La pubblica istruzione è fallita

da ItaliaOggi

Lo dice lo storico contemporaneo Adolfo Scotto Di Luzio, autore di «La scuola che vorrei»

La pubblica istruzione è fallita

La burocrazia non è in grado neanche di fare i concorsi
 di Goffredo Pistelli  

La scuola dei concorsoni sballati, delle graduatorie impossibili, delle assunzioni copiose di precari è di nuovo ai blocchi di partenza, terreno fertile alla polemica e alla strumentalizzazione politica. Gli Italiani la guardano attoniti, con l’idea che sia da cambiare, senza sapere da che parte cominciare.

Adolfo Scotto Di Luzio, storico contemporaneo all’Università di Bergamo, ha dedicato al tema dell’Istruzione un libro coraggioso, La scuola che vorrei (Bruno Mondadori, 122 pagine), in cui, fra le altre cose, spiega come il nostro sistema, facendo a pezzi la scuola di élite, di tradizione umanistica, ottocentesca, in luogo della scuola democratica, abbia innanzitutto fatto qualcosa di poco democratico. «Si è pensato stoltamente che per le masse quella tradizione e la sua cultura rappresentassero un ferrovecchio, un pericoloso trabocchetto sulla strada del loro progresso», ha scritto sul Corsera, Ernesto Galli Della Loggia, dedicando un editoriale al lavoro di Di Luzio.

Domanda.

Professore, lei racconta il liceo classico “ucciso”_

Risposta. Svuotandolo del suo ruolo politico e civile, si è prodotto un disastro ma, in verità, svolgo più che altro una riflessione sull’istruzione tecnica e professionale in Italia, pur portandomi dietro una fama di cultore di un’idea gentiliana della formazione.

D. Istruzione tecnica che si è andata impoverendo: insegna poco o punto a lavorare_

R. C’è stato un svuotamento vero e proprio, una corsa a fare tutti licei, che il precedente ministro, Mariastella Gelmini, aveva cercato di arrestare questo processo. Ma è una questione che viene da lontano, che ha alla ridice di un problema di sensibilità nel rapporto fra scuola e lavoro, e sulla quale, invece, bisogna rendere l’onore delle armi a un’altra ministra del centrodestra, Letizia Moratti, che cercò di fare un lavoro serio fra impresa e scuola.

D. Si parla molto, negli ultimi tempi, del modello tedesco, con la sua formazione duale, con un canale di formazione professionale, legato alle imprese, in grado di condurre poi a uno sbocco delle università tecniche. E nessun tedesco considera di serie B né le scuole né questi atenei_

R. Noi invece oscilliamo fra questi due poli: professionalizzazione e cultura. O si fa l’una o l’altra. E le nostre scuole professionali, oggi, hanno la forma dei licei, assomigliano molto ai licei, senza averne che dei contenuti generici. E sono diventati così il porto dei ragazzi sconfitti.

D. Un binario morto in cui scaricare, per assolvere l’obbligo scolastico, quei giovani che non han voglia o, come si dice, “non son portati”.

R. Sì, col dramma che queste scuole non preparano a un mestiere ma accolgono i drop-out, cioè quelli che hanno abbandonato altrove. Eppure in passato, l’istruzione tecnica e professionale, in Italia, è stata importante e di qualità. Ora è solo un modo per aggirare gli ostacoli. Senza dimenticare che poi, talvolta, il canale di scarico si trasforma in trampolino, perché qualcuno vuol fare l’università, provando a prendere una laurea.

D. E andando ad ingrossare l’esercito dei fuoricorso_

R. Incrementando, anche lì, i fallimenti. Così sull’università si scarica una domanda di istruzione, legittima certo, ma incompatibile con la struttura stessa degli atenei, specialmente quelli piccoli. Che devono fare sì didattica ma anche e soprattutto ricerca.

D. Ci vorrebbe appunto la famosa istruzione tecnica, cioè una formazione professionale parallela a quella accademica. Alla tedesca, insomma. Sta partendo timidamente anche perché, finora, gli Italiani, le famiglie, non ne volevano sapere: volevano i figli avvocati, medici, commercialisti_

R. Sì uno dei motivi delle difficoltà in cui è finita l’istruzione professionale e tecniche, nasce dal miraggio del titolo, del pezzo di carta, del prestigio della laurea diffuso fra gli Italiani, che ha spinto gli Italiani ad abbandonarla.

D. In questi giorni, un altro tema ricorrente è quello che riguarda il reclutamento degli insegnanti. Si parla di “concorsoni”, di graduatorie infinite, del rito degli incarichi annuali ai docenti. Lei cosa vede?

R. Vedo il fallimento del ministero della Pubblica istruzione. Lo dice uno che ha sempre creduto nella necessità del buon funzionamento di un apparato di controllo, centrale, dello Stato sull’istruzione, e che non ha mai pensato all’idea di una scuola abbandonata agli uffici scolastici provinciali (gli ex-patronati, ndr) o all’autonomia. Ma il fallimento c’è ed è quello di una burocrazia che, ormai, non è più neppure in grado di fare i concorsi.

D. E di queste assunzioni, a colpi di migliaia e migliaia, che ne pensa?

R. Hanno a che fare col welfare, più che con la scuola. È il solo ramo della macchina burocratica dello Stato dove si fanno immissioni in ruolo nell’ordine di 50-60mila persone. Nessun altra amministrazione, oggi, può assumere 69mila persona. Un grande macchina di sostegno al lavoro improduttivo, non perché queste persone non servano, intendiamoci, saranno utili in qualche situazione locale, allevieranno qualche bambino in difficoltà, ma sono 69mila addetti che non mettono e non tolgono, che non cambiano il dato di fondo. È un uso keynesiano della scuola, per creare occupazione.

D. Ma il prossimo governo che avesse la forza di fare riforme importanti, in tema di scuola, cosa dovrebbe fare?

R. Ormai non è più un problema che possa essere risolto solo da un governo. È un’emergenza che investe un’intera collettività, compresi gli intellettuali, gli organi di informazione, gli Italiani: ci deve essere un grande dibattito nazionale sul significato dell’educazione, su quali siano i suoi contenuti, su cosa debba imparare un giovane italiano del XI secolo. Una discussione sganciata dal tema, angusto e anche un po’ gretto, dell’occupabilità.

D. In che senso, professore?

R. Nel senso che la scuola non è solo un lasciapassare per il lavoro, è qualcosa che crea coesione sociale, forma cittadinanza, vincolo comunitario nazionale e civile. Non può essere abbandonata al punto di vista dei privati, singoli o famiglie. Perché è anche funzione del governo del Paese, è carattere generale, è costruzione del noi.