Archivi categoria: Bacheca

Chi zavorra l’innovazione educativa?

Chi zavorra l’innovazione educativa?

di Enrico Maranzana

 

L’articolo di fondo del Corriere della Sera del 30 giugno, “Gli abusivi della cattedra”, stigmatizza l’operato della giustizia amministrativa che ha annullato la bocciatura di uno studente liceale con gravi carenze in tre materie. Lo scritto ha avuto numerosi commenti che, tranne in un caso, hanno condiviso la denuncia per l’indebita intromissione.

Quale distanza separa la cultura contemporanea dal mondo accademico e dall’ordinario sentire!

Quale distanza separa lo Stato di diritto dal sentire comune!

Non si osserva un elefante con il microscopio!

Per esplorare il campo in cui nasce il problema e per una sua corretta definizione è essenziale scegliere un adeguato livello d’osservazione.

 

Il legislatore, per dominare le dinamiche socio-culturali, ha finalizzato il sistema educativo alla promozione e al consolidamento delle capacità dei giovani, capacità che si manifestano sotto forma di competenze, generali e specifiche.

Un traguardo che la scuola unitariamente deve perseguire, armonizzando tutti gli insegnamenti: la conoscenza rappresenta il mezzo, lo strumento per far lievitare le qualità degli strumenti.

La conoscenza non è più il fine ma il mezzo per progettare  percorsi didattici.

 

La levata di scudi contro la sentenza del Tar del Lazio ha un significato clinico: la fissità; non si vuol abbandonare il tradizionale modello di scuola.

La giustizia amministrativa, invece, rappresenta un significativo contributo per l’ammodernamento dell’istituzione scolastica, un’occasione per supervisionarne l’ordinaria gestione. Un indirizzo che il Miur sta percorrendo – in rete: “Avrà successo l’impresa del ministro Giannini?”

 

“Sono ancora i professori ad avere la responsabilità pedagogica dell’insegnamento nelle nostre scuole?” è la domanda posta inizialmente dall’editoriale del corriere. Rimando in rete a “All’origine della dispersione scolastica” per saggiare la dimensione della questione posta.

 

Un nuovo management nelle scuole?

Un nuovo management nelle scuole?
Partire col piede giusto

di Domenico Sarracino

 

Le questioni che urgono nel nostro sistema scolastico sono diverse e si vanno sempre più aggrovigliando in un modo che non può non preoccupare. La direzione, la gestione e la responsabilità delle scuole – cioè il ruolo dirigenziale e quello del cosiddetto “middle management” – si pongono con una particolare evidenza, a seguito dei noti processi di dimensionamento, accorpamento e riorganizzazione che l’infausta stagione dei tagli lineari ha riversato sulle scuole negli ultimi anni. La complessità sia quantitativa che soprattutto qualitativa, che si è determinata, non è stata accompagnata da solidi e strutturati assetti e soluzioni organizzative di tipo nuovo, mentre la questione dell’articolazione della carriera docente – che a ciò si associa strettamente – è rimasta sullo sfondo, oggetto di un lungo ed irrisolto dibattito. E comunque è a tutti chiaro che così non si può continuare, che le mega scuole determinate dai nuovi parametri richiedono un ripensamento complessivo. Ben sapendo che entrambe – gestione del sistema e sviluppo della carriera docente – sono materie delicatissime, da maneggiare con estrema prudenza e senso della realtà effettiva delle scuole. Al Miur ci sono cantieri, tavoli e non so che altro; ed ora improvvisamente anche fretta, tanta: il che non può non impensierire chi conosce le scuole ed il danno che politiche ed interventi spesso improvvisati, poco soppesati, e privi dei necessari supporti hanno determinato, creando un diffuso scetticismo e diffidenza. Fa bene perciò chi segnala il timore, molto diffuso, di modelli organizzativi calati dall’alto, che- come è spesso capitato- sono apparsi o sono stati cartacei, farraginosi e inadatti al fine. E’necessario lavorare con molta prudenza – e spendendo il tempo che occorre – a creare modelli che evidenzino il maggiore impegno quantitativo e qualitativo, e fare in modo che siano costruiti a partire dalle esperienze e dalle diversificate esigenze di funzionamento che presentano le istituzioni scolastiche. Guai, ad esempio, a non tenere bene in conto il rischio che si possano creare nelle scuole altre tensioni e malumori ( e temo anche contrapposizioni) che si aggiungono a quelli, non pochi, già esistenti e dovuti alla scarsità di fondi, alla situazione contrattuale, all’incertezza dei diritti-doveri, alle crescenti incomprensioni con le famiglie, alla conflittualità che si va diffondendo, alle condizioni dei docenti precari , alla necessità di affinare e personalizzare la didattica in condizioni lavorative che restano immutate o addirittura peggiorano…

 

I segnali da dare

Credo perciò che un nuovo modello di organizzazione e funzionamento delle scuole – che è cosa necessaria – possa veramente decollare e non impantanarsi se avviene considerando adeguatamente le concrete situazioni già sperimentate in questo campo, coinvolgendo gli interessati, e in un quadro di politiche scolastiche che diano evidenti segnali di una nuova e coerente attenzione al mondo della scuola. Evitando insomma che da un lato si ricada in proclami di avveniristiche innovazioni e astratte ingegnerie organizzative, e dall’altro, subito dopo, arrivino contrordini, marce indietro, tagli negli organici, nelle risorse, nel funzionamento, ecc. Insomma è necessario che innanzitutto si manifesti e si percepisca l’intenzione di voler aprire una fase nuova: a partire dal riconoscimento di tutto il lavoro docente, dal rinnovo dei contratti, dal mantenimento degli impegni presi, dalla serietà del reclutamento, dall’incentivazione alla buona formazione, dalla qualità delle strutture e dei servizi.

Le attenzioni da sviluppare sono perciò diverse e complesse. Provo a segnalarne qualcuna a chi dovrà provvedere a mettere a punto proposte complete e ben strutturate che investono aspetti giuridico-contrattuali,   profili professionali, assetti organizzativi e gestionali, criteri e procedure di reclutamento, trasparenza ed imparzialità.

Le istituzioni scolastiche sono comunità educative

E’ necessario più di ogni altra cosa, che questi modelli non siano mediati da altri mondi – che rispondono a finalità, logiche e realtà organizzative proprie – ma scaturiscano dalle peculiari finalità e funzioni proprie delle scuole, non a caso definite anche comunità scolastiche. In quest’ottica il tema del disegno di una diversa leadership e/o management nelle scuole ( che preferirei chiamare di guida e di propulsione) implica anche – e non mi pare che sia stato ancora richiamato- il ripensamento del ruolo del dirigente. Si tratta di mettere in campo forme di guida più articolate e diffuse, ma anche responsabilizzanti , che da un lato siano in grado di essere più vicine ai processi didattici, all’organizzazione curricolare, alle complessità territoriali, alle articolazioni degli indirizzi di studio, all’interazione con alunni, genitori e Istituzioni, e dall’altro siano capaci di evitare i rischi di disarmonie e/o di smarrimento del carattere unitario che il progetto educativo delle scuole deve necessariamente mantenere.

Di una peculiare importanza è il tema delle modalità di reclutamento delle nuove figure di sistema: bisogna evitare la corsa a certificazioni, titoli, attestati ed al “mercato” che su questa materia sta sempre dietro l’angolo. Bisogna che sia chiaro che la nuova carriera dovrebbe essere legata ad un maggiore impegno, evitando che chi non intraprende questa strada si senta meno coinvolto, deresponsabilizzato o di minor valore: insomma che non si tratta di premiare o punire ma di riconoscere compiti e funzioni diversi, il cui accesso è aperto a tutti quelli che vogliono provarci. Preoccupazione condivisibile è quella che riguarda l’ individuazione delle nuove figure di sistema: chi deve scegliere, con quali procedure e garanzie, e sulla base di che cosa. A me pare evidente che, da un lato, chi ha l’onere della responsabilità complessiva di un’istituzione scolastica debba avere anche la possibilità di determinarne la sua organizzazione e funzionamento, e dall’altro che    siano previsti contrappesi (altre figure, esperti, organismi), in modo da garantire ai docenti imparzialità, trasparenza ed equilibrio. Ma, affinchè ciò possa davvero funzionare è necessario avere cura di determinare un quadro di reale responsabilità, diverso dalle pastoie attuali,   in primo luogo del dirigente, ma anche di chi con lui viene a condividere la conduzione delle scuole.

La riflessione che manca

Chiedevo prudenza e conoscenza dello stato delle cose anche perché a me pare che sia mancata finora una vera ed analitica riflessione sulle figure di sistema così come sono state sperimentate: si è frettolosamente preso atto della loro inadeguatezza, non sono stati considerati i chiaroscuri che pure ci sono stati, e si è subito girato pagina come purtroppo frequentemente avviene. Sarebbe necessario, invece, sottoporre ad uno sguardo riflessivo e ravvicinato tutta la filiera che ha caratterizzato l’esperienza di queste nuove figure: finalità e compiti previsti, risultati e buone pratiche, modalità di individuazione, tipologie di compiti affidati, difficoltà oggettive e/o soggettive, tempi e situazioni per operare. Cito ad esempio, richiamando l’esperienza concreta, che una delle difficoltà sta anche nei tempi da dedicare al compito che non sono solo quelli del lavoro preparatorio, ma anche quelli di espletamento che spesso coincidono con l’orario di insegnamento ora del docente figura di sistema ora degli altri docenti; e che tale difficoltà non si risolve neppure utilizzando sempre il giorno libero settimanale, soprattutto se capita di sabato , per difficoltà nei contatti soprattutto con altri enti, Istituzioni, associazioni, ecc. Insomma, riflettendo su questo esempio, si ricava già una prima indicazione: bisogna prevedere nell’ambito dell’orario di servizio un tempo specifico da destinare al nuovo compito, agendo o sulla riduzione delle ore di insegnamento o sull’ aumento complessivo dell’orario di lavoro settimanale complessivo. E così di seguito altre importanti indicazioni potrebbero venire dalla riflessione critica sui criteri e modalità di scelta che i collegi docenti hanno considerato nel definire i profili professionali delle figure di sistema, sulle esperienze realizzate, sulle situazioni in cui hanno funzionato ed in quelle in cui si sono ingolfate, sul ruolo che intorno ad esse ha saputo giocare il Ds, sulle differenti esigenze presentate nelle aree di intervento, tra quella didattico-progettuale e quella organizzativa e gestionale.

Bisogna produrre idee chiare, essere disposti a confrontarle con la realtà e a sperimentarle, conquistarsi la credibilità, rendere evidente che non esistono preclusioni a priori, che non si vuole dividere né classificare, ma determinare nuovi compiti e carichi di lavoro , che siano per questo remunerati e capaci di aprire l’accesso a ruoli e carriere diverse, permettendo a chi vuole, ed è disposto a fare di più o diversamente, di poterlo fare.

Insomma l’impresa va tentata, ma occorre che sia pensata da dentro le scuole, nel quadro di un vero rinnovamento, di una valorizzazione del ruolo delle scuole e dei suoi operatori, delle risorse che occorrono e di chiari assetti normativi e giuridico-contrattuali.

Infanzia breve? No grazie

Infanzia breve? No grazie.

di Cosimo De Nitto

“A 4 o 5 anni i bambini possono iniziare a scrivere, leggere, contare e possono anche essere bravi nel farlo.”

 

Questa frase viene spesso ripetuta da parte di chi, di fronte al tema dell’anticipo, fa questa affermazione teorica che, se riferita a singoli possibili casi, non può certo essere smentita, ma riferita all’universo dei bambini della scuola dell’infanzia non risponde al vero, non ci sono ricerche scientifiche censuarie che dimostrino ciò con evidenza e certezza assoluta, la pratica e l’esperienza quotidiana delle insegnanti che lavorano con tutti i bambini dice piuttosto cose molto diverse circa il mito del bambino ipercognitivo, nativo digitale, precoce ecc.

 

La qualità dell’apprendimento

Il problema non è tanto la capacità di apprendimento del bambino di quella età, ma la qualità di questi apprendimenti. Per dirla schematicamente, si può apprendere in due modi: 1) per addestramento/imitazione, per sequenze reiterate, per ritenzione mnestica, meccanicamente insomma; 2) si può (deve) apprendere in modo significativo, per costruzione ed elaborazione di concetti, per reti di significati, per motivazione intrinseca, che è ben altro ed oltre il gioco, anche se questo resta, come l’interesse, un veicolo utile da non sottovalutare e a cui ricorrere come approccio soprattutto in caso di bambini piccoli. La scuola, guardando alle sfide complesse della “società della conoscenza”, all’evoluzione dei saperi, alla rapida obsolescenza di mestieri, professioni, modelli economici sa bene che non è del primo tipo di apprendimento che ha bisogno il cittadino del futuro, piuttosto, e preferibilmente, del secondo tipo.

Non basta la ripetizione a memori della sequenza di numeri per dire che un bambino sa contare, se non ha il concetto di numero, di quantità, e non ha ancora la capacità di rappresentazione, trasposizione e scambio tra il simbolo e gli oggetti concreti. Per non parlare poi dell’apprendimento della lingua e della capacità di sviluppare la riflessione sulla lingua (metalinguistica), oppure la capacità di operazioni fini che scaturiscono da una precisa coordinazione oculo-manuale come nel caso della scrittura. Si può obiettare che i bambini pachistani sono capaci di operazioni fini coordinate nel tessere da piccoli schiavi i famosi tappeti, ma evidentemente questo non può essere l’obiettivo di una scuola che vuole emancipare e far crescere in libertà e rispetto il bambino con la consapevolezza di essere autonomo e libero, possibilmente felice di essere venuto al mondo e di vivere l’avventura della scoperta dapprima attraverso il gioco, poi, man mano che cresce, con l’applicazione, la concentrazione, il lavoro.

 

Non ci sono solo genietti

E’ certo che ci sono le eccezioni, i “genietti”, come accade sempre e come è naturale. Ma quando si fa questo discorso bisogna aver presente che qui si tratta della scuola pubblica che deve essere frequentata non da piccoli e precoci geni ma da tutti i bambini. Anche quelli che geni non sono e probabilmente mai lo saranno, come la maggior parte dell’umanità fra l’altro. Anche quelli che per vari motivi sociali, psicologici, culturali partono svantaggiati ma possono, col lavoro, legittimamente aspirare a divenirlo, se la scuola non  li brucia in una selezione precoce candidandoli non al successo formativo ma al fallimento prima e all’abbandono e alla dispersione poi. Per non parlare infine di chi per difficoltà e disabilità non è giusto né legittimo tenere fuori dal diritto allo studio e all’integrazione scolastica e sociale. A un bambino che ha un certo tipo e grado di disabilità o che comunque ha difficoltà anche non particolarmente gravi (DSL, discalculia, dislessia, disgrafia ecc.), o ha speciali bisogni educativi  si pensa che possa far bene fargli anticipare la primaria e metterlo così presto di fronte ai saperi formali e disciplinari? So già che mi si obietterà che a 4/5 anni non si metteranno i bambini di fronte a questi ostacoli sormontabili solo per una percentuale minima di essi, e pertanto il primo anno della primaria si farà gioco, si farà “ponte”, si metteranno tutte insieme appassionatamente insegnanti di infanzia e primaria, per fare cosa non si sa, visto che le Indicazioni prevedono un’altra scansione temporale dei cicli. Ma quand’anche questa nebulosa/pateracchio priva di fondamento che chiamano “ponte” (l’anno “ponte” vero c’è già ed è il primo anno della primaria, già scuola elementare) si facesse, si pone il problema degli interventi di legislazione scolastica imponenti che bisognerebbe prima fare (quando, chi e con chi, con quali controindicazioni? ecc. E le modiche strutturali degli edifici, dei servizi? ecc. E i comuni, gli enti locali con quali soldi? ecc).
Tutti giù per terra

Poniamo pure che tutto ciò possa, per un colpo di reni e di euro di questo governo, essere realizzato, ci ritroveremmo con una scuola primaria di fatto priva di un anno per poter realizzare i suoi già ponderosi obiettivi che le assegnano le Indicazioni, perché se vogliamo essere onesti e realisti bisogna concretamente riconoscere che non si tratterebbe del primo anno della primaria, ma del quinto della scuola dell’infanzia con qualche forzatura e inutile fuga in avanti. A questo punto la scuola media dovrebbe anche essa abbassare le sue “pretese” e farsi carico degli insegnamenti della primaria. E così pure la scuola superiore dovrebbe abbassare i suoi traguardi formativi. E tutto questo casino per realizzare cosa? Un anno di meno di scolarizzazione? Con quali costi (enormi, in pratica si disfa tutto l’ordinamento scolastico), e con quali benefici (ridurre ulteriormente il numero degli insegnanti, se si accorcia a due anni l’infanzia, nel caso del “ponte”, nemmeno quel “risparmio”)? Si dovrebbe riformare tutto l’ordinamento scolastico da fondo a cima, si dovrebbe ripensarlo per raggiungere un unico obiettivo, quello di accorciare la scolarità di un anno alla luce del grandioso progetto pedagogico basato su due sommi principi non previsti dai padri nobili delle scienze pedagogiche e della formazione: 1) realizzare una spending review con l’abolizione di posti di lavoro; 2) questo “ce lo chiede(rebbe) l’Europa”.

Non solo cognitivo

Poi c’è un’altra ragione profonda che inficia la teoria dei sostenitori dell’anticipo. Il fatto che essi analizzano solo un aspetto, sia pure importante, del bambino, la sua sfera cognitiva. Il bambino è persona, è anche (talvolta prevalentemente) affettività, pulsioni, immaginazione, gioco, fantasia, socialità ecc. ecc. La qualità dei suoi apprendimenti dipende anche dallo sviluppo della sua interiorità, dalla sua capacità (e diritto) di  conoscere e imparare a sperimentare forme di relazione sociale attraverso il gioco. Io penso che un gioco divertente e strutturato metta in condizioni il bambino di 4 /5 anni di apprendere significativamente, cosa che fanno bene le nostre scuole dell’infanzia, i cui risultati ben conoscono e apprezzano le insegnanti della primaria le quali testimoniano, con la loro esperienza diretta, i preoccupanti dislivelli con i bambini che non hanno frequentato in tutto o in parte quei magici e basilari 3 anni.

Attraverso il gioco, la relazione, le operazioni concrete il bambino apprende le strutture essenziali e propedeutiche dei concetti, comincia a muovere i primi passi verso la concettualizzazione senza la quale ogni approccio agli apprendimenti formali, specifici della scuola primaria, risulta una forzatura che in seguito sarà difficile destrutturare per poi ricostruire su basi disciplinari. Questo lo sanno bene le insegnanti che devono sudare le proverbiali sette camicie per destrutturare le false conoscenze prive di fondamento dei bambini che sono arrivati in prima “tutti imparati” per premurosa e ancorché non richiesta opera da parte di genitori impazienti.

Cives non si nasce

Il cittadino del futuro non è solo un insieme di conoscenze e competenze cognitive, è anche importante che sappia essere cives, sappia entrare in relazione collaborativa e critica con l’universo degli altri cives. Il cittadino del futuro non può essere un uomo ad una dimensione; se uomini si nasce cives si diventa, e si diventa soprattutto se nella relazione formativa, fin da piccoli, si ha rispetto e cura didattica per questa dimensione fondamentale della persona, se si rispettano i tempi, se si dà il giusto tempo ai bambini di maturare la graduale fuoriuscita dall’egocentrismo infantile in un favorevole ambiente di apprendimento.

Se consideriamo che di fatto l’anticipo è largamente presente nelle prime classi (in taluni casi per motivi economici, in altri perché i genitori hanno decretato che il proprio figlioletto è un genio che può tranquillamente competere anche con chi è più grande di lui), non abbiamo bisogno di raffinatissime e costosissime ricerche. C’è il database delle insegnanti, la loro pluriennale esperienza, il loro averne viste e trattate di tutti i colori da cui poter attingere la conoscenza di quanto male faccia, delle fatiche didattiche che comporta un inutile e dannoso precocismo che vuole far iniziare a 4/5 anni la scuola primaria.

Conclusione

 

Con l’anticipo non è in ballo solo la distruzione di un riconosciuto patrimonio quale la scuola dell’infanzia, ma anche la dequalificazione della primaria (la più colpita tra tutti gli ordini di scuola dagli apprendisti/riformisti stregoni) e il conseguente trascinamento in basso del livello qualitativo di tutto il ciclo dell’istruzione.

 

2 giugno

2 giugno

di Luciano Corradini

Considero il 25 aprile e il 2 giugno come eventi che valgono, in termini laici, come la Pasqua e come il Natale in termini cristiani.

Mi fanno capire il valore e la bellezza di essere cittadini praticanti.

Da piccolo, secondo lo Statuto albertino, ero un “regnicolo”, con la qualifica prima di “figlio della Lupa”, poi di “Balilla”.

Nel retro della tessera c’era scritto” Giuro di eseguire senza discutere gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze, e se necessario col mio sangue, la causa della rivoluzione fascista”.

Con la Repubblica democratica fondata sul lavoro, sul riconoscimento della dignità della persona, con connessi diritti inviolabili e doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, in vista del pieno sviluppo della persona umana e della partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale, sono diventato un cittadino.

Essere praticante significa esercitare diritti e adempiere doveri, ossia impegnarsi a rispettare gli altri e a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini.

Non essere all’altezza della situazione non significa lasciar perdere, col rischio di tornare agli anni 30.

Ecco perché c’è da festeggiare e da rallegrarsi il 2 giugno, anche durante la crisi.

Il futuro non è una guerra di conquista, come allora, ma un impegno di pace e di fedeltà agli impegni assunti anche a nostro nome da parte dei Costituenti.

Per una dirigenza vera

PER UNA DIRIGENZA VERA: ADESSO, O CHISSA’ QUANDO!

                                                             -Francesco G. Nuzzaci-

( Il presente contributo costituisce, mutuandone il titolo, per un verso una sintesi semplificata della prima parte di un più ampio lavoro, in corso di pubblicazione sulla rivista on line Scuola & Amministrazione.

Per altro verso esso anticipa ulteriori spunti, che saranno sviluppati in una seconda parte, per essere ivi parimenti pubblicata dopo l’emanazione del preannunciato, per il 13 giugno p.v., disegno di legge delega di riforma della dirigenza pubblica).

 

1-Ce lo riferiscono ancora impegnato a regolare il traffico attorno al suo carro di trionfatore alle elezioni europee, vieppiù intenso nelle ultime ore per le lunghe file di questuanti, che pure – e neanche tanto velatamente – avevano sperato in un suo flop. Ma aggiungono anche che subito dopo il nostro presidente del Consiglio, unitamente al suo giovane e volitivo ministro per la Pubblica Amministrazione, on. Marianna Madia, riprenderà a lavorare di buona lena sul suo progetto delle già pubblicizzate linee guida di riforma della pubblica amministrazione, nel cui alveo si procederà a un radicale riassetto di tutta la dirigenza pubblica, non appena saranno scaduti i termini – oggi, 30 maggio – di acquisizione di proposte da parte dei circa tre milioni di dipendenti pubblici e delle parti sociali che li rappresentano.

Siamo quindi giusto in tempo a fargli pervenire, all’indirizzo di posta elettronica rivoluzione@governo.it , le riflessioni di un anonimo dirigente scolastico che, quasi al termine della su carriera – carriera per modo di dire – vorrebbe semplicemente chiedergli di diventare – e come tale essere trattato – un dirigente né specialespecifico, ma un dirigente normale, un dirigente privo di aggettivazioni. Così come è da supporsi – oppure no? – lo chiedano i molto più giovani colleghi, brillanti vincitori dei più selettivi concorsi che si conoscano per l’accesso alla dirigenza pubblica, che pensavano di essersi, meritatamente, appuntata sul petto una medaglia di metallo pregiato, che poi si è rivelata essere una misera patacca.

Il piatto, invero, è forte: ripristino del ruolo unico della c.d. dirigenza manageriale( infra), ben distinta dai professional (oggi attributari di mere posizioni dirigenziali e/o, semplicemente, dirigenti quoad pecuniam, siccome intestatari di funzioni svolte in passato, con efficienza, da figure specializzate); abolizione della distinzione tra prima e seconda fascia; intercambiabilità e rotazione degli incarichi in ragione delle competenze culturali e professionali di ogni dirigente e in esito a una rigorosa valutazione degli obiettivi assegnati e delle capacità organizzative-gestionali dimostrate, tal che ogni dirigente pubblico sarà remunerato per i carichi quali-quantitativi di lavoro e correlate responsabilità, ovvero per quello che fa e non per dove lo fa! (dalle Linee programmatiche del ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, illustrate nelle apposite commissioni parlamentari di Camera e Senato).

Si tratta ora, per la dirigenza scolastica, di cogliere la chance e rendersi visibile; se guadagnerà – in fretta e senza impantanarsi in capziosi distinguo – la duplice consapevolezza di voler finalmente essere una dirigenza vera, e di dover agire in proprio, dismettendo ogni illusione di poter contare su gratuite benevolenze altrui, ovvero di continuare ad affidarsi totalmente ad ipotetiche felici congiunzioni astrali.

2- Volutamente tralasciando ogni riferimento a ordini del giorno votati dal Parlamento e alle immancabili dichiarazioni a verbale in calce agli ultimi tre contratti, gli uni e le altre prive di seguito, un immediato e prezioso supporto alla predetta consapevolezza è offerto da una fonte terza ed autorevole: la Corte dei conti della regione Sicilia, che con delibera del 4 marzo u.s., negando il visto a una serie di contratti trasmessi dal locale USR, ha irrefragabilmente statuito che i dirigenti scolastici, in quanto dirigenti pubblici unitariamente disciplinati dal decreto legislativo 165/01, non possono essere trattati – e maltrattati – come figli di un dio minore. Pertanto ha fissato dei basilari principi, che non sopportano eccezione alcuna:

a)     Anzitutto, i dirigenti preposti alla conduzione di istituzioni scolastiche funzionalmente autonome, per dettato costituzionale, hanno pieno diritto di vedersi assegnare dall’Amministrazione obiettivi specifici, e non generici, unitamente alle risorse per poterli perseguire, alla cui obbligata e se positiva valutazione annuale corrisponda una puntuale e non simbolica retribuzione di risultato, non rinunciabile perché costituente elemento essenziale del contratto.

b)     Non hanno nessun pregio le difficoltà allegate dall’Amministrazione: in ordine alle carenze quantitative del suo personale, all’epoca assorbito dalla – fallimentare – gestione di due procedure concorsuali per l’accesso alla dirigenza scolastica; alla mancanza di un dispositivo di valutazione standard nazionale; al riveniente obbligato appiattimento nella definizione degli obiettivi, con la conseguenza che era stata, per tutti i dirigenti, puramente e semplicemente fotocopiata la generale-generica declaratoria figurante nell’articolo 25 del d.lgs. 165/01, che però, come perspicuamente ha fatto notare la Corte, delinea il perimetro dell’oggetto dell’incarico annuale anziché gli obiettivi da perseguire; alla numerosità della platea coinvolta – ottocento soggetti – e tale da non consentire una personalizzazione degli obiettivi.

c)     Non sono, di conseguenza, più giustificabili comportamenti elusivi dell’Amministrazione, perduranti dalla nascita della dirigenza scolastica nell’ordinamento giuridico, or sono circa tre lustri, e addirittura sollecitata dai conniventi soggetti istituzionali, che pure la dirigenza scolastica dicono di rappresentare, nell’escogitare infiniti,quanto cervellotici e defatiganti, protocolli di valutazione sperimentali, che si rincorrono e si sovrappongono senza mai guadagnare un punto di arresto: SIVADIS 1, SIVADIS 2, SIVADIS 3 e, in sigla, GPSS, composto da 21 pagine di tabelle, articolate in 5 macroaree e sviluppanti ben 229 indicatori, integrati e comprovati da un’eterogenea montagna di carte.

Trattasi di dispositivi tutti puntualmente naufragati, perché costruiti per farli scientemente fallire, allo scopo di non consentire la valutazione della dirigenza scolastica: non tanto e non solo – crediamo – per non corrisponderle una, seria, retribuzione di risultato, ma per rimarcare il suo essere una dirigenza sui generis, cioè una dirigenza farlocca. Perché – giova ribadirlo – senza l’elemento consustanziale, perciò indefettibile, della valutazione non vi è dirigenza!

Del pari incongrua è l’ennesima replica, con l’inserimento di un apposito capitolo,all’interno della valutazione di sistema commessa al neo istituito Sistema Nazionale di Valutazione (d.p.r. 80/13), della valutazione dei soli e speciali dirigenti scolastici, mentre per la valutazione degli altri soggetti professionali che operano nel sistema tutto è ancora di là da venire.

Per contro, si dovrebbe essere ben avvertiti che un conto è valutare l’efficienza e l’efficacia del sistema educativo di istruzione e formazione ai fini del miglioramento della qualità dell’offerta e degli apprendimenti, altro conto è la valutazione dirigenziale. Perché la prima è preordinata, con un sapiente mix tra valutazione interna o autovalutazione (qui assumiamo, per comodità, i due termini come sinonimi) e valutazione esterna da parte di soggetti terzi (ma l’INVALSI è, propriamente, un soggetto terzo?), all’emersione dei punti di forza e di criticità della struttura organizzativa, onde apprestare conseguenti e coerenti interventi atti a consolidare gli uni e migliorare gli altri, di modo che ogni istituzione scolastica possa erogare una prestazione di qualità generalizzata ed inclusiva.

Invece, la seconda è finalizzata – con l’impiego di una strumentazione apposita – a valutare la singola prestazione professionale, nella sua performance individuale e nell’apporto recato alla struttura organizzativa.

Certamente possono e devono integrarsi, ma restano – devono restare – distinte, concettualmente e per i diversi esiti cui mettono capo: interventi promozionali-supportivi-equitativi, ovvero premiali-sanzionatori (in positivo differenziata retribuzione di risultato, in negativo ed extrema ratio la risoluzione del rapporto di lavoro).

Abortirà anch’esso, ma intanto – nelle intenzioni dell’allora legislatore e dei suoi sponsor – si sarebbero guadagnati altri tre anni di tempo. Sicché, se non sarà intervenuto San Matteo – ma dev’essere aiutato dai diretti interessati e da chi dice di rappresentarli – ancora e sempre la dirigenza scolastica resterà una dirigenza perennemente sospesa, cioè una non dirigenza, per la gioia di coloro che ne cantano la sua ineffabile specificità.

Timeo danaos et dona ferentes. Se gli ingenui – o coscienti autolesionisti? – colleghi imparassero a diffidare di luccicanti, o all’apparenza maestosi, doni generosamente loro elargiti, non dovrebbero scontare soverchie difficoltà ad accettare – anzi, a pretendere – che anche per loro dovrebbe valere la regola che impone per tutti i dirigenti pubblici – inclusi i 130.000 dirigenti medici e sanitari: dicesi centotrentamila, a fronte di 8.000 dirigenti scolastici! – la definizione di obiettivi veri, senza inutili e devianti aggettivazioni; cioè obiettivi essenziali, ben scanditi, facilmente riscontrabili con inerenti indicatori quali-quantitativi, quindi operazionalizzati, che naturalmente devono essere tarati sulle peculiarità del contesto istituzionale in cui è svolta la funzione dirigenziale, infine correlati alle risorse – umane, finanziarie e strumentali – per poterli perseguire e su ciò essere valutati.

Ed è sempre la Corte dei conti che indica un plausibile percorso, respingendo le argomentazioni difensive dell’Amministrazione, allegante l’impossibilità di definire per le ottocento istituzioni scolastiche della Siciliaobiettivi adattati alle necessità di ciascuna, in quanto le difficoltà operative non consentirebbero un’ individuazione di obiettivi operativi effettuata in modo equanime, propedeutica ad un’altrettanto equa valutazione dei risultati conseguiti.

Ad avviso del Collegio, infatti, l’Amministrazione può adoperarsi per tempo elaborando una mappatura degli obiettivi delle varie istituzioni scolastiche, analizzate e classificate per fasce di complessità secondo le esigenze di ciascuna, sulla scorta di indicatori e variabili (numero degli alunni, territori a rischio, ubicazione disagiata, popolazione scolastica multietnica…) in grado di individuare un sistema di pesatura degli incarichi equanime, quantomeno a livello regionale: dimodoché, all’atto del conferimento dell’incarico, quest’ultimo risulti assistito da una contestuale definizione di obiettivi concreti, che in ogni caso potranno essere meglio specificati e/o variati nel corso del triennio d’incarico dirigenziale, in relazione alle esigenze emergenti dal Piano dell’offerta formativa di ciascuna istituzione.

Il Collegio ritiene, infatti, che la funzione di guida dei processi di miglioramento dell’efficienza e dei contenuti dell’offerta formativa delle istituzioni scolastiche non possa prescindere dalla visione unitaria e propulsiva che istituzionalmente compete all’Amministrazione stessa, che non può abdicare a tale compito per affidarlo agli stessi soggetti di cui dovrà essere misurata e valutata la capacità di apportare alle istituzioni scolastiche efficienza, innovazione, crescita culturale.

3- Le impeccabili argomentazioni del giudice contabile isolano, testé rassegnate, rinforzano e rendono ancor più esplicite le conseguenze di precedenti, significative, pronunce della Corte dei conti nazionale-Sezioni riunite di controllo, nelle adunanze del 7 aprile 2006 e del 14 luglio 2010, rispettivamente per la certificazione del CCNL 2002-2005 e del CCNL 2006-2009, susseguenti al primo contratto d’ingresso nella neonata dirigenza scolastica degli ex capi d’istituto e limitato al, parziale, biennio 2000-2001.

Nella prima delle due adunanze la Corte, richiamando e condividendo il parere del Consiglio di Stato (CdS, Comm. Spec. P.I., n. 529 del 16.10.03), ha affermato che l’apertura di questo corpo di dirigenti (scolastici) alla dirigenza statale trova riscontro, infatti, nella collocazione delle disposizioni del d.lgs. 165 del 2001 che ad essi si riferiscono, nel contesto proprio della dirigenza statale ed, in termini impliciti, negli articoli 1, comma 2 e 13 dello stesso decreto legislativo.

A comprova di questa dirigenzialità piena – e, aggiungiamo, ben superiore a quella riferibile a soggetti di pari seconda fascia, operanti in altri settori della P.A. – è, in prosieguo, evidenziata la non ancora compiuta configurazione dirigenziale dei già presidi e direttori didattici, ora chiamati a comporre, nella propria figura professionale, le prestazioni di contenuto prettamente manageriale richieste dalla gestione finanziaria, amministrativa e contabile degli istituti scolastici, con le funzioni di guida e di coordinamento del servizio didattico, da esprimersi, in particolare, nella formulazione e nell’attuazione del piano dell’offerta formativa. Tale esigenza si pone oggi con ancor più forte insistenza in ragione dell’evoluzione degli assetti organizzativi del sistema scolastico, innescata dalle innovazioni introdotte nell’ordinamento amministrativo e costituzionale nel corso dell’ultimo decennio che legano, molto di più che in passato, la scuola al contesto territoriale in cui opera, richiedendo a suoi dirigenti una diretta interazione con le autonomie territoriali.

Ne riviene, de plano, che la rilevanza delle nuove funzioni dirigenziali attribuite ai dirigenti scolastici richiede il riconoscimento di una retribuzione accessoria adeguata alla complessità dei compiti affidati ed, in ogni caso, non inferiore, come invece risulta attualmente, alla misura riconosciuta alle qualifiche dirigenziali statali appartenenti ad altre aree di contrattazione.

Sicché, quantomeno, sussiste un’aspettativa, giuridicamente fondata, di tendenziale equiparazione al trattamentogiuridico ed economicoriconosciuto agli altri dirigenti statali e pubblici.

Concretamente, dopo essere stata equiparata la retribuzione tabellare, l’entità della retribuzione di posizione, a tutt’oggi fortemente sperequata, sia di parte fissa che di parte variabile, va rapportata alle responsabilità e ai carichi di lavoro propri dei diversi posti di funzione, così come i risultati raggiunti devono trovare riscontro nella retribuzione di risultato…, correlata alle funzioni attribuite e alle connesse responsabilità.

Nella seconda delle due adunanze, per la certificazione del successivo CCNL 2006-2009, tuttora vigente in regime di indeterminata prorogatio, la Corte è sembrata dimostrarsi consapevole del fatto che la predetta equiparazione, ora derubricata a tendenziale, avrebbe dovuto scontare l’oggettivo limite delle risorse disponibili, avendo già dato piena avvisaglia la bolla speculativa finanziaria d’oltreoceano che poi ha messo, e tiene, in ginocchio l’economia europea, dispiegando effetti ancor più devastanti in un Paese, il nostro, gravato da un enorme debito pubblico, per tre quarti esterno, frutto dell’allegra finanza consociativa dei pregressi decenni e della incessante proliferazione delle corporazioni.

E tuttavia, ancora una volta, è reiterato l’invito a procedere per il riallineamento delle retribuzioni del personale dell’area V con quelle del restante personale dirigenziale e ad incrementare la parte della retribuzione variabile (di posizione e di risultato) destinata a retribuire il risultato della prestazione sulla base dell’effettivo conseguimento degli obiettivi e delle capacità e competenze organizzative dimostrate nella gestione degli obiettivi concordati: ciò che implica la celere predisposizione di un dispositivo di valutazione idoneo ad apprezzare le une e gli altri; perché non è oltremodo giustificabile la permanenza di uno iato con gli altri dirigenti pubblici, la cui retribuzione di posizione risulta nettamente più alta rispetto a quelli dell’Area V, a dispetto della sproporzione quali-quantitativa dei carichi di lavoro e delle connesse responsabilità, incomparabilmente più gravosi per i dirigenti scolastici rispetto ai colleghi di pari qualifica del comparto ministeri.

4-Su Il Messaggero del 28 maggio, in un articolo che fa il punto sulla riforma Renzi-Madia della dirigenza pubblica, è stata data notizia che ci sarà una perequazione delle retribuzioni nell’ambito del ruolo unico, per tutte quelle dirigenze – c.d. dirigenze manageriali – che gestiscono risorse umane e finanziarie.

Risultando altresì abolita la distinzione dei ruoli tra prima e seconda fascia, dovrebbero unificarsi le voci retributive ordinarie (tabellare più parte fissa) degli attuali capidipartimento, direttori generali, dirigenti normali di seconda fascia e dirigenti scolastici specifici, atteso che si passa da una dirigenza sostanzialmente career based ad una dirigenza position based.

Ciò dovrebbe significare che – ferme restando le voci fisse, uguali per tutta la dirigenza pubblica – le differenze retributive, afferenti alla sola parte variabile, dipenderanno dalla tipologia degli incarichi affidati e dalla loro intrinseca complessità ed inerenti responsabilità.

E proprio con riguardo a tale intrinseca complessità ed inerenti responsabilità, la circostanza ci appare ora propizia – dopo avere per anni abbaiato alla luna – per riprendere un nostro risalente intervento, licenziato alla vigilia dell’emanazione della legge delega 150/09 (c.d. riforma Brunetta, citata), che ancora si legge cliccando su Google (Nuzzaci, Per un ricorso al giudice del lavoro…).

E’ noto che Il nucleo fondamentale della dirigenza nelle istituzioni scolastiche è l’articolo 25 del d.lgs. 165/01, poi sviluppato in successive ed eterogenee disposizioni normative che, condotte a sistema, delineano la figura – e la funzione – del dirigente preposto alla conduzione di ogni istituzione scolastica e/o formativa:

a)     è organo di vertice, con rappresentanza legale e rilevanza esterna di un’amministrazione pubblica, la singola istituzione scolastica siccome dotata di autonoma soggettività giuridica, quindi distinta benché non separata (e non contrapposta) dallo Stato-amministrazione (nello specifico, il MIUR), a tenore dell’art. 1, comma 2, d.lgs. 165/01 (cfr. altresì l’art. 14, comma 7-bis, d.p.r. 275/99);

b)     nei limiti dell’autonomia funzionale dell’istituzione scolastica e nel rispetto dei vincoli di sistema (del Sistema pubblico nazionale di istruzione e formazione) per il doveroso (non già libero) perseguimento del comune scopo istituzionale (istruire, educare e formare), il dirigente di un’istituzione scolastica non soggiace ad alcun rapporto di gerarchia in senso stretto (cfr. art. 14, comma 7, d.p.r. 275/99, cit.,circa la regola della definitività delle sue determinazioni), né al generale principio – codificato nell’art. 4 del d.lgs. 165/01 per tutta la dirigenza ministeriale, compresa quella di prima fascia – che vuole istituzionalmente separate le funzioni di indirizzo politico e amministrativo dalle funzioni di gestione. Benché le prime siano formalmente intestate – per quanto di rispettiva competenza – agli organi collegiali, è pur vero che il dirigente delle istituzioni scolastiche vi incide nella sostanza in virtù del suo potere di proposta nel Consiglio d’istituto (artt. 8-10, d.lgs. 297/94) e, più ampiamente, di presidenza dei Consigli di classe (art. 5), del Collegio dei docenti (art. 7), del Comitato per la valutazione del servizio dei docenti (art. 11). Il che è a dire che egli, sia sotto il profilo strettamente giuridico che sul piano dell’effettività, è non solo organo di gestione, ma anche (e in più) organo di governo. Se ne ha testuale riscontro nell’art. 25, comma 6 del pluricitato d.lgs. 165/01, in cui è scritto che il dirigente scolastico presenta periodicamente al Consiglio di circolo o d’istituto – organo d’indirizzo politico per antonomasia, in quanto soggetto esponenziale della c.d. comunità scolastica, ex art.3, comma 1, d.lgs. 297/94 – motivata relazione sulla direzione e il coordinamento dell’attività formativa, organizzativa e amministrativa al – solo – fine di garantire la più ampia informazione e un efficace raccordo per l’esercizio delle competenze degli organi della istituzione scolastica; mentre è valutato, nell’ambito della responsabilità dirigenziale, dal direttore dell’Ufficio scolastico regionale, deputato altresì all’assegnazione di specifici obiettivi integranti quelli istituzionali, deducibili dalla norma generale, in sede di conferimento dell’incarico;

c)     è, naturalmente, responsabile della generale ed unitaria gestione delle risorse strumentali e finanziarie (in ciò avvalendosi del direttore dei servizi generali e amministrativi, assegnandogli gli obiettivi e impartendogli le relative direttive di massima, ex art. 25, comma 5, d.lgs. 165/01), e delle risorse umane, con l’obbligo di valorizzarle (ivi) e conseguenziale interfacciamento con non meno di sessanta-settanta soggetti professionali, ma che possono oggi tranquillamente raddoppiarsi dato che le nuove norme sul dimensionamento delle istituzioni scolastiche impongono una media di novecento alunni-studenti;

d)     deve attivare e coordinare i rapporti con gli enti locali e con le diverse realtà istituzionali, culturali, sociali ed economiche operanti nel territorio (art. 3, comma 4, d.p.r. 275/99), compresi famiglie e studenti: il che è a dire direttamente sovraesposto socialmente nei confronti di un’utenza, diretta ed indiretta, potenzialmente illimitata;

e)     esercita le funzioni già di competenza dell’Amministrazione centrale e periferica (ex Provveditorati agli studi) relative alla carriera scolastica e al rapporto con gli alunni-studenti, all’amministrazione e gestione del patrimonio e delle risorse, nonché allo stato giuridico ed economico del personale che non siano riservate, da specifiche e numerate disposizioni, all’Amministrazione centrale e periferica (ora Uffici scolastici regionali e dipendenti Ambiti territoriali), oltre alle attribuzioni già rientranti nella competenza delle istituzioni scolastiche nel loro assetto pre-autonomistico (art. 14, comma 1, d.p.r. 275/99): con gli inerenti provvedimenti dotati del carattere di definitività, escluse le specifiche disposizioni in materia di disciplina del personale e degli alunni-studenti (art. 14. Comma 7, d.p.r. 275/99, ante);

f)      è titolare delle attività negoziali sulla base di un autonomo bilancio e, di regola, senza altro vincolo di destinazione che quello prioritario per lo svolgimento di attività di istruzione, di formazione e di orientamento proprie dell’istituzione scolastica interessata, come previste e organizzate nel Piano dell’offerta formativa (art. 1, comma 2, d.i. 44/01);

g)     in forza della sua qualificazione, giuscivilistica e penalistica, di datore di lavoro, è – ancora – titolare delle relazioni sindacali (art. 5, comma 2, d.lgs. 165/01) ed, ampliamente, è assoggettato a tutte le norme di tutela dei lavoratori in materia di comportamento antisindacale, ex legge 300/70 (con afferente legittimazione processuale), di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (d. lgs. 81/08), di privacy (d.lgs. 196/03): con dirette e personali responsabilità penali e amministrative, trattandosi per lo più di norme sanzionatorie soggiacenti al principio della personalità, quand’anche depenalizzate alla stregua della legge 689/81 (deve, insomma, pagarsi in proprio un avvocato).

Crediamo, dunque, di avere a sufficienza dimostrato, implicitamente rigettando fantasiose elucubrazioni ed ancorandoci alla norma di diritto positivo, che quella agita nelle istituzioni scolastiche e formative – oggi autonomi soggetti giuridici a rilevanza costituzionale e non più meri organi periferici dell’Amministrazione ministeriale – è una dirigenza manageriale, una dirigenza vera, una dirigenza a tutto tondo; nel mentre la sua conclamata, e abusata, specificità si riduce alla sola valutazione dei risultati sulla base delle verifiche (mai)effettuate da un apposito nucleo istituito presso l’amministrazione scolastica regionale (art. 25, comma 1, d.lgs. 165/01).

Di sicuro, però, è una dirigenza complessa, incomparabilmente più complessa di quella esercitata dai dirigenti normali, le cui funzioni sono elencate nell’articolo 17 del d.lgs. 165/01 s.m.i., congiuntamente al d.p.r. 17/09, concernente il regolamento di organizzazione del MIUR, in particolare artt. 8 e 10.

Vi si legge che i dirigenti formulano proposte ed esprimono pareri al direttore generale, al quale sono gerarchicamente subordinati; attuano i singoli progetti e le inerenti gestioni ad essi assegnati, unitamente all’adozione dei relativi atti e provvedimenti amministrativi; svolgono tutti gli altri compiti ad essi delegati; coordinano e controllano l’attività dei dipendenti uffici (rectius: dei presìdi territoriali dell’unico organo-ufficio di livello dirigenziale generale, ovvero dei settori interni – potremmo qualificarli struttura semplice? – in cui lo stesso è organizzato), con poteri sostitutivi in caso di inerzia; provvedono alla gestione del personale e delle risorse finanziarie e strumentali assegnate ai propri (meri) uffici.

Trattasi, come è ben evidente, di una dirigenza cui sono estranei tutti (o quasi) quei profili di complessità (e di responsabilità) propri della dirigenza delle istituzioni scolastiche: di una dirigenza non connotata dall’immedesimazione organica con un autonomo (e autoconsistente) organo-ufficio pubblico a rilevanza esterna, senza un proprio bilancio da gestire, datrice di lavoro – se datrice di lavoro – alquanto soft, priva di esposizione sociale, avvalentesi dell’opera di qualche decina di persone (e spesso molte di meno) per l’esercizio di competenze raramente autonome e/o precostituite ex lege bensì prevalentemente delegate e/o di supporto per la realizzazione di obiettivi e programmi circoscritti, ben scanditi, in definitiva semplici .

La dirigenza tecnica poi è addirittura priva di una struttura fisica da governare – e delle correlate risorse umane, strumentali e finanziarie da gestire – ,e l’esercizio della funzione è determinato con apposito atto d’indirizzo del ministro (art. 9,d.p.r. 17/09), essa esplicandosi in un contributo di promozione e nel coordinamento di attività di aggiornamento del personale della scuola, nelle proposte e nei pareri in tema di programmi d’insegnamento, di sussidi didattici e tecnologie di apprendimento, di iniziative di sperimentazione, di assistenza tecnica e consulenza alle istituzioni scolastiche (art. 397, comma 3, d.lgs. 297/94), ovvero – nella più sintetica formulazione dell’art. 19, comma 10, d.lgs. 165/01 – in attività ispettive, di consulenza, studio e ricerca o altri incarichi speciali previsti dall’ordinamento: laddove qui è decisamente problematico rintracciare i tipici contenuti, strutturali e funzionali, di qualsivoglia dirigenza. Tal che, nella sostanza è – essa sì – non dirigenza. Può dirsi, e l’abbiamo scritto, una dirigenza quoad pecuniam.

Eppure, questi dirigenti normali, insieme ai non dirigenti tecnici – sol perché semplicemente, e casualmente, inseriti nella generale e generica area della dirigenza ministeriale – lucrano , non solo e non tanto, una retribuzione media doppia rispetto ai cirenei colleghi specifici (retribuzioni reali di 110 mila euro annui lordi a fronte di retribuzioni, sempre reali, di 55.000 euro annui lordi: cliccare sui siti Trasparenza per credere!), ma godono di una mobilità in orizzontale e in verticale preclusa ai dirigenti scolastici, ancora e sempre imbutati nella loro specificità.

E’ un mistero possibile solo in un Paese capovolto, che fa a pugni con la logica, e a cui dovrebbero provare a fornire una risposta gli stessi diretti interessati ed ogni possibile interlocutore.

5-Occorreranno, è lapalissiano, le risorse finanziarie per la, moralmente doverosa e giuridicamente esigibile, annunciata perequazione. E le fonti sono già state indicate dal ministro Madia nei risparmi interni di sistema dell’abbozzata riforma, nel razionale e selettivo utilizzo degli attuali e frammentati fondi unici nazionali per le retribuzioni di posizione variabile e di risultato (oggi distribuiti a pioggia e/o in modo casuale e sperequato tra le vigenti separate otto aree dirigenziali), nella c.d. spending review in corso.

Dunque, sembrerebbe fatta. Ma dicevamo timeo danaos….Ovvero, attenzione ai Cavalli di Troia! Che possono prendere le sembianze delle ipotizzate eventuali articolazioni del ruolo unico della dirigenza pubblica per territorio e per specifici profili professionali.

E’ ben vero che il riferimento plausibile è all’attuale dirigenza medica e sanitaria, dipendente dalle regioni, e/o ad alcune figure dirigenziali manageriali ( quelle, lo si ricorda, che gestiscono risorse umane e finanziarie), inglobanti particolari competenze professionali: oltre ai menzionati medici non preposti alla direzione di struttura complessa (o anche di struttura semplice), ingegneri, biologi, psicologi, statistici, et alia,

Ma c’è da giurare che il tentativo di rieditare la – indimostrata e indimostrabile, perché giuridicamente inesistente – specificità della dirigenza scolastica per mantenerla reclusa nel proprio recinto protettivo sarà posto in essere (in una innaturale alleanza con gli arcigni tecnici del Tesoro e con la coalizione delle dirigenze forti) proprio da chi dice di rappresentarla e che, purtroppo, la rappresenta in punto di diritto, grazie al mirabile harakiri di colleghi, datori di lavoro, di rilasciare deleghe (talvolta doppie, o addirittura triple) ai sindacati generalisti della, incomparabilmente ben più consistente, controparte dei lavoratori; sindacati generalisti interessati a mantenere la dirigenza scolastica surrettiziamente astretta nel comparto scuola, per continuare ad eroderne i poteri a tutela dell’indistinta massa dei lavoratori della scuola, le centinaia di migliaia di docenti e di personale amministrativo-tecnico-ausiliario.

Nondimeno, occorre difendersi dai sindacati ex monocategoriali o professionali, oggi i relativamente più rappresentativi, siccome anch’essi interessati a preservare la quinta area della specifica dirigenza scolastica e quindi ad evitare che la loro ancora cospicua quota di rappresentanza venga diluita nella preannunciata unica e ben più vasta area della dirigenza statale, se non dell’intera dirigenza pubblica.

A suo tempo, all’indomani della c.d. riforma Brunetta, che restringeva a non più di quattro le aree dirigenziali – che ora dovrebbero, pour cause, assottigliarsi ulteriormente – , poi in fatto neutralizzata dal blocco dei contratti pubblici, i predetti sindacati avevano subito proposto le suggestive nuove denominazioni, quali dirigenti dell’area della conoscenza(sic!), ovvero dirigenti delle autonomie funzionali, beninteso in separate e autonome aree o sezioni speciali, impermeabili dall’esterno e dall’interno: insomma,una dirigenza a imbuto e con l’incondizionato plauso delle sue eteree associazioni professionali, da sempre impegnate a difenderne l’adamantina purezza perché sentita profondamente altra e teorizzata come forma differenziata dell’unicità della funzione di provenienza, quella docente, per continuare a baloccarsi con sempre più ridondanti codici deontologici, leadership educativa democratica e distribuita, professione emergente… e quant’altro veicolabile dal lussureggiante linguaggio socio-psico-pedagogico, declamato in assoluta libertà, a sostenere il perenne processo di elaborazione del lutto.

6-Sappiamo di averla tirata per le lunghe e, pertanto, dobbiamo concludere. E lo facciamo indirizzando ai colleghi liberi o che non si vogliano irrigimentati un monito e un avvertimento.

Il monito: siate risoluti e non abbiate paura di raccogliere la sfida!

L’avvertimento: guardatevi le spalle!

Alcune considerazioni sull’anticipo a 5 anni

Alcune considerazioni sull’anticipo a 5 anni

di Claudia Fanti

 

Tanti anni fa scrissi un articolo sull’ argomento: l’anticipo a 5 anni della frequenza alla scuola elementare.

Era il 2002, epoca della Riforma Bertagna – Moratti. Inserisco il link per comodità del lettore interessato: http://www.edscuola.it/archivio/ped/anticipo.html

Ora la questione si ripropone, almeno nelle dichiarazioni preelettorali del Ministro Stefania Giannini.

La prima reazione è stata di grande stupore, non perché i ministri nel passato non abbiano annunciato cose che non stavano né in cielo né in terra, bensì per il fatto che ritenevo ormai impossibile che si affondasse ancora e ancora il coltello nella piaga della scuola primaria tagliata fino all’impossibile.

Se Sparta piange, Atene non ride: mi riferisco infatti anche alla scuola dell’infanzia.

Sono gli ordini di scuola che maggiormente negli anni hanno avvertito il sommovimento culturale, sociale, economico di tutto il Paese, perché i bambini sono nei loro comportamenti e atteggiamenti, specchio della realtà, specchio fedelissimo fatto di fragilità e paure, di tensione e di ansie, di tendenza alla fretta e alla mancanza di serenità che induce poi alla difficoltà di attenzione e di rievocazione… ecco, ritenevo che i due ordini di scuola avessero già dato in abbondanza.

Ai bambini e alle bambine della scuola primaria viene richiesto di tutto proprio dai documenti ministeriali: basta leggere le Indicazioni Nazionali per comprendere quanto si pretenda in competenze e apprendimenti dalla fascia di età 6-11.

Non sono certo bazzecole visto che bambini e bambine devono apprendere proprio i “codici formali” delle discipline.

Di gioco, certo non si parla, di pregrafismo e prelettura neppure, se non en passant, in modo implicito.

No no, bambine e bambini devono, alla fine dei 5 anni di frequenza, raggiungere dei traguardi prescrittivi per poter accedere all’ordine di scuola successivo.

Detta così sembra facile, ma non è.

Tra l’altro le nostre scuole, quando sono fortunate, hanno palestra e qualche aula laboratorio, ma nella maggioranza dei casi presentano aule anguste, non hanno né carta né gessi né colori né colla né forbici né cartoncini né strumenti-materiali musicali, ecc. ecc.

Dentro un’aula sono stipati bambini e bambine fino a numero di 26-27.

In corso d’anno vengono inseriti alunni e alunne provenienti da Paesi stranieri senza alcun supporto.

Le compresenze delle maestre, che per un numero esiguo di ore, qualche anno fa consentivano di fare piccoli gruppi o di recuperare alunni in difficoltà, sono inesistenti perché vengono utilizzate per coprire le supplenze (le supplenze brevi non ci sono più. Eliminate e sacrificate al dio denaro)…

Scusatemi se sono costretta a non parlare in versi, ma a raccontare la realtà.

Perché desidero essere esplicita? Semplicemente perché molti ritengono che bambini e bambine siano dei bambolotti da mettere seduti su una sedia e che una volta lì stiano belli e tranquilli a bocca aperta e che la maestra possa introdurre in quelle bocche i saperi necessari alla crescita e che poi quei bambolotti come per magia divengano umani e apprendano tacendo contenti del proprio sapere!

Non è così a 6 anni, figuriamoci a 5 e perfino a poco più di 4 anni (per i nati nell’ultima parte dell’anno solare).

Finiamola di prendere in giro la gente per bene con i “se la scuola fosse ludica”, “se le classi fossero poco numerose”, “se ci fossero strumenti adatti” ecc…

Bisogna essere pragmatici e ragionare sul fatto che le maestre con i polli nella stia stanno facendo spesso dei miracoli, poi ci sono alcuni casi di docenti che “scoppiano” perché a una certa età non sopportano più né la fatica fisica né quella tensione psicologica che procura il dovere sempre controllarsi nelle situazioni a rischio e dinanzi alle patologie comportamentali presenti in ogni classe senza potere ricorrere all’aiuto esterno di nessuno.

A volte si dice che il numero di alunni è ininfluente, visto che un tempo una sola maestra insegnava fino a 50 alunni di pluriclasse e io sorrido all’ingenuità di una tale affermazione di comodo, la quale finge di non tenere conto che spesso oggi neppure i genitori riescono ad arginare il proprio figlio/a quando riceve a una festicciola il compagno o la compagna di classe in casa e la mette a soqquadro infischiandosene dei rimproveri e delle contumelie degli adulti!

Se si aggiunge poi che i docenti sentono la pressione delle richieste esterne in relazione agli apprendimenti, quindi aumentano le richieste di prestazioni, immaginiamo come si potrebbero portare avanti insegnamento/apprendimento e buone relazioni in classi di bambini e bambini piccolissimi.

Non regge neppure la frase “il mio bambino è preparato a leggere, a scrivere, a esprimersi…”

No, perché in questo mondo bislacco, si sono aggiunti pure i voti e le scalette di giudizio a stimolare la competizione e a stuzzicare l’istinto di primeggiare di alcuni genitori e bambini/e influenzati da tale istinto.

Poi mettiamoci le prove Invalsi, le verifiche e i questionari e il quadro dell’accoglienza ai piccoli è bello che completato: bambini, bambine e maestre compresse a rischio di boom! Lasciamo perdere!

Invece, come società civile, come genitori, dovremmo chiedere che i governi si prendessero cura dell’infanzia di tutti e la considerassero degna di attenzione e rispetto profondendo un impegno in economia e in ascolto della pedagogia e della psicologia dell’età evolutiva e che rispettassero pure il lavoro di maestre e maestri rendendolo efficace tramite un numero adeguato di alunni, spazi decenti, strumenti di vario tipo a cominciare dai più necessari al bisogno di esprimersi e di giocare di bambine e bambini, che lasciassero libertà di valutazione e di insegnamento rendendo più facile l’applicazione di ciò che i docenti studiano e preparano per i figli di tutti.

Finora sono stati soltanto tagli e pretese in una realtà di deprivazione totale di mezzi e risorse.

Ogni ministro chiede, annuncia e destabilizza ciò che già è stato profondamente snaturato: non mi pare proprio il caso di parlare di anticipo, se mai si chieda alle docenti della scuola dell’infanzia se ritengano proficuo rendere obbligatorio almeno l’ultimo anno del loro ordine di scuola!

Se mia nonna avesse le ruote…

Se mia nonna avesse le ruote…

 

L’intervista sull’anticipo scolastico “Pontecorvo: per anticipare servono più docenti e una diversa didattica” mi ha richiamato alla mente l’irriguardoso quanto antico detto popolare “Se la mia nonna avesse le ruote sarebbe una carriola”.

Per tradurre.

La nonna sta per la scuola italiana dell’infanzia e primaria.
Le ruote sono le “molte condizioni accettabili” (organizzative, strutturali, professionali ecc.) di cui parla la Pontecorvo.
La carriola è l’anticipo a 5 anni della primaria che veicolerebbe il cambiamento richiestoci dall’Europa (?)

In genere queste interviste ad esperti psico-pedagogisti ecc. ruotano tutte intorno ad una domanda. Il bambino a 5 anni, oggi, può iniziare la scuola primaria? La domanda è astratta, infatti gli esperti rispondono astrattamente alcuni si altri no. Risposta ovvia, direi scontata in quanto riferita al bambino in sè, fuori dai contesti, a prescindere dalla situazione e dalla condizione della nostra scuola.
Alcuni esperti si espongono e dicono sì, si può, e motivano tirando fuori la precocità degli apprendimenti, i “nativi digitali”, l’iperstimolazione cognitiva ecc. ecc. Qualcuno di questi si avventura anche a sostenere che a 3 anni si può già “fare” la Divina Commedia (Manuela Cervi su sussidiario.net)ecc. ecc. In genere questi esperti vanno in difficoltà quando gli si fa notare che non esiste un bambino solo-cognitivo, anzi, il bambino è principalmente altro, è socio-affettivo, emozionale, relazionale, egocentrico, labile e incostante nell’attenzione e concentrazione, poco strutturato e soprattutto gioco-dipendente per la maggior parte delle acquisizioni, emotivo-dipendente dalla situazione familiare ecc. è animistico, è fantasia ecc. ecc., e da questo “altro” bambino dipende anche la qualità delle sue acquisizioni cognitive. Perché c’è cognizione e cognizione, apprendimento e apprendimento. C’è l’apprendimento meccanico e mnemonico, ripetitivo e per imitazione e c’è l’apprendimento significativo, strutturato e strutturante, su base motivazionale e non su base di interessi superficiali e passeggeri, incostanti, labili.
Poi ci sono altri esperti come la Pontecorvo che rispondono si-ma/no-ma. Dipende. Dipende dalle condizioni. Si potrebbe cominciare la primaria a 5 anni se….(segue l’elenco delle condizioni che assolutamente non esistono nella realtà scolastica italiana per colpa proprio di quei governi che ora invocano l’anticipo). Non si può cominciare a 5 anni se…dobbiamo solo conformarci al diktat “ce lo chiede l’Europa”, manca un progetto psico-pedagogico complessivo ecc. E le cose stanno proprio così.
Certo qui non si tratta di stabilire in astratto se il bambino a 5 anni è capace/non è capace. Intanto bisogna tener presente che qui si parla non al singolare ma al pluralissimo, si parla della scuola di tutti i bambini italiani. Certo che ci sono i genietti, come lo sono stati Mozart, Picasso, Piaget, Tasso ecc . Ma ci sono anche e soprattutto bambini (la stragrande maggioranza) che geni non sono nati, ma possono a diritto ambire a diventarlo, se la scuola della repubblica dà loro la possibilità, le opportunità attraverso una ragionevole scansione temporale dei cicli, attraverso un impianto pedagogico calibrato, equilibrato e flessibile nel quale possano trovare residenza e piena cittadinanza insieme precoci e lenti, una pedagogia che proprio per questo è auspicabile che sia piuttosto lumaca che turbodigitale, una scuola che sappia parlare e far crescere tutti insieme i bambini rispettando la loro natura multicolore, varia e per certi aspetti imprevedibile.
Non si può/deve fare una scuola su misura per tutti, anche se ci sono quelli che la chiedono (ognuno si faccia la scuola che vuole), ma una scuola in cui tutti i bambini possano trovare la propria misura, senza precocismi e forzature, senza subire diktat economici (non può esserci un’economia che sia nemica dei bambini).
Agli “esperti” che sono decisamente per il sì all’anticipo io consiglierei due cose: 1) rivedere attentamente le loro teorie per provarne la fallibilità alla luce del fatto che qui si tratta di decidere di un’istituzione, la scuola, di tutti e per tutti; 2) di avere più frequenti contatti con gli insegnanti che la scuola la frequentano tutti i santi giorni di tutti i santi anni (troppi, grazie quel genio tardivo della Fornero) per farsi raccontare le loro esperienze professionali e per farsi dire se ritengono che la scuola debba farsi lumaca, piuttosto che turbo.
Agli esperti che sono per il si-ma, vediamo, sarebbe possibile-ma bisognerebbe creare le condizioni (con tutto rispetto lo definisco brutalmente e irriguardosamente benaltrismo pedagogico) io rispondo tornando alla metafora iniziale.
La nonna (la scuola dell’infanzia/primaria), nemmeno se avesse le ruote (le condizioni necessarie che sono pura chimera nella situazione attuale e non sono assolutamente fattibili per appena un miliardo di ragioni) potrebbe mai essere un carretto (anticipare la primaria a 5 anni). Se vogliamo stare in questo mondo reale e non rifugiarsi nell’iperuranio o nella categoria filosofica della possibilità pura e assoluta.
Si tratta piuttosto di assumersi la responsabilità civile, politica, culturale, intellettuale e pedagogica di dire un sì o un no all’anticipo scolastico, senza se e senza ma.

 

Cosimo De Nitto

Avrà successo l’impresa del ministro?

Avrà successo l’impresa del ministro S. Giannini?

di Enrico Maranzana

 

Il ministro Giannini ha annunciato che per fine luglio presenterà “una proposta precisa che riguarda i seguenti punti: autonomia e governance degli istituti, valutazione degli insegnanti e premialità, valutazione dei dirigenti scolastici”.

Quattro nodi da sciogliere, in sequenza.

Quattro raffinamenti dello stesso problema.

Quattro urgenze da affrontare e risolvere, per approssimazioni successive.

Al vertice è da porre la governance che risponde all’esigenza di condurre il sistema scolastico verso il fine istituzionale.

Definiti i traguardi e le forme organizzative si apre la questione dell’autonomia: quali decisioni sono da assumere per orientare il servizio?

Esplicitata la dinamica gestionale, solo allora, possono essere concepiti i mandati da conferire a dirigenti e a docenti, strumenti essenziali per valutarne le prestazioni.

 

GOVERNANCE

Il canale di comunicazione che collega il parlamento al ministero è ostruito: i modelli di riferimento dei due organi divergono.

Da un lato il legislatore che intende le discipline “strumento e occasione” per “promuovere l’apprendimento”, per “sviluppare capacità e competenze”; dall’altro lato l’esecutivo che si ispira alla tradizione universitaria, parcellizzata e versativa.

Da un lato il parlamento che fonda le sue elaborazioni sul “principio di distinzione” per differenziare le responsabilità di governo da quelle della direzione, dall’altro lato il ministero arroccato nell’obsoleta visione organizzativa lineare gerarchica.

 

Si rimanda in rete a “Coraggio! Organizziamo le scuole” e a “Quale formazione per il dirigente scolastico” che mostrano la scuola secundum legem.

 

 

AUTONOMIA

Inequivocabile l’indirizzo impresso dal decreto sull’autonomia: la progettazione formativa, quella educativa e dell’istruzione sono la via da seguire per promuovere e consolidare le qualità degli studenti.

La progettazione è la chiave di volta della gestione scolastica: le risorse sono da piegare in funzione degli obiettivi.

La progettazione dovrebbe essere il lietmotiv dei Piani dell’Offerta Formativa.

 

Si rimanda in rete a “L’autonomia scolastica: un’araba fenice” che illustra l’autonomia in atto.

 

 

VALUTAZIONE DEI DIRIGENTI SCOLASTICI

Responsabilità primaria del dirigente scolastico è la stesura degli ordini del giorno per la convocazioni degli organismi collegiali. Un adempimento che, oltre a vincolare gli organi di governo al mandato loro conferito, consente di portare a unità l’apparato.

Il ministro Giannini, nell’intervista rilasciata a lastampa, ha focalizzato la questione quando ha affermato che intende intervenire su diversi punti tra cui  “la non attuazione di alcuni provvedimenti legislativi anche importanti

 

VALUTAZIONE DEGLI INSEGNANTI

La professionalità dei docenti si manifesta sia nell’attività di progettazione, sia in quella di gestione dell’aula. Un mansionario che espliciti i risultati attesi dalle diverse fasi dell’attività lavorativa eviterà indeterminatezza e fraintendimenti.

Tra i punti salienti si ricordano la

  • Definizione dei traguardi formativi per sciogliere i nodi del rapporto scuola-società, quale membro del Consiglio di circolo/d’istituto
  • Partecipazione alla “programmazione dell’azione educativa” del Collegio dei docenti per individuare le capacità sottese ai traguardi formativi, per formulare ipotesi per il loro conseguimento, per indicare le modalità, le fasi e i tempi del feed-back
  • Fattiva presenza nei Consigli di classe per la messa a punto d’itinerari unitari volti alla promozione e al monitoraggio delle capacità indicate dal Collegio
  • Interventi propositivi nel dipartimento disciplinare
  • Progettazione e realizzazione di occasioni d’apprendimento per ideare laboratori disciplinari atti a stimolare le competenze attraverso cui le capacità si manifestano
  • Documentazione del lavoro di classe
  • Autorevolezza in aula
  • Gestione dei rapporti interpersonali
  • Impegno operativo nei gruppi di lavoro.

 

Un modello di convenzione

Un modello di convenzione

di Gennaro Palmisciano
Dirigente ispettore tecnico

 

Il liceo sportivo costituisce la vera innovazione ordinamentale della riforma “epocale” gelminiana, insieme al liceo musicale e a quello coreutico. Questi tre licei fanno capo alla filiera delle arti performative, che ancora deve trovare il suo giusto riconoscimento nel panorama della formazione tecnico-professionale superiore.

Fortunatamente né i vertici politici né quelli dell’Amministrazione scolastica hanno avuto fretta nell’introdurre il nuovo indirizzo sportivo. Così si sono evitate le incertezze applicative che, invece, hanno afflitto i licei musicali e quelli coreutici, riguardo i quali almeno tre questioni didattiche e gestionali sembrano ancora confuse.

1)    Non è stato ben definito il discorso continuità licei musicali-conservatori. Se l’insegnamento della musica deve essere affrontato in modo professionale, cominciare dai licei è un po’ tardi: questi studi devono essere condotti con rigore sin da piccoli. Ma con il liceo musicale siamo di fronte ad un punto di partenza comunque importante.

2)    Inoltre, il reclutamento dei docenti specialisti delle discipline d’indirizzo ha posto seri problemi, per definire i titoli di accesso, le abilitazioni idonee, ecc. anche per l’applicazione di un regime transitorio che non tutela pienamente le professionalità. Si pensi che ai docenti di Educazione musicale A031 non possono essere affidate le cattedre di Storia della musica nei Licei musicali e coreutici; ai docenti di Educazione musicale, A031 e A032, vengono invece affidate, su utilizzazione, le cattedre di Strumento (Esecuzione e Interpretazione e Musica d’insieme), prescindendo dalla verifica del possesso di adeguati titoli artistico-professionali, sulla base del solo requisito dell’anzianità di servizio, anche se tale servizio è stato espletato su di una diversa disciplina, mentre dovrebbe affidato soltanto ai docenti della classe di concorso A077, in quanto anche a regime appartenenti allo stesso ambito disciplinare dello Strumento musicale nella scuola secondaria.

3)    Per ultimo, ma non per importanza, in questo tipo di licei si pone anche un grosso problema economico dal momento che necessitano di strutture, strumentazioni e rapporti docente-alunno particolari: pensiamo alle aule attrezzate con pavimenti e materiali particolari per le lezioni di danza o alle aule insonorizzate dei licei musicali o ancora all’acquisto degli strumenti musicali cosiddetti “non trasportabili”, vedi pianoforti, arpe, percussioni ecc., all’assicurazione e alla manutenzione necessaria e indispensabile di cui questi strumenti hanno bisogno con regolarità. I costi per i docenti sono altrettanto elevati, perché ogni alunno, infatti, ha diritto a lezioni singole di strumento.

Almeno questi problemi non si pongono per il liceo sportivo. Infatti:

1)    gli alunni vengono preparati per gli studi presso gli Istituti Universitari di Scienze motorie e non come atleti, né tanto meno come tecnici. Tra l’altro costoro non possono vantare né agevolazioni né crediti particolari.

2)    I docenti di discipline sportive sono gli stessi insegnanti di scienze motorie, abilitati per l’A029.

3)    Le strutture, le attrezzature e le eventuali risorse umane tecniche possono essere procurate tramite una convenzione a titolo non oneroso.

Però, ogni applicazione innovativa crea dubbi nei soggetti che hanno l’onore e l’onere di implementarla, anche perché la normativa non è spesso né completa né chiara, e va interpretata.

Il liceo sportivo trova corrispondenze in analoghi istituti secondari comunitari. Questi generalmente fanno parte dei licei speciali, che sovente includono quegli istituti che curano la formazione secondaria nel campo delle arti performative.

In Italia il liceo sportivo è considerato un’opzione del liceo scientifico, insieme al liceo delle scienze applicate. Anzi, si potrebbe propriamente dire che si tratta del liceo delle scienze applicate allo sport.

Questa osservazione consente di risolvere il problema determinato dalla limitazione ad una sola sezione, in prima attivazione, dell’introduzione del liceo sportivo. Nel caso in cui le pre-iscrizioni siano state tanto numerose da non poterle soddisfare con una sola sezione, si può articolare un liceo delle scienze applicate sperimentale con potenziamento sportivo, utilizzando la quota di autonomia.

Il Dpr 89/10 art. 2 comma 3 e art. 10 ha profondamente rinnovato la disciplina regolamentare della quota di autonomia nei licei. Ne riporto il testo:

“A) Quota oraria demandata alle singole istituzioni scolastiche

Art. 10 comma 1 lettera c)

c) la quota dei piani di studio rimessa alle singole istituzioni scolastiche nell’ambito degli indirizzi definiti dalle regioni in coerenza con il profilo educativo, culturale e professionale di cui all’articolo 2, comma 3, come determinata nei limiti del contingente di organico ad esse annualmente assegnato e tenuto conto delle richieste degli studenti e delle loro famiglie, non può essere superiore al 20 per cento del monte ore complessivo nel primo biennio, al 30 per cento nel secondo biennio e al 20 per cento nel quinto anno, fermo restando che l’orario previsto dal piano di studio di ciascuna disciplina non può essere ridotto in misura superiore a un terzo nell’arco dei cinque anni e che non possono essere soppresse le discipline previste nell’ultimo anno di corso nei piani di studio di cui agli allegati B, C, D, E, F e G. L’utilizzo di tale quota non dovrà determinare esuberi di personale.“

Per conseguenza l’unica differenza a livello dell’esame di Stato tra liceo sportivo e liceo sperimentale con potenziamento sportivo consisterebbe nella sola aggiunta del Disegno e Storia dell’Arte. Data la rilevanza artistica di numerose discipline sportive (i cosiddetti sport tecnico-compositori), come la ginnastica artistica, il pattinaggio artistico, i tuffi, il nuoto sincronizzato, ecc. questa sperimentazione ha anche una sua intrinseca validità.

Dall’a.s. 2014-5 con l’avvio in forma ordinamentale del liceo sportivo, viene conferita dignità ordinamentale ad un nuovo insegnamento, quello di DISCIPLINE SPORTIVE, materia laboratoriale, che non ricerca né la prestazione atletica, né la selezione a fini agonistici, ma l’elaborazione della cultura sportiva. Tra l’altro, va sollecitata la costituzione di una sezione sportiva nella biblioteca d’Istituto di ogni liceo sportivo.

Le Indicazioni Nazionali del liceo sportivo articolano per gli obiettivi specifici di tale insegnamento un programma tecnico-pratico particolarmente ricco, che evidenzia, come un contrappasso, la povertà della parte pratica dei corsi negli Istituti Universitari di Scienze Motorie (IUSM), sollecitando le Università ad una seria riflessione.

Oggetto della programmazione di Discipline sportive, ogni biennio e nel monoennio finale, sono due sport individuali e due sport di squadra (per un totale di sei sport individuali e sei sport di squadra), insieme ad atletica ed orienteering. Dal fatto che è difficile che un istituto abbia la diretta disponibilità di cotante attrezzature e di adeguate risorse tecniche, specialmente per gli impianti di atletica leggera e di orientamento, deriva la necessità di stipulare convenzioni con soggetti qualificati.

Il Coni Nazionale è il soggetto privilegiato, ma prima del mese di luglio 2014 non saranno disponibili le linee guida ed il modello di convenzione con il Coni.

Pertanto, non solo gli istituti pubblici, ma anche e soprattutto le scuole paritarie per le quali deve essere concessa la parità entro il 30 giugno, al fine di avere la disponibilità non solo di impianti sportivi, ma anche di tecnici e di testimonial possono perfezionare convenzioni con Enti di promozione sportiva, Associazioni e società sportive, enti locali, ecc., che prevedano la stipula di successivi accordi attuativi. Mentre la convenzione è a titolo non oneroso, gli accordi attuativi possono essere a titolo oneroso.

Quando un impianto può essere considerato adeguato? Il criterio di accettabilità dell’impianto potrebbe essere costituito dalla sua idoneità per una gara studentesca (quindi non dall’omologabilità per una gara federale, criterio troppo ristretto, ma neanche dall’idoneità per la semplice didattica, criterio troppo largo e indefinito). In tal modo i coordinatori per l’educazione fisica, presenti in ogni provincia, potranno, in carenza di personale ispettivo, provvedere alla certificazione di idoneità, che del resto essi già operano in occasione dei Campionati studenteschi.

Il modello proposto, elaborato sulla base dell’esperienza con i 16 licei sportivi paritari della Regione Lazio, non ha carattere di ufficialità, ma spero possa far partire i licei sportivi, statali e paritari, con il piede (o meglio l’impianto) giusto.


L’Istituto ……                                                             L’Ente ……

 

C O N V E N Z I O N E

TRA

L’Istituto ……….…, scuola paritaria,con sede legale in ……..alla Via ……… n. .., c.f. ……..….. , d’ora in poi denominatoIstituto, rappresentato da ……..

E

L’Ente ….…………., con sede legale in ………….. alla Via ………………… n. .., C.F. …………, d’ora in poi denominato Ente, rappresentato da …….

Premesso che

–   l’Istituto intende attivare dall’anno scolastico 2014-15 una sezione di liceo sportivo.-   Tale sezione ad indirizzo sportivo è volta all’approfondimento delle scienze motorie e sportive, in particolare dell’economia e del diritto dello sport, e di più discipline sportive, all’interno di un quadro culturale. Il liceo scientifico sportivo guida lo studente a sviluppare le conoscenze e le abilità ed a maturare le competenze necessarie per individuare le interazioni tra le diverse forme del sapere, l’attività motoria e sportiva e la cultura propria dello sport, assicurando la padronanza dei linguaggi, delle tecniche e delle metodologie relative. –   Con tale opzione si offre ai giovani un progetto in grado di conciliare la cultura umanistica con quella scientifica, con particolare riferimento allo sport, come fenomeno interculturale, trasversale e altamente significativo di ogni società, chiamando alla realizzazione tutti i soggetti formativi del territorio, dagli alunni ai docenti, dai genitori ai tecnici, dalle associazioni sportive agli enti locali, dal Coni e dalle Federazioni sportive agli enti di promozione sportiva. Con il liceo sportivo si intende, in tal modo, riconoscere e sostenere il ruolo culturale, sociale ed educativo dello sport, in quanto diritto di cittadinanza.-   Nel rispetto delle indicazioni nazionali e delle esigenze del contesto, saranno utilizzate eventualmente le   forme   di flessibilità didattica e organizzativa previste dal decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 1999, n. 275, anche al fine di adeguare il percorso liceale agli specifici bisogni formativi degli studenti nel campo delle scienze motorie e sportive, ivi compresi gli alunni disabili e con bisogni educativi speciali, favorendo l’acquisizione di competenze spendibili sia nel mondo del lavoro sia in quello universitario. –   Il percorso favorisce la formazione del professionista dell’educazione fisica e dello sport, non solo a livello tecnico, ma anche a livello psico-sociale, con particolare attenzione ai processi di inclusione e di rieducazione.-   Le istituzioni scolastiche paritarie, nelle quali sono attivate sezioni ad indirizzo sportivo, sia singolarmente che collegate in rete, possono stipulare convenzioni con università statali o private, ovvero con province, comuni, città metropolitane, istituzioni, enti, associazioni o agenzie operanti sul territorio che intendano dare il loro apporto alla realizzazione di specifici obiettivi legati alla formazione e all’attività sportiva.

Avendo ravvisato, Istituto ed Ente, la necessità di costruire un percorso comune indirizzato alla qualità dell’offerta educativa, tecnica e formativa e della crescita culturale, civile e sociale degli studenti del liceo sportivo, si conviene quanto segue:

Art. 1 Obbligo delle parti

L’Istituto s’impegna a coinvolgere l’Ente nell’ambito della progettazione didattica curricolare ed extracurricolare, organizzativa ed educativa. L’Ente si impegna a mettere a disposizione dell’attività formativa programmata le figure professionali e/o le attrezzature individuate in sinergia con l’Istituto.

L’Istituto si impegna a coinvolgere attivamente l’Ente, che fornisce consulenza e collaborazione, nell’organizzazione di manifestazioni ed iniziative a carattere sportivo-culturale.

L’Ente si impegna a favorire il contatto con atleti ed ex atleti per promuovere i valori dello sport attraverso testimonial di esperienze significative ed esemplari.

Art. 2 Accordi attuativi

La collaborazione tra Istituto ed Ente è attuata tramite la stipula di appositi accordi nel rispetto della presente convenzione.

Gli accordi attuativi, da stipulare a seguito della programmazione metodologico-didattica, disciplinano gli aspetti di natura organizzativa, gestionale e finanziaria, dettagliando gli impegni di cui al precedente articolo.

Art. 3 Oneri finanziari

La presente Convenzione è a titolo non oneroso. Gli oneri finanziari eventualmente derivanti dagli accordi attuativi saranno a carico dell’Istituto.

Art. 4 Durata

La presente Convenzione ha la durata di cinque anni. Essa si rinnova automaticamente,  se non viene disdetta da una delle parti sei mesi prima della scadenza.

E’ facoltà delle parti recedere unilateralmente mediante comunicazione scritta con un preavviso di sei mesi, tempo necessario all’Istituto per stipulare analoga convenzione che permetta il raggiungimento delle medesime finalità formative.

Art. 5 Trattamento dei dati personali

Le parti dichiarano reciprocamente di essere informate e, per quanto di ragione, espressamente acconsentire che i dati personali, comunque raccolti in conseguenza e nel corso dell’esecuzione della presente convenzione, vengano trattati esclusivamente per la finalità della convenzione stessa mediante consultazione, elaborazione manuale e/o automatizzata. Inoltre, per i fini statistici, i suddetti dati, trattati esclusivamente in forma anonima, potranno essere comunicati a soggetti pubblici, quando ne facciano richiesta per il perseguimento dei propri fini istituzionali. Titolari dei dati personali, per quanto concerne il presente articolo, sono rispettivamente Istituto ed Ente. Le parti dichiarano, infine, di essere informate sui diritti sanciti dagli artt. 7 e seguenti del D.lgs. 196/2003 (Codice della privacy).

Per tutto quanto non previsto dalla presente convenzione le parti fanno riferimento alla legislazione vigente in materia.

Art. 6 Controversie

Per eventuali controversie che dovessero insorgere tra le Parti nel corso dell’esecuzione del presentare accordo è competente in prima istanza la camera di conciliazione della CCIAA provinciale.

 

… , lì _______________

 

Il gestore dell’Istituto                                                      Il presidente dell’Ente

 

Scuola: alla ricerca della dignità perduta

Scuola: alla ricerca della dignità perduta

di Claudia Fanti

Ciao Amici pedagogisti, maestri/e di un passato che ormai pare veramente irraggiungibile per vette e utopie. Sono una delle maestre che vi ha letto e riletto, studiato con passione, sono una di quelle che ancora non può (per legge), non deve e non vuole arrendersi per onorare l’impegno verso i piccoli.

Siamo entrate nella scuola dopo la morte di Don Milani, dopo aver letto “Lettera a una professoressa” e abbiamo creduto nel tempo pieno, successivamente nei moduli, abbiamo tenuto insieme inclusione e istruzione, abbiamo sentito il polso della società cambiare battito sotto le nostre mani, quindi abbiamo adeguato strumenti e metodologie, abbiamo studiato sistemi di valutazione di diversa tipologia, applicato riforme e subito controriforme, abbiamo sentito dire di tutto, e il contrario di tutto, un ministro dopo l’altro; ora assistiamo esterrefatte alla disgregazione, all’umiliazione di una scuola che aveva raggiunto un certo equilibrio tra diverse tendenze fiorite negli anni dal ’68 in avanti; abbiamo superato gli individualismi della maestra unica aggiornandoci e imparando a lavorare in equipe e… poi dopo avere “cresciuto” schiere di bambini, scritto faldoni di relazioni, compilato documenti di ogni tipo, dopo aver affrontato il passaggio al digitale perfino senza pc, ci siamo viste portar via da sotto il naso la nostra bella costruzione di una scuola inclusiva e al tempo stesso attenta a offrire il massimo sul piano culturale.

A questo punto, che fare?

Osservo adesso, come sempre, ogni ciclo, bambini e bambine intenti a lavorare con la matita stretta in mano nel modo corretto: è costato loro un impegno pari a quello di uno scalatore: li ho visti letteralmente sudare, agitarsi, grattarsi la testa. Li ho visti stremati, li ho sentiti borbottare, consultarsi. Qualcuno ha dato in escandescenze e si è buscato pure dei bei rimproveri. Mi sono intenerita ad ascoltarli mentre compitavano (ora si usa dire spelling, all’inglese, che fa molto chic), a vederli sporgere gli occhi fuori dalle orbite per individuare lettere ponte. Mi sono commossa a constatare il loro impegno mentre illustravano esperienze, scrivevano le prime frasi e le rileggevano stupiti di non trovarci né capo né coda o quando aiutavano il compagno di coppia a superare una difficoltà a testa bassa indicandogli un grafema o un’illustrazione…e intanto, mentre li guardavo e ascoltavo, ho sempre pensato nel corso di questo difficile anno raccontatoci dai media in tutte le sue terribili sfaccettature, che coloro i quali hanno deciso le politiche scolastiche in Italia non si meritano neppure una goccia del loro sudore: non è retorica, sudano veramente! Poi è chiaro si scalmanano, ne combinano di tutti i colori e alcuni portano in sé i segni del mondo, eppure sono serissimi nel loro impegno dedicato al sapere. No, decisamente i ministri non si meritano i nostri alunni e le nostre alunne e non si meritano neppure noi.

La confusione della scuola e nella scuola è grande.

Mai ho conosciuto un’epoca tanto assurda, infarcita di pregiudizi, di pressappochismi culturali, valutativi, organizzativi.

Il tempo scorre tra noi, sopra di noi e dentro di noi, nelle bambine e nei bambini, nelle loro famiglie giovani e spesso angustiate da problemi più grandi di loro. Sì perché vivere oggi, nella precarietà, avendo assaporato il benessere senza poterne poi usufruire, riconoscendolo nei pochi che ne godono, non deve essere per nulla facile. Il consumismo suggerito, veicolato, osannato dai media e dai politici si unisce, dando vita a una miscela esplosiva, alla povertà, allo sbandamento valoriale, a educazioni ricevute durante l’infanzia fatte di no-sì-ni, ai modelli genitoriali del passato, in contrasto con quelli rappresentati come vincenti.

L’individualismo, spinto a divenire unico modello da inseguire da esempi competitivi, rampanti, di successo, viene al contempo a essere frustrato dalla quotidianità, nella quale il lavoro non è praticamente mai adeguato ai desideri e alle vocazioni, per la qual cosa la sofferenza, del singolo e della famiglia composta da un’addizione di singoli in stato d’ansia, si esprime o in rassegnazione o in sottovalutazione e sfiducia nel proprio ruolo genitoriale. Le insicurezze, i sensi di colpa e di inadeguatezza vengono espressi in tanti modi e in tante forme, dai più sommessi a quelli aggressivi, a quelli che vedono genitori colpevolizzare le famiglie degli altri e i figli degli altri.

La paura della verità sulla propria condizione di svuotamento di certezze è prima di tutto proprio della scuola che non ha più la forza interna di prendere in mano il suo irrinunciabile ruolo di dispensatrice di basi dell’istruzione-educazione. L’istruzione, quella che offre con meticolosa fatica gli strumenti fondamentali per accedere alla lettura, alla scrittura, come mezzi per prendere coscienza e accedere al sapere, alla comprensione dei testi, di tutti i tipi di testo, e dell’oralità degli altri, sembra non essere più tenuta in grande considerazione né dai collegi dei docenti, né dagli esperti, né dagli opinionisti, se non per amplificare la portata di un unico momento dell’anno, l’evento delle prove nazionali di valutazione (Invalsi). Prima e dopo, il diluvio Invalsi, il nulla. Prima tutti in silenzio a perorare il dispendio di tempo e fatica in altre direzioni e proposte che nulla hanno a che fare con il riconoscere che per raggiungere gli obiettivi di una scuola statale che includa tutti e tutte occorre la fatica del cesello, della pazienza, del lavorare sulle piccole cose come l’ortografia, il contare, il manipolare, il disegnare, il dipingere, il recitare…quotidianamente, senza strappi, senza effetti speciali (tanto amati dalla nostra epoca) senza finire su quotidiani e tv. Quella fatica che si fa, anche divertendosi, ma non solo, non vale, non fa audience, quindi non c’è. Ebbene, se si vuole abbattere la bestia nera della dispersione, gli insegnanti dovrebbero ritornare ad avere il ruolo che spetta loro, quello di insegnare giorno per giorno la pazienza della costruzione lenta e cocciuta dell’approccio al sapere e ai saperi. I primi a doverne essere consapevoli dovrebbero essere proprio le maestre e i maestri e dovrebbero affrettarsi a ritrovare e a riappropriarsi del senso della propria funzione determinante in questa epoca di precarietà diffusa. Il loro ruolo di istruttori/mediatori/educatori è fondamentale e insostituibile, ma è un ruolo da riconquistare riprendendosi in mano le redini della propria professione, dei propri studi, dei propri ideali. Se si è persone senza utopia, meglio scegliere qualcosa di diverso dall’insegnamento, il quale offre ben pochi riconoscimenti esterni. Il lavoro dell’insegnante-insegnante è fatto tutto di soddisfazioni interne alla coppia discente/docente e a quella con le classi su cui si opera. E i rapporti sono il sale della professione. Studiare i rapporti, soffermarsi su di essi, analizzarli ogni istante e ogni giorno è il segreto della riuscita, Non è facile, è un continuo lavoro su se stessi e sull’altro/a e su tutto ciò che lo circonda: ambiente, interessi, parenti, affetti, emozioni, stato di salute…

Entrare in aula con l’idea che si verrà continuamente spiazzati e che tale spiazzamento va accolto e poi gestito per educare se stessi con gli altri e le altre che si incontrano è l’unico modo per fare istruzione efficace e insieme educazione al superamento dei conflitti e delle “depressioni” in senso lato. E’ l’unico modo per potere costruire sane relazioni non soltanto con gli alunni e le alunne, bensì proprio con le loro famiglie in attesa di trovare risposte al loro difficile compito di genitori, di comprendere i motivi di tanti atteggiamenti “strani” e apparentemente “insondabili” dei figli e delle figlie.

 

 

La dispersione Scolastica nei quartieri più critici di Napoli e Palermo

La dispersione Scolastica nei quartieri più critici di Napoli e Palermo:
quando l’istruzione può rappresentare la cura al suo stesso malessere

di VIOLA TOFANI

INTRODUZIONE

La dispersione scolastica è un fenomeno complesso, che comprende in sé aspetti diversi e che investe l’intero contesto scolastico-formativo: riassume l’insieme della bocciature, delle ripetizioni e degli abbandoni e pertanto descrive la discontinuità dei percorsi rispetto alla regolarità prevista dagli ordinamenti e dai curricula. La dispersione scolastica mette pertanto in luce l’insuccesso scolastico e, più nello specifico, sottolinea l’intrecciasi di due problematiche: quella che riguarda il soggetto che si disperde e quella relativo al sistema che produce dispersione.
L’Italia si situa agli ultimi posti in Europa in base alla percentuale di early school leavers e l’Istat parla del 17,6 % di minori italiani fuori dall’istruzione o con gravi ritardi nel concludere un percorso scolastico, che vivono situazioni di disagio scolastico o, addirittura, in condizioni di semianalfabetismo.
Le regioni che detengono il triste primato di “dispersi” sono le regioni cosiddette “dell’obiettivo convergenza”: Sardegna, Calabria, Puglia, Sicilia e Campania. La tesi di ricerca ha posto l’attenzione in particolare sui capoluoghi di Sicilia e Campania.

OBIETTIVO

L’obiettivo di questo elaborato è stato quello di indagare due realtà geograficamente diverse ma estremamente simili in quanto a caratteristiche sociali, e cioè Napoli e Palermo, e quindi analizzarne le analogie riguardo ad uno degli indicatori più immediati dell’esclusione giovanile, piaga sociale enorme in entrambi i capoluoghi, e cioè la “dispersione scolastica”, considerata come la lente d’ingrandimento attraverso cui indagare tutto il percorso intrapreso dai minori che abbandonano i banchi di scuola per la difficile vita di strada e la connivenza in attività illecite.
Ulteriore obiettivo è stato quello di dimostrare che l’istruzione e i servizi sociali, come anche le forme di educazione non convenzionale e laboratoriale adottate da associazioni radicate sul territorio, sono la “cura” stessa al problema della dispersione scolastica perchè mostrano che, se con un’adeguata progettualità e capacità d’intervento, sono in grado di porre il minore nella condizione di poter scegliere valide alternative alla vita di strada.

METODO

Il metodo utilizzato nell’ambito della ricerca è stato quello sperimentale. Sono stati primariamente individuati i numerosi progetti di partnership tra associazioni del terzo settore locale campano e siciliano e le fondazioni nazionali e sono stati analizzati i più idonei, volti a contrastare la dispersione scolastica mediante l’utilizzo di metodologie innovative e di didattica non convenzionale.
Sono state poi svolte le interviste in loco, rivolte a due tipologie di campione (il campione popolazione composto da minori in età scolare – dagli 8 ai 18 anni- nel numero di 10 per capoluogo; il campione testimoni privilegiati composto da esperti del settore, operatori, educatori, docenti, nel numero di 10 per Napoli e 13 per Palermo), per un totale di 43 interviste svolte tra Napoli e Palermo. Le interviste sono state poi analizzate e comparate con la bibliografia esistente in materia.

CONCLUSIONI

Quanto emerso dalla ricerca svolta sul campo completa e conferma perfettamente le ipotesi poste all’origine della tesi e, anzi, consolida ancora di più l’idea che per contrastare il fenomeno della “dispersione scolastica” sia necessaria la collaborazione delle istituzioni con le associazioni del terzo settore operanti in loco e che sia fondamentale l’utilizzo di una didattica di tipo non convenzionale per poter trattenere i minori tra i banchi di scuola e interessarli maggiormente al percorso scolastico.
Durante la ricerca è anche emersa chiaramente la “solitudine” avvertita dai soggetti che operano quotidianamente in realtà critiche come Napoli e Palermo. Infatti, mentre gli insegnanti lavorano ogni giorno in “scuole di frontiera” prive di ogni risorsa, impegnati nella gestione di classi composte da alunni estremamente problematici, spesse volte accusati di incapacità di fare il loro mestiere e delegittimati nell’importante ruolo educativo dai genitori dei loro alunni, gli operatori del sociale non lavorano in condizioni migliori: alla frustrazione per la precarietà lavorativa si aggiunge, infatti, quella dovuta alla scarsa considerazione che il ruolo che ricoprono ha presso le Istituzioni, il corpo docente e la società, e quella da attribuirsi ad un impegno continuo che però non sempre incontra i risultati sperati. Non da meno sono i minori e le famiglie, ai margini della società e, talvolta, della comunità stessa, incapaci, perché manchevoli degli strumenti adeguati, di far fronte a tutta una serie di problemi quotidiani come i rapporti intra-familiari e quelli con le istituzioni.
Dalle interviste effettuate si è dunque giunti alla consapevolezza che una possibile soluzione al problema della dispersione scolastica sia da individuarsi in una maggior presenza statale nei territori interessati da alti tassi del fenomeno e maggiori incentivi al lavoro di “rete” tra istituzioni e terzo settore sociale.

INDICE

Introduzione p. 7

CAPITOLO I
“La Dispersione Scolastica”
1.1. Definire la “dispersione scolastica” p. 12
1.2. Le componenti della dispersione p. 16
1.3. Le cause del fenomeno p. 20
1.4. Il profilo del drop out p. 26
1.5. Le conseguenze p. 27
1.6. I dati e la diffusione sul territorio nazionale p. 32

CAPITOLO II
“Il diritto all’educazione e gli impegni assunti dall’Europa per contrastare la dispersione scolastica”
2.1. Il diritto all’educazione come diritto umano p. 37
2.2. L’Unione Europea garante del diritto all’istruzione e la Strategia di Lisbona 2020 p. 44
2.3. Il diritto all’educazione in Italia e la sua attuazione nel sistema scolastico p. 48
2.4. L’Italia nel quadro Europeo: piano di azione e coesione, i progetti e i risultati raggiunti p. 57
2.5. Progetti di rete finanziati dall’UE nel meridione italiano: Pas, Scuole Aperte, Ingrana la Settima p. 63
2.6. L’Italia “insegna” all’Europa: Progetto Chance p. 65
2.7. Fondazione con il Sud: progetto “Crescere al Sud”, perchè investire in istruzione p. 72

CAPITOLO III
“Il progetto di ricerca e le testimonianze”
3.1. Motivazioni e obiettivi che si prefigge il progetto di ricerca p. 77
3.2. Quali strumenti adottati p. 80
3.3. Come si è operato per svolgere le interviste p. 85
3.4. Le interviste a Napoli e a Palermo: analisi del campione in oggetto p. 87
3.5. Le criticità incontrate p. 89

CAPITOLO IV
“Napoli e Palermo”
4.1. due realtà diverse ma con caratteristiche estremamente simili: perchè ho scelto di analizzare queste due aree p. 92
4.1.1. Napoli p. 93
4.1.2. Palermo p. 98
4.2. Partenariato Scuola-ExtraScuola: l’importanza di lavorare “in rete” p. 103
4.3. Il ruolo della famiglia, della società e del territorio p. 108
4.4. La diffusione del fenomeno di dispersione scolastica legata alla devianza giovanile nelle periferie delle due metropoli, cause e conseguenze p. 112
4.5. Le associazioni criminose e il loro ruolo in sostituzione dell’istituzione scolastica e dello Stato nei quartieri più difficili delle due città p. 115

CAPITOLO V
“Riportare i ragazzi tra i banchi di scuola”
5.1. Quali progetti in corso nelle periferie di Napoli e Palermo contro la devianza giovanile e la dispersione scolastica p. 119
5.1.1. Napoli p. 119
5.1.2. Palermo p. 121
5.2. Il progetto “Discobull” nell’ambito del Pon Sicurezza per lo Sviluppo-Obiettivo Convergenza 2007-2013 p. 122
5.3. L’educazione “non convenzionale” nei progetti ad opera delle associazioni radicate sul territorio: “Una vela per sperare” de L’Altra Napoli e il progetto sulla “PartecipAzione” di Lievito p. 124
5.3.1. “Una vela per sperare” p. 127
5.3.1. “PartecipAzione” p. 130
5.4. Progetti di rete inter-regionale: “Restare in gioco alla Zisa di Palermo…e alla Sanità di Napoli” e “Non uno di meno ma ognuno a suo modo” p. 132
5.4.1. “Restare in gioco…” p. 132
5.4.2. “Non uno di meno…” p. 139
5.5. Il “circo pedagogico” che insegna la legalità ai “figli della camorra” nel quartiere di Barra a Napoli: l’esperimento del “Tappeto di Iqbal” p. 146
5.6. Costruire consapevolezza di sé ed educare alla legalità tra i banchi di scuola: il progetto multi-livello de “Il Villaggio delle Idee” con USSM, AddioPizzo e altri partners. p. 150

CAPITOLO VI
“I risultati della ricerca condotta”
6.1. I risultati emersi dalle interviste: uguaglianze e diversità p. 155
6.1.1. Popolazione: uguaglianze e diversità p. 155
6.1.2. Testimoni Privilegiati: uguaglianze e diversità p. 159
6.2. Le aree tematiche individuate dai raffronti tra le varie testimonianze p. 160
6.2.1. La Popolazione p. 160
6.2.3. I Testimoni Privilegiati p. 161
6.3. I riscontri in letteratura p. 163
6.4. Cosa dicono i ragazzi intervistati p. 169
6.4.1. Scuola p. 169
6.4.2. Famiglia p. 178
6.4.3. Il soggetto e il progetto p. 182
6.4.4. La città, il quartiere e la criminalità organizzata p. 188
6.5. Cosa dicono gli esperti del settore e gli operatori intervistati p. 196
6.5.1. Scuola e famiglia p. 196
6.5.2. L’associazione e il progetto p. 205
6.5.3. Il quartiere e la criminalità organizzata p. 209

Considerazioni Conclusive p. 214

Allegati

Bibliografia

Sitografia

Scuola e Papa Francesco

Scuola e Papa Francesco

di Enrico Maranzana

“Io amo la scuola, io l’ho amata da alunno, da studente e da insegnante. E poi da Vescovo”, ha detto Papa Francesco.

L’espressione dell’amore per la scuola è la professionalità.

“E poi amo la scuola perché ci educa al vero, al bene e al bello”,  ha continuato il santo padre.

Il professionista, dopo aver identificato gli obiettivi che realizzano la finalità, analizza il sistema di regole in cui l’istituzione è immersa  per soppesarne la coerenza.

La VERITA’ è da ricercare: le occasioni di apprendimento che la scuola deve offrire ai giovani li immergeranno in situazione idonee alla promozione della loro razionalità.

Il BENE lo si proporrà con l’esempio e lo si coltiverà temprando la volontà degli studenti. Il “sentire” è la via maestra, non verbale, verso il BELLO.

Se leggiamo l’art. 2 della legge 53/2003 possiamo rilevare come l’introduzione del concetto di SISTEMA implichi l’unitarietà della progettazione educativa e  ne valorizzi le sinergie perché “Andare a scuola significa aprire la mente e il cuore alla realtà, nella ricchezza dei suoi aspetti, delle sue dimensioni”.

Costateremo come il VERO e il BENE siano il  fondamento delle disposizioni espresse alle lettera a) e b).

Per cui, vista la scuola in atto, si può asserire che per “non lasciarsi rubare l’amore per la scuola” non ci si può fermare alla sola dichiarazione: si deve procedere con coraggio, identificare i detrattori,  abbattere le barricate che ne impediscono l’espressione.

La stagione delle sperimentazioni

SALUTO A UN’AMICO SCOMPARSO E RIFLESSIONE SULLA STAGIONE DELLE SPERIMENTAZIONI

di Mario Fierli

 

La recente scomparsa di un caro amico, Franco Bozzuto, mi ha spinto a una riflessione retroattiva (ma non solo) sulla stagione delle sperimentazioni nata negli anni ‘70, della quale lui è stato uno degli interpreti principali. Franco è stato preside dell’ITIS Cobianchi di Verbania per molti anni e, insieme a sua moglie Carla, uno dei punti di riferimento culturali e sociali della sua città.

Gli anni ‘70/‘80 sono stati caratterizzati dal fiorire di un grande numero di sperimentazioni autonome, cioè promosse e progettate, come prevedevano i Decreti Delegati, dalle singole scuole. Da una parte queste erano stimolate dal dibattito, acceso da tempo, sulla riforma della secondaria superiore e, dall’altra, erano il tentativo di dare alla stessa esempi-pilota. Ma, soprattutto, erano il canale verso il quale si mobilitavano e convergevano molte avanguardie intellettuali e pedagogiche. Nelle sperimentazioni, infatti, si incontravano riflessioni sui fondamenti culturali e sui fini formativi della scuola e progetti per tradurre gli stessi in curricoli innovativi. Sia pure in forme diversissime alcuni principi erano comuni alle sperimentazioni:

-la ricerca di percorsi formativi che unificassero cultura e professionalità

-la conseguente messa in discussione della distinzione fra Licei e Tecnici

-l’innovazione pedagogica e didattica delle varie discipline e la ridefinizione dei loro rapporti.

 

Il Cobianchi era uno degli Istituti Tecnici Industriali di grande tradizione, ricchi di competenze e strutture, che sono stati a lungo il punto di riferimento per il mondo delle imprese di un vasto territorio. Al contrario di molti di questi Istituti, però, il Cobianchi aveva accettato la sfida dell’innovazione e della ricerca di un nuovo profilo culturale informato ai principi rammentati. Sul piano didattico vorrei ricordare la forza e la serietà con si attuava il “metodo dei progetti”: i progetti affidati a gruppi studenti venivano da vere consegne della realtà territoriale, fino a reali committenze di istituti di ricerca e imprese.

Le sperimentazioni autonome ebbero molto successo, in parte, forse, per la qualità e l’impegno dei docenti, ma certamente perché la loro offerta formativa andava incontro a una domanda reale, sia per la varietà delle opzioni, sia per la novità di alcune di esse. In particolare perché offrivano quella ibridazione fra istruzione tecnica e liceale e delle relative culture di cui ho detto. Il Ministero esaminava i progetti ed imponeva eventualmente modifiche sulla base in quanto garante dell’equivalenza del titolo di maturità sperimentale a uno dei titoli esistenti. Anche se non mancavano istinti centralisti di ostilità verso le deviazioni dal quadro tradizionale, bisogna dire che il ruolo di controllo e negoziazione fu condotto dal ministero con una metodica interessante: tutte le scuole con sperimentazioni affini venivano riunite ogni anno in seminari di confronto e verifica a livello nazionale.

Quale è stato il lascito delle sperimentazioni? Sul piano culturale molto rilevante. Dalla creazione di un’avanguardia di veri e propri docenti-ricercatori fino all’influenza sugli editori scolastici: molti libri di testo di nuova generazione nacquero proprio nel contesto della sperimentazione.

Il progetto nazionale di sperimentazione “Brocca” propose una sintesi delle sperimentazioni e la loro messa a sistema, scegliendo la loro linea di base: l’avvicinamento di cultura e professione, la rottura della dicotomia tecnici-licei, emblematicamente rappresentata dal nuovo liceo scientifico-tecnologico e dall’introduzione della filosofia in tutti gli indirizzi. Nell’elaborazione dei nuovi curricoli i docenti delle sperimentazioni autonome furono gli attori principali. Alla sperimentazione “Brocca” aderirono tutte le scuole con sperimentazioni autonome. Alcuni aspetti innovativi, soprattutto didattici, rifluirono anche nei paralleli “Progetti assistiti” dei Tecnici e del Licei e nel “Progetto 92” dei Professionali, promossi separatamente per i diversi ordini e quindi ancorati alle loro finalità storiche.

La sperimentazione Brocca non si tradusse in una riforma. La riforma Berlinguer, che intendeva ristrutturare tutto il sistema scolastico, per quanto riguarda la secondaria superiore valorizzava la cultura delle sperimentazioni autonome e della “Brocca”. Le commissioni che furono istituite per i vari indirizzi avevano ancora al centro le loro idee e i loro attori.

La riforma Moratti, come si sa, interruppe il percorso della Berlinguer. E anche sul piano del metodo di definizione dei percorsi scelse consapevolmente una strada di rottura, emarginando le esperienze e gli esponenti delle sperimentazioni. Una rottura ancora più netta è avvenuta con il riordino “Gelmini”.

Rimane a questo punto una domanda: come possono le scuole avere, oltre alla responsabilità dell’autonomia didattica, anche quella della creazione di percorsi curricolari? Sarebbe almeno in parte possibile se si applicasse il dettato della legge sull’autonomia. L’articolo 8 prevede che a livello nazionale siano definiti i piani di studio per la maggior parte, ma non tutto, dell’orario scolastico, mentre per la parte residua (per esempio il 20%) tutte le scuole debbono decidere discipline e contenuti. Invece di questa norma ne è stata applicata, dalla riforma Moratti in poi, un’altra che permette, alle scuole che lo vogliano, di “modificare” il curricolo nazionale. L’operazione è però in pratica molto difficile anche perché, soprattutto nei tecnici, sono stati posti vincoli proibitivi.

Non so se oggi la restituzione di “uno spazio bianco” alle scuole potrebbe riattivare un processo di innovazione dei curricoli dal basso. O se, forse, è oramai tempo di passare direttamente a una fase successiva che rimetta in discussione tutto l’assetto curricolare tradizionale.