Per un insegnante animaTTore

Per un insegnante animaTTore

di Maurizio Tiriticco

 

Molti anni fa – era il 1969 – quando sulla scena irruppe Dario Fo con il suo “Mistero buffo”, non mancarono polemiche. Oggi, di fronte a un attore più che affermato e Premio Nobel, di quelle polemiche non c’è più neanche l’eco, ma allora le cose erano molto diverse. L’opera riscuoteva ovunque un grande successo; tuttavia una certa critica, abituata a un teatro diverso, non gli risparmiò rilievi fortemente critici. Si sosteneva che, in effetti, si trattasse di un teatro di parte – erano gli anni della contestazione – più politico che artistico! E che Dario Fo, quindi, non fosse tanto un attore quanto un pedagogo, per non dire demagogo, irriverente verso la nostra tradizione religiosa, mosso più a mobilitare folle che a fare teatro.

Va anche ricordato che i tempi erano molto diversi. Nel 1964 al Festival dei Due mondi a Spoleto erano state rappresentate dal Nuovo Canzoniere Italiano per la prima volta in una manifestazione pubblica “ufficiale”, se si può dire così, le canzoni delle mondine, “Sebben che siamo donne”, “Sior parun dalle belle brache bianche, fora le palanche”, “Bella Ciao”, e quella fortemente politica “Gorizia, tu sia maledetta”. Nella battaglia di Gorizia dell’agosto del 1916 erano morti più di 90.000 soldati, di ambedue le parti, e i nostri superstiti crearono quella canzone che, ovviamente – si pensi anche agli anni del fascismo dilagante – non riscosse mai il crisma della “ufficialità”. Ebbene, quella canzone, per la prima volta cantata in una manifestazione pubblica, per di più internazionale, mandò su tutte le furie il nostro apparto militare e il Nuovo Canzoniere venne denunciato – udite, udite – per vilipendio delle forze armate. In un clima di quel genere, tutto ciò che “sapeva di nuovo”, e di provocatorio anche – il Sessantotto in effetti aveva rotto certi modi di intendere e di fare cultura, rispetto a una certa tradizione paludata [1], – un impertinente Dario Fo a molti non piacque: era semplicemente un agit-prop del Pci!

Io raccolsi la provocazione e scrissi un articolo su “l’Unità”. Sostenevo che i rilievi critici mossi contro Dario Fo andavano letti proprio con la medesima chiave adottata dai detrattori, ma in positivo: cioè che è il teatro stesso, se non ogni manifestazione artistica, che è anche insegnamento in senso lato. Basti ricordare le finalità del grande teatro tragico dell’antica Grecia. Chiunque voglia “dire” qualcosa, cerca sempre approvazione, consenso, condivisione. Non c’è produzione artistica “gratuita”: il “dire”, l’“informare” vuole anche e sempre “formare”, sollecitare la condivisione e il “fare”. Era vero, dunque! Dario Fo era ed è un pedagogo – e senza virgolette – proprio in quanto artista. In effetti, testi che, letti a scuola, sono di una noia mortale, rappresentati da un Dario Fo sono tutt’altra cosa. Se poi si pensa alla contestualizzazione storica che ne fa Dario Fo – anche alle riletture e alle transcodifiche che ne hanno sempre fatte i giullari, o il popolino stesso nelle ritualità di certe ricorrenze, nelle sacre rappresentazioni – e alla lettura che in genere se ne fa nelle aule scolastiche, la differenza è lampante! Dal coinvolgimento si passa alla noia. Si pensi alle storie di Lazzaro, di San Benedetto, delle Nozze di Cana, raccontate, drammatizzate… rivissute da Dario Fo.

E riflettevo sulla differenza che corre tra una classe scolastica annoiata, “costretta” a “studiare” su un libro inerte “O figlio, figlio, figlio! Figlio, amoroso giglio, figlio, chi dà consiglio al cor mio angustiato?” di Jacopone da Todi, per l’interrogazione del giorno dopo, e una platea animata da una drammatizzazione che ne farebbe Franca Rame che, ahimé, ci ha lasciati! Altro che note a pié di pagina, che raffreddano il testo con la pretesa di aiutarne lettura e comprensione! Dario e Franca sono capaci di immergerti in un’epoca in un mondo, in un insieme di emozioni che ti fanno rivivere da protagonista, da “attore”, non acquisire da “lettore”. E chissà quanti spettatori allora, grazie a Dario Fo, per la prima volta, nonostante anni e anni di scuola, hanno compreso e sentito nel profondo cose che avevano sempre letto sulla carta e scarsamente capito. Occorre, quindi, che nelle scuole un insegnante sia in grado non solo e non tanto di spiegare concetti, ma anche e soprattutto di suscitare emozioni, coinvolgimenti, partecipazione. Io non ho mai amato i Promessi Sposi, ma i miei alunni li hanno sempre amati… e mi seccava anche un po’! In effetti, una cosa è assegnare la lettura per il giorno x, altra cosa è drammatizzare l’oggetto hic et nunc. E drammatizzarlo con la partecipazione viva e creativa degli alunni. Occorre optare quindi per un insegnante animatore, o meglio per un insegnante attore, lato sensu, ovviamente, se si vuole!

Ed è un approdo teorico a cui giunsi molto più tardi, anche se le mie lezioni erano sempre fortemente animate, drammatizzate a volte, collettivamente. Nel 1980 con Tina Pietrangelo pubblicai “La programmazione nella scuola dell’obbligo” e, l’anno successivo, “La valutazione nella scuola dell’obbligo”. Erano anni di grandi cambiamenti e l’accesso sempre più massiccio di tanti bambini “obbligati” a frequentare la scuola media aveva indotto a ricercare e suggerire nuove strade per insegnare/apprendere, sulla scorta di un vero e proprio boom della ricerca pedagogica e della sperimentazione: quindi occorreva programmare per obiettivi e valutare per giudizi analitici e sintetici. Si trattava delle indicazioni di una legge che rivoluzionò il modo di fare scuola negli anni dell’obbligo: la legge 517 del 1977.

Se si voleva vincere la battaglia dell’obbligo di istruzione, la motivazione degli alunni e la conduzione dell’aula dovevano costituire il leit motiv dell’innovazione: perché con questa si giocava il destino culturale stesso, e civile anche, della nostra popolazione e del Paese. Occorreva, di fatto, “scaldare” il nuovo motore dell’insegnare/apprendere, perché il programmare e il valutare secondo criteri “altri” potessero diventare la vera parte viva di una scuola nuova. Fu per queste ragioni che proposi all’editore un nuovo libro, centrato sulla gestione dell’aula, sull’animazione, appunto. Jerome Bruner aveva già scritto nel 1962 i “Saggi per la mano sinistra”. A monte c’è la teoria che vuole che l’emisfero sinistro del nostro cervello presieda alle operazioni cognitive, quello destro a quelle emotivo/affettive; e che agiscano il primo sulla parte destra del corpo, il secondo sulla sinistra. Stando alla metafora, l’insegnante agisce con la mano destra, quando sollecita operazioni cognitive, e con la sinistra, quando sollecita operazioni emotive. Ma le prime sollecitazioni sono quelle dominanti, com’è noto. Esemplificando: due amici vedono il medesimo film, oggettivamente è quello e non un altro; ma, soggettivamente, al primo è piaciuto moltissimo, al secondo no. E ancora: è certo e da tutti condiviso che Manzoni ha scritto i Promessi Sposi; ma altra cosa è dire che è un capolavoro oppure una gran c… come “La corazzata Potiomkin” di Eisenstein, alias di Villaggio! In effetti, “spiegare” un capitolo dei Promessi Sposi è un’operazione da mano destra; “drammatizzarlo” è un’operazione da mano sinistra.

Si trattava in quegli anni, tutti incentrarti su processi e procedure programmatorie, di riflettere, anche e soprattutto, su come si anima e si gestisce un’aula e come si anima un gruppo classe e ogni singolo allievo. Insegnare in quanto fare lezione è facile; motivare all’apprendere non è affatto facile, anche e soprattutto perché la nostra scuola, da sempre, ha fatto della lezione cattedratica il clou di ogni attività. Avvertivo fortemente la necessità di avanzare una proposta che andasse, appunto, sulla via dell’animazione. Il concetto stesso di animazione, però, non era molto popolare, e non lo è ancora, nonostante i ripetuti richiami alla “didattica laboratoriale”. E l’editore stesso mi disse che un titolo sull’animazione non avrebbe suscitato particolare interesse. La programmazione, nel bene e nel male, era il ferro caldo che in quegli anni agitava la scuola e non avrei potuto ignorarlo. E il titolo fu, appunto, “Programmazione come animazione”, del 1986.

Si possono fare le programmazioni migliori, puntualmente rispondenti ai criteri e alle tappe indicate da tutte le innovazioni della ricerca pedagogica, ma, se non si gestiscono gli alunni, coinvolgendo veramente, ciascuno di loro, i percorsi previsti e puntualmente descritti sulla carta, su questa rimangono.

Io sono, certamente, per un insegnante programmatore – e programmatore collettivo, a livello di collegio docenti e di consiglio di classe; ma, più convintamente sono per un insegnante “anche” animatore e attore e, quando è il caso, capace di rendere attori, convinti partecipi dei processi di apprendimento, gli alunni della classe, nessuno escluso.

Programmare non è facile, animare è difficile, essere “attori” e sollecitare “attori”, o meglio motivare una partecipazione attiva e convinta della classe e di ciascun alunno in processi di apprendimento significativo, per dirla con Ausubel, è ancora più difficile. Sono convinto che oggi più di ieri scelte di questo tipo siano necessarie. Una popolazione scolastica sempre più eterogenea, genitori sempre più in difficoltà, una scuola sempre maltrattata, esigono di fatto che l’offerta educativa, istruttiva e formativa, se vogliamo garantire il successo formativo a tutti e a ciascuno (dpr 275/99, art. 1), sia condotta da insegnanti a tutto tondo, programmatori e animaTTori, appunto!


 

[1] In effetti negli anni Cinquanta sia le “Ceneri di Gramsci” che “Ragazzi di vita” avevano fatto storcere il naso a una certa parte della nostra critica letteraria. Ci sono voluti decenni perché certe incrostazioni di una cultura paludata perdessero voce e forza. E chi non riconosce a Pasolini, oggi, quel merito che in vita gli era da molti contestato?