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Verso un esame di Stato… incompetente!

Verso un esame di Stato… incompetente!

di Maurizio Tiriticco

 

Il nostro strano Paese… la nostra strana Scuola… Mentre la cm 3, i suoi allegati e i suoi modelli per la certificazione delle competenze da effettuare alla fine della scuola primaria e del primo ciclo di istruzione stanno agitando gli insegnanti dei nostri istituti comprensivi, sulle competenze da accertare e da certificare alla fine del secondo ciclo di istruzione tutto tace.

Per quanto riguarda gli adempimenti di cui alla cm 3, potremmo dire, con Shakespeare: molto rumore per nulla! Nulla, infatti, concludono i nostri studenti alla fine del primo ciclo di istruzione, sotto il profilo formale, in quanto sono tenuti a proseguire gli studi per conseguire l’obbligo nel primo biennio dell’istruzione secondaria di secondo grado o nell’istruzione e formazione professionale regionale. A tal fine interviene il dm 139/07, che contiene la descrizione delle competenze, opportunamente distinte tra quelle di cittadinanza e quelle culturali, con i relativi indicatori: le prime “curvate” dalla Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006; le seconde, propriamente culturali, distribuite lungo quattro assi pluridisciplinari.

Avremmo immaginato che, se si vogliono certificare competenze intermedie prima di quelle conclusive del percorso obbligatorio, sarebbe stato opportuno che si tenessero nel debito conto quelle da certificare alla fine. Se un aspirante cuoco alla fine del percorso di apprendimento dovrà cucinare un’anatra all’arancia, sarà opportuno che in precedenza si sappia destreggiare con un uovo al tegamino! Ma così non è! I “profili di competenza” – per altro un linguaggio estraneo a un discorso mirato sulle competenze: sembra una riedizione dei “traguardi” – ignorano del tutto le competenze di fine obbligo, se non con un semplice richiamo formale. Non solo: la logica operativa con cui le competenze di cui alla cm 3 devono essere certificate nulla ha a che fare con la logica proposta dal dm 139. Si apre così uno iato nel nostro Sistema di istruzione obbligatorio: in effetti il primo ciclo sembra chiudersi in se stesso e ignorare del tutto che costituisce solo un segmento di quel curricolo progressivo e verticale di cui ormai si parla da anni! Se ne parla, ma non si opera, a quanto sembra.

Al pasticcio in cui versano il “discorso” sulle competenze e la relativa certificazione riguardanti il primo ciclo, si accompagna un secondo pasticcio, che riguarda il secondo ciclo. Ho detto e scritto più volte – e non sono il solo – che, concludendosi con questo anno scolastico il riordino dell’intero secondo ciclo avviato nell’anno scolastico 2010-2011, sarebbe stato inderogabilmente necessario riordinare – E PER TEMPO – anche l’esame di Stato che lo conclude. Sia nelle Indicazioni nazionali per i licei, anche se in modo più “sfumato”, che nelle Linee guida per gli istituti tecnici e professionali, si insiste sul fatto che il nostro sistema secondario di istruzione si conclude con quella certificazione di cui ormai parliamo da anni. E nelle Linee guida le competenze sono chiaramente indicate come la risultante di una interazione costante e progressiva tra conoscenze e capacità/abilità (il cosiddetto modello dolmen) L’articolo 6 della legge 425/97, che 18 anni fa ha riformato l’esame di Stato, indica chiaramente che, se vogliamo concorrere con l’Europa, o meglio facilitare l’accesso al lavoro o a studi ulteriori i nostri giovani su una platea ormai transnazionale, non possiamo rinunciare ad accertare e a certificare le concrete competenze da loro raggiunte. Ciò per il semplice fatto che una COMPETENZA è da tutti leggibile, un VOTO no!

Così, anche quest’anno abbiamo perduto il treno delle competenze. E sarebbe assurdo che a Pasqua, alla vigilia della chiusura dell’anno scolastico, il Miur intervenisse in merito. Ormai il danno è fatto! Eppure, le competenze terminali del secondo ciclo nelle Linee guida sono chiaramente descritte, anche se distinte per disciplina. A questo proposito, va ricordato che una competenza, soprattutto a livelli professionalizzanti o professionali, difficilmente afferisce a una sola disciplina. E nel corso degli anni (le Linee guida per i trienni sono state pubblicate con due Direttive del 2011), un lavoro di aggregazione pluridisciplinare sarebbe stato possibile.

Per quanto riguarda la “sfumatura” – se si può dir così – delle competenze disciplinari, di cui alle Indicazioni nazionali per i licei, è opportuno sottolineare che nelle stesse Indicazioni sono opportunamente enfatizzati i “risultati di apprendimento comuni a tutti i percorsi liceali” (si veda l’allegato A al dpr 89/10). Tali risultati sono distinti in 5 aree: metodologica; logico-argomentativa; linguistica e comunicativa; storico-umanistica; scientifica, matematica e tecnologica. Ogni area è scandita negli opportuni indicatori. Si tratta di una indicazione di cui le commissioni d’esame dovrebbero tenere il debito conto, soprattutto in sede di colloquio che, com’è noto, è rigorosamente multidisciplinare. E’ noto che non sempre questo criterio viene rispettato, anche per l’oggettiva difficoltà che deriva da anni e anni di insegnamenti assolutamente monodisciplinari. E’ evidente la difficoltà che incontrano commissari e alunni nel momento in cui, come per incanto, si deve passare alla conduzione di un colloquio di cui si ha scarsa esperienza, fatte salve le simulazioni che a volte si conducono nelle quinte classi.

Un’attenta lettura degli indicatori, di cui a ciascun’area, può agevolmente condurre i commissari – e gli stessi insegnanti di classe nel corso degli anni scolastici (le simulazioni finali lasciano sempre il tempo che trovano) – a predisporre giorno dopo giorno criteri e modi per la conduzione del colloquio. Se è vero, com’è vero, che una competenza attraversa sempre più di una disciplina, sarà anche vero che un candidato venga “certificato” come competente nella misura in cui sa aggregare opportunamente i saperi acquisiti e non perché “cade” di fronte ai un singolo quesito: quesito che, in un colloquio professionalmente condotto, non dovrebbe neanche proporsi.

E concludo osservando che l’intero sistema di istruzione è in sofferenza, non solo per gli stanziamenti insufficienti e tutti i mali che lo affliggono, ma anche perché l’amministrazione è improvvida. Le scuole, anzi, le Istituzioni Scolastiche – che dovrebbero essere Autonome – in questo periodo sono tenute alla compilazione del Rav. A quando un Rav anche per la nostra Amministrazione? Solo le scuole devono interrogarsi per scoprire in che cosa devono migliorare? Basta con i generali che scaricano tutto sulle povere truppe!

Quando al Miur non sanno quello che fanno

Quando al Miur non sanno quello che fanno

di Maurizio Tiriticco

 

Nella recente cm della DG per gli ordinamenti e la valutazione del sistema nazionale di istruzione (Orientamenti per l’elaborazione del Rapporto di Autovalutazione) leggiamo tra l’altro: “Sulle competenze chiave e di cittadinanza il format del RAV non presenta specifici indicatori. Come è noto, la Raccomandazione del 18 dicembre 2006 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea inserisce tra le competenze chiave sia quelle riguardanti le acquisizioni nelle aree fondamentali (madrelingua, lingue straniere, matematica, scienza e tecnologia, competenze digitali), sia quelle concernenti la capacità di costruire autonomamente un percorso di vita e di lavoro (imparare ad imparare, spirito di iniziativa e di imprenditorialità), sia quelle più strettamente collegate alla cittadinanza attiva e consapevole (competenze sociali e civiche, consapevolezza ed espressione culturale). Al riguardo non sono attualmente disponibili indicatori omogenei a livello nazionale: la scelta è stata, pertanto, quella di lasciare alle scuole la scelta degli indicatori e delle fonti. Ad esempio, gli elementi di conoscenza riguardanti quest’area possono essere ricavati dalle procedure adottate per la certificazione delle competenze, dagli elementi considerati per la valutazione del comportamento, dall’osservazione della qualità di alcuni processi (quali, ad esempio, la partecipazione attiva degli studenti alla vita scolastica, il livello di collaborazione, il grado di autonomia e il senso di responsabilità degli studenti) all’interno di ciascuna scuola”.

E’ purtroppo sempre vero che al Miur hanno poca memoria. Le competenze chiave per l‘apprendimento permanente, di cui alla Raccomandazione del 18 dicembre 2006, sono state recepite dal dm 239 del 31 agosto 2007, concernente il “Regolamento recante norme in materia di adempimento dell’obbligo di istruzione”, di cui alla Legge 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 622, con la quale si è innalzato l’obbligo di istruzione di due anni.

Nell’allegato 2 del citato dm sono individuate e descritte le “competenze chiave di cittadinanza da acquisire al termine dell’istruzione obbligatoria”. Si tratta della curvatura che è stata fatta delle competenze di cittadinanza di cui alla Raccomandazione UE alla specificità del nostro Sistema Educativo di Istruzione e Formazione (va sottolineato che tali competenze hanno valore anche per l’Istruzione e Formazione Professionale di competenza delle Regioni).

Nel citato allegato si legge testualmente: “L’elevamento dell’obbligo di istruzione a dieci anni intende favorire il pieno sviluppo della persona nella costruzione del Sé, di corrette e significative relazioni con gli altri e di una positiva interazione con la realtà naturale e sociale”.

Seguono otto competenze chiave di cittadinanza: Imparare ad imparare; Progettare (inerenti alla crescita/sviluppo del Sé); Comunicare; Collaborare e partecipare; Agire in modo autonomo e responsabile (inerenti alle relazioni del Sé con gli altri); Risolvere problemi; Individuare collegamenti e relazioni; Acquisire e interpretare l’informazione (relative a una positiva interazione del Sé con la realtà naturale e sociale). Ciascuna competenza è seguita da opportune indicazioni esplicative.

Nel medesimo Regolamento vengono individuate, definite e descritte 16 competenze culturali: 6 per l’asse dei linguaggi; 4 per l’asse matematico; 3 per l’asse scientifico-tecnologico; 3 per l’asse storico-sociale. Nel Regolamento le competenze di CITTADINANZA sono ben distinte da quelle CULTURALI: in effetti, si può essere ottimi cittadini, ma scarsamente “colti” o ottimi professionisti, però a servizio del malaffare. E di esempi nel nostro Paese ne abbiamo a iosa!

La certificazione delle competenze di fine obbligo si è avviata con molta fatica, soprattutto perché mancava alle scuole un modello di certificazione! Il modello è stato varato dal Miur con notevole ritardo in allegato al dm 9 del 27 gennaio 2010. Nel modello si riscontra una grave mancanza! Le competenze di cittadinanza, che sono di una estrema importanza in quanto, non solo sono autonome rispetto a quelle culturali, ma valgono anche per tutti i cittadini dei 28 Paesi membri dell’UE, non vengono affatto certificate. Compaiono solamente in nota come un semplice e, di fatto, poco significativo “riferimento” sia per lo studente/cittadino che per gli insegnanti certificatori.

Da quanto detto, appare oltremodo scorretto, sia sotto il profilo educativo che sotto quello civico, sostenere nella cm citata in apertura che “non sono attualmente disponibili indicatori omogenei a livello nazionale”, semplicemente perché non corrisponde a verità. I casi sono due: o al Miur non sanno quello che fanno: oppure – stando anche alla sottovalutazione delle competenze di cittadinanza di cui al dm 9/10 – non intendono affatto avviare un serio discorso educativo in materia di cittadinanza. Forse è anche per queste ragioni che la disciplina Cittadinanza e Costituzione è a tutt’oggi più Cenerentola di quanto non fosse negli anni passati l’Educazione civica.

Ed è estremamente grave che nella scuola di un Paese che è stato tra i promotori del processo europeistico, da Mazzini ad Altiero Spinelli a Ernesto Rossi e ad Alcide De Gasperi una vision europeistica forte sia decisamente assente! I nostri si rivolteranno nella tomba, con Robert Shuman, Jean Monnet, Konrad Adenauer, Robert Shuman, Paul Henri Spaak e i tanti altri sognatori…

Esempi di indicatori per le 8 competenze di cittadinanza

Questa sperimentazione non s’ha da fare!

Questa sperimentazione non s’ha da fare!

di Maurizio Tiriticco

 

Non vuole essere una intimazione manzoniana! Non sono un bravo di Don Rodrigo, ma… veramente la sperimentazione lanciata dalla cm 3 mi preoccupa e non poco. In precedenti scritti, sempre reperibili in edscuola.it, ho sottolineato gli elementi di debolezza dei modelli di certificazione proposti alle scuole del primo ciclo, che voglio brevemente riassumere:

  1. non sono affatto considerate le competenze che sono richieste all’alunno al termine dell’obbligo decennale di istruzione. In altri termini, le competenze intermedie di fine primo ciclo non possono non ancorarsi a quelle terminali dell’obbligo: se il nostro Pierino, o Gianni che sia, a 16 anni di età, deve raggiungere le competenze di CITTADINANZA e CULTURALI di cui al dm 139/07, al termine del primo ciclo quelle stesse competenze come devono essere “lette” e “curvate” al “saper fare” di un 14enne? I livelli di età sono ovviamente indicativi, stante il fatto che si potrebbero avere anticipi o ritardi. In effetti la norma prevede 10 anni di istruzione obbligatoria per tutti [1]; e non, come a volte si dice, di “obbligo scolastico”;
  2. perché “profilo delle competenze” e non, invece, “competenze” chiare e tonde? Perché riandare al linguaggio generico dei “traguardi per lo sviluppo delle competenze”, di cui alle Indicazioni nazionali? Se nelle Indicazioni i traguardi possono avere un senso al fine di lasciare agli insegnanti, nelle loro progettazioni, di evincere dai traguardi le competenze da proporre, accertare e certificare, in sede di modello finale il termine profilo suona equivoco e vanifica, di fatto, la descrizione di una competenza tout court; tant’ è vero che non sono pochi gli insegnanti che hanno visto nei profili una sorta di copia e incolla dei traguardi; e non sono pochi gli insegnanti che vi hanno visto una sorta di riedizione dei “giudizi analitici” di buona memoria;
  3. raccordare le competenze culturali con le competenze chiave di cittadinanza costituisce un errore grossolano: un ottimo architetto può essere a servizio della mafia; e un modesto architetto, invece, può essere un onestissimo cittadino. In effetti, per quanto riguarda il compimento dell’obbligo di istruzione, le due serie di competenze sono ben distinte (dm 139/07), desunte per altro da due altrettanto distinti documenti europei: la Raccomandazione del 18 dicembre 2006 (Cittadinanza) e la Raccomandazione del 23 aprile 2008 (il Quadro europeo delle qualifiche, recepito dalla Conferenza Unificata il 20 dicembre 2012);
  4. la scelta di quattro livelli di indicatori, e non di tre, come nella certificazione dell’obbligo di istruzione e come in altre esperienze, e non solo italiane, è veramente un “fuor, d’opera”! E l’espressione del livello iniziale D: “se opportunamente guidato/a” che cosa “ci azzecca” con una competenza acquisita? Una competenza c’è o non c’è. Non potremmo mai dire che un chirurgo, o un cuoco, se opportunamente guidato, “svolge il suo compito semplice in situazioni note”. Sarebbe stato più opportuno scrivere, come avviene in tutti i descrittori di competenze: “Nel caso in cui non sia stato raggiunto il livello base, è riportata l’espressione ‘livello base non raggiunto’, con l’indicazione della relativa motivazione”. Forse, non si è voluta compromettere l’ammissione dell’alunno all’esame finale. E allora, saranno tutti ammessi?
  5. non si capisce perché le competenze siano certificate dai consigli di classe prima dell’esame di Stato. E’ arcinoto che la certificazione di competenze non può essere lasciata alla casualità di una prova d’esame (basta un mal di pancia per mandare a monte un esame, o un felice copio copias per superarlo). La certificazione di competenze è l’esito di un processo più o meno lungo di apprendimenti seguiti e costantemente sollecitati, osservati, misurati e valutati in itinere. Si tratta di due esiti finali che confliggono. Comunque, il conflitto poteva essere superato lasciando alla commissione d’esame (in effetti ai consigli di classe in altra sede formale) il compito della certificazione. Ma l’esame di terza media ha una sua disciplina data dalla normativa vigente. In effetti una CERTIFICAZIONE di competenze non è un ESAME finale. Si tratta di due logiche valutative terminali assolutamente diverse.

In conclusione, la cm 3 propone alle istituzioni scolastiche e ai consigli di classe la compilazione di un documento finale ibrido, in cui non c’è alcun profilo che corrisponda a una specifica competenza. Mi piace copiare testualmente il profilo 12 relativo alla terza media: “Ha cura e rispetto di sé, come presupposto di un sano e corretto stile di vita. Assimila il senso e la necessità del rispetto della convivenza civile. Ha attenzione per le funzioni pubbliche alle quali partecipa nelle diverse forme in cui questo può avvenire: momenti educativi informali e non formali, esposizione pubblica del proprio lavoro, occasioni rituali nelle comunità che frequenta, azioni di solidarietà, manifestazioni sportive non agonistiche, volontariato, ecc.”. Quante competenze reali sono sottintese!?!? E a quali livelli? In effetti, possono riguardare sia un adolescente maturo che un “buon cittadino” adulto! Dov’è la specificità di un quattordicenne?

Concludendo, si lancia una sperimentazione di durata triennale proposta e condotta su basi che di scientifico hanno poco o nulla. Ma la cosa grave è che per tre anni i consigli di classe saranno tenuti a faticose esercitazioni su un terreno assolutamente fuorviante rispetto al fine che si dovrebbe realizzare.

Per queste ragioni sono sempre più convinto che le uniche competenze da verificare sono quelle di fine obbligo e che per realizzare tale obiettivo occorre al più presto adottare quel curricolo decennale verticale e progressivo di cui si parla da anni, ma che ancora è impossibile realizzare, per due precise ragioni: a) la tripartizione di scuola primaria, media e primo biennio; b) il fatto che non si abbia il coraggio di abolire quei dispositivi di legge che prevedono che siano certificate competenze alla fine della scuola primaria e della scuola media. Certificare competenze è una cosa seria e implica indicazioni normative diverse da quelle attuali. E va anche considerato se sia opportuno e significativo certificare competenze quando ancora l’età evolutiva non ha maturato il suo corso.

Mah! Così va il mondo, diceva il Manzoni! Comunque, una via di uscita ci sarebbe: rivedere la proposta sperimentale e ancorare le competenze richieste ad alunni di 14 anni a quelle che sono loro richieste al compimento dei 16 anni. E va anche considerato che, qualunque sia il livello di competenza raggiunto dall’alunno della scuola media, il valore è formalmente inesistente, perché il primo titolo di istruzione formalmente valido è quello conclusivo di un obbligo decennale, da otto anni ad oggi.

 

[1] Va anche considerato che l’obbligo continua. Si veda il diritto/dovere “all’istruzione e alla formazione, per almeno 12 anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il 18° anno di età” (legge 53/03, art. 2, comma 1, lettera c).

Lo spettro delle competenze

Uno spettro si aggira per la scuola: lo spettro delle competenze

di Maurizio Tiriticco

Faccio mio l’incipit del saggio di Mario Castoldi “Dietro la certificazione: valutare le competenze”, pubblicato da “Notizie della Scuola”, n. 11 dello scorso 1-15 febbraio! Quale miglior titolo per tornare a parlare dei modelli di certificazione delle competenze terminali della scuola primaria e del primo ciclo di istruzione, di cui alla cm 3/15? [1]. Non riesco a capire perché un’operazione, che avrebbe dovuto richiedere indicazioni chiare e nette, per quanto riguarda la definizione delle competenze da accertare e da certificare da parte della istituzioni scolastiche e le relative procedure, sia invece sostenuta da pagine e pagine… una cm, Linee guida e relativi allegati, per un totale di 24, inclusi i due modelli. Insomma, un conto è un trattatello sulle competenze, altro conto una norma che ne prescriva la certificazione, anche se in via sperimentale. Il fatto è – a mio vedere – che in materia di competenze è lo stesso Miur a balbettare. Nelle Indicazioni nazionali non si “indicano” competenze da certificare, ma si ripiega sui traguardi; nelle Linee guida si passa dai traguardi ai profili. Ma queste benedette competenze da certificare quali sono? Non le possono inventare gli insegnanti! Se vuoi imparare a guidare un’automobile, non è la scuola guida che inventa che cosa devi conoscere e saper fare, ma la Motorizzazione, se non erro, o chi per essa. La medesima cosa vale per le abilitazioni rilasciate dagli ordini professionali: si parva licet componere magnis

Basti pensare che, per quanto riguarda la conclusione dell’istruzione obbligatoria decennale, il Miur ha indicato con chiarezza quali sono le competenze da certificare e con quali procedure [2]. In effetti, spetta all’amministrazione centrale – qualunque essa sia – scegliere e decidere ciò che va certificato: si tratta di operazioni di ampio respiro sulle quali organi periferici non hanno e non possono avere alcuna competenza.

Di fatto, e di diritto, è una materia sulla quale non si può sperimentare. Chi deve individuare, definire e descrivere competenze che abbiano un respiro nazionale – ed oggi anche europeo, stando alle indicazioni dell’EQF [3] – è l’Amministrazione centrale. Ovviamente, con il passar del tempo le competenze cambiano – il meccanico della Ford T del 1908 non è il meccanico della Toyota ibrida dei nostri giorni – e tocca sempre al potere centrale la responsabilità di intercettare i cambiamenti.

Comunque si è scelta la via della sperimentazione. Fino ad ora gli insegnanti sono stati “costretti” (sic!) a “inventare” le competenze terminali del primo ciclo di istruzione! Ora non sono più tenuti a “inventare”, ma a “sperimentare”. Ma non è chiaro se la sperimentazione consenta di modificare i modelli proposti. Comunque, per quest’anno non è obbligatoria. Così gli insegnanti possono continuare a inventare! Ma dal prossimo anno scolastico, l’adozione “del prototipo di modello, così come viene validato ed eventualmente integrato” sarà generalizzata in tutte le scuole e, dall’anno scolastico 2016-17, diventerà obbligatoria. Insomma, lo schiacciasassi procede comunque! E non scioglie un’altra questione di fondo, che è a monte, da sempre: e cioè che valutare con i voti è una cosa; certificare competenze è un’altra cosa. Sono norme che configgono, e che ci portiamo dietro da anni e che nessun ministro è stato capace finora di modificare conseguentemente.

Va anche detto che l’adesione al percorso comporta operazioni complesse e un coinvolgimento da parte degli insegnanti pressoché totalizzante. Il rischio di riempire carte su carte è evidente e non vorrei che si realizzasse! Già nel precedente scritto ho manifestato una serie di riserve sui due modelli, in primo luogo perché le competenze non sono individuate, definite e descritte in quanto tali (che cosa concretamente sa fare l’alunno al termine di un percorso), ma indicate secondo la voce “profili delle competenze”: il che, a mio vedere, vuol dire tutto o nulla! O meglio, l’Amministrazione centrale non si vuol far carico di nulla e scarica alle periferie la responsabilità di “dire la loro”! Tanti galli a cantare! Per non dire poi che lo sforzo che l’Amministrazione ha fatto è pressoché nullo! Se è vero che i “profili” sembrano risultare un copia e incolla dei “traguardi” di cui alle Indicazioni nazionali.

Ma la cosa più preoccupante è che le competenze conclusive del primo ciclo sono certificate dal consiglio di classe in sede di seduta finale di ammissione all’esame di Stato. Ciò che cosa significa, di fatto e di diritto? Che quelle competenze, pardon, quei profili, una volta certificati e con tanto di livello, saranno messi in discussione e forse anche smentiti dall’esito delle prove. Se si pensa al fatto che la prova nazionale proposta e imposta dall’Invalsi in larga misura mette in discussione i voti di ammissione in due delle materie fondamentali, si potrà verificare che certe competenze saranno smentite dall’esame. Mah!

Concludendo: la certificazione di competenze è un ATTO FINALE, comunque, esame di Stato o non esame di Stato! Non solo! Una reale certificazione di competenze nulla ha a che fare con i voti a cui siamo abituati, in quanto nasce da una logica diversa e profondamente innovativa dell’insegnare/apprendere! Insomma, non si possono salvare capra e cavoli: da un lato la certificazione perché è un’innovazione e perché, come si suol dire. “ce lo chiede l’Europa”; dall’altro un esame di Stato con tanto di voti finali perché, terminando un ciclo, ce lo impone la Costituzione!

Insomma, temo molto che tale incongruenza – da un lato la normativa tuttora vigente, dall’altro una innovazione normativamente ancora non vigente – possa creare all’interno delle istituzioni scolastiche un grande e inutile lavoro. Tuttavia gli scudieri del re mi diranno che per la prima volta gli insegnanti sono tenuti a partecipare a una grande operazione, in virtù dell’autonomia delle istituzioni scolastiche e che in materia di valutazione – stando all’articolo 4, comma 4 del dpr 275/99 – la responsabilità è tutta loro. Ed è vero, però, “nel rispetto della normativa nazionale”, all’interno di quadri di riferimento che solo il potere centrale può e deve indicare.

Comunque, voglio essere ottimista e… speriamo che ce la caviamo! Ne abbiano viste di peggio!


 

[1] Vedi “Con le competenze non si gioca”, del 20 febbraio u.s.

[2] Si vedano i dm 139/07 e 9/10. Il fatto poi che sulle indicazioni ministeriali si avanzino critiche o meno è altro discorso, ma la norma è la norma.

[3] Si tratta dell’European Qualifications Framework che il nostro Governo ha recepito con l’Accordo quadro Stato-Regioni siglato il 20 dicembre 2012. In quell’Accordo leggiamo che il livello 2 dell’El notro Il livello

Per un insegnante animaTTore

Per un insegnante animaTTore

di Maurizio Tiriticco

 

Molti anni fa – era il 1969 – quando sulla scena irruppe Dario Fo con il suo “Mistero buffo”, non mancarono polemiche. Oggi, di fronte a un attore più che affermato e Premio Nobel, di quelle polemiche non c’è più neanche l’eco, ma allora le cose erano molto diverse. L’opera riscuoteva ovunque un grande successo; tuttavia una certa critica, abituata a un teatro diverso, non gli risparmiò rilievi fortemente critici. Si sosteneva che, in effetti, si trattasse di un teatro di parte – erano gli anni della contestazione – più politico che artistico! E che Dario Fo, quindi, non fosse tanto un attore quanto un pedagogo, per non dire demagogo, irriverente verso la nostra tradizione religiosa, mosso più a mobilitare folle che a fare teatro.

Va anche ricordato che i tempi erano molto diversi. Nel 1964 al Festival dei Due mondi a Spoleto erano state rappresentate dal Nuovo Canzoniere Italiano per la prima volta in una manifestazione pubblica “ufficiale”, se si può dire così, le canzoni delle mondine, “Sebben che siamo donne”, “Sior parun dalle belle brache bianche, fora le palanche”, “Bella Ciao”, e quella fortemente politica “Gorizia, tu sia maledetta”. Nella battaglia di Gorizia dell’agosto del 1916 erano morti più di 90.000 soldati, di ambedue le parti, e i nostri superstiti crearono quella canzone che, ovviamente – si pensi anche agli anni del fascismo dilagante – non riscosse mai il crisma della “ufficialità”. Ebbene, quella canzone, per la prima volta cantata in una manifestazione pubblica, per di più internazionale, mandò su tutte le furie il nostro apparto militare e il Nuovo Canzoniere venne denunciato – udite, udite – per vilipendio delle forze armate. In un clima di quel genere, tutto ciò che “sapeva di nuovo”, e di provocatorio anche – il Sessantotto in effetti aveva rotto certi modi di intendere e di fare cultura, rispetto a una certa tradizione paludata [1], – un impertinente Dario Fo a molti non piacque: era semplicemente un agit-prop del Pci!

Io raccolsi la provocazione e scrissi un articolo su “l’Unità”. Sostenevo che i rilievi critici mossi contro Dario Fo andavano letti proprio con la medesima chiave adottata dai detrattori, ma in positivo: cioè che è il teatro stesso, se non ogni manifestazione artistica, che è anche insegnamento in senso lato. Basti ricordare le finalità del grande teatro tragico dell’antica Grecia. Chiunque voglia “dire” qualcosa, cerca sempre approvazione, consenso, condivisione. Non c’è produzione artistica “gratuita”: il “dire”, l’“informare” vuole anche e sempre “formare”, sollecitare la condivisione e il “fare”. Era vero, dunque! Dario Fo era ed è un pedagogo – e senza virgolette – proprio in quanto artista. In effetti, testi che, letti a scuola, sono di una noia mortale, rappresentati da un Dario Fo sono tutt’altra cosa. Se poi si pensa alla contestualizzazione storica che ne fa Dario Fo – anche alle riletture e alle transcodifiche che ne hanno sempre fatte i giullari, o il popolino stesso nelle ritualità di certe ricorrenze, nelle sacre rappresentazioni – e alla lettura che in genere se ne fa nelle aule scolastiche, la differenza è lampante! Dal coinvolgimento si passa alla noia. Si pensi alle storie di Lazzaro, di San Benedetto, delle Nozze di Cana, raccontate, drammatizzate… rivissute da Dario Fo.

E riflettevo sulla differenza che corre tra una classe scolastica annoiata, “costretta” a “studiare” su un libro inerte “O figlio, figlio, figlio! Figlio, amoroso giglio, figlio, chi dà consiglio al cor mio angustiato?” di Jacopone da Todi, per l’interrogazione del giorno dopo, e una platea animata da una drammatizzazione che ne farebbe Franca Rame che, ahimé, ci ha lasciati! Altro che note a pié di pagina, che raffreddano il testo con la pretesa di aiutarne lettura e comprensione! Dario e Franca sono capaci di immergerti in un’epoca in un mondo, in un insieme di emozioni che ti fanno rivivere da protagonista, da “attore”, non acquisire da “lettore”. E chissà quanti spettatori allora, grazie a Dario Fo, per la prima volta, nonostante anni e anni di scuola, hanno compreso e sentito nel profondo cose che avevano sempre letto sulla carta e scarsamente capito. Occorre, quindi, che nelle scuole un insegnante sia in grado non solo e non tanto di spiegare concetti, ma anche e soprattutto di suscitare emozioni, coinvolgimenti, partecipazione. Io non ho mai amato i Promessi Sposi, ma i miei alunni li hanno sempre amati… e mi seccava anche un po’! In effetti, una cosa è assegnare la lettura per il giorno x, altra cosa è drammatizzare l’oggetto hic et nunc. E drammatizzarlo con la partecipazione viva e creativa degli alunni. Occorre optare quindi per un insegnante animatore, o meglio per un insegnante attore, lato sensu, ovviamente, se si vuole!

Ed è un approdo teorico a cui giunsi molto più tardi, anche se le mie lezioni erano sempre fortemente animate, drammatizzate a volte, collettivamente. Nel 1980 con Tina Pietrangelo pubblicai “La programmazione nella scuola dell’obbligo” e, l’anno successivo, “La valutazione nella scuola dell’obbligo”. Erano anni di grandi cambiamenti e l’accesso sempre più massiccio di tanti bambini “obbligati” a frequentare la scuola media aveva indotto a ricercare e suggerire nuove strade per insegnare/apprendere, sulla scorta di un vero e proprio boom della ricerca pedagogica e della sperimentazione: quindi occorreva programmare per obiettivi e valutare per giudizi analitici e sintetici. Si trattava delle indicazioni di una legge che rivoluzionò il modo di fare scuola negli anni dell’obbligo: la legge 517 del 1977.

Se si voleva vincere la battaglia dell’obbligo di istruzione, la motivazione degli alunni e la conduzione dell’aula dovevano costituire il leit motiv dell’innovazione: perché con questa si giocava il destino culturale stesso, e civile anche, della nostra popolazione e del Paese. Occorreva, di fatto, “scaldare” il nuovo motore dell’insegnare/apprendere, perché il programmare e il valutare secondo criteri “altri” potessero diventare la vera parte viva di una scuola nuova. Fu per queste ragioni che proposi all’editore un nuovo libro, centrato sulla gestione dell’aula, sull’animazione, appunto. Jerome Bruner aveva già scritto nel 1962 i “Saggi per la mano sinistra”. A monte c’è la teoria che vuole che l’emisfero sinistro del nostro cervello presieda alle operazioni cognitive, quello destro a quelle emotivo/affettive; e che agiscano il primo sulla parte destra del corpo, il secondo sulla sinistra. Stando alla metafora, l’insegnante agisce con la mano destra, quando sollecita operazioni cognitive, e con la sinistra, quando sollecita operazioni emotive. Ma le prime sollecitazioni sono quelle dominanti, com’è noto. Esemplificando: due amici vedono il medesimo film, oggettivamente è quello e non un altro; ma, soggettivamente, al primo è piaciuto moltissimo, al secondo no. E ancora: è certo e da tutti condiviso che Manzoni ha scritto i Promessi Sposi; ma altra cosa è dire che è un capolavoro oppure una gran c… come “La corazzata Potiomkin” di Eisenstein, alias di Villaggio! In effetti, “spiegare” un capitolo dei Promessi Sposi è un’operazione da mano destra; “drammatizzarlo” è un’operazione da mano sinistra.

Si trattava in quegli anni, tutti incentrarti su processi e procedure programmatorie, di riflettere, anche e soprattutto, su come si anima e si gestisce un’aula e come si anima un gruppo classe e ogni singolo allievo. Insegnare in quanto fare lezione è facile; motivare all’apprendere non è affatto facile, anche e soprattutto perché la nostra scuola, da sempre, ha fatto della lezione cattedratica il clou di ogni attività. Avvertivo fortemente la necessità di avanzare una proposta che andasse, appunto, sulla via dell’animazione. Il concetto stesso di animazione, però, non era molto popolare, e non lo è ancora, nonostante i ripetuti richiami alla “didattica laboratoriale”. E l’editore stesso mi disse che un titolo sull’animazione non avrebbe suscitato particolare interesse. La programmazione, nel bene e nel male, era il ferro caldo che in quegli anni agitava la scuola e non avrei potuto ignorarlo. E il titolo fu, appunto, “Programmazione come animazione”, del 1986.

Si possono fare le programmazioni migliori, puntualmente rispondenti ai criteri e alle tappe indicate da tutte le innovazioni della ricerca pedagogica, ma, se non si gestiscono gli alunni, coinvolgendo veramente, ciascuno di loro, i percorsi previsti e puntualmente descritti sulla carta, su questa rimangono.

Io sono, certamente, per un insegnante programmatore – e programmatore collettivo, a livello di collegio docenti e di consiglio di classe; ma, più convintamente sono per un insegnante “anche” animatore e attore e, quando è il caso, capace di rendere attori, convinti partecipi dei processi di apprendimento, gli alunni della classe, nessuno escluso.

Programmare non è facile, animare è difficile, essere “attori” e sollecitare “attori”, o meglio motivare una partecipazione attiva e convinta della classe e di ciascun alunno in processi di apprendimento significativo, per dirla con Ausubel, è ancora più difficile. Sono convinto che oggi più di ieri scelte di questo tipo siano necessarie. Una popolazione scolastica sempre più eterogenea, genitori sempre più in difficoltà, una scuola sempre maltrattata, esigono di fatto che l’offerta educativa, istruttiva e formativa, se vogliamo garantire il successo formativo a tutti e a ciascuno (dpr 275/99, art. 1), sia condotta da insegnanti a tutto tondo, programmatori e animaTTori, appunto!


 

[1] In effetti negli anni Cinquanta sia le “Ceneri di Gramsci” che “Ragazzi di vita” avevano fatto storcere il naso a una certa parte della nostra critica letteraria. Ci sono voluti decenni perché certe incrostazioni di una cultura paludata perdessero voce e forza. E chi non riconosce a Pasolini, oggi, quel merito che in vita gli era da molti contestato?

La certificazione delle competenze

La certificazione delle competenze

di Maurizio Tiriticco

Slide riassuntive dell’intervento di Maurizio Tiriticco su “La certificazione delle competenze“, svolto al secondo convegno Nazionale della Rete di Scuole dei Castelli Romani sul tema: “Bisogni didattici: viaggio attraverso la scuola che cambia”, tenutosi presso le Scuderie Aldobrandini di Frascati nei giorni 27 e 28 febbraio 2015

Le competenze nel Sistema Educativo di Istruzione

Le competenze nel SISTEMA EDUCATIVO DI ISTRUZIONE

di Maurizio Tiriticco

Le competenze nel Sistema Educativo di Istruzione italiano”: slide relative all’intervento di Maurizio Tiriticco al convegno internazionale “Carattere e Cittadinanza: dilemmi e prospettive dell’educazione ‘personalizzante’ nella società globale”, organizzato dall’Associazione Italiana di Psicologia (AIS) in Padova il 26 e 27 febbraio 2015.

Caro Luigi! Mai più margaritas ante porcos!

Caro Luigi! Mai più margaritas ante porcos!

di Maurizio Tiriticco

 

Ottimo il tuo discorso, caro Luigi alla convention della Buona scuola, ma… Sono tanti i “ma”, credimi! In effetti, l’alto profilo delle tue parole collude con il basso profilo delle proposte che emergono dalla “Buona scuola” di Renzi, Faraone, Fusacchia, Luccisano § C. In altri scritti ho sottolineato che, disponendo di un governo di sinistra e di una Legislatura a tempi lunghi, avremmo potuto por mano a un riordino – non chiamiamolo riforma, vivaddio – che avesse un minimo di spessore. La tua legge 30/2000 mirava alto! Avevi – avevamo intuito – che il percorso di un’istruzione obbligatoria di base dovesse avere un respiro e un profilo alti: quello che chiamavamo e chiamiamo curricolo continuo, verticale e progressivo. Un curricolo che, invece, lo spezzatino attuale di infanzia, primaria, media, biennio, triennio, eredità di sovrapposizioni che vengono da un lontano passato, non è assolutamente in grado di assicurare. Sai meglio di me che la certificazione delle competenze di fine obbligo nelle nostre scuole non è sentita come dovrebbe e spesso si riduce a una semplice operazione formale! E ciò, anche se le competenze di cittadinanza e culturali che i nostri studenti dovrebbero acquisire hanno, almeno sulla carta, una stretta corrispondenza con le competenze di secondo livello che l’UE ha indicato a tutti i 28 Paesi membri: competenze che in altri Paesi si perseguono.

Ovviamente, riparare le scuole che crollano è un’urgenza. E’ un’urgenza dare certezze a 150mila precari. Dare spazio all’arte e alla musica è più che doveroso; e così dare spazio all’alternanza, alla banda larga veloce! Molto discutibile, invece, creare gerarchie tra gli insegnanti. Ma non mi dilungo su questi aspetti.

Non c’è alcun accenno, nella Buona scuola, a un riordino complessivo dell’intero sistema educativo di istruzione, che resta quello degli anni Settanta e che i riordini della Gelmini non hanno affatto messo in discussione, anzi! Basti pensare all’istruzione professionale che ha perduto tanto, se non tutto, di quanto avevamo innovato, e con tante difficoltà, con i Progetti ’92 e 2002. Assolutamente incompiuto è il discorso sulle competenze, se non impasticciato: basti vedere i modelli di certificazione per il primo ciclo di cui alla CM 3/15, su cui mi sono già espresso in altro scritto. Per non dire dell’esame di Stato del secondo grado di istruzione! Quest’anno – come sai – va a regime il riordino avviato nel 2010 dalla Gelmini e le Linee guida degli istituti tecnici e professionali indicano chiaramente le competenze terminali che gli studenti devono raggiungere (le Indicazioni nazionali per i licei sono estremamente vaghe al proposito), ma… l’esame di Stato resta quello che è. Di quella certificazione che nella tua legge 425/97 è chiaramente prescritta all’articolo 6, neanche l’ombra! Così, sono più di dieci anni che con l’esame di Stato non si certifica nulla! I punteggi lasciano il tempo che trovano! E i nostri studenti non posseggono diplomi leggibili anche oltralpe.

In effetti, abbiamo un ministero che non sa quel che fa. Però, abbiamo strani amici di una Buona scuola che pontificano non si sa in base a quale mandato. E vanno avanti come treni, anche se centinaia di collegi dei docenti hanno avanzato molte riserve sulle 135 pagine del loro documento.

Tu hai parlato – e io lo condivido da sempre – di una scuola senza banchi e senza cattedre con cui si liquidi per sempre una scuola logocentrica per dare spazio all’immaginazione, alla fantasia, al sogno, per attivare quelle operazioni di un cervello destro mutilato – sono parole tue – che entusiasmino gli alunni, da sempre annoiati da quelle lezioni cattedratiche di cui non riusciamo a liberarci: la “scuola che spalla”! Sono sempre parole tue. Ma la responsabilità non è degli insegnanti, è dell’organizzazione scolastica che la Buona scuola non mette in discussione, perché non ne è capace! Sai meglio di me che una materia, o meglio, più correttamente, una disciplina, non è un oggetto “da” apprendere, ma uno strumento “per” apprendere. Ma, e lo sai meglio di me, persistono le classi di età, le aule fatte di banchi, di cattedre – oggi ci sono anche le Lim, ma non sempre sono utilizzate al meglio – e di 18 ore per disciplina, tutte spese in uno stancante vis a vis con gli alunni! Stremati dopo cinque ore seduti su scomodi banchi! E poi ci sono le campanelle che scandiscono i tempi, uguali per tutti, come nelle fabbriche! Sono tutte cose che i Casati e i Coppino adottarono… allora… ma ora? La scuola caserma – corridoi e aule-camerate – la scuola collegio, la scuola convitto ha fatto il suo tempo. E non voglio tirare in ballo la Finlandia! Tu stesso hai accennato a scuole “altre” dove si apprende – e si insegna – in modi altri. Sui documenti del riordino gelminiano si insiste sulla “didattica laboratoriale” – ed è un accenno importante – ma è e resta un flatus vocis! L’organizzazione rigida rende vana la possibilità stessa di una didattica altra!

Con la Buona scuola abbiamo perso una grande occasione! Abbiamo un governo “da 40 per cento” che, invece di pensare in grande per una scuola che sia veramente Diversa e Migliore, ci costringe a bivaccare su una scuola Buona. Non vado oltre. In altri scritti, che tu per altro conosci, ho tentato di disegnare modi e tempi per una scuola diversa, una scuola attiva e centrata veramente sui bisogni dei nostri alunni, normali o speciali che siano.

Caro Luigi, tu hai volato alto e hai riscosso mille applausi e mille riconoscimenti. Vorrei solo che le tue parole spingessero i nostri anonimi estensori della Buona scuola a qualche ripensamento! Ma non credo! Ormai hanno avuto anche il tuo viatico! E procederanno per la loro strada. Les jeux sont faits, come si suol dire.

Con le competenze non si gioca

Con le competenze non si gioca
e, soprattutto, non si possono rateizzare

di Maurizio Tiriticco

Ho letto con molta attenzione i due modelli di certificazione delle competenze che i nostri alunni dovrebbero conseguire al termine della scuola primaria e del primo ciclo di istruzione: sono allegati alla recente cm 3/15. La prima considerazione critica riguarda l’opportunità stessa di certificare competenze relative a bambini/e di dieci anni e di adolescenti di quattordici. Il possesso e l’esercizio di una reale competenza sono cose troppo impegnative per riguardare fasce di età così basse. Ma è un’osservazione che lascia il tempo che trova, perché la nostra Amministrazione, che in materia di competenze mastica poco o nulla, da quando il concetto stesso di competenza è entrato nel linguaggio dei processi di Educazione, Istruzione e Formazione, “importato” – se così si può dire – da ricerche effettuate oltralpe ed entrate nelle normativa dell’Unione europea, si è sentita in dovere di infilare questa sorta di parola, magica e salvifica nello stesso tempo, in ogni testo normativo: ovviamente, senza mai darne una definizione certa, tale che gli operatori scolastici potessero condividere.

E’ un’esperienza che ho mal vissuto personalmente quando, con la prima applicazione della legge 425/97, che riordinava l’esame di Stato dell’istruzione secondaria superiore, non si riuscì neanche a dare una definizione di “competenza”. Tant’è vero che un esame che avrebbe dovuto sostituire alla “valutazione globale della personalità del candidato” (L. 119/69, art. 5) la necessità di “dare trasparenza alle competenze, conoscenze e capacità acquisite” (L. 425/97, art. 6)”, anche per tener conto “delle esigenze di circolazione dei titoli di studio nell’ambito dell’Unione europea” (ibidem), a tutt’oggi vive ancora nel limbo! E va anche considerato che con l’anno scolastico in corso si conclude il riordino avviato cinque anni fa, con i dpr 87, 88 e 89 e le Direttive 4 e 5 del 16 gennaio 2012, e fortemente finalizzato, proprio, alla certificazione delle competenze!!!

Per anni l’amministrazione si è prodigata a “legiferare” sul fatto che, alla fine della scuola primaria e alla fine del primo ciclo, le scuole sono tenute a verificare le competenze raggiunte dagli alunni, ma non ha mai indicato quali fossero concretamente queste competenze, lasciando alle scuole l’onore e l’onere di “inventarsele”, letteralmente! Ma una competenza non si inventa! Così per anni i nostri alunni, usciti dai due gradi di istruzione si sono trovati nella mani documenti diversi, incomparabili, inutili ai fini di una concreta utilizzazione. E va poi considerato che oggi, sotto il profilo formale, le uniche competenze spendibili per proseguire gli studi nell‘istruzione o nella formazione professionale regionale o per accedere all’apprendistato (nel caso il soggetto abbia conseguito i 15 anni di età), sono solo quelle che concludono l’obbligo di istruzione, ormai decennale.

E non si capisce perché questo esame di terza media debba essere sempre così impegnativo (appesantito pure dalla prova nazionale Invalsi), quando in effetti non conclude un ciclo completo di studi! Se è vero, com’è vero, che abbiamo avvertito l’esigenza di innalzare di due anni l’assicella relativa alla conclusione deglii studi obbligatori e necessari per poi fare altre scelte. Pertanto, non sarebbe forse l’ora di pensare a un ciclo decennale obbligatorio continuo e progressivo, pur se, ovviamente, articolato al suo interno? Un’articolazione che, però, non debba necessariamente essere l’attuale differenza formale di distinti gradi di istruzione. E l’esame di Stato, previsto dalla Costituzione, coinciderebbe con la certificazione delle competenze raggiunte al termine dell’unico e unitario ciclo decennale finalizzato al conseguimento dell’obbligo di istruzione.

Rispetto a queste colossali carenze della nostra amministrazione, qualche eccezione va fatta, ovviamente. Infatti, per quanto riguarda la conclusione dell’obbligo decennale di istruzione, sono state individuate con il dm 139/07: a) competenze chiave di cittadinanza, necessarie e indispensabili ai fini dell’apprendimento per tutta la vita, in ordine a quanto indicato anche e soprattutto dalla Raccomandazione europea del 18 dicembre 2006; b) competenze culturali rintracciabili lungo quattro assi pluri- ed interdisciplinari, in relazione al fatto che una competenza molto difficilmente è afferibile a un unico campo disciplinare. Però, quando si è trattato di definire il modello di certificazione – il che è avvenuto inspiegabilmente ben tre anni dopo, con il dm 9/10 – l’amministrazione ha omesso la certificazione delle competenze di cittadinanza, che sono altra cosa rispetto a quelle culturali, e non possono assolutamente costituirne un semplice “riferimento”, come si afferma nel citato dm. In effetti, un soggetto può essere un ottimo cittadino, ma un pessimo ingegnere, oppure un ottimo ingegnere, però… a servizio della mafia!

Non va poi dimenticato il lavoro effettuato da gruppi di esperti per quanto riguarda l’individuazione, la definizione e la descrizione delle competenze terminali dei percorsi degli istituti tecnici e professionali, anche se nei limiti delle singole discipline di studio. Non si capisce, comunque, perché, per quanto riguarda i percorsi liceali, non sia stata adottata la medesima procedura: di competenze si parla anche troppo spesso nel documento di riordino, ma queste… “scompaiono”, al termine dei percorsi. Così, di fatto, abbiamo nel nostre Paese due modelli di percorsi di istruzione secondaria di secondo grado: quello dei tecnici e dei professionali, governato da Linee guida, finalizzato all’acquisizione di competenze, e quello dei licei, governato da Indicazioni nazionali, finalizzato non si sa bene a che cosa!

Per quanto riguarda il merito dei due modelli proposti dalla cm 3/15, ritengo che:

  1. a) la competenza è una cosa troppo seria perché un adolescente di 11 e poi di 14 anni possa essere dichiarato “competente” in qualcosa. A meno che non si voglia dire che è competente un bambino quando è in grado di controllare le sue minzioni (la fine del pannolino!) o di allacciarsi il cappotto o di andare a scuola da solo! In effetti, mi sembra corretta la scelta, molto più sfumata, dei “traguardi per lo sviluppo delle competenze”, di cui alle Indicazioni nazionali. Poi bisogna avere ben chiara la differenza che corre tra abilità e competenza e, se vogliamo, in via prioritaria, tra capacità e abilità, e ancora, tra conoscenza in quando dati e informazioni appresi, compresi, acquisiti, “archiviati”, e conoscenza in quanto elaborazione e/o produzione di informazioni. Comunque, è la “legge” (il dpr 122/09 sulla valutazione) che impone la certificazione delle competenze per bambini e adolescenti, quindi… E non è affatto casuale che tanti insegnanti abbiano difficoltà a definire e accertare competenze – se poi di competenze si tratta – a livelli così bassi di età;
  2. b) perché “profilo delle competenze” e non, invece, “competenze” chiare e tonde? La risposta discende dal punto a). Probabilmente gli estensori del documento si sono resi conto della materiale impossibilità di descrivere competenze a tutto tondo;
  3. c) ovviamente, la dizione “profilo” comporta una scritturazione abnorme e a volte involuta. Si guardi ad esempio al profilo 3 della scuola media o al profilo 7 della primaria. Forse era difficile per gli estensori individuare, definire e descrivere una precisa e circoscritta competenza, data la scelta del “profilo” più che della vera e propria “competenza”. Insomma, tra profilo e competenza corre una grande differenza concettuale e semantica. Se penso a un ingegnare o a un giudice o a un cuoco o a un agente di commercio, non posso contentarmi di un profilo generico, ma esigo un titolo di studio a tutto tondo e con l’indicazione di un preciso e mirato corso di studi;
  4. d) non convince l’intreccio delle competenze culturali – lato sensu – con le competenze chiave di cittadinanza, per le ragioni che abbiamo già ricordate: al limite, un alunno può essere un genio in matematica, ma nel contempo rubare le merendine ai compagni; un altro può essere generoso con tutti, ma incapace di fare due più due, o di esprimere un pensiero compiuto;
  5. e) perché quattro livelli di indicatori e non tre, come nella certificazione dell’obbligo di istruzione? Per non dire di quella goffa espressione del livello iniziale D: “se opportunamente guidato/a”: vuole significare una sorta di salvataggio dei mediocri? Sempre che il “mediocre” sia un giudizio accettabile in una scala valutativa che abbia un minimo di correttezza. O forse si è voluto evitare che è anche possibile che qualche competenza non accertata non venga certificata? Eppure, la scelta fatta con il dm 9/10 (modello di certificazione conclusivo dell’obbligo) va proprio in questa direzione, quando si afferma: “Nel caso in cui non sia stato raggiunto il livello base, è riportata l’espressione ‘livello base non raggiunto’, con l’indicazione della relativa motivazione”;
  6. f) che cosa significa al livello avanzato che l’alunno “propone e sostiene le proprie opinioni…”? Un ingegnere o un cuoco deve essere in primo luogo “certo e padrone di ciò che fa”! Non si guida un’auto o un treno Frecciarossa proponendo e sostenendo opinioni. Non si deve confondere un “fare” certo e oggettivo, con un “pensare” o un “dire”, che riguardano un altro aspetto del nostro essere attori;
  7. g) che cosa significa affermare come “indicatore esplicativo avanzato” che un alunno, sia di 11 che di 14 anni, “svolge compiti e risolve problemi complessi, mostrando padronanza nell’uso delle conoscenze e delle abilità”? Tutto e nulla! Quali sono i problemi complessi che un 11enne o un 14enne può e deve affrontare? Spendere al meglio la paghetta settimanale o costruire un’auto ibrida, che oggi va tanto di moda? La genericità non aiuta a capire che cosa veramente il nostro alunno di livello avanzato sa, sa essere e sa fare;
  8. h) e, per concludere, non credo che competenze serie si acquisiscano “a rate”, un primo pezzo a 11 anni, un secondo pezzo a 14 e quello conclusivo a 16!

Si tratta di fattori critici non indifferenti Eppure, sembra che qualcuno al Miur stia lavorando alla definizione delle competenze relative alla terminalità dell’istruzione di secondo grado, ma, se tanto mi dà tanto, temo molto circa il prodotto che ci verrà proposto.

Per tutte queste ragioni, ritengo che le schede di certificazione redatte dall’amministrazione possano ingenerare più confusioni che operazioni certe. Pertanto, intendo riproporre all’attenzione di chi legge un modello di certificazione conclusivo del primo ciclo, nato da una serie di percorsi di formazione continua con insegnanti di istituti comprensivi del Lazio e della Campania. E’ stato prodotto come documento intermedio rispetto a quello conclusivo dell’intero obbligo decennale, l’unico formalmente valido ai fini delle ulteriori scelte dell’obbligato.

VEDI ALLEGATO (Certificazione Competenze Scuola Media)

La scuola di fronte a una sfida di civiltà

La scuola di fronte a una sfida di civiltà

di Maurizio Tiriticco

Sto intercettando su FB centinaia di messaggi contro il rogo del povero pilota giordano caduto nelle mani dei miliziani dell’Isis. Non mi meraviglierei più di tanto. Roghi, squartamenti, tagli di teste, mazzolature, tutte pene più che legali – ripeto, legaliii – sono tipiche di ogni fondamentalismo religioso. Nello Stato pontificio la pena di morte fu praticata fino al 1870. Ed è rimasta legale fino al 2001. Pomponio de Algerio, studente protestante, fu arso vivo in un pentolone di olio bollente il 19 agosto 1556 in Piazza Navona nella Roma pontificia: un gran divertimentooo!!! E solo una delle decine di migliaia di efferate uccisioni! Nell’Ottocento Mastro Titta ha giustiziato – si fa per dire – più di 500 condannati, e sempre con la benedizione pontificia! E sotto ogni regime questi spettacoli erano una gran festa. Non c’erano né cinema né TV e neppure le partite di calcio! E, dopo la messa, obbligatoria, ovviamente, una bella esecuzione in una piazza della città, Piazza del Popolo, Campo di Fiori, il Velabro, era uno spettacolo atteso: e le teste mozzate appese nei crocevia facevano sempre bella mostra di sé! Se poi si trattava di una strega, ancora meglio! Centinaia di migliaia di donne per secoli in Europa e in America sono state bruciate vive. Un bel rogo purifica, uccide la strega e ne libera l’anima per il Cielo! Insomma, le si fa un bel regalino!
Se non ci fossero stati Bruno, Campanella (tra le altre imputazioni, aveva anche scritto “De tribus impostori bus”, cioè Mosè, Gesù e Maometto, contro le tre religioni monoteiste), Galilei, Beccaria, Bacone, gli Illuministi, se lo Stato della chiesa non fosse stato abbattuto, le nostre piazze continuerebbero a colare sangue! Galileo è stato riabilitato dalla Chiesa, obtorto collo, solo nel 1992! E torturare poi non era una eccezione, era la pratica principe di ogni interrogatorio, perfettamente legale. Se il condannato resisteva, era salvo; in effetti non resisteva mai: quindi era segno che dio non lo aiutava e che era colpevole! Per non dire degli ammazzamenti degli Indios! Prima li battezzavano e poi li ammazzavano! E gli strumenti di tortura che si sono inventati nei secoli erano i più raffinati, e tutti legali, ovviamente per volontà di dio (lo scrivo sempre con la lettera minuscola per ovvi motivi! Dio è o sarebbe un’altra cosa).
Finché dal mondo mussulmano non emergerà un Voltaire, di sgozzamenti e di roghi ne vedremo ancora, chissà quanti e chissà per quanto tempo! Nella “civilissima” Abu Dhabi, splendida capitale degli Emirati arabi, città dagli alberghi più che avveniristici, omosessuali, apostati, adultere sono ammazzati per strada a colpi di pietre e di frustale, a volta con grande gioia dei presenti. Per non dire che uccidere un “non credente” è regola per un regime teocratico. E ciò valeva anche per la chiesa cattolica. Gli eccidi compiuti dai crociati, quando nel 1099 “liberarono” Gerusalemme, erano auspicati, autorizzati, santificati: ogni morto ammazzato valeva un posto guadagnato in paradiso. Bernardo di Chiaravalle scriveva: “Un soldato di Cristo, quando uccide un malvagio, non è un omicida, ma, per così dire, un uccisore del male e viene stimato vendicatore di Cristo nei confronti di coloro che fanno il male e difensore dei Cristiani. Occorre eliminare questi gentili che vogliono la guerra, eliminare questi operatori di iniquità che vagheggiano di strappare al popolo cristiano le ricchezze racchiuse in Gerusalemme: ecco la più nobile delle missioni”.
Per concludere, la laicità è stato un germe che a poco a poco ha logorato l’infausto assolutismo della religione cattolica di Costantino e di Tedosio: quand’è che il germe della laicità comincerà a logorare l’assolutismo mussulmano? Forse mai!? Ho sempre considerato “La Rabbia e l’Orgoglio” di Oriana Fallaci un testo eccessivo e pericoloso ai fini del dialogo che noi occidentali, di mille diverse culture e religioni, ci siamo proposti di intrattenere con tutte le credenze “altre” del mondo. Ma il recente eccidio degli amici di Charlie Hebdo e le efferate sentenze di morte dei soldati dell’Isis non possono non sollecitare riflessioni e ripensamenti.
Anche perché noi, uomini e donne di scuola, abbiamo responsabilità precise per quanto riguarda quella Educazione del cittadino, che sia nato o giunto qui, rispettoso di ogni cultura, di ogni etnia, di ogni religione. E’ la stessa responsabilità della scuola che cambia e cresce. Se, dopo l’Unità nazionale ci siamo impegnati a far sì che tutti sapessero leggere, scrivere e far di conto, oggi a più di 150 anni di distanza, l’impegno è più gravoso: che tutti, di lingue e culture diverse, sappiano anche e soprattutto convivere per costruire un mondo migliore. Ed è una sfida di civiltà, in primo luogo!

Il merito del docente? Insegnare bene non sempre basta

Il merito del docente? Insegnare bene non sempre basta *

di Maurizio Tiriticco

 

Il ruolo e la funzione di un qualsiasi lavoratore sono strettamente legati al modello organizzativo in cui opera. E’ un principio che ha la sua valenza soprattutto nelle società avanzate e con tale ottica occorre guardare anche al nostro complesso “Sistema educativo di istruzione e formazione”. In effetti, non è corretto oggi parlare di “scuola”, intendendo un edificio in cui si insegna e si apprende: occorre parlare di “istituzione scolastica autonoma”. La questione non è solo semantica, ma rinvia al profondo rinnovamento che abbiamo avviato alla fine del secolo scorso con il dpr 275/99: l’autonomia scolastica, un processo che aveva le sue origini fin dall’epoca dei “decreti delegati” del ’74, ma che in effetti non è ancora giunto a compimento per una serie di difficoltà che sarebbe interessante enumerare, ma che ci porterebbero lontano dall’assunto di queste note.

Ciò che interessa sottolineare in questa sede è la questione del ruolo e della funzione di un insegnante all’interno di tue tipologie di scuole. Nella scuola della tradizione ruolo e funzione sono legati unicamente alla/e disciplina/e di insegnamento. Tra chi dirige e chi insegna non vi è alcuna soluzione di continuità: il lavoro dell’insegnante si svolge per il totale delle ore di servizio nell’insegnamento in aula. Dagli anni Settanta in poi le modifiche apportate (pensiamo ad esempio alle figure di sistema) sono state indubbiamente importanti, ma il rapporto funzione/ore di insegnamento non ha subito alcuna modifica di rilievo.

Eppure oggi, in una scuola che opera in chiave di apprendimento per tutta la vita, che è uno dei segmenti in cui si “educa”, si “forma” e si “istruisce” (dpr 275/99, art. 1, c. 2) – quindi al di là del tradizionale insegnare/apprendere – le figure degli operatori dovrebbero essere profondamente diversificate. Le esigenze che una scuola di tutti propone non si affrontano e non si risolvono soltanto insegnando discipline tout court.

Un solo esempio: in una scuola in cui la presenza di alunni stranieri si fa sempre più massiccia, le attività di prima socializzazione vanno ben oltre il puro e semplice insegnamento squisitamente disciplinare. In altre parole, non è detto che un insegnante, esperto di materia, debba “spendere” l’intero tempo di lavoro in aula ad insegnare la “sua” materia. Sarebbe invece opportuno che arricchisse la sua professionalità di segmenti “nuovi”, che conducano ad attività di accoglienza, di sostegno, di socializzazione, di orientamento, che prescindono dalla disciplina di competenza.

Valga un secondo esempio: le prove Invalsi sollecitano nelle scuole esperienze valutative innovatrici rispetto ad una certa tradizione, nonché diverse applicazioni metodologiche e docimologiche. E’ necessario che un docente si faccia carico di acquisire competenze in merito, anche e soprattutto per le ricadute che avrà sugli altri docenti. Altrettanto si può dire per altre attività, che non ricadono direttamente sulla cosiddetta “disciplina di competenza”. Ad esempio, sappiamo quanto siano importanti oggi, nella scuola dell’autonomia, attività non curricolari “altre”, sul territorio, sul mondo del lavoro, delle quali occorre avere conoscenza al fine di farne il necessario buon uso. E ancora: sappiamo quanto sia importante l’orientamento degli alunni per quanto riguarda lo snodo tra la scuola media e i gradi successivi di istruzione: orientamento, a cui dovrebbe seguire una diffusa alternanza scuola/lavoro come pratica ricorrente e non eccezionale. Per non dire quanto l’esperienza di un insegnante “anziano” possa contare per “aiutare” i più giovani nel governo dei gruppi alunni, delle dinamiche interpersonali, delle pratiche laboratoriali, della peer education.

Si tratta di una serie di attività di cui alcuni insegnanti potrebbero farsi carico: alcune delle ore contrattuali potrebbero essere spese in aula come di consueto, ma altre in attività di relazione e di aiuto, di cui l’istituzione scolastica autonoma oggi necessita. Il superamento dell’orario di cattedra consentirebbe nei tempi medio lunghi di arricchire l’istituzione scolastica di professionalità via via sempre nuove e sempre più rispondenti alle necessità di un’utenza scolastica sempre diversa e, per certi versi, sempre più problematica. La scuola di un tempo oggi è sempre più un’istituzione aperta a soggetti portatori di problemi sempre più complessi. E’ lo scotto che si paga nelle società sempre più globalizzate.

A mio giudizio, è questa la chiave con cui vanno lette le innovazioni della Buona scuola in materia di funzione docente. E il merito va ricercato non tanto nell’insegnamento disciplinare, di cui fa già testo un concorso vinto, ma in attività di cui abbiamo ad oggi solo sporadici significativi esempi, che però debbono essere implementati e generalizzati. Premi, scatti e tutto ciò che riguarda una gestione intelligente e produttiva del decreto Brunetta possono essere occasione non per dividere gli insegnanti tra buoni e cattivi, ma per incentivare quelle professionalità nuove di cui la scuola in un Paese come il nostro ha estremo bisogno.

 

* in ItaliaOggi del 27 gennaio 2015

Nella scuola a ciascuno il suo ruolo

Nella scuola a ciascuno il suo ruolo

di Maurizio Tiriticco

Ma perché l’On. Faraone insiste a occuparsi di scuola? Non è stata sufficiente l’infelice uscita sulla pretesa opportunità, oggi, delle occupazioni studentesche? Com’è noto, negli anni Sessanta e Settanta queste costituirono una salutare rottura rispetto a un’organizzazione scolastica in cui gli studenti delle superiori avevano il solo diritto ad eleggere i loro rappresentanti negli organi collegiali. Ma nel ’98, con il varo dello Statuto delle studentesse e degli studenti, il diritto alle riunioni e alle assemblee è stato riconosciuto e ratificato: il che ha reso inutili, se non dannose e controproducenti, le occupazioni. Non si occupa un luogo che di fatto e di diritto è già “occupato”. Non può l’On. Faraone, parlamentare della Repubblica e sottosegretario di Stato, parlare come uno sprovveduto studentello e, come tale, sollecitare a inutili, se non pericolose, avventure!.
E’ di oggi la nuova trovata! Alla fine dell’anno gli studenti delle istituzioni scolastiche di secondo grado “daranno i voti” ai professori. Ma si rende conto l’On. Faraone della portata della cosa? Sa quanto sia estremamente delicato il rapporto docente/discente, caratterizzato in primo luogo dal fatto che il primo è un professionista a tutto tondo, ha una particolare responsabilità, attribuitagli dalle norme vigenti e dal contratto di lavoro, e che il secondo, invece, è in fase di sviluppo/crescita e apprendimento ed è per di più minorenne? Il rapporto docente/discente non è e non può essere un rapporto paritario. Il primo giudica il secondo e il secondo è giudicato; né potrebbe essere altrimenti. Il problema, semmai, è un altro: il fatto che l’alunno ha il diritto di conoscere come e perché è valutato in ordine agli obiettivi che gli sono stati assegnati. E in questo senso si esprime chiaramente, già dal 1995, la Carta dei servizi scolastici.
Le norme offrono ormai da anni ai nostri alunni tutte le garanzie perché il servizio loro offerto dagli insegnanti sia eseguito a regola d’arte, come si suol dire. Se poi un alunno e i suoi genitori considerano i comportamenti e le valutazioni dell’insegnante non conformi, hanno tutti gli spazi che le norme prevedono per avanzare puntuale ricorso. Democrazia d’abord, ovviamente, ma non confondiamo i ruoli! Il che non significa affatto che il docente “comanda” e il discente “obbedisce”. Il “comportamento insegnante” – si chiama così – è già definito nel ruolo e nella funzione svolti: l’insegnante “non comanda” e l’alunno “non obbedisce”. La relazione che si stabilisce tra i due è particolare e ne è garante l’adulto, anche e soprattutto per la responsabilità professionale di cui è investito e per cui è stato formato! Non giochiamo con la scuola! Non illudiamo i nostri alunni a compiti che non sono loro! Piuttosto – ma questo gli insegnanti migliori già lo fanno – insegniamo ai nostri alunni come valutare le loro performances, come migliorarle costantemente! La scuola non è un gioco di ruolo. E’ una palestra in cui si cresce e si apprende, e dirigenti e insegnanti ne hanno la responsabilità.

Voltaire! Dove sei?

Voltaire! Dove sei? Amari pensierini in libertà

di Maurizio Tiriticco

Alla fine della guerra avevo perduto la casa, comunque io e i miei ci eravamo salvati. Nonostante le difficoltà, io e mia sorella riuscimmo a terminare gli studi e io mi licenziai dal Liceo Giulio Cesare di Roma nel 1946. Inutile dire che i primi anni Quaranta furono per me forse molto più significativi degli studi classici: il 10 giugno ’40 entriamo in guerra ed io, balilla convinto, ero certo che in breve tempo con gli alleati germanici avremmo vinto la guerra e liberato il mondo dalla dittatura franco-anglo-americana nonché giudaico-massonico-capitalistico-plutocratica! Poi viene il 25 luglio del ’43 e il balilla convinto entra in una grave crisi. Poi ancora l’8 settembre del ’43… dalla crisi alla faticosa costruzione di una nuova identità! E poi la Resistenza, le Fosse Ardeatine, il 4 giugno del ‘44: Roma finalmente liberata. E poi il 25 aprile del ’45. E il 9 maggio la Germania finalmente si arrende.
Non mancò al mio impegno culturale e civile, per capire in quale buco nero l’intero pianeta era caduto, quello politico; e la milizia con il Pci mi sembrò la scelta migliore. La battaglia per la Repubblica e per la Costituzione: la prima Costituzione che l’Italia si dava! Lo Statuto albertino era stato una charte octroyée e il fascismo ne aveva fatta carta straccia! E le grandi lotte operaie e contadine, ma l’obiettivo era uno solo: non solo Ricostruire, ma anche Costruire un Paese assolutamente nuovo, fondato sulla democrazia, la giustizia e il lavoro: le parole forti della nostra Costituzione. Poi gli anni Cinquanta, quelli del boom, della Seicento e del frigorifero, del progressivo e non sempre facile consolidamento della nostra convivenza democratica.
Cominciai a insegnare lettere nella nuova scuola media unica ottonnale obbligatoria: una conquista di una grande civiltà. Leggevamo i nostri autori a noi più vicini, e il Piccolo Principe, il Barone Rampante e leggevamo anche le lettere dei condannati a morte della Resistenza le lettere di Gramsci ai figli, per non dire del Diario di Anna Frank. Avevamo anche discussioni vivaci: non dimenticammo i combattenti della Rsi: avevo compagni di scuola e amici che nel ’43 fecero quella scelta a cui non poteva non andare tutto il mio rispetto: “gli amici che sbagliano”. Non erano anni facili e costruire la democrazia nella testa e nel cuore dei nuovi nati non era affatto cosa facile. E ci battemmo anche perché venisse introdotta l’Educazione civica.
Negli anni Sessanta l’intero continente africano si liberava dal colonialismo. Insomma la spinta verso la democrazia era o sembrava molto decisa. Il limite era dato, però, dalla coesistenza dei due blocchi antitetici che dal ‘45, con la nascita della Cortina di ferro, all’89 – quasi mezzo secolo – divise il pianeta in due parti. E dopo il crollo del muro la grande speranza! Che la democrazia, come per incanto, si estendesse per l’intero pianeta.
Ma non è stato così! Gli avvenimenti recenti sono sotto gli occhi di tutti. Emigrazioni di massa stanno mettendo a dura prova la stabilità stessa di Paesi di antica democrazia. E pericolosi fondamentalismi stanno insanguinando regioni anche tra loro lontane, dall’Africa all’Asia minore e non solo. In nome di dio si uccide e si insegna a bambini che uccidere un infedele è la porta del cielo! Sono letteralmente stravolto. Le guerre di religione le abbiamo conosciute a lungo e sofferte in Europa e quanto abbiamo dovuto penare per comprendere ed imporre che non si può uccidere in nome di dio, anzi che non si può e non si deve uccidere! Mai! Mi sono illuso – e chissà quanti altri come me – che il pensiero liberale, o meglio la laicità fosse ormai un dato di fatto, che non esistessero più credenze che prescindessero dalla sacralità di ciascun essere umano, se non di ciascun vivente.
Beccaria sostenne con molto coraggio che la tortura non può e non deve essere lo strumento privilegiato di un processo. Siamo nel Settecento illuminato, quando un pugno di intellettuali ritiene che sia sufficiente pubblicare un’enciclopedia perché tutti possano leggere e capire che di ogni fenomeno c’è una spiegazione, che la ragione è l’unica guida per qualunque nostra azione. Abbiamo sofferto secoli per giungere a conclusioni che da allora costituiscono il fondamento dei nostri rapporti interpersonali, della nostra convivenza democratica. La cultura araba ha prodotto cose grandiose, poeti come Omar Khayyam o Hafez (ho visto la sua tomba a Shiraz, in Iran), matematici e scienziati i cui studi hanno contribuito non poco allo sviluppo stesso del nostro Umanesimo. Possiamo dire che Plotino, Platone e Aristotele siglarono un fruttuoso armistizio nella Firenze di Marsilio Ficino: grazie agli intellettuali bizantini scampati alla caduta di Costantinopoli. Tutta la nostra cultura cosiddetta occidentale deve molto alla cultura araba. A quella stessa cultura che ha prodotto cose grandi, dall’Alhambra di Granada allo zero!
Poi l’involuzione. Poi la chiusura nella ritualità più che nello sviluppo della ricerca? Un interrogativo a cui non so rispondere. E che dire della responsabilità dell’Occidente che del Medio Oriente e, più in là fino allo stesso Afganistan, ha fatto sempre terra di conquista? Sono frettolosi spunti di riflessione. A cui si associano anche constatazioni di fatto: le banlieus parigine – e non solo parigine – non sono nate per caso. Se mussulmani nati e scolarizzati in Francia non si integrano nella società in cui vivono, una o più ragioni ci dovranno essere! Una responsabilità della scuola? Od una responsabilità di un certa struttura socioeconomica, di una politica che non nasce oggi, ma che viene da lontano.
Temo che gridare al fuoco quando non si è fatto nulla – o poco – per evitare le esche, sia tardivo. Ma i tempi per avviare una riflessione seria su un fenomeno così complesso ci sono ancora. Anche perché un esercito non può essere schierato ad aeternum su tutti i punti sensibili. Mi manca, manca a tutti Voltaire!

A proposito dei fatti di Parigi e della… irresponsabilità della scuola

A proposito dei fatti di Parigi e della… irresponsabilità della scuola

di Maurizio Tiriticco

La domanda che in molti ci siamo posti sulla incapacità della scuola di integrare i nuovi nati al mondo della democrazia e della coesistenza di tutte le ideologie e di tutti i credi religiosi, richiede qualche approfondimento. Anche perché – almeno per quanto riguarda il nostro Paese – sono gli stessi dati relativi al nostro “Sistema educativo di istruzione e formazione” a dirci che la scuola può poco in termini di significativi cambiamenti socioculturali. Si suol dire, ed è vero, che, comunque, “i figli degli operai diventeranno operai e che i figli dei professionisti diventeranno professionisti” e che le eccezioni sono pochissime. Pertanto, la Repubblica ancora non riesce a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…” (cos. Art. 3). Nel nostro Paese, la scuola non è ancora oggi in grado di rendere operativo quel precetto costituzionale di oltre 60 anni fa.
Per quanto riguarda gli avvenimenti parigini, è evidente che il Sistema di istruzione francese non è stato in grado di integrare al mondo della democrazia e della coesistenza di tutte le credenze, e le non-credenze, un coesistente numero di cittadini, molti dei quali nati in Francia, ma da famiglie provenienti da altri Paesi.
Insomma, sembra che la scuola possa ben poco a fronte dei condizionamenti socioeconomici, senz’altro più forti e incisivi di ciò che a scuola si insegna e si appende. Vi è una ragione di questo fenomeno che Karl Marx spiega – a mio giudizio – con estrema chiarezza. Nella prefazione a “Per la critica dell’economia politica”, del 1859, leggiamo: “Nella produzione sociale delle loro esistenze, gli uomini inevitabilmente entrano in relazioni definite, che sono indipendenti dalle loro volontà, in particolare relazioni produttive appropriate ad un dato stadio nello sviluppo delle loro forze materiali di produzione. La totalità di queste relazioni di produzione costituisce la struttura della società, il vero fondamento, su cui sorge una sovrastruttura politica e sociale a cui corrispondono forme definite di coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona il processo generale di vita sociale, politica e intellettuale. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza… I cambiamenti nella base economica portano prima o poi alla trasformazione dell’intera immensa sovrastruttura. Nello studio di tali trasformazioni è sempre necessario distinguere tra la trasformazione materiale delle condizioni economiche di produzione, che può essere determinata con la precisione propria delle scienze naturali, e le forme legali, politiche, religiose, artistiche o filosofiche – in una parola, ideologiche, in cui l’uomo diviene conscio di questo conflitto e lo combatte.”
Replico: “Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”. L’analisi marxiana, materialistica, ovviamente, capovolge ciò che è in genere del senso comune, e trasmesso da sempre dalle religioni positive e dalle ideologie in genere, secondo cui sarebbe lo spirito che domina la materia. Per Marx in un assetto sociale sono attive la struttura e la sovrastruttura. Sono fattori strutturali tutto ciò che è materiale e le trasformazioni prodotte dal lavoro umano, quindi i concreti rapporti commerciali ed economici. Sono fattori sovrastrutturali le ideologie, i prodotti della cultura, l’arte la filosofia, la religione, la politica stessa… e l’educazione, e la scuola.
Ciò non significa, ovviamente, che non ci sia nulla da fare, che l’educazione e l’istruzione siano impotenti. Anche perché viviamo in un’epoca in cui apprendere per tutta la vita è una condizione prima di sviluppo economico e sociale, quindi anche politico e – se non è una parola grossa – spirituale. Il fatto stesso che, oggi, in forza dell’alto sviluppo delle tecnologie, la distanza tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra fare e pensare, si sta sempre più riducendo, forse il dualismo di sempre tra struttura e sovrastruttura si sta anch’esso riducendo. Non è un adagio affermare che sempre più occorre “fare con la testa e pensare con le mani”.
Il che significa che la partita non è perduta, che l’istruzione aperta a tutti, di fatto obbligatoria per tutti, dalla culla alla tomba, come si suol dire, può farcela! A condizione, però, che i governi tutti sappiano investire nella scuola oggi e domani come e quanto si investe in genere nei settori strutturali. Occorre sfidare il pensiero marxiano, pensando che anche la scuola potrebbe diventare un fattore strutturale. A mio vedere, è la sfida delle società avanzate del Terzo millennio!