Filosofia della luce

Filosofia della luce

ovvero lo sguardo oltre il giardino

di Alessandro Baldi

Tra le tante teorie che potremmo consapevolmente assumere per leggere e interpretare i radicali cambiamenti tecnologici in atto nelle società complesse e incerte come la nostra, quella elaborata da Paul Watzlawick e altri ricercatori di Palo Alto (California), che va sotto il nome di “costruttivismo”, è sicuramente la più affascinante e anticonformistica. Tale teoria è incompatibile con il pensiero tradizionale codificato intorno al modello della causalità lineare. Infatti, la maggior parte delle visioni ideologiche, filosofiche, scientifiche, per quanto diverse fra loro, hanno un elemento in comune: la fondamentale nozione che una realtà “reale” esiste come concatenazione temporale segnata da un prima e da un poi e che certe teorie o convinzioni personali le corrispondono più correttamente di altre.

Il costruttivismo (o meglio la ricerca della realtà), invece, afferma che l’ambiente così come noi lo percepiamo è una nostra invenzione, e che tutto, fino ai meccanismi neurofisiologici del nostro percepire e del nostro pensare è prodotto della capacità inventiva umana, circolare e non rettilinea. Paradossalmente il costruttivismo asserisce che tutto ciò che noi possiamo conoscere del mondo reale è ciò che il mondo non è. Se si assume quest’ottica paradossale,allora i grandi cambiamenti che si succedono via via davanti ai nostri occhi smetteranno di essere percepiti come simulacri annebbiati e torneranno a essere visti per quello che sono: cioè nostre costruzioni. Un esempio emblematico per il nostro discorso è la questione del lavoro, della sua nuova natura, della sua straordinaria forza rappresentativa e del suo misterioso paradosso sociale: cioè la sua opacità percettiva. In altri termini oggi il lavoro sta cambiando nella sua forma e sostanza, nella sua più intima essenza ontologica (la natura di ciò che è), mentre paradossalmente rimane immodificato, si direbbe mummificato, l’apparato percettivo, ideale e culturale, individuale e sociale, col quale lo identifichiamo tra le tante attività umane.

Ciò avviene perché crediamo di conoscere che cosa sia il lavoro e non ci poniamo la domanda “come conosciamo quello che crediamo di conoscere”: cioè come vediamo i cambiamenti del mondo e di converso quelli che riguardano il lavoro, che negli ultimi dieci anni – è bene dire subito -sono stati più profondi di quanto lo siano stati nei cento anni precedenti. Vediamone i due aspetti più evidenti e paradossalmente i più oscuri. Il primo è “il lavoro senza luogo”. Esso ha una forte connotazione tecnologica di tipo telematico, di cui il telelavoro è solo una prima romantica approssimazione, in quanto esiste ancora un luogo fisico identitario come l’abitazione del lavoratore e un collegamento tra ciò che si fa e uno spazio minimamente affettivo. La forma radicale del “lavoro senza luogo” è invece “l’ufficio mobile”. In questa nuova attività (reale?) l’operatore dispone di un PC portatile, di un cellulare per mezzo deiquali riceve e dà informazioni da qualsiasi luogo a un centro operativo posto in una qualsiasi zona.

L’operatore potrà agire sempre in luoghi diversi, in automobile, in treno, a casa di amici, al ristorante, in un giardino pubblico o su un ventoso lungomare o comodamente in un albergo. Questo tipo di lavoro, oltre a svincolare l’operatore da un luogo fisso, lo libera da orari fissi e rituali legati alla presenza-assenza: egli può lavorare un’ora al giorno come dieci, un giorno alla settimana come alcune settimane sì altre no; anche se si prevede in quasi tutte le attività di questo genere la presenza dell’operatore di tanto in tanto in azienda (per ricevere commesse o per consegnare i lavori). Egli, comunque, non ha sede né stanza, tanto che si è coniata l’espressione comune “deskless job”, per indicare appunto il lavoro senza scrivania.

Si tratta di un lavoro di grandissima autonomia, nel quale l’operatore risponde unicamente in termini di qualità e di convenienza economica; ma anche di un lavoro che stravolge radicalmente il tradizionale apparato percettivo-simbolico, col quale, dalla rivoluzione industriale in poi, noi siamo abituati a pensare e a sentire che stiamo effettivamente lavorando. Altri tipi di “lavoro senza luogo” sono il lavoro interattivo multimediale col supporto informatico (detto cooperativo in rete), che si avvale simultaneamente di tanti operatori sparsi nel mondo e quello, attualissimo, dell’”impresa virtuale”. Questa si avvale sempre di collaborazioni sparse nel mondo, non è collegata anessun luogo fisico, l’unico indirizzo è quello della posta elettronica, esiste solo nello spazio elettronico delle reti: il cyberspazio.Il secondo è “il lavoro senza corpo”, senza corporeità. Il lavoro perde la sua materialità perché diviene informazione e comunicazione: cioè testi digitati e formattati.

L’economia e la finanza mondiali diventano schermate e lettere trascritte su video. Basti pensare alle stanze dei borsini di banca, che diventano giorno dopo giorno i dopolavoro per anziani, che passano lì parte del loro tempo, senza più parole da regalarsi, in silenzio attenti a cogliere segnali sulla sorte dei risparmi di una vita. Tutto diventa segno lampeggiante sullo

schermo, effetto di un lavoro senza corpo e senza incontro. L’economia dematerializzata ha già un nome: la cybereconomia che, misurata in miliardi di dollari, vale molto di più dell’economia dei beni fisici e degli incontri-scambi tra persone. Attraverso la testualizzazione elettronica,l’organizzazione del lavoro diventa un libro aperto in grado di essere letto da chiunque; tutti possono sapere tutto, senza spazio e senza tempo: cioè senza geografia e senza storia. Tutto ciò comporta l’incremento massiccio dei mediatori tecnologici, che rendono il lavoro sempre più smaterializzato, separano i corpi, recidono legami ambientali, sterilizzano situazioni d’incontro (reale?). 

Dispositivi tecnologici quali la posta elettronica, i sintetizzatori di voce, gli sportelli automatici, già pronti a entrare nelle 

nostre case sotto forma di “home banking”, rendono superflui i rapporti (reali?) tra persone e ridisegnano il significato stesso dei rapporti umani e di ciò che vuol dire socializzare. A tal proposito non è banale ricordare che gli uomini nella nostra tradizione occidentale riescono più facilmente a sopportarsi e ad interagire, quanto più sono lontani e separati (è questa un’altra delle radicali opportunità su nuovi e possibili vincoli di convivenza civile che la desertificazione informatica dei rapporti tra individui e macchina può dare?). Il lavoro senza luogo, il lavoro senza corpo tendono ad essere un lavoro sempre più separato dai contenuti stessi del lavoro. E, come osserva il sociologo Luciano Gallino, all’interno di questo costruttivismo radicale,oggi si possono cogliere quattro dimensioni, che continuamente, come le luci degli alberi di natale, si accendono e si spengono a intermittenza davanti ai nostri occhi: a) la progettazione e la realizzazione di materiali informatici per realizzare altrove il prodotto e il servizio; b) la ricezione e la ritrasmissione della scatola dei “bit”; c) l’estrazione dai contenitori di quelle informazioni con le quali realizzare cose materiali; d) produrre quanto è stato progettato dal primo operatore.

Si tratta di quattro dimensioni che da sole valgono i prossimi cento anni e che, come ben si capisce, ci dicono che questo cambiamento radicale non riguarda tanto la realtà e il mondo, ma essenzialmente il modo in cui noi li percepiamo, costruiamo e inventiamo; e con una decisiva variante: che tutto ciò non comporta una pura e semplice possibilità culturale più o meno snobbistica, ma attiene aldestino stesso della civiltà industriale, della nostra civiltà, dove tra i tanti diritti giustamente reclamate e magari poco protetti, quello al lavoro richiede prioritariamente l’impegno dell’individuo a imparare (ecco la funzione della scuola di insegnare ad apprendere) a vederlo là dove si crea la domanda e a inventarlo là dove si determina l’offerta. Ciò attiene non all’individuo singolo e senza risorse, ma all’individuo tecnologico. In altri termini, l’individuo che in una realtà di rete costruisce con altri individui le condizioni migliori perché sia la società civile sia le istituzioni democratiche e i sindacati prendano atto che, accanto al lavoro materiale e intellettuale tradizionali, c’è un radicalmente “nuovo” lavoro. Che, ovviamente, richiede anch’esso che si individuino diritti e riconoscimenti.

E’ la sfida degli anni avvenire!