Una risposta parziale (e con troppi dettagli) al bisogno di identità degli studenti

da Il Sole 24 Ore

Una risposta parziale (e con troppi dettagli) al bisogno di identità degli studenti

di Luisa Ribolzi

Quando trent’anni fa ho scritto un libro sugli abbandoni, ho usato come exergo una citazione da «Alice nel paese delle meraviglie», che dice «Forse ci sarà qualcuno che mi vedrà dall’alto, e mi inviterà a salire. Ma io vorrò prima che mi si dica chi sono: e salirò soltanto se mi piacerà essere quella che sono diventata. In caso contrario non mi muoverò finché non sarò un’altra» . Mi pareva, e tuttora mi pare, che questo testo centrasse pienamente il dilemma della condizione giovanile, alla ricerca della propria identità e disposta a cambiare continuamente finché questo aspetto definitivo non soddisferà il suo desiderio profondo, affidandosi ad un maestro capace di dirle «chi è».

Il testo della legge può essere letto anche da questo punto di vista: la «buona scuola» risponde alla domanda di identità dei giovani, o la seppellisce sotto un cumulo soffocante di dettagli? Se ci avete fatto caso, praticamente nessuna delle tante sintesi «la buona scuola in x… punti» comparse sulla stampa comprende un punto esplicitamente dedicato agli studenti. A questo proposito manca una visione d’insieme: i diciassette obiettivi indicati al comma 7 (più la conoscenza delle tecniche di primo soccorso, che ha un punto tutto suo) mi paiono una minuziosa elencazione di tutto quanto si considera utile o politicamente corretto, senza nessuna gerarchia e con una certa indifferenza al valore formativo dei singoli elementi. Il potenziamento delle capacità logiche e linguistiche è alla pari con l’apertura pomeridiana delle scuole, lo sviluppo di comportamenti responsabili va con la prevenzione del bullismo informatico.

Il piano triennale dell’offerta formativa, che dovrebbe consentire agli studenti e alle loro famiglie di scegliere un tipo di scuola che si ispira ai loro stessi valori, quali che siano, contiene prevalentemente indicazioni riferite all’organico, o annega in un mare di citazioni: promette di «informare e sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate dall’articolo 5, comma 2, del decreto legge 14 agosto 2013, n.93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n.119, nel rispetto dei limiti di spesa di cui all’articolo 5 bis, comma 1, primo periodo, del predetto decreto legge n.93 del 2013». L’articolo in questione, per chi ha la pazienza di andarlo a cercare, riguarda la prevenzione della violenza sessuale e di genere, ed è anch’esso minuziosamente dettagliato. Mi sembra un tema importante, se non naufragate tra i commi, e mi auguro che serva a quella insostituibile parte della costruzione dell’identità che riguarda l’identificazione di genere. Magari però si potrebbe occuparsene nel percorso formativo degli insegnanti, che poi lo tradurranno nelle forme più adeguate alla sensibilità e all’età dei loro studenti: allo stesso modo, dovrebbero /potrebbero essere gli insegnanti a metter in atto momenti di orientamento e attività finalizzate all’accoglienza degli studenti di origine straniera.

All’interno del tema dell’identità, che io considero come la summa di tutte le esigenze formative espresse dai ragazzi, possiamo dettagliare almeno tre aspetti: l’acquisizione di conoscenze, abilità e competenze, la capacità di comunicare e relazionarsi con gli altri, la comprensione del sistema di diritti e doveri collegata alla cittadinanza. Dal primo punto di vista, la legge riprende una serie di indicazioni già presenti in precedenti riforme, e dettagliate all’interno dei diversi indirizzi, ma mancano indicazioni sull’accertamento degli effettivi apprendimenti: a parte ogni altra considerazione, l’Invalsi misura solo le competenze in matematica e italiano, e solo in alcuni momenti del percorso scolastico. Eppure i ragazzi avrebbero il diritto di essere informati sulle loro eventuali lacune, e questo sarebbe anche un fondamentale indicatore della validità del processo di insegnamento e apprendimento.

È positivo che venga ribadita l’importanza dell’alternanza, potenziata dalle attuali 70 ore, con un coinvolgimento del 4% di studenti, alle 400 ore obbligatorie per i tecnici e professionali e 200 per i licei, obiettivo ambizioso da raggiungere gradualmente con il sempre maggiore coinvolgimento delle imprese e delle istituzioni interessate, e con una valorizzazione della formazione regionale. Se consideriamo – come dovremmo – anche l’occupabilità fra gli obiettivi formativi, non possiamo che apprezzare che venga rinnovato, ancora troppo timidamente, l’interesse per la formazione superiore non universitaria, che fornirebbe ai ragazzi una via privilegiata di qualificazione senza forzatamente passare per l’accademia, riducendo così la dispersione senza bisogno di dichiararlo esplicitamente.

La capacità di comunicazione e di relazione, e il senso civico, mi paiono molto lasciati a un approccio teorico. In particolare, il «dovere di avere doveri», per citare un felice testo di Luciano Violante, mi pare assente sia dai contenuti che dalle indicazioni agli insegnanti: ma i ragazzi crescono solo se vengono gradualmente, ma continuativamente, resi responsabili delle proprie azioni, sotto la guida degli adulti. Su tutti questi punti, io penso che allo Stato spetti di dare indicazioni di massima, lasciando all’autonomia delle scuole di realizzarle, e valutando poi gli esiti. Se penso a tutti i progetti bellissimi che ho incontrato nel corso della mia attività, mi confermo nell’idea che si debba accrescere la discrezionalità delle scuole e dei gruppi di docenti, che molto meglio del centro sono in grado di individuare i bisogni dei loro studenti e di proporre loro momenti di crescita reale. Ma per poter innovare, le scuole hanno bisogno di fondi e di criteri di azione diversi, e gli insegnanti hanno bisogno di formazione prima, e di vedere riconosciuti i propri meriti poi.

La legge parla, infine, di piena attuazione del processo di autonomia, ma per farlo metterà a disposizione delle scuole solo qualche insegnante in più, e nemmeno sempre quelli di cui ci sarebbe bisogno. Viene meno l’elemento fondamentale del processo educativo, la relazione: gli insegnanti non sempre possono scegliere la scuola e il progetto educativo, e neppure i colleghi con cui lavorare; le famiglie non possono scegliere la scuola, i ragazzi subiscono gli insegnanti, e possono manifestare il loro disagio solo attraverso i «problemi di disciplina», esempio innegabile di valutazione implicita dei ragazzi sui loro docenti. Ma, dice, c’è uno studente nel comitato di valutazione! Bene, se ci vuole un villaggio per educare un bambino, perché non dovrebbero volerci sette persone per valutare un insegnante?