dopo (a metà circa degli anni ’90) i nostri sindacati pensarono bene, in un memorabile contratto, di nobilitare (derubricare) la formazione a “diritto–dovere” sancendone la non obbligatorietà e, di fatto, l’impraticabilità, almeno a livello collegiale.

A seguito delle ultime Indicazioni Nazionali il Collegio della mia scuola ha deliberato un’interessante attività di formazione per tutti i docenti. Una giovane insegnante mi ha chiesto se la partecipazione era obbligatoria, ho risposto di sì trattandosi di delibera del Collegio. Qualche collega un po’ più navigato ha ritenuto di spiegarle che sì, la formazione la facevano tutti dato che, in fin dei conti, ci credevano, ma in quanto all’obbligatorietà bastava chiedere in sindacato. E il sindacato, puntualmente, ha consigliato alla giovane docente di farselo mettere per iscritto che la formazione era obbligatoria (che poi ci avrebbero pensato loro). E questo è quanto.

Personalmente non sono favorevole allo stanziamento di 500 euro a favore di ogni insegnante per fare liberamente fronte alle proprie esigenze culturali. Penso che le risorse possano essere meglio valorizzate a livello di scuola per realizzare le attività di formazione utili a sostenere il piano di miglioramento, esito del percorso di valutazione. E anche di questo si potrebbe discutere.

Resta il fatto che definire la formazione in servizio obbligatoria, strutturale e permanente (art.11 del DdL) mi sembra una grossa ri-conquista per la nostra scuola, soprattutto a confronto con lo sciagurato contratto del ’96.

 

3- L’art.25 del D.Lgs 165/01 assegna al dirigente scolastico “…l’organizzazione dell’attività scolastica secondo criteri di efficienza ed efficacia formative” e il D.Lgs 59/98 definisce lo stesso DS “…responsabile della gestione delle risorse finanziarie e strumentali e dei risultati del servizio”. Si tratta di norme fondanti dell’autonomia risalenti a quindici anni fa che non sottraevano al DS competenze e responsabilità di ordine formativo, ma semmai ne aggiungevano altre di ordine amministrativo e gestionale. Come queste competenze e responsabilità si siano tradotte in adeguati strumenti di gestione l’abbiamo visto, in modo fin troppo empirico e sommario ma anche molto aderente alla realtà quotidiana, nei punti precedenti di questo scritto.

Non che ruolo e funzione del DS non siano oggi importanti, lo sono eccome e lo sono sempre stati anche quando si trattava di presidi e direttori didattici. E’ quello del DS prioritariamente un ruolo di direzione intellettuale ed etica che connota, tra l’altro, il clima culturale e relazionale della scuola. E si tratta di fattori di estrema importanza, in grado di fare la differenza.

Credo, anche per esperienza diretta, che la scuola non sia paragonabile a nessun’altra azienda/impresa e che il clima cooperativo/collaborativo, sia quello di gran lunga più idoneo a garantire buoni risultati anche sul piano degli apprendimenti. Ma il clima collaborativo non basta per fare una buona scuola e poi non nasce per decreto: si fonda sulle competenze, sulla motivazione, sulla formazione continua, sulla valutazione formativa, sulla disponibilità al confronto.

La scuola è un’organizzazione complessa con precise finalità, la cui gestione non può essere lasciata al caso o alla libera sommatoria delle microdinamiche interne. Deve comunque trattarsi di una gestione professionale affidata a dirigenti capaci, formati e valutati prima e più di tutto il restante personale.

D’altro canto assegnare effettivi strumenti gestionali al DS, in misura peraltro ampiamente inferiore a quella dei loro colleghi europei e in un quadro di leadership diffusa e partecipata, significa semplicemente cominciare finalmente a dar corpo all’autonomia scolastica, che non è solamente un affascinante progetto ma una legge dello Stato.

 

4- Gli organici, la più preziosa tra le risorse disponibili, sono attualmente assegnati agli uffici scolastici regionali prima e alle scuole poi sulla base di parametri falsamente oggettivi che non hanno, ormai, alcun rapporto con la realtà. Dove si registra una significativa presenza di tempo pieno è norma, ad esempio, che scuole primarie con lo stesso tempo scuola effettivo abbiano organici anche sensibilmente diversi e non è detto che quella più favorita operi nelle condizioni più difficili. L’assegnazione del doppio organico avviene infatti sul tempo pieno storico, sulla base di una fotografia scattata più di vent’anni fa che non ha più relazione con la situazione attuale, riproducendo condizioni di iniquità e ingiustizia.

A livello più generale è noto che i dati OCSE PISA segnalano il nostro Paese come quello con i maggiori squilibri interni in relazione alla qualità degli apprendimenti. In un Paese così la funzione di riequilibrio e perequazione dello Stato è fondamentale e, in questo senso, mi piacerebbe interpretare l’art.6 del DdL come la possibilità di rispondere alle situazioni per come effettivamente si presentano nelle diverse realtà e nei rispettivi piani dell’offerta formativa, nonché di sostenere e supportare in modo finalmente serio e qualificato le “aree a forte processo immigratorio e quelle caratterizzate da elevati tassi di dispersione scolastica”.

 

Su questi temi, che sono nodi problematici da troppo tempo irrisolti, dovremmo confrontarci per trovare le soluzioni più adeguate nel rispetto del diritto di tutti, a partire dai meno tutelati. Molto, come sempre, dipenderà da come ciò sarà praticamente realizzato, dalle misure adottate dal livello centrale fino a quelli periferici e più capillari. In questo può e deve essere fondamentale l’azione e il contributo delle Associazioni professionali e delle Organizzazioni sindacali.

Lo scontro frontale, in un clima da psicodramma collettivo, serve solo a lasciare le cose come stanno e non si tratta del migliore dei mondi possibile.

Dopo il 5 maggio: brutte figure, depistaggi, effetti desiderati

Dopo il 5 maggio: brutte figure, depistaggi, effetti desiderati
di Cosimo De Nitto
Da squadristi a interlocutori da accettare, rispettare, ascoltare. Da tre fischiatori che sanno solo dire no senza proporre niente a interlocutori rappresentativi di proposte positive. Incredibbbile, strabiliante, una folgorazione!
Che cosa è potuto succedere per cui in un battibaleno Giannini e Renzi hanno ribaltato così radicalmente la loro opinione sui docenti, le loro associazioni, i sindacati?
C’è qualcosa che non torna.
Come si può passare così improvvisamente da un giudizio tanto sprezzante, insultante, dal disprezzo e l’intolleranza assoluta che chiamava genitori, studenti, media e opinione pubblica al linciaggio dei docenti, a invitarli al tavolo della discussione per le modifiche di quello schifo di ddl?
C’è qualcosa che non torna.
Che questa gente che ci comanda non sia seria, siano dei quaquaraqua falsi, bugiardi e perciò pericolosi e inaffidabili noi lo sapevamo già. Per chi ci rimproverava di essere troppo duri e severi una prova evidente della fondatezza del nostro giudizio. Cosa altro si può pensare davanti a queste rodomontate, questi attacchi furibondi e sprezzanti verso i docenti, sindacati, associazioni, tutto il mondo della scuola e poi questa fulminea retromarcia col sorriso ipocrita della Giannini che pare dire: avevamo scherzato.
C’è qualcosa che non torna.
Come si fa a cambiare giudizio e linea politica così radicalmente nell’arco di una mezza giornata. Mentre i lavoratori della scuola e gli studenti insieme ad associazioni e sindacati riempivano le piazze contro il ddl e la Buona Scuola di Renzi-governo-PD (scritti col trattino tanto sono la stessa cosa visto che il governo presenta il ddl  ma il PD “tratta” gli emendamenti secondo una concezione non proprio tipica delle democrazie occidentali in cui partito-governo-parlamento-Stato sono la stessa cosa), la Giannini continuava a dire alla Camusso che non aveva letto il ddl, Renzi continuava a recitare il mantra trentino “noi(cioè LUI) abbiamo dato 3 mld alla scuola, noi(cioè LUI) abbiamo assunto 100.000 precari, non capiamo(LUI) le ragioni di questa protesta, anzi, protestate pure noi andremo avanti cocciuti come caterpillar, avanti, nessuno ci fermerà!!!
A distanza di poche ore squillano le trombe, rullano i tamburi: indietro tutta miei prodi! altrimenti questi tre fischiatori e squadristi ci fanno un culo così, fra l’altro le elezioni amministrative sono alle porte. Flettiamo senza spezzarci, temporeggiamo, facciamo ammuina, puntiamo sulla propaganda, togliamo i panni dei mazzieri, mettiamo quelli dei dialoganti ragionevoli disponibili all’ascolto e alla condivisione. Non ha funzionato il bastone, anzi quello ce l’hanno dato sul cranio, proviamo con la carota. Questa è arte del comandare possiamo insegnarla anche a quel pirla del Machiavelli e al suo centauro.
Cosa c’è stato in mezzo a questa conversione paolina sulla via di Trento?
C’è stato uno sciopero generale unitario della scuola e di tutte le sue componenti sociali, sindacali, associative quale mai si era verificato nella storia della nostra scuola della Repubblica.

Chi andrà a trattare se ne faccia un punto di forza. La categoria, il mondo della scuola non ne può più delle pagliacciate, dell’autoritarismo, della propaganda, del mercimonio della scuola, del vilipendio degli insegnanti e del disprezzo della funzione docente. Non ne può più degli apprendisti stregoni che credono di poter importare e pastrocchiare modelli importati da altri Paesi (dove fra l’altro non funzionano), da altri settori (aziendalismo), non ne può più persino della violenza fatta alla lingua italiana con l’esibizione di anglismi inutili dal punto di vista del significato e del significante.

Intanto la mobilitazione continua con gli scioperi contro le prove invalsi. Una mobilitazione e una contestazione che va sostenuta, va partecipata perché i mali che abbiamo denunciato nelle piazze il 5 maggio partono da qui o comunque trovano su questo terreno la linfa per svilupparsi e devastare la scuola italiana.

Avviso ai naviganti per il dopo 5 maggio: non ci sono solo i soggetti sociali e sindacali con cui il PD-governo, o il governo-PD che è la stessa cosa, si deve confrontare. C’è già una proposta di legge di iniziativa popolare (LIP) agli atti parlamentari con cui il ddl può e deve confrontarsi. La LIP è frutto di un processo democratico di partecipazione e elaborazione collettiva di 100.000 insegnanti e genitori e oggi viene sostenuta da molte associazioni di docenti, studenti, genitori. La LIP il 5 maggio era in piazza, suoi i contributi per una scuola pubblica-statale, democratica, comunitaria, ispirata ai principi e al dettato costituzionale, un scuola inclusiva e delle opportunità per tutti senza distinzioni, una scuola che non pensa solo al lavoro, ma prima ancora alla cittadinanza, alla persona, alla cultura, alla qualità della vita. La LIP il 5 maggio era in piazza a ricordare che gli insegnanti sono un patrimonio della Repubblica, non dipendenti personali di qualcuno, si chiami dirigente o si chiami pure governo.

Per una succinta eziologia dei “superpoteri” dei ds

Per una succinta eziologia dei “superpoteri” dei ds

di Mavina Pietraforte

 

Sono stata docente a lungo, in un passato prossimo ancora vicino.

Mentre in un passato remoto ricordo il passaggio all’autonomia, un collega convinto che affermava “c’è già l’autonomia” e io perplessa, “ma dove? Come?”.

Non vedevo cambiamenti. Solo successivamente seppi che la preside stava facendo un corso per diventare “dirigente”. Dissero che l’aveva superato con ottimi punteggi. Molti di noi rimasero increduli, conoscendo la nostra preside come persona introversa, poco cordiale, se non a tratti.

Per sua natura era piuttosto diffidente, sostanzialmente incapace di aprirsi alla relazione con l’altro,  quasi spaventata delle dinamiche che avrebbero potuto scaturire dal richiedere collaborazione ad altri che non fosse la sua eterna vicepreside, unica depositaria della sua fiducia.

Tutti noi conoscevamo questo assetto strutturale della sua presidenza, ci chiedevamo come potesse tramutarsi in una persona che non solo comanda, ma dirige, coordina.

La delusione venne strada facendo: le cose non cambiarono affatto.

Ma l’autonomia c’era, insomma, e allora e noi un pomeriggio ci riunimmo, docenti di diverse discipline per attuare una programmazione interdisciplinare (allora non si parlava ancora di competenze), addirittura arrivando ad ipotizzare una diversa articolazione dell’orario. Eravamo in una auletta di fianco al bar, di pomeriggio, finite le lezioni, sinceramente ispirate da questo slancio didattico.

La preside (o meglio la già dirigente) irruppe nel corso della riunione, chiedendoci conto del nostro essere lì, finite le lezioni, ancora a scuola. Le illustrammo il progetto, io le chiesi “si può, preside?”.

E lei no, assolutamente, cosa ci veniva in mente di cambiare, stravolgere gli orari. E la vigilanza? Come faceva lei a sapere chi in quell’ora doveva essere in classe, quale materia si dovesse impartire in quell’ora e non un’altra.

Capimmo che non era possibile. Se c’era l’autonomia, era da un’altra parte. Il volere del dirigente era il volere della legge che prima di tutto significa ordine, disciplina, vigilanza e tutti al suo posto.

Controllo.

Controllo che poi si accentuò, con la dirigente che subentrò a quella ormai andata in pensione, sentito l’affanno greve di tener dietro a tutte le novità legislative che dal 2000 in avanti si andavano succedendo.

E venne questa nuova dirigente, insieme con la “riforma Brunetta” (dlgs 150/09) e si suoi poteri disciplinari in mano al dirigente. Il responsabile della struttura, ovvero a scuola (che è pubblica amministrazione – dlgs 165/01 art. 1, comma 2 ),  il dirigente scolastico (art. 25 comma 2 dlgs 165/01), istruisce e conclude il procedimento disciplinare per fatti di minore gravità, o per quelli di maggiore gravità, deferisce gli atti all’Ufficio Procedimenti disciplinari (l’art. 55 bis nel dlgs 165/01 come introdotto dall’art. 69 dlgs 150/09.

Ma non avevamo già il T.U. 297/94, con il   rimprovero scritto, la censura, la sospensione?

Il caro, vecchio Testo Unico, pensato, riflessivo, articolato in tanti aspetti, proprio solo dedicato al mondo della scuola. Non bastava?

No, non basta più. Ora c’è un dirigente a scuola.

I docenti sono impiegati dello Stato e come tali possibili fannulloni. E allora il dirigente può e deve punirci, altrimenti sarà lui stesso punito.

Così assistemmo noi docenti di quella scuola un passaggio strano: da una preside autoritaria, ma tutto sommato goffa e in fin dei conti rispettosa di quelli di cui riconosceva il valore, seppure distorta nel suo sguardo sui docenti da un’onnipresente vicepreside che catalogava a suo modo e distingueva tra “simpatici” e “antipatici”, ad una nuova dirigente ben contenta dei suoi “superpoteri” disciplinari che anzi, non vedeva l’ora di mettere alla prova.

Al minimo scontro con qualche facinoroso che di sicuro non sarebbe mancato, vista l’usura quotidiana del dover eseguire a volte senza trovare il senso di quello che si doveva fare, se non ritrovandolo in classe con gli alunni, di sicuro quel decreto 150 sarebbe tornato utile.

Ecco, questi due passaggi, autonomia e dirigenza li ho visti così, nelle mani dei presidi prima e dei dirigenti poi.

Infine sono uscita dalla scuola, ma la nostalgia per un mondo possibile, dove i docenti si scelgono il proprio rappresentante, affinché non debbano sentirsi umiliati, affinché il loro lavoro sia solo quello libero di esprimere le proprie idee cercando di spiegarle alle nuove generazioni, apprendendo anche dalle loro risposte, e comprendendo il tempo che passa e quali siano i valori che riescono a tener desta l’attenzione dei giovani, quella nostalgia me l’ha evocata una docente fra gli scioperanti di ieri, quando l’ho sentita esclamare, in uno dei tanti cortei ripresi in TV, “siamo noi che facciamo la scuola, noi che entriamo in classe”.