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La “Rete” e i suoi nemici II

La “Rete” e i suoi nemici
La seconda Risposta Filosofica

di Luigi Manfrecola

 

Come promesso, dedicheremo questa nostra seconda conversazione a confutare alcuni sofismi filosofici che hanno indotto molti intellettuali dell’ultima ora ad argomentare con vezzo erudito sul tramonto dell’idea stessa di una verità possibile e condivisibile, plaudendo al concetto di POST-VERITA’ che va ormai di moda e che mostra di possedere un indiscutibile sex-appeal.

Sono stati chiamati in causa sociologi e filosofi di indubbia levatura : da Heidegger a Gadamer, passando per Lyotard ed arrivando fino a Popper ed a Giddens, senza trascurare Wittgenstein.

Naturalmente non pretendo in questa sede di annoiare i pochi miei lettori con le vacue elucubrazioni degli addetti ai lavori. Basti qui osservare che gli Autori citati vengono analizzati secondo un unico itinerario che si snoda dall’esistenzialismo (di Heidegger) fino al cosiddetto “circolo ermeneutico” (di Gadamer), passando per il falsificazionismo (di Popper ) per approdare, alfine, alla fumosa “terza via” (di Giddens) : intravista, quest’ultima , come maldestro tentativo di trovare una convergenza degli opposti in una verità “mediata”, concordata fra le classiche , antiche ed opposte visioni politiche del mondo, in un orizzonte in cui il pensiero di sinistra e quello di “destra” andrebbero a contaminarsi, spiazzando i cittadini con tutte le relative loro fedi e convinzioni. E’ un itinerario che riconosce in Lyotard il primo caposcuola con la sua teoria della fine dei Metaracconti e con l’invenzione del termine stesso di Post-Moderno, termine scelto per indicare le coerenti visioni del mondo di stampo ottocentesco (Illuminismo, Romanticismo…) che avevano rasserenato e consolidato le culture dell’Epoca. Il tutto su una linea di ipotetico sviluppo dell’esistenzialismo di Heidegger che si era posto il problema teorico della radice dell’esistenza (dell’essenza “prima”) e, con essa, di ciò che fosse e potersi dire veramente VERO. E’ qui che va vista la matrice iniziale di quel SOGGETTIVISMO che è poi confluito nell’Ermeneutica, corrente filosofica che riduce la verità ad opinione soggettiva, in tal modo frantumandola. L’assunto da cui ci si muove è semplice e presuppone che più Soggetti /individui possano confrontarsi e ricercare, ragionando e trovando possibili accordi solo perché , in effetti, si ritrovano a partire da un medesimo bagaglio pregresso di convincimenti (PRE-COMPRENSIONE) che è una pre-condizione necessaria per poter comunicare e che fa capo ad una cultura condivisa   e ad atteggiamenti e convincimenti storicamente sedimentati. E’ chiaro che il soggettivismo non può che trasmutare in scetticismo e in negazione di una VERITÀ che si vorrebbe, invece,storicamente e logicamente immutabile.

Tale problema delle verità è rintracciabile anche nella riflessione del grande Popper che parla di CONOSCENZE SEMPRE PROVVISORIE In quanto sconfessabili in ogni momento dalla ricerca e dal progresso scientifico, invitando ad evitare ogni dogmatismo ed a sottoporre ogni verità presunta   a mille prove che possano sconfessarla (falsificarla).

Senza spingermi più oltre -ed immaginando che qualche lettore di buona volontà abbia avuto la pazienza di e il coraggio di seguirmi fino a questo punto- è giunto il momento di trarre le mie personali conclusioni da quanto detto fin qui: per ribadire che la VERITA’ non può essere messa in dubbio con sciocchi o intenzionali giochi linguistici , pensati per sviluppare sofismi di comodo, per relativizzare i fatti, per confondere le idee, per legittimare ogni sorta di abuso e di ingiustizia sociale, per edulcorare la realtà. Ebbene , a chi mi chiedesse cosa ciò può voler dire FILOSOFICAMENTE, risponderei di rileggere non tanto Popper – che parla del “vero scientifico” da sottoporre sempre a prova- ma di rileggere Cartesio e Kant che hanno ben chiarito che ciò che è VERO è quello che viene percepito e colto come EVIDENTE dai nostri sensi e dalla nostra ragione, che sia frutto di intuizione o di in’ARCHITETTURA connaturata alla mente umana (Le Categorie universali e necessarie). Per cui, a mio personale giudizio, parlare di POST- VERITA’ è FALSO,è poco più di un vezzo per intellettuali logorroici oppure è un mondo artificioso per rinnegare le situazioni di fatto che contrastano con gli interessi delle classi egemoni. Ciò vale soprattutto per la cosiddetta “terza via” di Giddens che indica il pasticcio delle commistioni fra cultura politiche diverse per catturare comunque un certo consenso sociale: al punto che non sappiamo più riconoscere le sinistre dalle destre per la comune volontà di costruire, intorno a sé, un consenso sociale che valga a favorire un comodo governo delle “masse” (bollate ingenerosamente di “populismo” quando levano alta la voce contro le ingiustizie del Sistema)

La “Rete” e i suoi nemici I

La “Rete” e i suoi nemici
Per un’analisi argomentata: la prima risposta

di Luigi Manfrecola

 

La prima nostra risposta l’affidiamo subito al senso comune, recapitandola per posta prioritaria.

La seconda la consegneremo domani, mediante riflessioni filosofiche.

La terza la recapiteremo per via ordinaria, incartandola con stracci psicologici e sociologici.

Sul quotidiano Repubblica, edito appena ieri, due e più pagine sono state dedicate alla questione della POST- VERITA’ o della “surrettizia” informazione veicolata dalla RETE e finalizzata a costruire quella tendenziosa realtà che i tedeschi denominerebbero ” pos-fattuale”.

Come se non bastasse, in qualche sito filosoficamente ambizioso, è apparsa una dotta disamina che ha chiamato in causa personaggi illustri: da Lyotard ad Heiddeger, fino a Popper ed oltre…

Per legittima difesa, sono apparse sul Blog di Grillo correlate tesi difensive, a denunzia del tentativo evidente di avviare una campagna denigratoria a tutto danno della RETE e delle “bufale” diffuse con tale mezzo in linea. Cosa che ha indotto il nominato Grillo a segnalare, più o meno legittimamente, una subdola volontà di CENSURA: idea non tanto peregrina!

E’ evidente che un’informazione libera e capillarmente diffusa diviene incontrollabile da parte delle oligarchie economiche che governano e controllano i mass-media , costruendo, plagiando e indirizzando il pensiero di massa. E’ altresì vero che, all’interno di questa realtà magmatica, si può infiltrare chiunque e diffondere false e tendenziose notizie per le ragioni più varie. Sta di fatto che una propaganda sistematica e faziosa si disvela come tale assai presto e da sola, proprio per quella deriva oltranzista che la contraddistingue . Se c’è una caratteristica che distingue la RETE è quella di favorire le aggregazioni di appartenenza, costruendo degli “sfiatatoi” per ogni tipo di malcontento che possa essere condiviso da più soggetti. Il che, in assoluto, non può definirsi un male e se, un male fosse, sarebbe un male necessario .Certamente viene a porsi il problema di un possibile sacrificio della VERITA’! Ma di quale VERITA’?

Non certo di quella finta verità costruita nelle Redazioni asservite al Potere, pericolose assai più di ieri in questo mondo globalizzato nel quale mille specchi sapientemente sincronizzati, sanno replicare all’infinito la stessa immagine ,virtualmente costruendo” Verità” (ed il carattere minuscolo non è casuale) addomesticate agli interessi di pochi. Potremmo, a questo punto, spingerci a discutere l’assunto filosofico che sta a base delle tesi culturalmente contrabbandate come vincenti, segnalando fraudolentemente che ogni verità è soggettiva, secondo la DERIVA ERMENEUTICA. Oppure potremmo invocare la tesi del Lyotard che denunziava il tramonto delle antiche certezze, inventandosi un nefasto Post-modernismo che è divenuto utile strumento nelle mani di politici mistificatori. Potremmo perfino spingerci a contestare il principio stesso di VERIFICABILITÀ popperiana, da intendere come misura di certezza, per contrapporvi l’antico criterio della EVIDENZA CARTESIANA come unica connaturata garanzia e misura di orientamento umano…Perché, per quanti sforzi faccia il Dominus Politico e gli Spin-Doctors (mi si perdoni l’oscuro neologismo, ma questi pseudo – intellettuali vanno combattuti con le loro stesse armi…) che lo sostengono, è PROPRIO l’evidenza della miseria e dell’ingiustizia sociale, della corruzione, degli egoismi di classe, di un Potere reso fine a se stesso, ciò che ferisce la pelle dei cittadini e le rende sensibili ad una VERITA’ FATTUALE che li schiaffeggia e ne morde le carni. Potremmo… ma non lo facciamo qui, per adesso. Argomenteremo domani le nostre tesi sul piano filosofico, anche perché oggi abbiamo promesso di volare basso per sfiorare da vicino la verità dei fatti, molto banalmente, per dire e ribadire che è inutile arzigogolare sulla ” post-verità ” per confondere le acque. La VERITA’ vera esiste, è sotto gli occhi di tutti, è nello stomaco di chi non può nutrirsi e non riesce a nutrire i propri figli per effetto d’una “politica” indecorosa, posta arrogantemente al servizio degli avidi e oltraggiosi interessi di pochi.

Mi si potrebbe rispondere che la povertà è endemica quanto la storia stessa dell’Uomo, che questi discorsi sfiorano l’Utopia… Ebbene, risponderei che le ingiustizie passate non legittimano quelle presenti e future e che, almeno in passato, si chiamavano le cose col loro nome. E si chiamava Censura ciò che era tale, e si chiamava “equità” quella richiesta d’attenzione che qualcuno ha voluto definire “invidia sociale”. Per queste ed altre ragioni che, come abbiamo preannunziato, analizzeremo domani, il tentativo di imporre vincoli alla libertà d’espressine in RETE è destinato al fallimento, con buona pace dei giornalisti ben pensanti e ei loro padroncini.

La vana ricerca del consenso

La vana ricerca del consenso

di Stefano Stefanel

In una evidente e a tratti imbarazzata continuità governativa spicca il cambio totale dei vertici del Miur accompagnato immediatamente dal pressing dei sindacati che si è sommato al costante rumore di fondo delle varie sigle e siglette da sempre ostili a qualsiasi riforma non restaurativa della scuola, che, pur non avendo raccolto le firme necessarie per il referendum sulla 107, sono convintE di aver vinto quello del 4 dicembre, quasi che i voti dei grillini, dei fascisti, dei leghisti e delle varie destre coalizzate contro Renzi fossero il solito accidente della storia.

Serpeggia l’idea che smontando la legge 107/2015 pezzo per pezzo si recupererà il consenso perduto nel mondo scolastico, quasi che l’abbandono di ogni riformismo sia di per se una riforma. Una cosa i sindacati e i referendari di estrema sinistra possono rimpiangere: non aver collegato la raccolta di firma contro la 107 al referendum costituzionale e a quello sul Jobs Act spingendo tutta la compagnia di coloro che hanno strenuamente difeso una Costituzione che disprezzano (fascisti, leghisti, 5 Stelle) verso la firma anche per il referendum abrogativo della 107, mettendo in piedi un’ulteriore ordalia referendaria (Jobs Act e 107: un mix infallibile).

Ci sono cose nella legge 107 che i sindacati non possono accettare: ambiti, bonus, chiamata diretta. E per questo hanno alzato subito il tiro per andare al cuore del breve ministero dell’on Fedeli facendo leva sulla sua passata militanza sindacale e per cercare di portare a casa tutto quello che avrebbero voluto portare a casa col referendum che non ha raggiunto il quorum di firme richiesto. La strategia sindacale di lungo respiro è però molto chiara e non prevede alcuna apertura verso il PD: meglio un Governo di destra o di coalizione in modo che il sindacato possa riprendere la sua piena rappresentanza nelle piazze e come soggetto delegato ad ogni trattativa. Per i sindacati non è molto logico ostacolare un Governo di centro sinistra e dunque da un lato hanno forzato contro il Governo Renzi (che di fatto li voleva proprio eliminare), dall’altro sono stati spesso in imbarazzo a scatenare proteste eclatanti verso un Governo con chiare connotazioni progressiste. L’ideale per i sindacati è un bel Govermo di Destra e un bel Partito di sinistra (sinistra PD ex SEL, Landini, Boldrini, ecc.), forte ma non governativo, da appoggiare in difesa comunque di un sistema che non c’è più, ma che comunque produce effetti positivi per i gli iscritti.

L’interesse del PD e del Governo in questa fase, invece, non dovrebbe essere quello di accordarsi con sindacati che comunque l’idea “maggioritaria” del PD (sia quella di Veltroni, sia quella di Franceschini, sia quella di Renzi) non la sposeranno mai. A me sembra molto evidente che scoperchiare oggi la 107 significa riaprire dibattiti che nelle scuole non ci sono più e non aumentare il consenso neppure di un voto. Stime pubbliche hanno detto che il 53% dei docenti ha votato Sì al referendum: possono essere stime in eccesso o in difetto, non è importante. Quello che è importante è che il clima di contrasto sperato dai sindacati e dalle forze “scolastiche” di sinistra nelle scuole non c’è e la 107 non sta producendo alcun cataclisma per il semplice motivo che anche un cieco vede che nella scuola ci sono più soldi, più insegnanti, più opportunità, più crescita.

Solo un apprendista stregone può oggi pensare che eliminando la 107 per via contrattuale si recuperi del consenso che forse realmente non c’è mai stato: i Sindacati nella scuola in questo momento non sono molto più popolari del Governo e le idee sui dirigenti e sul sistema di governo delle scuole introdotto dalla 107 (RAV, PDM, PTOF) incuriosisce molto e indigna per niente.

Io credo che il meccanismo vincente sarebbe quello di rallentare dove possibile lasciando intatto quello che è già stato avviato. La sentenza della Corte costituzionale sul bonus premiante è significativa, ma è anche significativo che sul bonus premiante non sia successo nulla e che i dirigenti scolastici nel complesso, benché si fosse al primo anno di applicazione della norma, abbiano fatto comunque il loro dovere, con anche errori e con l’introduzione di meccanismi spesso cervellotici, ma in una logica di analisi reale del merito e di attenzione alle dinamiche delle scuole e degli insegnanti. Perché i sindacati non fanno un sondaggio/referendum nelle scuole per verificare se i docenti preferiscono che il bonus premiante sia contrattato o se preferiscono che venga attribuito dal dirigente scolastico seguendo i criteri del comitato? Sarei curioso di vedere cosa ne verrebbe fuori.

Il Miur sta lavorando alacremente ad applicare la 107: ogni giorno arrivano nuove proposte progettuali e nuovi finanziamenti. L’alternanza scuola lavoro funziona bene e mostra una scuola viva e progettuale, si lavora a Piano Triennali dell’Offerta Formativa realistici e l’organico dell’autonomia permette cose che fino all’anno scorso non si potevano fare. Se politicamente l’attuazione delle deleghe è ritenuta rischiosa per potenziali nuove polemiche e nuova perdita di consenso le si facciano decadere, ma nel silenzio, senza proclami e senza false scuse.

Io credo che la legge 107 come tutte le leggi importanti abbia bisogno di tempo e non lo abbia avuto. Sempre quando si innesca una crescita vertiginosa molte cose non funzionano, ma poi nel medio periodo si fanno i conti in modo più chiaro. Io spero che il Miur si calmi e non muova nulla, tanto il consenso degli esagitati ostili a tutto, che non sono riusciti a raccogliere le firme e che si vantano di aver vinto un referendum che invece è stato stravinto da Destra e 5 Stelle, non tornerà mai più. E’ poi necessario non scambiare l’oggettiva forza sociale dei sindacati con un vero consenso spostabile sul PD e sul Governo, cosa che i sindacati non hanno alcun vantaggio, interesse o intenzione di fare. Anche perché Renzi i sindacati li voleva proprio eliminare e gli epigoni al Governo guidati da Gentiloni sono sempre gli stessi che quell’operazione hanno appoggiato. La 107 non è perfetta, ma così fa male solo ai sindacati. Eliminarla pezzo per pezzo può far male a molti e non portare neppure un voto in più.

Educazione all’essere bambina

Educazione all’essere bambina

di Margherita Marzario

Abstract: L’Autrice propone una breve lettura interdisciplinare di un documento, forse poco conosciuto ma tanto importante, sui diritti della bambina.

 

“Bambina”, nome comune di persona, singolare, di genere femminile, relativo all’età della fanciullezza. Affinché ogni bambina possa godere di diritti comuni a tutte, della sua individualità, della sua personalità e della sua fanciullezza, esiste la “Carta dei diritti della bambina” (con l’aggiunta, nel titolo, dell’enunciato “La bellezza della diversità”), un atto a livello regionale (e non universale), breve e non vincolante (perché non emanato da organi istituzionali), approvato a Reykjavik (Islanda) nel 1997, come frutto soprattutto dell’associazionismo femminile. Tra l’altro, offre tracce per un percorso di “educazione alla e della femminilità”, scevra da pregiudizi e stereotipi, rivolto principalmente a istituzioni e neogenitori. La nuova versione della Carta, approvata il 30 settembre 2016, ha aggiunto degli elementi testuali che invitano ancor di più alla riflessione e alla conseguente applicazione di quanto enunciato.

Significativo è già l’incipit “Ogni bambina”, che sottolinea la singolarità e l’unicità di ogni persona di sesso femminile, perché è diverso dal dire “le bambine” o “la bambina”. Ogni bambina ha il diritto di vivere la sua età, la sua natura femminile, il suo crescere e il suo differenziarsi dagli altri e da altro, rispetto alle altre bambine, agli altri bambini e agli adulti.

Nell’art. 1 (della formulazione originaria) si parla di “rispetto”, che etimologicamente significa “guardare dietro, guardare di nuovo”. Quello sguardo di cui ha bisogno ogni bambina, dall’inizio e sempre. Quel rispetto che richiede educazione dello sguardo e allo sguardo, educazione alla corporeità. Componenti su cui si basa tutta la Carta dei diritti della bambina sino alla sua chiusura nell’art. 9 in cui si disciplina la pubblicità, così onnipresente nella quotidianità. Il circolo virtuoso della Carta, in termini di coerenza ed essenza, dovrebbe diventare “magna charta” nella realtà, che è purtroppo lontana dalle sempre fattuali e progettuali disposizioni della Carta.

Ogni bambina ha diritto a una “Formazione educativa ai problemi economici e politici che le permetta di diventare una cittadina a tutti gli effetti” (art. 5 Carta dei diritti della bambina). Ogni donna deve imparare a essere padrona (dal latino “domina”) di se stessa per esserlo della vita che può donare. La femminilità è una ricchezza e, in quanto tale, non deve essere né venduta né svenduta ma amorevolmente offerta; di questo sono responsabili tanto la donna quanto l’uomo. In una coppia l’unica norma imprescindibile è il rispetto reciproco, tutto il resto può essere anormalità (rispetto alle convenzioni sociali o alle abitudini diffuse): il miglior modo per regolare la propria vita è regalare la propria vita. Femminilità è fonte di felicità, è educazione alla vera felicità. Come scrive la storica Lucetta Scaraffia: “Oggi le donne hanno compiuto molti progressi, sono più autonome, meno condizionate dai giudizi altrui. Ma a volte rischiano di dimenticare che la felicità non sta in una vita piacevole e protetta, bensì nell’amore che si sa dare agli altri dimenticando se stessi e i propri interessi”.

Ogni donna deve essere educata al vero senso della femminilità ricordando che letteralmente “femmina” è “quella che allatta, che nutrisce” e che, pertanto, è un carattere vitale che ha in sé e con sé e bisogna esprimere (“premere per fare uscire” da sé), in modo costruttivo per sé e per gli altri, per non “sterilizzarsi”. In tal senso la Carta dei diritti della bambina e in particolare l’art. 6 in cui si legge: “Informazione e conoscenza su tutti gli aspetti della salute, compreso quelli relativi alla salute sessuale e riproduttiva, che le permettano di godere di una maternità responsabile”.  Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro sostiene: “Come il salmone che, attraverso inaudite fatiche e pericoli, risale il fiume controcorrente per assolvere al compito che la natura gli ha dato, ossia essere fertile, anche una donna senza figli ha un compito: lasciare in questa vita un segno, se non un figlio, una piccola o grande opera dell’ingegno e della fantasia, un po’ di bene per chi ne ha bisogno. In altre parole, tanto amore per se stessa e per gli altri”.

Lo psicologo e psicoterapeuta Fabrizio Fantoni precisa: “Le vicende amorose sono talvolta paragonabili alla forza misteriosa del nucleo dell’atomo. Una rottura può provocare un’emissione di energia inaudita, che si esprime in tempeste di emozioni e in gesti difficili da capire. Soprattutto se la rottura viene da una sola parte, e dopo pochi mesi di relazione. Quando cioè si è ancora nella fase dell’innamoramento, in cui predominano gli aspetti idealizzanti: tutto è bello, l’altra persona è la migliore che si potesse trovare, stare insieme è ogni volta bellissimo. È il tempo che consente di equilibrare questa visione con i limiti e i difetti che si riscontrano gradualmente nell’altra persona, e con la consapevolezza della difficoltà, oltre che della bellezza, dello stare insieme”. È questa l’educazione sentimentale, ancor prima di quella sessuale, in cui bisogna far crescere gli adolescenti, in particolare le ragazze per il rispetto del loro corpo e del loro essere, anche per evitare gravidanze o aborti in età adolescenziale o altri esiti peggiori. Si tenga conto dell’art. 7 della Carta dei diritti della bambina: “Sostegno positivo a scuola e a casa per affrontare serenamente i cambiamenti fisici ed emotivi della pubertà”.

Ogni bambina ha il diritto di “Non essere bersaglio della pubblicità che promuove il fumo, l’alcool e altre sostanze dannose” (art. 9 Carta dei diritti della bambina): può essere dannoso anche il culto dell’immagine e del corpo. Come afferma la scrittrice Michela Murgia: “Molto spesso le donne, ma non solo, per essere accettate sono costrette ad adeguarsi a canoni di omologazione che non rispettano l’identità di persone uniche e irripetibili. L’unica speranza è, invece, quella di poter essere amati per quello che si è veramente, oltre i chili di troppo o l’eccessiva magrezza, al di là delle rughe o dell’abito che si porta”.

Ancor più incisivo è il nuovo testo dell’art. 9 della Carta: [Ogni bambina ha il diritto] “Di non essere bersaglio, né tanto meno strumento, di pubblicità per l’apologia di tabacco, alcol, sostanze nocive in genere e di ogni altra campagna di immagine lesiva della sua dignità”. La donna, sin dalla tenera età, deve conoscere e cogliere la sua integrità e la fecondità delle sue differenze psicofisiche. Per essere donne non conta l’apparenza, l’immagine, il piacere e compiacere agli uomini, quello che si mostra, ma quello che si rivela e che si porta dentro e oltre: la vita, la potenzialità di vita. E in questo hanno un ruolo fondamentale i genitori, in particolare le mamme, che non devono far adottare alle bambine abbigliamento e atteggiamento da adulte. La femminilità non è uno strumento né deve essere strumentalizzata: è essere, è modo d’essere, di comunicare e di vivere.

Lo scrittore Kahlil Gibran già si chiedeva: “Verrà il giorno in cui la donna riunirà in sé la bellezza e conoscenza, versatilità e virtù, delicatezza fisica e forza d’animo?”. La donna torni a essere se stessa affinché ogni uomo (dal figlio della vita al compagno di vita) divenga se stesso: educare in tale direzione ed emozione ogni bambina (e ogni bambino), come si ricava pure dalla Carta dei diritti della bambina.

Secondo alcuni etimologi il significato di “carta” deriva da “scolpire, incidere”: affinché la Carta dei diritti della bambina consenta una vita libera e dignitosa e una convivenza sana e serena alle piccole donne e ai piccoli uomini di oggi e di ogni tempo, occorre che la Carta sia concretamente impressa nei piccoli gesti di ogni giorno, a cominciare da quello che si guarda in televisione o che si dice e si fa in famiglia, anche mentre si sta insieme a tavola.

E adesso cosa succede?

E adesso cosa succede?
Un punto di vista

di Alessandro Basso

 

Il dibattito sulla buona scuola si è arenato, come giusto che fosse, per lasciar spazio alla dialettica politica di questi giorni. È passata una sola settimana dal referendum costituzionale e sento la necessità di portare un contributo attraverso una riflessione ad alta voce proprio sul tema.
Magari riesco a stimolare anche una considerazione dell’amico Stefano Stefanel anch’egli così silente negli ultimi giorni.
Non siamo digiuni del fatto che la scuola sia tirata in ballo quando occorre, anche negli ambienti politici e di questo sicuramente non ci scandalizziamo, adesso l’importante è che l’intera partita venga gestita in modo razionale perché dobbiamo evitare di “buttare via il bambino con l’acqua sporca”.

Nel mondo della scuola il cambiamento non deve venire adesso a tutti i costi e a qualunque costo perché i principi della legge 107, in qualche modo, vanno portati a termine perché si rischierebbe in caso contrario, di riportare quel caos che con gran fatica abbiamo cercato di governare nei mesi passati dalla base, con grande senso dell’equilibrio e, possiamo dirlo senza timore di smentita, anche con un pizzico di bravura delle tanto vituperate scuole autonome e degli uffici locali.

Tradotto, speriamo non si arrivi a una frettolosa controriforma, solo per sistemare gli animi delle varie correnti, tanto più se gestita senza un seguito accurato da parte dell’apparato tecnico e amministrativo.
Sarebbe fin troppo facile affermare che l’avvio di quest’ anno scolastico è stato disastroso, ma sarebbe altrettanto facile distruggere tutto senza un minimo di raziocinio.
Occorre registrare, forse anche con rammarico, che ciò che non ha funzionato nell’applicazione della buona scuola è stata la mancanza di un presidio e non solo di natura politica, con degli effetti straripanti in varie sedi.
Colpivano, già a suo tempo, le affermazioni di un tal sottosegretario rispetto ad alcuni accordi di secondo livello che andavano nella strada opposta a quella del senso della legge e delle dichiarazioni del Ministro. Stridono alcune parole contenute nel comunicato in accompagnamento all’accordo sindacale per il rinnovo dei contratti. Un accordo che, spero di essere smentito, è stato il più veloce della storia perché è scomparso dal tavolo della trattativa in men che non si dica. Questo accordo prevedeva, almeno livello di principio, la delegificazione di alcune materie da riportare al tavolo della contrattazione, principio contro il quale mi schiero non per la gratuita idiosincrasia che posso avere nei confronti di alcune scelte dei sindacati, ma della mancata assunzione di altri principi che prevedono, al contrario, di riportare all’ambito di legge la sfera decisionale e organizzativa: un passaggio fondamentale per la cementazione dell’autonomia scolastica, guarda caso principio alla base della buona scuola.
La macchina organizzativa della riforma si è scontrata, proprio in fase applicativa, con l’ambito decisionale di secondo livello giacché si è tentato di accontentare un po’ tutti. Forse sembrerà banale come affermazione ma rappresenta, a mio avviso, molto bene la realtà dei fatti.
Questo è quanto è accaduto ad esempio con l’allocazione del personale che è stato assunto con incarico a tempo indeterminato e ha coperto l’organico dell’autonomia ma, contemporaneamente, ha avuto la possibilità di riprendere in mano la valigia nella stessa giornata e di poter legittimamente tornare da dove era venuto (ripeto, legittimamente e comprensibilmente).  Mi sono chiesto diverse volte se fosse stato impossibile fare un accordo per fare in modo che queste persone rimanessero direttamente al loro posto dando la possibilità alle scuole dove si rendevano disponibili i posti di poter assumere altrettanti docenti, così, tanto per far partire la scuola a settembre, termine temporale che per i professionisti non è un vezzo d’altri tempi.

La partita che ci giochiamo su questi principi, in sede locale, è quella della serietà e della continuità del servizio; siamo riusciti in qualche modo a venirne fuori, ma non penso saremo in grado di ripetere questa operazione il prossimo anno scolastico. E questa partita, lo sanno bene i tecnici, andrebbe affrontata subito, sapendo bene che il giorno dopo che si sono chiuse le iscrizioni si avvia la macchina per la costituzione degli organici: così funziona la scuola, così dovrebbero imparare a farla funzionare le figure preposte.

Sarebbe un peccato che si smantellatasse l’intero impianto della chiamata diretta, perché il principio fin dove lo si è potuto applicare, è stato innovativo, sicuramente potrebbe essere perfezionato con un po’ più di coraggio, però si è trattato pur sempre un punto di partenza. Parimenti ho ritenuto di grande pregio il vincolo della permanenza triennale degli insegnanti neoassunti, principio che si è sciolto come il sale nell’acqua e ha prodotto, di fatto, la permanenza di pochissimi insegnanti neo assunti.

In questo momento delicato, sarebbe fin troppo facile dire cancelliamo la buona scuola, ma non penso sia la strada giusta. Prendiamola in mano, sentiamo la base, sentiamo anche i sindacati, ma lasciamo sedimentare alcune innovazioni cercando di capire quali possano essere i miglioramenti assumibili: non è questo il momento di nuovi paradigmi, le idee ci sono, diamo loro gambe per camminare.

Innovazione e PNSD: i perché di una riforma

Innovazione e PNSD: i perché di una riforma

di Mariacristina Grazioli

Il Piano nazionale Scuola Digitale è arrivato come d’improvviso: tutti se lo aspettavano ma nessuno poteva immaginare come, quando e perché. Ed eccolo- splendido nelle sua veste grafica chiara ed accattivante- pubblicato nell’autunno del 2015, a seguito di una calda estate tutta dedicata alla nuova legge di riforma scolastica.

Il Piano Nazionale si descrive da sé: non è una legge (e non avrebbe potuto esserlo, poiché c’era già la 107/2015 a reggere l’impalcatura normativa), ma un documento di indirizzo del Miur.  In effetti la stessa denominazione di “Piano Nazionale” non poteva, né doveva, trarre in inganno. L’indirizzo del ministro, come atto fondativo, è certamente qualcosa di importante e delinea un cammino nazionale: la scuola “buona” nell’era digitale, ma meglio ancora, la “strategia” per la scuola buona e innovativa, che si “posiziona” nel sistema educativo dell’era digitale.

Il Piano si inquadra nel più ampio dibattito di  innovazione del sistema pubblico e traccia le linee di sviluppo ed indirizzo delle azioni del Miur più squisitamente governative, per una sostanziale innovazione del sistema scolastico, partendo proprio dal confronto con la cosiddetta “educazione digitale”.

Un bella sfida insomma che, certamente, parte dal testo di legge.

Anche se gli  obiettivi prioritari delle legge 107 sono legati a percorsi di progettazione delineati nei Ptof, nel tessuto normativo sono tuttavia citati molti ambiti di azione, tra cui: sviluppare le competenze digitali degli alunni, migliorare gli strumenti didattici laboratoriali,  garantire formazione per i processi di innovazione, provvedere all’adozione di strumenti organizzativi e tecnologici atti a favorire la governance, garantire la  trasparenza attraverso la condivisione di dati, formare i docenti all’innovazione didattica, sviluppare la cultura digitale,  formare il personale amministrativo e  tecnico all’innovazione digitale,  potenziare le  infrastrutture di rete, valorizzazione  esperienze nazionali,  definire i criteri  di adozione di materiale digitale quali testi didattici e  materiali didattici.
Non sembra davvero poca cosa questo elenco.

PNSD ed “Era Digitale”: documenti

Le sfide della scuola descritta dal Piano sono correlate all’impegno delle agenzie formative – tra cui la scuola- finalizzate a garantire l’apprendimento per tutto l’arco della vita ( life-long) e in tutti i contesti di vita, siano essi formali e non formali ( life-wide)
I documenti a cui fa riferimento il Pnsd sono di vario spessore ed estrazione. Primo fra tutti le pubblicazioni OCSE ( Centre for Educational Research ed Innovation – CERI) in cui si fa chiaro riferimento ad una domanda basilare “cosa dobbiamo fare per garantire ai bambini e gli adulti di tutto il mondo  di ottenere la migliore formazione possibile? Questa domanda è importante non solo per i futuro degli individui, ma anche per il destino del pianeta. I risultati di istruzione determineranno se l’umanità sarà in grado di affrontare le molte sfide che ci attendono, dai cambiamenti climatici alla migrazione, dalla pace alla crescita economica e il progresso sociale. Allo stesso tempo, la questione è estremamente difficile. Storicamente, i sistemi di istruzione si sono sviluppati a ritmi diversi, nelle diverse condizioni sociali, religiose e culturali. In un mondo vario e frammentato, ci sono molte definizioni di “buona educazione”1).
Innovazione e Cambiamento

Il futuro del Pianta è al centro del dibattito sociale, culturale economico e, ovviamente politico. L’idea di futuro è lontana da interpretazioni fantascientifiche: il futuro è un accordo tra generazioni che sanno dialogare su una visione condivisa per il raggiungimento e il mantenimento del benessere.
Per quanto riguarda  il futuro dell’istruzione è stato concordato un obiettivo ambizioso per la formazione, poi tradotto  come uno degli obiettivi di sviluppo sostenibili (SDG), da raggiungere entro il 2030. L’obiettivo 4 del SDG mira a garantire “la qualità dell’istruzione inclusiva ed equa  e  promuovere opportunità di apprendimento permanente per tutti”. Le parole chiave del processo di istruzione da qui al 2030 sono  qualità ed equità dei percorsi di apprendimento, attraverso un sistema di governance basato sulla  partecipazione.  
L’educazione SDG non prescrive come raggiungere qualità e l’equità.   L’obiettivo ha tuttavia una sua logica: tutti gli esseri umani debbono avere le conoscenze e le competenze per crescere nella vita, lungo tutto il suo arco, e contribuire alla loro società. La declinazione nazionale degli obiettivi SDG è la nuova sfida culturale, anche traendo spunto dagli indicatori OCSE.2)

Secondo il Weforum vi è dominanza di una visone   definita “New Vision for Education: Fostering Social and Emotional Learning Through Technology”, che prelude all’idea di affermazione del primato dell’uomo sulla tecnologia; un uomo con competenze chiave idonee ad intercettare e governare le sfide del futuro.
Le “Century Skills” composte da tre matrici  “Foundational Literacies, Competencies Character con le loro declinazioni, sono dunque al centro del progetto educativo, dove la tecnologia è il medium, non il fine.3)

L’Italia traccia la linea della scuola dell’era digitale con l’High Level Conference della Commissione europea del dicembre 2014. Ripensando ad alcune risoluzioni del Parlamento europeo ( Risoluzione  sui modelli di istruzione, adottata ottobre 2013 e  la Risoluzione sulle nuove tecnologie e risorse educative aperte adottata nel 2014) pare chiara la nuova traiettoria pedagogica dell’istituzione scolastica italiana chiamata a confrontarsi con il contesto socio-culturale mondiale, prima ancora che con il dilagante digitale.

I nuovi incipit? Fornire percorsi di apprendimento flessibili e contribuire a migliorare la qualità e l’accessibilità di apprendimento formale, non formale e informale anche con  l’utilizzo delle  Open Education Resources  per ridurre il divario digitale.

Le ragioni delle Rivoluzione digitale in chiave educativa ci sono tutte: la crisi dilagante economica e i tassi di disoccupazione giovanile allarmanti. L’istruzione “di qualità” secondo la Conferenza è quella che sa intercettare le difficoltà di collocabilità nel mondo del lavoro e superi i disallineamenti. Allora ecco che la scuola deve allearsi con il territorio anche in un’ottica diacronica e promuovere progetti intergenerazionali coinvolgendo associazioni, sindacati , Ong, centri educativi.

Se questa è la prospettiva culturale, il Piano nazionale rappresenta un generatore di “opportunità istituzionali diffuse” e produce- con i suoi investimenti -un “ impatto percepibile in tutto il Paese”.4)

E’ noto che in termini generici il cambiamento nasce dalla  necessità e che il “nuovo” subentra dopo l’attraversamento della linea di confine tra  quanto conosciuto e ciò che ancora è sconosciuto. La forte spinta innovativa del Piano deve dunque fare i conti non solo con i dati di necessità, peraltro sotto gli occhi di tutti,  ma anche con il modello culturale che a tutt’oggi la scuola identifica: non vi può essere infatti vero cambiamento, solo invocando un atteggiamento innovativo.

Traiettorie: oltre il Pnsd
(assetti culturali Uomo/tecnologia, Futuro/Innovazione)

Il cambiamento dettato da necessità è cosa nota: nasce da percorsi inaspettati dove l’intuizione spesso non è di un singolo individuo, ma si colloca su un processo più complesso, quasi tortuoso eppure assai concreto. E’ divertente infatti ricordare come un oggetto semplice e consueto come la forchetta rappresenti idealmente il concetto di innovazione connesso alla cultura, in questo caso, come  parte “ di un tessuto tecnologico e sociale, di un’ecologia di altri oggetti ed abitudini”.

Il rapporto tra innovazione e tecnologia è indiscutibile proprio nell’ambito della rivoluzione digitale; ed è proprio qui che si invoca una sorta di “ apertura all’innovazione” che collima con l’idea di “non ignorare le possibili ricadute negative delle innovazioni”. Se quindi il livello generale  di competenza innovativa è diffuso e compartecipato tra chi innova e chi utilizza, il processo che si innesca dovrebbe essere virtuoso pur che vi siano “ risorse culturali adatte a gestire le significative implicazioni ( per esempio, nel ridisegnare drasticamente i concetti stessi di privacy e responsabilità)”.6)

Viene da sé che l’innovazione non si ferma all’artefatto tecnologico – il digitale- appunto: l’innovazione è concetto ampio che sintetizza elementi tra dato tecnico, elementi culturali e socio-politici. Il rapporto Uomo- tecnologia in fin dei conti, induce ad un concetto di innovazione che non deve scadere nell’illusorio: non esiste una neutralità dell’innovazione, che infatti rappresenta un ibrido tra tecnologia, visioni morali e sociali. La sociologia della scienza ci viene in aiuto con la chiara indicazione che anche gli oggetti tecnologicamente più semplici e di uso comune rappresentano in verità dei ”rapporti sociali durevoli”7).

Da qui la necessità di creare una cultura dell’innovazione per comprendere pienamente anche il discorso su un futuro dialogato, dove non si scada nei comportamenti di chiusura al nuovo, ma nemmeno negli atteggiamenti miracolistici ed illusori, che conducono da un retropensiero dove solo “il nuovo è bello”.

La visione della scuola nel Pnsd: scenari possibili, opportunità, sfide

“La scuola è potenzialmente il più grande generatore di domanda di innovazione, e quindi di digitale, ed è in questa ottica che deve essere letto il Piano”.7)

La frase sintetizza le varie anime del Piano nazionale, quella educativa- pedagogica, quella organizzativo-amministrativa e anche quella socio-politica.

Le nuove azioni contemplante lungo tutto il Piano chiedono uno “sforzo collettivo” della “Scuola orientata al futuro” proprio perché “aderente alle esigenze degli studenti”. E’ un impegno della comunità educativa sostenuto dai “stakeholder  per la scuola digitale”. E’ l’intera società dunque che chiede di “dare agli studenti le chiavi di lettura del futuro” attraverso l’approccio al digitale come risorsa. E’ una scuola che non concede nulla alla “supremazia dell’asse tecnologico”, ma sa spostare l’attenzione “all’asse epistemologico e culturale” attraverso un rapporto di “interazione intensiva” tra docente- discente -tecnologia, ma dove il  “rapporto umano” è al centro dell’agire comune.

Il Piano si fa “azione culturale” ed “azione di sistema” per costruire una “nuova idea di Scuola” intesa come “ spazio aperto per l’apprendimento” e naturalmente punta all’innovazione dell’assetto complessivo, anche con idee che sviluppano il senso del “superamento del luogo fisico”.

L’orizzonte innovativo punta ad una “Scuola come piattaforma che metta gli studenti nella condizione di sviluppare COMPETENZE per la vita”. 9)

Per raggiungere lo scenario culturale del Piano e per sostenerlo pienamente cogliendone le opportunità reali, si sviluppa una significativa spinta alla sfida professionale, sia essa individuale che collettiva. Non pare perciò un paradosso che lo stesso Piano declami che “la buona scuola digitale esiste già” ed elenchi pedissequamente tutti gli interventi che il Miur ha tenuto a battesimo dal 2009 in poi, peraltro illustrati nel capitolo 2.1. I finanziamenti per l’innovazione sono certamente importanti per consentire l’azione di divulgazione tecnologia, ma ciò che il Piano sottolinea è la propagabilità delle esperienze “replicabili e sostenibili” destinate alla  costruzione di un”patrimonio di competenze e strumenti e modelli da non perdere”.

Dunque la vera innovazione sta in quel “movimento digitale” che si è sviluppato negli ultimi anni, ora approdato su European schoolnet in piattaforma MOOC 10).

Da lì in poi è stato un susseguirsi di propagazioni che hanno avuto un vertice anche in Avanguardie Educative di INDIRE. 11)
Lo spazio innovativo è libero, al di là di modelli Miur o altre indicazioni di enti di ricerca; un”humus innovativo vero sono le reti, formali informali, costituite da fondazioni o associazioni, reti di scuole o semplicemente comunità di pratiche, online e offline, che costituiscono il vero movimento digitale”. L’innovazione del Piano dovrebbe produrre una sorta di “emersione” del movimento digitale e la produzione di esperienze, modelli  e processi innovativi “dal basso”. 12)

Il “modello Pnsd”: le azioni in campo

Per portare a compimento l’innovazione occorre agire sui finanziamenti, che il Piano dichiara essere in abbondanza e ben distribuiti su azioni chiare e ben definite: ancora una nota di indirizzo allo spirito di innovazione che tende a sostenere l’idea che possa davvero  incominciare il cammino, senza particolari timori di fondo, poiché il sostegno economico è assicurato.

Dall’edilizia scolastica, ai centri di eccellenza con i laboratori territoriali per l’occupabilità, lo scenario è assai vario. Come nota a margine si potrebbe obiettare  che in effetti lo stato attuale dell’edilizia scolastica ben poco ha a che fare con l’innovazione, semmai guarda alle doverose azioni di continua manutenzione e gestione ordinaria e straordinaria, in una ottica di necessità. Si sarebbe portati quasi a pensare  che stona un poco  la brillantezza delle “scuole innovative” o Smartschool, con l’indissolubile leggerezza di certi soffitti che cadono a picco ed inaspettatamente sui banchi. Pur tuttavia l’idea di fondo non stona con l’impianto generale, che chiede eccellenza e capacità progettuale alle scuole, sempre più chiamate ad intercettare fondi ad hoc.

L’azione innovativa del Piano è poderosa: sono 35 le azioni in campo, ma certamente il numero è poco significativo rispetto alla micro- attività che l’assetto innovativo imprime all’organizzazione scolastica.

Cercando di fare un minimo di catalogazione per aree di intervento- lo sguardo è quello dirigenziale- possiamo trovare dunque cinque setting innovativi:
a) ambienti per la didattica integrata come aule “aumentate”-spazi alternativi-laboratori mobili (area didattica);
b) realizzazione di modelli di lavoro in team e di coinvolgimento della comunità e del territorio anche attraverso le tecnologie digitali ( area organizzativa);
c) sostegno ai processi di digitalizzazione della PA e azioni di sistema con attività di alleanze per l’innovazione della scuola (area amministrativa);
d) aumento e ottimizzazione delle dotazioni tecnologiche ( area infrastrutturale).

Bisogna essere sinceri: sconforta un poco questo Piano Nazionale per la Scuola Digitale. La gradualità e l’implementazione programmata vanno quindi prese con l’unica vera risposta sostenibile in un contesto professionale così complesso e per certe versi non privo di controversie: con calma.

Ma in tempi recentissimi, accanto all’ orami noto PNSD ecco spuntare il PNF , Piano Nazionale della Formazione che, incredibilmente, sembra nascere dalla stessa matrice, ma con più concessione alle annotazioni contrattuali.

Meno male: forse ce la facciamo, adesso che abbiamo due Piani da implementare.

Se per esempio mettiamo insieme l’azione 25 del PNSD (#25) leggendola in controluce con il capitolo 2.5 del PNF, e se poi vi innestiamo un Piano Innovativo strategico per l’una e un Atto di Indirizzo del Piano di Formazione di Istituto per l’altra, non potremo che compiacerci di un buon risultato di  sintesi culturale. Il dirigente scolastico digitalizzato, accellerato ed oberato -che a questo punto solo di notte si scopre innovatore e  formatore, ricercatore e studioso, per non togliere risorse e tempo alle emergenze giornaliere- accetterà la sfida per la  reale implementazione nei contesti di vita della sua comunità scolastica? Andiamoci “Piano”.


1)Dirk Van Damme Responsabile della Innovazione e misurazione divisione Progress, Direzione for Education and Skills in http://oecdeducationtoday.blogspot.it/2016/09/can-oecds-data-guide-world-towards_15.html
2)Education at a Glance 2016 del 15 settembre 2916- Regards sur l’éducation 2016
3)http://www3.weforum.org/docs/WEF_New_Vision_for_Education.pdf
a)Foundational Literacies (how students apply core skillsto everyday tasks): Literacy Numeracy Scientific literacy ICT literacy Financial literacyCultural and civic literacy b) Competencies (how students approach complex challenges): Critical thinking/ problem-solving. Creativity Communication Collaboration c) Character Qualities How students approach their changing environment) Curiosity, Initiative, Persistence/grit,Adaptability Leadership, Social and cultural awareness
4) Pnsd.
6) Massimiano Bucchi “ Per un pugno di idee- storie di innovazioni che hanno cambiato la nostra vita” ed Bompiani, 2016
7) H.Molotch “Fenomenologia del tostapane” ed Cortina 2005
8) Pnsd
9) Pnsd
10) http://www.europeanschoolnetacademy.eu
11) http//avanguardieeducative.indire.it
12) Pnsd

Chi ha paura della scienza?

Chi ha paura della scienza?

di Giovanni Fioravanti

Per capire il mondo e il suo universo avremmo bisogno di più scienza, ma non pare che la cultura della conoscenza si muova in questa direzione. Non ci inganni lo sviluppo delle nuove tecnologie, il mondo interconnesso, perché l’orizzonte scientifico è sempre più sfumato, implode l’eccesso di parole mentre la ragione sembra retrocedere dalla mente alla pancia.

È la cultura neoumanistica del pensiero veloce ma sempre più debole, sempre più affrettato che gioca a rimpiattino con la scienza e con la ragione. È la cultura della conversazione sui social network che si alimenta di un umanesimo straccione, di seconda e terza mano, che diffida dei vaccini, che fa del cancro una malattia psicologica, che considera l’HIV un’invenzione speculativa delle industrie farmaceutiche. Una cultura da letteratura, da narrazione d’appendice, da insufficienza mentale e vuoto scientifico.

Del resto siamo nel ventunesimo secolo e ancora non abbiamo risolto il problema della convivenza delle due culture, della cultura scientifica ed umanistica. Creazionismo ed evoluzionismo convivono come se l’uno non escludesse l’altro, come due possibili opzioni che non cambiano il paradigma del mondo, i modi di vivere e di guardare al presente come al futuro, si specula sui mercati, si fanno le guerre ma si crede in dio, meno probabile del fatto che il sole possa non sorgere.

Si fa appello all’etica, al dover essere ma non alla scienza, alla cultura scientifica della ragione e della consapevolezza, anzi si teme che la cultura scientifica possa attentare alla classicità della cultura umanistica, come se la nostra tradizione dovesse tutto ai poeti, ai santi e ai navigatori anziché alla ricerca scientifica e agli scienziati.

L’esperienza ha dimostrato, tanto negli Stati Uniti quanto nelle scuole moderne europee, come sia difficile porre lo studio della scienza sullo stesso piano dello studio della letteratura, dell’arte o della musica. D’altra parte è chiaro a tutti che dalle medie all’università lo studio della scienza e quello della letteratura non hanno sulla mente degli studenti lo stesso effetto.

È proprio questo effetto che si teme, che la scienza possa produrre menti libere, raziocinanti, meno disposte ai miti e alle illusioni. Le manipolazioni che possono produrre le suggestioni della cultura umanistica sono presto smontate dal rigore del pensiero scientifico. La cultura umanistica meglio si presta a un’idea di educazione che voglia forgiare le menti e le persone più che istruirle, renderle autonome, padrone dei processi mentali.

Crediamo di essere cresciuti nelle nostre conquiste democratiche, di essere liberi nell’esercizio dei nostri diritti, ma se le nostre menti non sono libere difficilmente sapremo da che parte sta la democrazia e fare un buon uso delle libertà conquistate.

È una questione di formazione delle generazioni, di partecipazione al patrimonio culturale e se in questo l’irrazionale continua a prevalere sul razionale gli strumenti della conoscenza e della cultura non saranno mai strumenti di libertà e di progresso, come infatti accade.

Basta guardare in casa nostra per scoprire come nel nostro sistema scolastico la scienza continui nella formazione dei nostri giovani a svolgere il ruolo della cenerentola.

Dalle scuole medie alle superiori nell’orario scolastico dei nostri studenti il rapporto tra materie scientifiche e tutte le altre sta mediamente in un rapporto di uno a cinque, un quinto dell’intero orario scolastico, per non parlare degli istituti professionali dove nell’ultimo triennio è uno a dieci, l’insegnamento delle scienze si riduce a due sole ore di matematica alla settimana.

Ciò che più inquieta è lo zelo con il quale il ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca si preoccupa di assicurare dall’eccesso di una eventuale formazione scientifica a scapito di quella umanistica. Basta leggere la presentazione che nel suo sito web il Miur fa del sistema dei licei, dove a proposito del liceo classico si ritiene necessario precisare che “il pensiero scientifico è collocato all’interno di una riflessione umanistica” come se di per sé fosse peccaminoso e per il liceo scientifico si informa che fornisce “una formazione culturale equilibrata nei due versanti umanistico e scientifico”.

La questione dell’educazione scientifica resta quanto mai aperta e soprattutto come potrebbe cambiare la nostra convivenza se anche chi non si dedica alla scienza potesse acquisire una migliore formazione e comprensione della scienza stessa.

Sarebbe come il passaggio dall’astronomia tolemaica a quella copernicana. Come ha scritto Thomas Kuhn, prima della rivoluzione copernicana, il Sole e la Luna erano pianeti, mentre la Terra no; dopo, La Terra era un pianeta, come Marte e Giove, il Sole era una stella e la Luna era un nuovo tipo di corpo, un satellite. Mutamenti simili cambierebbero il modo di percepire il mondo e le sfide che ogni giorno ci attendono.

La vacuità del Piano per la formazione dei docenti 2016-2019

La vacuità del Piano per la formazione dei docenti 2016-2019

di Enrico Maranzana

 

Genericità e inconcludenza sono i caratteri del documento programmatico ministeriale: tante belle parole, tante le necessità elencate ma, al contempo, una visione opaca della funzione educativa della scuola e l’assenza di un’efficace strategia.

Il concetto “competenza” è banalizzato: nessuna attenzione è stata riservata alle specificazioni terminologiche/concettuali contenute all’art. 2 della legge 53/2003 che distingue le competenze generali dalle competenze specifiche. Una negligenza, il sintomo della disattenzione al fondamento della cultura contemporanea: la visione sistemica.

Il documento è stato concepito come se il tempo si fosse fermato agli anni 50 del secolo scorso: le esperienze, le sperimentazioni sono state ignorate, oscurate dalle raccomandazioni europee. Tra tutte si ricorda il progetto ministeriale Mercurio, sintetizzato in “La promozione delle competenze”, consultabile in rete.

A titolo esemplificativo si propone la riscrittura del paragrafo 4.2 – Didattica per competenze, innovazione metodologica e competenze di base.

La scuola è un sistema: le singole componenti non hanno significato proprio; questo deriva dall’interazione sinergica con le altre parti, dalla loro funzionalità rispetto al fine istituzionale.

Le competenze generali, che descrivono i comportamenti che gli studenti devono essere in grado di esibire al termine del percorso, specificano la finalità dei processi formativi; le competenze specifiche esprimono i traguardi della progettazione didattica disciplinare, traguardi da intendere come sottoclasse delle competenze generali.

Questa l’origine del mandato conferito al singolo docente: utilizzare la propria disciplina per indurre gli studenti all’assunzione di comportamenti produttivi. L’art. 2 della citata legge fornisce i riferimenti concettuali/procedurali: “Sviluppare le capacità e le competenze, attraverso conoscenze e abilità, generali e specifiche”.

Ne discende l’iter progettuale delle scuole:

  1. elaborazione e adozione degli indirizzi generali” espressi come competenze generali;
  2. Identificazione delle capacità sottese alle competenze generali e formulazione d’ipotesi per la loro promozione;
  3. messa a punto e gestione di “occasioni d’apprendimento” per promuovere le capacità collegialmente identificate, capacità che traspaiono dalle competenze specifiche.

 

I regolamenti di riordino del 2010 siano d’esempio.

Si consideri quello dei licei:

A conclusione dei percorsi di ogni liceo gli studenti dovranno:

  1. Area metodologica
  • Aver acquisito un metodo di studio autonomo e flessibile, che consenta di condurre ricerche e approfondimenti personali e di continuare in modo efficace i successivi studi superiori e di potersi aggiornare lungo l’intero arco della propria vita.
  • Essere consapevoli delle diversità dei metodi utilizzati dai vari ambiti disciplinari ed essere in grado di valutare i criteri di affidabilità dei risultati in essi raggiunti.
  • Saper compiere le necessarie interconnessioni tra i metodi e i contenuti delle singole discipline.

 

  1. Area logico-argomentativa
  • Saper sostenere una propria tesi e saper ascoltare e valutare criticamente le argomentazioni altrui.
  • Acquisire l’abitudine a ragionare con rigore logico, ad identificare i problemi e a individuare possibili soluzioni.
  • Essere in grado di leggere e interpretare criticamente i contenuti delle diverse forme di comunicazione.
  1. Area linguistica e comunicativa …
  2. Area storico-umanistica …
  3. Area scientifica, matematica e tecnologica …

 

Per raggiungere questi risultati occorre il concorso e la piena valorizzazione di tutti gli aspetti del lavoro scolastico:

  • Lo studio delle discipline in una prospettiva sistematica, storica e critica;
  • La pratica dei metodi di indagine propri dei diversi ambiti disciplinari;
  • L’esercizio di lettura, analisi, traduzione di testi letterari, filosofici, storici, scientifici, saggistici e di interpretazione di opera d’arte;
  • L’uso costante del laboratorio per l’insegnamento delle discipline scientifiche;
  • La pratica dell’argomentazione e del confronto;
  • La cura di una modalità espositiva scritta e orale corretta, pertinente, efficace e personale;
  • L’uso degli strumenti multimediali a supporto dello studio e della ricerca.”

 

Questa la collocazione dell’innovazione metodologica e delle competenze di base.

Profonde e dirompenti sono le derivanti attese.

La nozione “disciplina” è dilatata: non più statico e strutturato compendio di conoscenze ma dinamica spirale che espone il sapere come soluzione di un problema.

Il metodo risolutivo, la strategia che ha prodotto l’arricchimento delle conoscenze disciplinari sono il campo progettuale del docente [in rete “La professionalità dei docenti: un campo inesplorato”] e il laboratorio è il suo campo operativo [In rete “Laboratorio: un’occasione educativa da difendere”].

I problemi che hanno contrassegnato lo sviluppo disciplinare motivano lo studente, il metodo disciplinare promuove le sue competenze, le conclusioni dei processi di ricerca dilatano le sue conoscenze [In rete “Coraggio! Organizziamo le scuole”; “Quale formazione per il dirigente scolastico?”]

La mia didattica laboratoriale

La mia didattica laboratoriale *

di Patricia Tozzi

Il mio progetto di didattica laboratoriale nasce nell’anno scolastico 2003/04, quando a scuola si prefigurava un percorso di autonomia scolastica, di cui al dpr 275/99. Venivo da una scuola di provincia, molto vivace culturalmente e ben organizzata, piena di laboratori tematici che sperimentavano, recuperavano, potenziavano gli apprendimenti degli alunni grazie proprio alle possibilità offerte dall’autonomia, con l’utilizzazione del 15% del curricolo (oggi 20%) senza aggiungere un’ora all’orario degli alunni e dei docenti. Ho quindi pensato, arrivando in questa bella nuova scuola molto più tradizionale, adeguata comunque al suo contesto socio-economico territoriale, di cominciare un percorso di innovazione della didattica, chiamandolo appunto “Tutto a scuola”.

Da allora ogni anno progetto un percorso diverso ma sempre laboratoriale, che prevede una didattica,che io amo chiamare “rovesciata”. Cerco di mettere al centro l’alunno ed il suo apprendimento; le attività sono svolte tutte a scuola senza compiti aggiuntivi oltre l’orario scolastico. Si lavora in gruppo, l’apprendimento è fortemente cooperativo e condiviso e i miei interventi si intrecciano fortemente con l’operatività degli alunni.

L’azione educativa si sposta dall’insegnamento all’apprendimento, cioè al processo del “far apprendere facendo”. Il mio progetto è molto diverso dalle ormai famose FLIPPED CLASSROOM e da tutti quei metodi che prevedono che sia il docente a preparare e mettere on-line il materiale che poi gli alunni debbano studiare a casa. Io non preparo materiali. Conduco un brainstorming iniziale, fornisco brevi spiegazioni, costruisco con gli alunni una mappa concettuale, organizzo l’uso di strumenti e documenti e li guido nella ricerca che dovranno fare.

L’ambiente in cui si opera può essere semplicemente l’aula, se l’attività non richiede particolari attrezzature (ad esempio, per ripetere, correggere, rielaborare), ma può essere qualsiasi laboratorio attrezzato (aula Lim, laboratorio multimediale, laboratorio scientifico, biblioteca ecc.). Il laboratorio diventa così una modalità di lavoro, dentro o fuori da un’ aula, prevede l’uso di Lim, computer, cartelloni colorati da riempire, libri della biblioteca. Nella mia esperienza tutte le ricerche vengono fatte a scuola, nel laboratorio informatico, dove vengono anche letti libri, articoli di giornale, sintetizzati concetti, per cui il confronto fra gli alunni e il docente è continuo. L’approccio ad internet è fortemente controllato, programmato, guidato e procede per gruppi che accedono un quarto d’ora ciascuno secondo regole precise.

Le attività sono decisamente personalizzate, ma anche condivise nel gruppo, consentendo a ciascun allievo di acquisire un metodo di lavoro personale e di utilizzare le sue attitudini e la sua intelligenza. La motivazione, la curiosità, il metodo della ricerca, l’uso di uno stile cognitivo piuttosto che un altro permettono, infatti, agli alunni di costruire un percorso individuale originale, fortemente creativo e personale con conseguente ricaduta straordinaria sull’apprendimento di ciascuno. Questo significa promuovere una didattica laboratoriale.

Nella mia carriera non ho mai dato ricerche da fare a casa: le ritengo inutili, fuorvianti e distraenti; se invece fatte in laboratorio informatico o alla Lim, generano curiosità, motivazione e apprendimento e non sono sicuramente il solito copia-incolla, perché necessitano di rielaborazione e sintesi fortemente controllate a scuola! Il lavoro svolto viene salvato su chiavette usb che rimangono sempre a scuola. Promuovere una didattica laboratoriale significa che tutti gli studenti sono protagonisti. Tutti i prodotti, che sono il risultato di un anno di apprendimento e sui quali sono state condotte verifiche orali e scritte, alla fine dell’anno vengono illustrati ai genitori che possono fare domande, per cui ascoltano e vedono per la prima volta i loro figli parlare di un dato argomento.

I genitori, che non hanno mai visto studiare a casa i propri figli, rimangono strabiliati dalle loro capacità di comunicare, argomentare, confrontare e rielaborare, e soprattutto dalla loro creatività, sintetizzata in power point straordinari o in progetti di ricerca sul territorio elaborati con la statistica e spiegati in quel contesto.

Tutti i lavori svolti a scuola sono diventati:

  • un bellissimo libro di testo, con i contenuti essenziali relativi al programma di quell’anno;
  • un testo divulgativo e creativo,divertente ed originale,sulla storia della matematica e delle scienze;
  • un percorso statistico di ricerca sul territorio.

Questa attività di didattica laboratoriale l’ho pensata anche per motivare gli alunni con particolari difficoltà’. La riorganizzazione della didattica in termini di spazio, tempo, modalità di raggruppamento degli allievi, impiego delle risorse professionali è oggi più che mai necessaria e, secondo me, l’organico dell’autonomia può darci una mano.

In matematica dopo l’inevitabile spiegazione lavorano in gruppi eterogenei, anche fuori dall’aula (se un alunno si assenta, ha un quarto d’ora di recupero della attività svolta nelle lezioni precedenti da parte di un compagno) e questo favorisce il peer-tutoring perché gli alunni più motivati fanno da guida a quelli con intelligenze di tipo diverso. E i risultati sono sempre estremamente positivi.

 

* pubblicato in Tuttoscuolacom – cantiere della didattica

La Costituzione e il salvagente di cemento

LA COSTITUZIONE E IL SALVAGENTE DI CEMENTO

di Vittorio Zedda

 

Attenzione. La nuova formulazione dell’art. 117 della “reformanda” Costituzione Renzi-Boschi pone una serie di vincoli e di condizioni alla potestà legislativa dello Stato. Ovvio il primo : il rispetto della Costituzione. Ci mancherebbe. Non del tutto innovativi e apparentemente logici ,ma meno ovvi, gli altri due, :
1-Il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione Europea
2-Il vincolo derivante dagli obblighi internazionali.
Se si voleva cambiare, su questi due punti c’era molto da fare. E certo non era facile . Vediamo il perché.

Rispetto al primo va chiarito che l’ Europa non è uno Stato e nemmeno un Superstato,né una federazione o una confederazione. E’ un ‘unione sul cui valore e significato giuridico-istituzionale sembra non si sia discusso abbastanza.O forse si è preferito non farlo. C’è l’unione monetaria, c’è una vacillante permeabilità delle frontiere interne ed esterne, ci sono accordi sovranazionali circa il funzionamento degli organi dell’unione, ma non c’è una politica estera comune, né una difesa comune, né tante altre forme e strutture politico- giuridiche tipiche di una forma statuale unitaria o almeno coesa, cui peraltro la UE non corrisponde. Può succedere , ed è successo, che alcuni stati UE entrino in guerra contro qualcuno (vedi il caso Libia), che altri paesi europei si dissocino o si defilino o facciano il minimo possibile per salvare o simulare un’apparente unione. Ma quella guerra ha evidenziato conflitti di interessi fra gli stessi stati membri della UE, e non è cosa da poco per un’ “unione”. Infatti, che unione è questa ? E forse è meglio che non lo sia.

Inoltre la UE non ha una vera e propria Costituzione, ma è solo riuscita faticosamente a formulare un documento propedeutico, detto Trattato Costituzionale che però non riveste, né può rivestire compiutamente, la funzione di Costituzione, e infatti non ne assume la denominazione, in assenza di una vera e propria entità statuale di riferimento. Costituzione di che e di chi e legittimamente formulata ed emanata da chi e su quali basi di diritto ?

Per ancorare una Costituzione nazionale ad un ordinamento costituzione di superiore livello , occorrerebbe almeno che in termini di diritto fossero state istituite e sancite inequivocabilmente sia la “nuova entità statuale politico-territoriale continentale sovranazionale” sia la relativa, e necessaria, Costituzione. Non esistono in modo formale e definitivo né l’una né l’altra, che peraltro dovrebbero essere intimamente legate ed interdipendenti.

Quale connessione giuridica e gerarchica ci può essere fra entità o inconsistenti o indefinite o perlomeno incompiute e imperfette ?
Come porre e anteporre in Costituzione il rispetto di vincoli ad ordinamenti della UE che in termini di diritto ordinamenti veri e propri non sono, ma solo accordi o trattati sovranazionali? Accordi o trattati che poco o nulla hanno a che fare con una vera e propria “ingegneria costituzionale” europea ( il Trattato Costituzionale) che se non definitivamente abortita è quanto meno riferibile tutt’al più ad una incerta gestazione, non ben diagnosticata ?

In questo quadro a quali obblighi internazionali si può fare riferimento , non appare affatto chiaro .Già il termine obblighi suscita perplessità : altro sarebbe parlare di reciproci impegni assunti ,di trattati bilaterali o di quadri di riferimento internazionali meno generici e indefiniti. Certo è che l’UE come entità giuridica appare più un rompicapo che una solida costruzione istituzionale. E infatti tende a perdere pezzi. Ancorarsi ulteriormente e più rigidamente ad una realtà così malamente strutturata ,se non pericolante,e ad una ipotetica futura produzione giuridico-ordinamentale “ de iure condendo”mi sembra quanto meno opinabile. Mancano dati fondamentali di certezza. E l’impressione che mi dà, fa rabbrividire : è come gettare ad un naufrago (l’Italia) un salvagente di cemento armato. Pensiamoci bene.

Un atto di indirizzo senza direzione

Un atto di indirizzo senza direzione

di Giovanni Fioravanti

 

Sperare che l’atto di indirizzo sulle priorità politiche per il 2017 del MIUR contenesse elementi di ravvedimento forse era troppo. Ma inquieta che si possa continuare a parlare di sistema formativo nel nostro paese senza avere uno sfondo ed un orizzonte di riferimento.

Pare che i tempi in cui si lamentava la distanza della scuola dalla società non siano poi nei fatti mai tramontati. Nell’atto di indirizzo mancano due soggetti che oggi dovrebbero costituire le premesse di ogni discorso sulla formazione e la riforma del nostro sistema di studi, vale a dire l’istruzione permanente e il territorio. Sembrano i convitati di pietra che si ha timore ad evocare, perché se questi non divengono le chiavi di volta della formazione difficilmente si può parlare di riforma del sistema scolastico oggi.

Siamo in Europa e nonostante i documenti, le prese di posizioni dalla Lisbona del 2000 agli obiettivi per il 2020, nel nostro paese non si riesce a fare dell’istruzione permanente l’asse portante intorno al quale rivedere il nostro sistema della formazione. Il Miur la ignora, come ignora l’apporto dell’apprendimento informale e non formale. Pare che il tempo per la nostra scuola si sia fermato, che al di fuori delle aule scolastiche non esista istruzione, formazione, sapere, che quell’immenso bacino di conoscenza che è la rete di internet esista solo se ricondotto nell’alveo degli istituti scolastici attraverso i programmi per il digitale.

Si apprende dalla culla alla tomba, ma con questo non ci si confronta, la realtà dell’apprendimento è solo scolastica, per cui va bene la tradizionale scansione dello studio per classi e per età, per corsi e gradi di studio, tutto il resto non esiste, se esiste continua a non riguardare il nostro sistema scolastico, che è sistema tendenzialmente solitario, a se stante, scuola-centrico.

Ma se non si riconosce che si può apprendere anche al di fuori della scuola, si rischia di sprecare risorse anziché massimizzarle, si rischia di non dare risposte adeguate al disagio che produce i precoci abbandoni scolastici di cui il nostro paese è campione, si continua a lasciare fuori dal circuito scolastico chi vi potrebbe rientrare se vedesse riconosciute in modo compiuto le esperienze di apprendimento non formale e in formale, come l’Europa ci chiede e il nostro paese si era impegnato a fare con la legge Fornero del 2012.

Ma di tutto questo non c’è tratta nell’atto di indirizzo del ministero ricco più di auspici che della capacità di guardarsi intorno, di fare i conti con una realtà che ha profondamento cambiato i modi e i luoghi dell’apprendimento, in cui cultura e saperi sono diffusi come mai nel passato, tanto che l’Unesco ha un sito dedicato alla rete delle learning cities, delle città che apprendono. Con questa realtà di apprendimento diffuso come dialoga la scuola, come cambia se stessa? Non è dato di sapere, perché questa realtà dagli indirizzi ministeriali è semplicemente oscurata.

Dagli indirizzi del Miur sono scomparse anche le scuole aperte, non se ne parla come impegno per il 2017. Eppure quelle scuole aperte offrivano uno spiraglio al territorio, grande escluso di questi indirizzi. Non territorio da usare solamente per le opportunità che offre ma da integrare, nella vecchia idea che ormai pare abbandonata di integrazione scuola-territorio, di cui nessuno ormai parla più.

Se l’istruzione è permanente il territorio è il luogo dove essa abita, perché il territorio è un grande bacino di apprendimenti non formali e informali che chiedono di integrarsi ai curricoli scolastici, che chiedono non solo di essere occasioni, ma anche di essere riconosciuti nel portfolio di ogni alunno, nella somma dei suoi crediti. Ma questa è ancora la scuola del faccio tutto io, tutto deve avvenire all’interno del mio grande corpo per essere riconosciuto, dalle discipline come l’educazione motoria, la musica, l’arte che meglio sarebbero sviluppate se svolte negli spazi ad esse propriamente dedicati sul territorio, dai centri sportivi ai laboratori musicali ed artistici, fino alla educazione alla legalità, alla lotta alle dipendenze dalla droga e dall’alcool e altro ancora.

Se non si mettono insieme istruzione permanente e territorio è assai difficile oggi ripensare la scuola ed ogni sua riforma sarà sempre e solo autoreferenziale, fuori dal tempo. Le scuole aperte saranno tali solo per prolungare la permanenza dei loro alunni negli spazi scolastici, ma non certo per allargarne gli orizzonti, i luoghi dell’apprendimento, del conoscere e del sapere oltre l’angustia delle classi e delle aule scolastiche.

Istruzione permanente e territorio sono sacrificati al grande Moloch che è il nostro sistema scolastico, ipertrofico e invecchiato, fagocitato dal cortocircuito del reclutamento del suo personale. Una scuola che al di là dell’intenzioni resta culturalmente chiusa al nuovo che si agita intorno e che i responsabili politici per primi continuano a non saper vedere.

Una scuola d’insieme o un semplice insieme di scuole?

Una scuola d’insieme o un semplice insieme di scuole?

di Stefano Stefanel

 

L’emanazione da parte del MIUR del Piano Nazionale di Formazione ha portato in evidenza una serie di questioni rese improvvisamente centrali anche per le inedite cifre collegate a questo Piano. Come sempre sta avvenendo in questi tempi poiché la contestazione della piazza è modesta e debole e l’arma dello sciopero molto spuntata l’interdizione si è spostata verso l’ambito giuridico, con l’appello a decreti da emanare, cavilli da evidenziare, attacchi al verticismo per essersi il Ministero permesso di declinare ciò che dovrebbe essere ovvio e cioè una formazione nazionale dei formatori.

Non sembra che le contestazioni possano però modificare l’azione ministeriale che ha già calendarizzato tre incontri nazionali con i dirigenti delle scuole Polo della formazione di ambito (capofila di reti di ambito) che richiedono una riflessione non strettamente giuridica. Improvvisamente si è preso atto che l’accelerazione di giugno sulle Reti di ambito e la loro costituzione estiva non poteva attendere i tempi dei tutt’altro che entusiasti Uffici Scolastici Regionali e che in fretta bisognava creare una governance di un segmento fondamentale della scuola attuale.

La legge 107/2015 era stata piuttosto chiara in merito, ma si sa che la scuola italiana non sempre prende sul serio leggi che non sono seguite da una carovana di circolari, note, accordi sindacali, conferenze di servizio e via enumerando. Rimangono i due commi centrali della legge in sé estremamente precisi:

“71. Gli accordi di rete individuano:

  1. i criteri e le modalità per l’utilizzo dei docenti nella rete, nel rispetto delle disposizioni legislative vigenti in materia di non discriminazione sul luogo di lavoro, nonché di assistenza e di integrazione sociale delle persone con disabilità, anche per insegnamenti opzionali, specialistici, di coordinamento e di progettazione funzionali ai piani triennali dell’offerta formativa di più istituzioni scolastiche inserite nella rete;
  2. i piani di formazione del personale scolastico;
  3. le risorse da destinare alla rete per il perseguimento delle proprie finalità;
  4. le forme e le modalità per la trasparenza e la pubblicità delle decisioni e dei rendiconti delle attività svolte.

“72. Al fine di razionalizzare gli adempimenti amministrativi a carico delle istituzioni scolastiche, l’istruttoria sugli atti relativi a cessazioni dal servizio, pratiche in materia di contributi e pensioni, progressioni e ricostruzioni di carriera, trattamento di fine rapporto del personale della scuola, nonché sugli ulteriori atti non strettamente connessi alla gestione della singola istituzione scolastica, può essere svolta dalla rete di scuole in base a specifici accordi.”

Il comma 71 individua compiti e obblighi, il comma 72 individua possibilità.

 

PER GOVERNARE BISOGNA DARSI UNA FORMA DI GOVERNO

Le Reti di Ambito non sono Reti di scopo e per questo sono state e sono contestate (quelle di scopo continuano a piacere, anche se spesso sono solo un accordo cartaceo per accedere a finanziamenti). Addirittura alcuni (molto pochi mi risulta) Consigli d’Istituto hanno bocciato l’adesione alla Rete di Ambito e sarà interessante vedere come la prenderanno i docenti di quelle scuole non ammessi alle attività formative della Rete di ambito. La legge, infatti, parla di attività di Rete e non di Ambito e quindi la Rete progetta solo attività per le scuole aderenti. Probabilmente gli interessati ci faranno sapere o approveranno in fretta l’ingresso nella Rete di Ambito. Al di là dello scetticismo e delle contestazioni. poiché il tempo passato dalla nota del 7 giugno del Miur ad oggi è stato dedicato più a prendere tempo che a studiare l’argomento, è necessario che le Reti di Ambito si diano una vera “forma di governo”, come l’Accordo quadro proposto dal Miur proprio questo indica con chiarezza.

Le prime fasi del governo della Rete di Ambito (che non ha uno scopo diretto ma dei compiti istituzionali e delle potenzialità) credo debbano essere dedicate a creare una struttura regolamentare sul funzionamento della Rete stessa. Elenco di seguito quelli che a mio modo di vedere sono i punti cruciali da affrontare:

a) REGOLAMENTO DELLA RETE. E’ necessario definire attraverso un Regolamento approvato all’unanimità il funzionamento ordinario e straordinario della Rete soprattutto in riferimento alle seguenti questioni:

  1. tempistica e modalità delle convocazioni
  2. possibilità di attivare un cloud o un link e una newsletter sul sito di un Istituto della Rete in cui inserire comunicazioni e decisioni
  3. modalità sulle decisioni e deliberazioni di Rete (il modello di accordo proposto dal Miur richiama le conferenze di servizio previste dalle legge 241/90: questa modalità prevede l’unanimità e quindi il diritto di veto). Se si mantiene per tutte le decisioni quanto previsto dall’Accordo di rete è necessario stabilire come votano gli assenti o se l’unanimità si intende per i presenti. In caso invece di voto a maggioranza andrebbe definita la maggioranza vista la presenza nella rete di ordini di scuola differenti e anche di scuole con dimensioni differente
  4. decisione sulla divisione dei compiti in forma tematica o strutturale, soprattutto in riferimento alla gestione e organizzazione dei corsi di formazione
  5. decisione sulle modalità di delega e sui poteri decisionali dei delegati.

b) CABINA DI REGIA FORMATIVA.E’ necessario prevedere una “cabina di regia” per la formazione con uno o più Comitati scientifici per definire le tipologie dei corsi, i relatori, ecc. e trasmettere quindi alla scuola capofila solo il quadro finale completo per definire la parte amministrativa. Anche in questo caso è importante decidere se attivare strutture tematiche che decadono con la realizzazione del compito o strutture fisse (annuali o triennali).

c) PIANO DELLE ATTIVITA’ DELLA RETE. Va definito un Piano di attività della rete (riunioni, obiettivi, tempistiche) in modo che l’azione di coordinamento si svolga dentro un piano di lavoro condiviso. Inoltre va deciso se la rete si occupa anche di sicurezza, privacy, rapporti con gli enti locali, rapporti con le Università,.rapporti con le Asl e gli Enti assistenziali del territorio,ecc.

d) AMMINISTRAZIONE. La Rete deve decidere se intervenire sul settore amministrativo o attendere ulteriori sviluppi. Nel primo caso vanno organizzati incontri con Dsga e assistenti amministrativi e avviato un processo che sarà certamente lungo, fatico e ostacolato (da sindacati, personale, ecc.), nel secondo caso bisogna individuare come gestire amministrativamente le sole incombenze istituzionali.

e). RAPPORTI CON LE RETI DI SCOPO. La Rete di Ambito si troverà a convivere con molte Reti di scopo progettuali. Anche in questo settore è importante decidere se attivare forme di supporto progettuale di Rete o lasciare la situazione come ora. Inoltre è importante definire quando e come la Rete di Ambito si deve candidare per progetti nazionali o locali.

 

SCUOLA D’INSIEME O INSIEME DI SCUOLE?

Le decisioni preliminari che ogni Rete di Ambito prenderà condizioneranno il suo futuro di medio termine, indipendentemente da come il Miur interverrà in rapporto alle materie del comma 71 (organici in primo luogo). La decisione che deve essere presa è cioè quella relativa alla gestione di area del sistema scolastico e alle sue modalità progettuali e cooperative. Se. Infatti, si pensa di essere i “furbi” dentro una comunità di “gonzi” e si scambia la Rete di Ambito per il luogo attraverso cui acquisire vantaggi per la propria scuola anche a scapito delle altre ci si deve rassegnare a convivere con un sistema che non funziona e che produrrà solo liti e contenziosi.

L’occasione è invece quella di comprendere come la Rete di Ambito può diventare l’elemento di gestione di tutta la progettualità dell’Ambito: se infatti la Rete di Ambito acquisisce fondi progettuali poi può agire anche sul personale della Rete e in questo modo aumentano le competenze diffuse. La possibilità è quella di creare un sistema locale di competenze che supporti tutto l’Ambito sia a livello amministrativo sia a livello didattico-educativo, con una ricaduta positiva sul sistema locale dell’istruzione.

La microprogettualità che tanto piace alle scuole può essere assorbita da una macroprogettualità di Ambito che riuscirebbe sia a livello di risorse sia a livello di personale ad essere molto più potente, ma ciò può avvenire solo se l’idea cooperativa soppianta quella atomico-formalista per cui ogni scuola ha una sua idea e la inserisce dentro una sua burocrazia. Non è possibile che le Reti di Ambito assorbano tutto ciò che viene dai PTOF e dalla burocrazia di ogni Istituto: è fondamentale che si creino sistemi di collaborazione e di amministrazione nuovi.

Le Reti di Ambito possono portare ad una modifica della progettazione con supporti forti ad esempio ai Progetti PON (ufficio di Ambito per tutte le scuole) al PNSD (ufficio di Ambito per la gestione anche tecnica con il supporto dunque agli Istituti comprensivi) e a tutta la progettualità diffusa e disgregata. Bisogna agire per strategie e governo, ma l’impostazione d’avvio dirà se le scuole vogliono formare un insieme o soltanto essere costrette a stare insieme.

La scuola a prova di privacy

La scuola a prova di privacy
La nuova guida del Garante per la protezione dei dati personali, per “insegnare la privacy e rispettarla a scuola

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http://www.garanteprivacy.it/scuola

Si possono pubblicare sui social media le fotografie scattate durante le recite scolastiche? Le lezioni possono essere registrate? Come si possono prevenire fenomeni come il cyberbullismo o il sexting? Quali accortezze adottare nel pubblicare le graduatorie del personale scolastico? Ci sono cautele specifiche per la fornitura del servizio mensa o per la gestione del “curriculum dello studente”?

A queste e a tante altre domande risponde “La scuola a prova di privacy”, la nuova guida del Garante per la protezione dei dati personali. L’obiettivo è quello di aiutare  studenti, famiglie, professori e la stessa amministrazione scolastica a muoversi agevolmente nel mondo della protezione dei dati.

Le scuole sono chiamate ogni giorno ad affrontare la sfida più difficile, quella di educare le nuove generazioni non solo alla conoscenza di nozioni basilari e alla trasmissione del sapere, ma soprattutto al rispetto dei valori fondanti di una società. Nell’era di internet e in presenza di nuove forme di comunicazionee condivisione questo compito diventa ancora più cruciale – sottolinea il Presidente dell’Autorità, Antonello Soro. “E’ importante – continua Soro – riaffermare quotidianamente, anche in ambito scolastico, quei principi di civiltà, come la riservatezza e la dignità della persona, che devono sempre essere al centro della formazione di ogni cittadino”.

La guida – che si apre all’insegna dell’ “insegnare la privacy, rispettarla a scuola” –  raccoglie i casi affrontati dal Garante con maggiore frequenza, al fine di offrire elementi di riflessione e indicazioni  per i tanti quesiti che vengono posti dalle famiglie e dalle istituzioni: da come trattare correttamente i dati personali degli studenti (in particolare quelli sensibili, come condizioni di salute o convinzioni religiose) a quali regole seguire per pubblicare dati sul sito della scuola o per comunicarli alle famiglie; da come usare correttamente tablet e smartphone nelle aule scolastiche a quali cautele adottare per i dati  degli allievi con disturbi di apprendimento.

Il vademecum dedica inoltre particolare attenzione alla “scuola 2.0” e al corretto uso delle nuove tecnologie, al fine di prevenire atti di cyberbullismo o altri episodi che possano segnare negativamente la vita dei più giovani.

Per facilitarne la consultazione, la guida è articolata in cinque brevi capitoli (Regole generaliVita dello studente; Mondo connesso e nuove tecnologie; Pubblicazione on line; Videosorveglianza e altri casi) che riportano regole ed esempi, e in due sezioni “di servizio” (Parole chiave; Appendice – per approfondire) utili per comprendere meglio la specifica terminologia utilizzata nella normativa sulla privacy e per avere un sintetico quadro giuridico di riferimento.

L’opuscolo verrà inviato in formato digitale a tutte le scuole pubbliche e private e potrà essere richiesto in formato cartaceo al Garante per la protezione dei dati personali all’indirizzo ufficiostampa@garanteprivacy.it oppure scaricato direttamente dal sito dell’Autorità www.garanteprivacy.it.


lettera-presidente-soro-a-dirigente-scolastico-10_11_2016

 

La sera del 3 novembre 1966, a Firenze

La sera del 3 novembre 1966, a Firenze

di Vittorio Zedda

 

Passavo in autostrada in prossimità di Firenze,diretto a Lucca,quella sera. Avevo percorso l’autostrada Bologna – Firenze sotto il più pauroso nubifragio che io a tutt’oggi ricordi . Sul tratto appenninico l’acqua scorreva a fiumi, scendeva limacciosa lungo il pendio dei monti,grondava sull’autostrada e l’attraversava,cadendo a cascata dai viadotti , nel vuoto sottostante. La visibilità era scarsissima più per l’intensità della pioggia che per la fine del giorno. L’asfalto era viscido,scivoloso , percorso da acqua e melma. Su tutta l’autostrada c’erano auto e camion fermi, messi di traverso, persino sullo spartitraffico erboso, che allora c’era, a tratti. Molti si fermavano, evidentemente in preda al panico, non potendo vedere dove andavano a finire, non fidandosi di procedere nell’acqua limacciosa. Io invece non mi fermai. Pensavo : qui chi si ferma è perduto. Dovevo andare avanti, dovevo togliermi da quella situazione. Alla luce dei fari ,stetti alla guida non so quante ore,passando adagio a zig-zag, tra veicoli fermi, sotto il diluvio, col naso incollato al parabrezza cercando di vedere qualcosa. O almeno di indovinare. I raccordi autostradali mi evitarono l’ingresso a Firenze, dove avrei potuto anche fermarmi per una sosta, ma non volevo far stare in ansia chi mi aspettava. All’epoca i telefonini cellulari non esistevano .Arrivai a Lucca, dalle zie preoccupatissime, ad ora tarda, e raccontai. La mattina dopo la radiosveglia mi destò . Trasmetteva un appello : “ Si invita la popolazione a non uscire dalle case. Si stanno organizzando i soccorsi …” Non ci voleva molto a capire cos’era successo. Metà Toscana era sott’acqua e Firenze era stata sconvolta dal fiume in piena. Molte vie di comunicazione erano rimaste interrotte. Dovetti restare a Lucca qualche giorno, prima di rientrare a Milano.Ritornai a Firenze pochi mesi dopo, a Pasqua. Volevo vedere coi miei occhi quel che la televisione in bianco e nero aveva per mesi mostrato. Del rischio che avevo corso mi dimenticai, quando vidi Firenze, com’era.
Ho ritrovato un breve articolo ,scritto e pubblicato 50 anni fa, sulla rivista “L’Educatore italiano” – Fratelli Fabbri Editori, inserto geografico “ Toscana”. Allora scrivevo per il settore scolastico e divulgativo di quella casa editrice.
Rileggendo ora quell’articolo, mi è venuto da pensare ai cosiddetti cambiamenti climatici, che forse non sono cambiamenti,data la loro secolare ricorrenza, ma fenomeni meteorologici ciclici , la cui gravità tende però ad accentuarsi in modo più che preoccupante .Riporto sotto l’articolo.


alluvione_di_firenze_07Alluvioni a Firenze

Firenze : Pasqua 1967. In piazza del Duomo assisto al tradizionale “scoppio del carro”.La “colombina” esce sibilando dal grande portale del Duomo ed il carro è scosso da una serie di esplosioni.
Lo scoppio è andato benone e ciò significa che l’annata sarà buona. Vedo attorno facce allegre e ascolto i commenti della gente : parole piene di speranza,di augurio,battute argute com’é nel costume di questo popolo che non si lascia demoralizzare nemmeno dalle peggiori sciagure. Infatti la città,che sembrava irrimediabilmente devastata dall’alluvione,sta per risorgere. Le strade,le piazze e i palazzi mostrano ancora i segni terribili che l’acqua dell’Arno vi lasciò il 4 novembre scorso,ma l’anima di Firenze , lieta e operosa,non pare scalfita dalla tragedia.
– Che vuole, – mi dice un fiorentino – i fiumi sono come i bambini. Certe volte non sanno trattenersi. – C’è nella sua voce il tono bonario e senza rancore di un padre che giustifica le marachelle del figlio. Lo guardo con ammirazione. Sento una profonda stima per lui e per tutti i suoi concittadini che stanno rimettendo in piedi Firenze.
Ma la tragedia è ancora recente. Giro per le vie,guardo sui muri,macchiati e scrostati dall’acqua,quella striscia nera che segna a lutto tutte le case. Fu la nafta (allora utilizzata per gli impianti di riscaldamento,n.d.a.) a lasciare quel segno; durante l’alluvione,galleggiando,la nafta segnò con un’untuosa linea nera il livello raggiunto dall’acqua. In alcuni punti della città sono già comparse alcune targhette murate sulle case. C’è scritto : “Fin qui l’acqua dell’Arno il 4 novembre 1966”. Ma quella striscia di nafta è più eloquente di qualsiasi targhetta. Con il tempo le facciate di palazzi e monumenti verranno ripulite e le nuove targhette resteranno un ricordo accanto ad altre vecchie iscrizioni di marmo, ferro o pietra che vari secoli fa furono apposte su alcune case di Firenze. Vicino a Santa Croce ce n’è una che dice : “ A dì 13 settembre 1557 arrivò l’acqua d’Arno a quest’altezza”. Sono tre metri e mezzo dal suolo. Il 4 novembre 1966 l’acqua arrivò a metri 4,45. Un anziano signore mi dice :” Da ragazzo non volevo credere a mio nonno quando raccontava che un anno, ai suoi tempi, in via Maggio s’andava in barca”. Allude all’alluvione del 1844, che è poi quella cui si riferiscono le iscrizioni più recenti. Era il 3 novembre di quell’anno. Una coincidenza casuale di date? Non direi. Il 4 novembre 1333, il 15 novembre 1544,il 3 novembre 1579 Firenze finì sott’acqua in maniera più o meno disastrosa. Secondo le cronache , le alluvioni dall’anno 1177 in poi (fino al 1966,n.d.a.) furono 56, delle quali 32 gravi. Quasi tutte in periodo autunnale. Eppure anche il 4 novembre 1966 i fiorentini si sono fatti cogliere di sorpresa : 122 anni erano passati dall’ultima volta che l’Arno s’era messo a correre per le vie della città.