Cinema che parla di scuola
di Renato Candia
La scuola nell’immaginario sociale
In ogni relazione sociale del quotidiano non sempre viene presa nella giusta considerazione la percezione del proprio interlocutore. Capirne le aspettative, ascoltarne la voce, interpretarne espressioni e comportamenti sono aspetti che costruiscono il carattere stesso della relazione. A ciò si deve aggiungere una componente non secondaria che è data dall’immaginario che accompagna e orienta la percezione stessa di tutto ciò che, di volta in volta, è oggetto della nostra attenzione.
Il cinema (ma più in generale tutti i media di massa) è un potente strumento di costruzione dell’immaginario e, da questo punto di vista, quando parla di scuola riesce spesso a svelarne aspetti non sempre chiari ed evidenti a chi, per esempio, la scuola la pratica, perché la frequenta come destinatario, come operatore e/o come, a vario e altro titolo, utente.
L’occasione per parlarne viene dal recente film La sala professori (2023), regia di Ilker Çatak, entrato nella cinquina delle Nomination agli Oscar del cinema 2024, e nelle sale italiane da diverse settimane. I film sulla scuola, se non rappresentano un genere vero e proprio, costituiscono però una categoria che elabora angolazioni e prospettive spesso originali, ma sempre pertinenti a ciò che accade dentro e attorno al mondo della scuola. Per fare qualche esempio si va dai Blockbuster internazionali (come L’attimo fuggente – Dead Poets Society (1989), regia di Peter Weir, Pensieri pericolosi – Dangerous Minds (1995) regia di John N. Smith, L’Onda (2008), regia di Dennis Gansel, o Il professore cambia scuola (2017) – regia di Olivier Ayache-Vidal), al modello neo-realista contemporaneo girato nelle vere aule scolastiche con studenti non attori (a partire dal Diario di un maestro (1972 versione TV; 1975 Film) regia di Vittorio de Seta, a Io speriamo che me la cavo (1992), regia di Lina Wertmüller, La classe – Entre le murs (2008), regia di Laurent Cantet, fino a La mia classe (2013), regia di Daniele Gaglianone sull’esperienza dell’insegnamento a una classe di studenti extracomunitari), alla cinematografia italiana sulle condizioni della scuola nel nostro Paese (anche qui per fare qualche esempio Caterina va in città (2003), regia di Paolo Virzì, Il rosso e il blu (2012) regia di Giuseppe Piccioni, La prima pietra (2018) regia di Rolando Ravello, fino al più recente Educazione fisica (2023), regia di Stefano Cipriani).
Il film di Ilker Çatak rientra in un’altra piccola sotto-categoria che ha un precedente illustre e piuttosto conosciuto nel film italiano La scuola (1995), regia di Daniele Luchetti. Le due opere sono accomunate da una situazione drammaturgica fortemente connotata: entrambe infatti sono interamente collocate dentro una singola scuola e le vicende che si narrano riguardano principalmente il microcosmo quotidiano del corpo docente, le relazioni, gli incontri e gli scontri tra colleghi, i tentativi di conciliare personalità e aspirazioni individuali con la necessaria convivenza dentro un progetto educativo comune. Mentre tuttavia il film di Luchetti sceglie un registro tra l’ironico e il sarcastico (non senza qualche riuscita soluzione comica, ma senza mai sminuire la coerenza di senso della storia), quello di Çatak privilegia la dimensione drammatica, mantenendo un tono realistico ma non rinunciando mai a liberare gli effetti dell’incontro/scontro di personalità dentro una cornice di formalità istituzionale.
La figura del Dirigente scolastico
Ne La scuola il professor Enzo Villani è il preside di un Istituto Tecnico della periferia romana, anni ‘90. La sua è una gestione un po’ pigra e ordinaria: scuola pre-autonomia, priorità al completamento dei programmi, valore sommativo del voto e delle medie aritmetiche, aggiornamento e verifica quotidiani di presenze/assenze e programmi nei registri di classe e dei professori, apprendimento come pratica di processi di routine per l’apprendimento, pochi progetti, pochi esperti poche o quasi nulle risorse. Le vicende prendono avvio dal crollo del soffitto della biblioteca, nel quale si pensa che possa essere stata coinvolta una collega che avrebbe dovuto festeggiare il suo ultimo giorno di scuola prima del pensionamento.
Ne La sala professori, invece, la preside Bettina Böhm dirige il corrispondente in Francia di una scuola secondaria di primo grado di adesso. La sua è una gestione molto impegnata: la scuola si è data come primo paradigma il principio ‘tolleranza zero’. Questo significa regolamenti per tutti (da rispettare e far rispettare), nulla delegato al caso (anche se il caso, com’è noto, non ha certo bisogno di deleghe per agire), un edificio moderno, accogliente, pulito, spazi intercambiabili per le classi, ritualità nei comportamenti e negli orari, apertura alla partecipazione, una sala professori ampia, con grandi tavoli per condividere più o meno occasionalmente il lavoro, le considerazioni personali, le torte che le professoresse preparano per il loro compleanno, i p.c. lasciati attivi tra un’ora di lezione e l’altra. Tutto è perennemente pronto affinché il flusso del processo educativo, una volta avviato, non s’interrompa mai e anzi produca azioni e aspettative di potenzialità, nel rispetto delle regole e nel senso responsabile dell’Istituzione.
Tra la scuola di Luchetti e quella di Çatak ci sono distanze evidenti: i tempi, l’idea di scuola, di programma e di progetto, due sistemi scolastici diversi. Tuttavia il microcosmo quotidiano dentro le due scuole si mostra praticamente identico: una cornice sociale racchiude personalità individuali impegnate a mediare tra il proprio stile di approccio all’insegnamento e al rapporto con gli alunni e le classi e il mantenimento delle proprie prerogative caratteriali e comportamentali.
Le figure di Professori e studenti
Il personaggio principale del film La scuola è il professor Vivaldi. Insegnante di lettere, molto motivato al recupero di studenti un po’ complicati, tanto da arrivare quasi a infastidirsi con quelli più dotati, studiosi e volenterosi. Il suo approccio sfiora il puro idealismo: egli mette in secondo piano il proprio privato a tutto vantaggio di una eroica dedizione alla professione, alla difesa del benessere dei suoi studenti a tutti i costi, finendo per scontrarsi con colleghi molto più formali di lui, che portano avanti invece una scuola dei saperi, che punisce e allontana chi non studia, ‘disturba’ le lezioni e/o frequenta saltuariamente, che non si sente obbligata a personalizzare percorsi d’apprendimento e a cercare le condizioni per una possibile integrazione scolastica.
La protagonista del film La sala professori è un’insegnante di matematica, la professoressa Carla Novak. Rigorosa, impegnata e molto comprensiva e coinvolgente con la sua classe e con ciascuno dei suoi alunni, si ritrova contro ogni sua volontà e immaginazione coinvolta in una vicenda di piccoli ma frequenti furtarelli che accadono dentro la scuola. Nel desiderio di provare a risolvere la questione lascia accesa la videocamera del suo pc in sala insegnanti per cercare di trovare prove e responsabile di questi disdicevoli episodi, commettendo tuttavia l’incauta leggerezza di non avvisare nessuno. Da qui prende avvio una serie di svolte narrative che costituiscono l’idea centrale dell’intero film.
Tutto il racconto diventa uno specchio sociale dei tempi: la vicenda della professoressa Novak è racchiusa volutamente dal regista dentro il contesto della scuola, lo spettatore non saprà nulla della sua vita al di fuori della professione che esercita. Diversamente dal privato non raccontato del professor Vivaldi, funzionale al carattere idealista del personaggio, per la professoressa Novak il suo personale privato non-raccontato è invece funzionale al senso dell’intera vicenda: lo spettatore può così convogliare e concentrare l’intera personalità della professoressa Novak nel motivare le ragioni di tutto quello che accade quando il bisogno di giustizia non coincide più con le sovrastrutture della società. Così nell’interagire con i colleghi, con la preside, con i genitori, con i suoi studenti, insieme e/o singolarmente, la protagonista offre una percezione di sé completamente liberata dal rendere visibile il suo mondo privato, che rimane nascosto dietro il suo comportamento che, a sua volta, appare fortemente funzionale al mestiere che sta esercitando. E quindi se difende un alunno, se esprime un parere con i colleghi, se suggerisce una soluzione originale durante una riunione collegiale, lo spettatore ne coglie la sua personale visione generale di scuola e del ruolo educativo che ricopre.
La relazione educativa, in questa prospettiva, è narrata in buona parte dei suoi connaturati lati oscuri: una scuola ‘tolleranza zero’ può dare una rassicurante immagine di luogo dedicato all’esercizio del senso di giustizia, ma è necessario che sia in grado di considerare il diritto dei suoi interlocutori di proporsi in posizione oppositiva rispetto ai messaggi e alle informazioni con cui essa si presenta.
Cinema a scuola: una proposta educativa
In che misura un film può considerarsi a scuola un efficace strumento di riflessione formativa? Il cinema a scuola racconta la storia di un processo complicato e complesso: il cinema a scuola si deve ‘fare’ (con quali risorse tecniche e professionali?) o si deve ‘vedere’ (come e dove? In aula? con quale approccio?)? Le esperienze sviluppate nelle scuole dagli anni ‘60 nell’ottica dei cosiddetti ‘sussidi audiovisivi’ e dei progetti ad essi conseguenti, hanno ampiamente dimostrato che il cinema va visto in sala, o comunque in un luogo esplicitamente dedicato dove la forma del racconto audio-visuale e autoconclusivo com’è quella del film può esprimere compiutamente le proprie suggestioni simboliche ed emotive, dove la narrazione incalza al ritmo della curiosità del come-va-a-finire, dove l’intero racconto filmico sviluppa e stimola idee, riflessioni ma anche, e soprattutto, puro piacere narrativo.
L’idea del film usato come testo di una progettualità didattica, richiede risorse utili a costruire le condizioni per la sua corretta fruizione: uno specifico ambiente theatrical dedicato, una proposta filmica che abbia impatto emotivo, un modo di conoscere il film capace di giustapporre letture testuali, meta-testuali, extra-testuali, dentro e fuori la storia che si racconta, che renda appetibile e coinvolgente la ricerca di svelamento del dispositivo, che preservi le emozioni e che suggerisca (senza per forza darle) chiavi di significato.
La possibilità, per esempio, di vedere il film in aula non dedicata, magari anche attraverso sofisticati Home theatre o Touchscreen di grandi dimensioni, inibisce le potenzialità fruitive del testo, disconosce il diritto alla dimensione theatrical dello spettatore e finisce per privilegiare un approccio al testo filmico come flusso (tipico del prodotto televisivo e dei social media in generale, dove il testo che scorre sui monitor ha la caratteristica di essere una successione di attese e parziali risoluzioni senza che vi sia mai una fine vera e propria della storia) piuttosto che come narrazione autoconclusiva (dove invece ogni elemento costitutivo della narrazione, dei caratteri, dei personaggi, degli spazi e dell’universo simbolico è interamente costruito, risolto e concluso dentro il tempo del racconto).
Il cinema come progetto didattico, dunque, rientra sempre più a pieno titolo nel quadro di una necessaria Educazione ai Media, abituando lo studente a saper leggere le proprie emozioni e ciò che è in grado di generarle, a saper guardare i mondi narrati (compresi quelli della realtà quotidiana che si svolgono davanti agli occhi di chiunque) da posizioni critiche, di trovare un senso nelle azioni e nelle cose attraverso il tempo del loro esaurirsi. Come accade nella vita di tutti i giorni dove gli eventi non sono preludio di una possibile continuazione come nelle serie tv, ma possono diventare utile materia di esperienza come già Aristotele insegnava nel libro della Poetica.
Di questo e della necessità di un ritorno ad una nuova considerazione della narrazione parla, nel suo ultimo recente lavoro, il filosofo coreano-berlinese Byung-Chul Han: contro la pratica indiscriminata dello storytelling che costruisce per noi visioni del mondo attraverso un universo digitale sempre più invasivo, è necessario ritrovare le pratiche sociali di una comunità narrativa, dove i racconti generano coesione sociale e racchiudono comuni offerte di senso[1].
Le vicende narrate nel film La sala professori aiutano a comprendere dal di dentro cosa dovrebbe poter essere una scuola come comunità narrativa, e lo fanno attraverso il racconto dei rischi che ne vengono quando la scuola stessa rinuncia a questa sua naturale vocazione.
[1] Byung-Chul Han, La crisi della narrazione, Torino, Einaudi, 2024