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Una proposta di lettura della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia

Una proposta di lettura della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia mediante locuzioni in inglese, dall’holding al rebirthing

di Margherita Marzario

Abstract: L’Autrice scava nella profondità delle parole usate dagli estensori dello strumento normativo internazionale per farne scaturire, come da sorgente, tutti i significati (anche in lingua inglese) che ne dicono l’importanza a tutela dell’infanzia

 

Per “far conoscere diffusamente i principi e le norme della Convenzione” (art. 42) e “promuovere l’effettiva applicazione della Convenzione” (art. 45) Internazionale sui Diritti dell’Infanzia del 1989, per puntualizzarla ed anche vivificarla in nuovi contesti sarebbe interessante leggerla mutuando, in maniera atecnica, locuzioni inglesi usate nelle scienze umane o in altri ambiti per dare pure un nuovo significato a queste espressioni, spesso abusate o vanificate.

“[…] il fanciullo per il pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione” (dal Preambolo della Convenzione); mentre nell’art. 6 della Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo del 1959 si legge “[…] un’atmosfera d’affetto e di sicurezza materiale e morale”. La Convenzione ha allargato il concetto per far intendere che si deve circondare il bambino di situazioni positive, feconde di vita (qual è il vero significato di felicità). Il bambino ha bisogno di affettività, che non è l’ipoaffettività o disaffettività che spesso caratterizzava la famiglia del passato, prevalentemente normativa, ma non è nemmeno l’iperaffettività della famiglia attuale che rischia di portare all’anaffettività. Il bambino ha bisogno di “holding” (letteralmente “contenimento, sostegno”), teoria elaborata per la prima volta dal pediatra e psicoanalista inglese Donald W. Winnicott (1896-1971), per definire il ruolo della madre (o, più in generale, della figura significativa che si prende cura del bambino, “caregiver”) di fungere da contenitore delle angosce del bambino, di costituire una sorta di spazio fisico ma soprattutto psichico (“holding environment”) in cui il bambino si sente accolto, sostenuto, rassicurato, incoraggiato nelle prime espressioni di sé. All’“holding” si aggiungono l’“handling” e l’“object presenting”. Con il termine “handling” ci si riferisce all’insieme delle manipolazioni corporee materne così come i giochi corporei e gli atti affettivi (dalle carezze al “mangiucchiare” i piedini e il pancino). Il senso dell’“handling”, toccare, che evoca quello giuridico di “mantenere” (da “tenere per mano”) i figli, bandisce il manipolare psicologicamente o tiranneggiare i figli, soprattutto durante le crisi di coppia. Per “object presenting” si intende la capacità materna di rendere disponibile al bambino l’oggetto nell’esatto momento in cui ne ha bisogno, né troppo presto né troppo tardi. Tra il giusto contatto e il giusto distacco si contribuisce alla formazione del sentimento e della volontà del bambino: è questo uno dei significati di “crescere”. L’“holding” è diventata poi terapia, la cosiddetta “terapia dell’abbraccio”, elaborata e sviluppata negli anni’80 da Marta Welch negli USA e usata soprattutto per l’autismo e psicosi infantili. “Abbracciare” significa tendere le braccia, circondare con le braccia, ma non sostituirsi all’altro o soffocarlo; quindi genitori e adulti devono rispettare l’individualità e la personalità dei bambini. “Il figlio è come un puledro il cui addestratore fa girare all’interno della staccionata dandogli più o meno corda; quindi è il puledro che corre al comando dell’addestratore e non quest’ultimo che corre appresso al puledro” (don Antonio Mazzi[1]). “La famiglia di origine, mentre dà protezione e sicurezza, dovrebbe aiutare i figli a maturare. Dovrebbe buttarli nella vita. Compito difficile, per i genitori, il taglio definitivo del cordone ombelicale e altrettanto difficile l’impresa dei figli di lasciare il padre e la madre” (Valentino Salvoldi, teologo e scrittore).

Tutto nel rispetto del “timing” (vocabolo inglese con più significati da “calcolo del tempo” a “sincronizzazione”; in psicologia s’intende la successione temporale di un fenomeno psichico o comportamentale) del bambino, ossia “in modo consono alle sue capacità evolutive” (artt. 5 e 14 Convenzione), “in relazione alla sua età ed al suo grado di maturità” (art. 12 Convenzione), “in particolare in ragione della sua età o condizione” (art. 40 Convenzione). Il bambino ha diritto al suo tempo e ai suoi tempi (aspetto che sembra scontato ma è sempre più trascurato), non perché sia immaturo ma perché è un bambino, una persona che va maturando e che deve vivere le tappe ed ogni tappa della sua vita per maturare (la cui radice semantica “ma“ significa proprio “misurare”) altrimenti rischia di diventare un immaturo cresciuto solo anagraficamente: non si può pretendere che il germoglio porti già i frutti dell’albero. Nel Preambolo della Dichiarazione del 1959 si prescrive: “Considerato che il bambino, a causa della sua immaturità fisica e intellettuale, ha bisogno di una particolare protezione e di cure speciali compresa una adeguata protezione giuridica, sia prima che dopo la nascita” (capoverso riportato nel Preambolo della Convenzione del 1989 come linea di continuità dell’impegno internazionale a tutela dell’infanzia). Delineata in tal modo sembra che l’infanzia sia uno stadio da minorati, invece è la fase fondamentale e fondante della vita tanto che continuando a leggere il Preambolo della Convenzione si trova “[…] che occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società”. Per cui occorre non solo circondare di positività il bambino ma anche abituarlo al “coping” (letteralmente “fronteggiamento”), capacità reattiva di fronte alle situazioni stressanti, alle negatività così lo si prepara appieno ad avere una vita individuale (letteralmente “indivisibile, inseparabile”) nella società, in mezzo agli altri e con gli altri.

Una delle più rilevanti novità della Convenzione rispetto alla Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo del 1959 è stata quella di aver introdotto l’attenzione al “benessere” del fanciullo sin dal Preambolo. Mentre nell’art. 4 della Dichiarazione del 1959 si diceva “[…] devono essere assicurate a lui e alla madre le cure mediche e la protezione sociale adeguata”, nell’art. 3 della Convenzione si legge “[…] assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere”, quel benessere che, successivamente, nell’art. 17 è definito “sociale, spirituale e morale”. Adulti e bambini devono “com-prendere” che il “focus” (centro, a cosa prestare particolare attenzione) della vita non è il successo o l’avere cose esteriori ma il “ben-essere”, in altre parole devono imparare a fare “focusing” (“focalizzazione”; tecnica sorta negli anni ’70 ad opera dello psicoterapeuta Eugene T. Gendlin), fare attenzione alla percezione corporea, mettere a fuoco le sensazioni cariche di significato con le quali il corpo riassume continuamente ogni vissuto, accoglierle e tradurle in informazioni comprensibili e utili per la vita. I bambini sono dei focalizzatori naturali, poiché essere in rapporto col corpo e con i suoi messaggi è un’abilità innata nell’essere umano; hanno solo bisogno di un po’ di aiuto da parte di adulti, che sanno come fare, per fidarsi di quello che sentono. La dimensione corporea interiore (in gergo “felt sense”) diviene così fonte di vero benessere.

Nell’art. 5 della Convenzione si richiamano le responsabilità, i diritti ed i doveri di tutti gli adulti, dai genitori all’intera comunità. È questo il senso da dare alla cogenitorialità o al “co-parenting” e non, riferendosi a quest’ultimo, concepire e crescere un figlio senza essere una coppia legata sentimentalmente. Cogenitorialità che si esprime in “counseling” (relazione d’aiuto che consiste nell’accompagnare l’altro verso le proprie scelte autonome), nell’impartire al fanciullo l’orientamento e i consigli (etimologicamente “saltare insieme” o “fare silenzio insieme”) necessari all’esercizio dei suoi diritti.

L’art. 12 della Convenzione è noto per aver riconosciuto il diritto all’ascolto dei bambini trascurando, però, il dovere dell’ascolto e l’educazione all’ascolto. L’ascolto stesso è un procedimento, “audit” o “auditing” (termine inglese usato in vari settori e derivante dal verbo latino “audire” che aveva vari significati, da “sentire” a “interrogare”), in cui si rivede se stessi, ci si confronta, così si forma veramente un’opinione (da “giungere con la mente” e, pertanto, frutto di un processo interiore) e la si può esprimere liberamente e in qualsiasi materia.

Nel cuore dell’elenco dei diritti positivi dei bambini, nell’art. 14 par. 1 della Convenzione si prescrive che “Gli Stati parti devono rispettare il diritto del fanciullo alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”. È l’unico articolo che esordisce in tal modo: è un vero progetto di vita, è il progetto-persona. “Pensiero” (da “pesare con cura”), “coscienza” (da “sapere con, insieme, per mezzo”, quindi essere presenti a se stessi), “religione” (in latino “scrupolosità, considerazione, cura riguardosa”): ben lungi dai concetti di “facoltà” e “giudizio personale” espressi nell’art. 7 della Dichiarazione del 1959. È necessario avviare il bambino alla “mindfulness” (“consapevolezza, presenza mentale”), il cui ideogramma cinese con due caratteri diversi indica l’atto di vivere il momento presente con il cuore. Secondo la definizione, data nel 1994, dallo studioso statunitense Jon Kabat-Zinn, “mindfulness” significa “porre attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante”. Si tratta di pre-occuparsi dello sviluppo mentale del bambino, richiamato negli articoli 27 e 32 della Convenzione (l’aggettivo mentale compare anche negli artt. 17, 19, 24, 25), come già nell’impostazione dell’antico ginnasio greco (“ginnasio” etimologicamente “esercizio della persona”) e secondo il notissimo apoftegma di Giovenale “mens sana in corpore sano”; “mente” deriva dalla radice semantica “ma” da cui hanno avuto origine molte altre parole come memoria, misura, madre, materia, matematica, perché la mente indica tutte queste facoltà, da quella razionale a quella creativa, per questo l’estensore della Convenzione ha preferito l’aggettivo “mentale” ad “intellettuale”, usato nell’art. 2 della Dichiarazione del 1959. Fra tutte le facoltà, una delle più importanti è la memoria, da non trascurare in un’epoca in cui si tende a resettare e cestinare tutto. La memoria concorre alla consapevolezza di sé e dell’altro da sé. “La memoria è la più preziosa esperienza intrapsichica che ci sia dato sperimentare ma ha bisogno di essere costantemente confermata dalle nostre scelte e dai nostri gesti perché altrimenti passa come acqua su una lastra, senza lasciare traccia. Il problema è creare una carta assorbente, noi stessi, che si intrida di ricordi. Qui entra in gioco la pedagogia della memoria in famiglia, che richiede fatica e attenzione ma che, in prospettiva, dà i suoi frutti” (Duccio Demetrio, docente di filosofia dell’educazione e della narrazione). Data la rilevanza di tutto ciò, “Gli Stati parti devono rispettare il diritto e il dovere dei genitori o, all’occorrenza, dei tutori, di guidare il fanciullo nell’esercizio del diritto sopra menzionato” (art. 14 par. 2 Convenzione). I genitori e le altre figure significative devono essere capaci di “coaching” (da “allenare, dare ripetizioni”), cioè devono accompagnare e motivare verso un determinato risultato. Per fare ciò è necessario, però, che loro vi siano già arrivati, che siano veramente adulti, che siano “cresciuti negli anni e nella persona, quanto basta per avere intelletto e discernimento”, quell’adultità che spesso latita soprattutto in libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Colui che guida un autoveicolo deve avere la patente di guida, conosce il mezzo, chi o cosa trasporta, la strada e la destinazione: così dovrebbe essere per la “patente” della genitorialità.

Ai genitori si chiede anche il “parent engagement” o “parental involvment” (letteralmente “coinvolgimento dei genitori”). I genitori non solo siano genitori, ma facciano i genitori, si sentano genitori, si sporchino le mani con la genitorialità. “[…] entrambi i genitori hanno comuni responsabilità in ordine all’allevamento ed allo sviluppo del bambino. La responsabilità di allevare il fanciullo e di garantire il suo sviluppo incombe in primo luogo ai genitori o, all’occorrenza, ai tutori. Nell’assolvimento del loro compito essi debbono venire innanzitutto guidati dall’interesse superiore del fanciullo” (art. 18 par. 1 Convenzione). La genitorialità è una responsabilità e un compito che si possono e devono condividere, ma non dividere o delegare. L’interesse superiore del fanciullo è tale anche nei confronti del fanciullo stesso e non farsi prendere o condurre nelle scelte dai suoi capricci o interessi passeggeri.

Nell’art. 5 della Dichiarazione dei Diritti del fanciullo si legge: “Il bambino che si trova in situazioni di minorazione fisica, mentale o sociale ha diritto a ricevere il trattamento, l’educazione e le cure speciali di cui abbisogna per il suo stato o per la sua condizione”. L’art. 23 par. 1 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia invece recita: “Gli Stati parti riconoscono che un fanciullo fisicamente o mentalmente disabile deve godere di una vita soddisfacente che garantisca la sua dignità, che promuova la sua autonomia e faciliti la sua partecipazione attiva alla vita della comunità”. Col bambino disabile, ma anche con quello “normodotato” affinché non diventi disabile nel vivere o inabile nell’amare, occorre fare “reflecting”, aiutare qualcuno a riflettere su di sé, sul proprio essere e sul proprio esistere, utilizzando prevalentemente le proprie risorse personali; si tratta di una relazione di aiuto in cui si convertono gli atteggiamenti di rinuncia e di rassegnazione in atteggiamenti costruttivi. Il bambino disabile impara a vivere la sua disabilità e a conviverci. Per questo sono necessari il “curing”, “cure speciali”, e il “caring”, “prendersi cura” (art. 23 par. 2 Convenzione). Si pensi, tra i tanti casi, alle Paraolimpiadi o ai traguardi raggiunti nella vita quotidiana da ragazzi con la sindrome di Down.

In tutto questo i genitori hanno bisogno di “parent training”, da non intendersi solo attività di formazione rivolta ai genitori di bambini con difficoltà ma come “educazione dei genitori”, di cui si parla nell’art. 29 lettera f della Convenzione ed inserita come ago della bilancia tra la “medicina preventiva” e la “pianificazione familiare”, proprio perché l’educazione dei genitori è fondamentale per il benessere dei bambini e per il benessere sociale soprattutto considerando l’aumento di bambini problematici o caratteriali tra gli effetti della crescente incompetenza genitoriale. L’educazione dei genitori da esplicarsi non solo in appositi corsi o incontri ma anche e soprattutto come loro capacità di mettersi in discussione, di confrontarsi con gli altri, di accettare consigli, suggerimenti, correzioni, come avveniva in passato in cui contavano il rapporto di vicinato, la considerazione degli insegnanti, il parentado (e non consulenze professionali e trasmissioni televisive su tate) e valori comuni. La pianificazione familiare in passato (e ancora oggi in alcuni Paesi sovrappopolati) riguardava il controllo delle nascite e di eventuali gravidanze indesiderate; oggi la pianificazione va intesa nel far capire ai genitori che i figli non devono essere frutto dei loro egoismi, per “cementificare” una coppia vacillante o inesistente, o da concepire in età molto matura dopo aver raggiunto altri traguardi professionali o personali o altro ancora. Per far fronte a tutto questo, esperti di pedagogia della famiglia, quali Luigi Pati e Antonio Bellingreri, propongono l’istituzione di scuole per genitori impostate come percorsi di apprendimento, che possono aiutare in particolare una crescita della consapevolezza di fronte alle responsabilità e alle difficoltà poste dalla vita di famiglia nei momenti critici. Le scuole possono attivare processi virtuosi di cambiamento, soprattutto perché l’apprendimento avviene attraverso una riflessione sulle esperienze di vita condotte da ciascuno in prima persona. Mediante la solidarietà tra le famiglie e il processo di apprendimento riflessivo, la coppia diviene esperta della propria vita e può trovare in se stessa le energie per affrontare e superare i problemi che ogni giorno si vanno ponendo.

L’educazione dei genitori è inserita nell’art. 24 relativo alla salute del fanciullo ed anteposta all’educazione del fanciullo disciplinata nell’art. 28 della Convenzione. Il punto di svolta è e rimane l’educazione, dall’autoeducazione alla coeducazione. Tra gli obiettivi europei la “vocational education and training” (VET, istruzione e formazione professionale), già stabilita nell’art. 28 della Convenzione di cui resta disattesa in particolare la previsione della lettera d “rendere l’informazione educativa e l’orientamento professionale disponibile ed alla portata di tutti i fanciulli”, soprattutto perché non ci si pone alla portata dei fanciulli, dal livello legislativo a quello operativo, perché si trascura il “tutti” ripetuto quattro volte nell’art. 28 e perché non si fa della propria vocazione la propria professione. Ha trovato maggiore applicazione il terzo paragrafo dell’art. 28: “Gli Stati parti devono promuovere e favorire la cooperazione internazionale in materia di educazione, in particolare al fine di contribuire all’eliminazione dell’ignoranza e dell’analfabetismo e facilitando l’accesso alle conoscenze scientifiche e tecniche ed ai metodi di insegnamento”. Nell’art. 28 della Convenzione si parla distintamente di ignoranza e di analfabetismo, perché ci sono varie e sottili forme di analfabetismo, da quello di ritorno a quello emozionale. Contro ogni ignoranza ed analfabetismo si sono diffuse varie tecniche, tra le più note: “role playing” (gioco di ruoli), “circle time” (tempo del cerchio), “problem solving” (soluzione dei problemi), “coding” (programmazione, per passare poi al cosiddetto pensiero computazionale), “brainstorming” (tempesta di cervelli). Quello che più conta, però, sono i “metodi di insegnamento”, un richiamo affinché s’insegni con metodo (etimologicamente “l’andare indietro per ricercare, per investigare”), s’insegni il metodo (ricordando che “metodo” deriva dal greco “metà”, dopo, oltre, e “hòdos”, cammino, via, strada; parole che ben si addicono all’istruzione e all’educazione) e che si insegni veramente tendendo principalmente a “preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia fra tutti i popoli, gruppi etnici, nazionali e religiosi, e persone di origine autoctona” (art. 29 lettera d Convenzione). E questo lo si può ottenere meglio e prime attraverso la “peer education” e la “peer mediation”, educazione tra pari e mediazione tra pari, giacché bambini e adolescenti vivono in un mondo sempre più popolato di adulti e adulterato dagli adulti. In tal modo bambini e adolescenti diventano davvero soggetti educativi e l’infanzia e l’adolescenza divengono tavolo di “lifelong learning”, apprendimento permanente (basti pensare alle tante parole e storie inventate dai piccoli, capacità innata dei piccoli e che, spesso, viene frenata), e non solo fasi problematiche per gli adulti sempre più incapaci di affrontarle. Il tutto se impostato in modo ludico e ludiforme (“gamification”, ludicizzazione), intendendo la vita come il più bel gioco cui partecipare (anche per prevenire le forme di ludopatia, internet-patia e altre dipendenze): “Gli Stati parti devono rispettare e promuovere il diritto del fanciullo a partecipare pienamente alla vita culturale ed artistica ed incoraggiano l’organizzazione di adeguate attività di natura ricreativa artistica e culturale in condizioni di uguaglianza” (art. 31 par. 2 Convenzione). Formulazione molto più efficace di quella dell’art. 8 par. 2 della Dichiarazione dei Diritti del fanciullo del 1959: “Il bambino deve avere tutte le possibilità di dedicarsi a giochi e ad attività ricreative che devono essere orientate a fini educativi; la società e i poteri pubblici devono fare ogni sforzo per favorire la realizzazione di tale diritto”. Nell’art. 31 della Convenzione il gioco è auspicato come stato d’animo, come approccio di vita, infatti è l’unico articolo scritto in questo modo incisivo e positivo prima degli articoli successivi in cui si parla di situazioni negative da cui salvaguardare i bambini.

Anche in caso di esperienze negative, però, si deve trasmettere ai bambini lo spirito di “rebirthing” (letteralmente “rinascita”), inteso come rinnovamento e nuova scoperta del sé, a maggior ragione nei casi di un “fanciullo accusato e riconosciuto colpevole di aver violato la legge penale” cui si deve facilitare il suo reinserimento nella società e fargli assumere un ruolo costruttivo in seno a quest’ultima (art. 40 par. 1 Convenzione).

Concludendo sono attuali, oggi più che mai, le parole del Preambolo della Dichiarazione del 1959 “[…] l’umanità ha il dovere di dare al fanciullo il meglio di se stessa” ribadite da quelle del Preambolo della Charte du Bureau International Catholique de l’Enfance (Parigi, giugno 2007; atto non normativo e, pertanto, non vincolante) “Ogni bambino ci dice a modo suo la bellezza e le ferite della vita e ci richiama anche alla nostra responsabilità”. Responsabilità: dare una risposta. Dovere di tutti e di ciascuno.

[1] Durante la presentazione del libro “Stop ai bulli. La violenza giovanile e le responsabilità dei padri” (Mondadori, 2008) a Matera il 17 gennaio 2009.

Il cruscotto del Dirigente scolastico

Il cruscotto del Dirigente scolastico

di Vincenzo Campisi

 

Introduzione

In questo contributo presento un ipertesto che contiene una serie di strumenti, testati sul campo, che, mi auguro, possa contribuire a snellire parte del lavoro quotidiano del Dirigente scolastico (d’ora in poi DS), consentendogli di recuperare tempo prezioso per esercitare un ruolo attivo nel processo di insegnamento-apprendimento attuato nella scuola di cui è a capo.

La vigente normativa impone al DS l’espletamento di una serie tale di incombenze burocratiche che doveri inderogabili, quali supportare i docenti nella progettazione di percorsi didattici significativi e riflettere criticamente sul processo di insegnamento-apprendimento, potrebbero non essere svolti in modo efficace, per oggettiva mancanza di tempo.

Il DS deve infatti occuparsi di didattica, sicurezza, organizzazione della Scuola, gestione finanziaria, attività contrattuale e negoziale, gestione dei locali scolastici, gestione della privacy…[1]

Il DS passa buona parte delle sue giornate a leggere e-mail, circolari ministeriali e documenti di varia tipologia, la maggior parte dei quali, però, non riguarda la didattica. Possono così capitare situazioni in cui i docenti siano molto più aggiornati in didattica del DS e questo è un non senso se diamo per buono l’assunto che chi è a capo di una organizzazione deve essere molto esperto nel settore di cui si occupa quella organizzazione. Se la scuola è un’organizzazione che ha come mission produrre apprendimenti, il Capo d’Istituto non può non essere un esperto in processi di apprendimento e, in particolare, nell’organizzazione dei setting di apprendimento.

Il DS dovrebbe essere esperto di pedagogia, didattica, docimologia… non di gestione finanziaria, di attività negoziale, di edilizia scolastica, di normativa sulla sicurezza…

Forse sarebbe opportuno fare un passo indietro nel tempo e ripensare alla vecchia figura del Direttore didattico e demandare al Direttore amministrativo le principali incombenze burocratiche (aumentando a quest’ultimo lo stipendio, ovviamente, già oggi intollerabilmente basso per la mole di lavoro che svolge).

Mi limito a queste poche considerazioni sulla figura del Capo di Istituto, che andrebbe profondamente ridisegnata, poiché scopo di questo contributo è quello di fornire una sorta di cruscotto che possa velocizzare l’espletamento degli adempimenti di routine e consentire al DS di recuperare quanto più tempo possibile da dedicare all’organizzazione pedagogica della Scuola.

Guida all’uso del cruscotto

Al cruscotto si accede aprendo la cartella compressa “CRUSCOTTO DS” e cliccando sul file “indice cruscotto DS”.

Il cruscotto è strutturato in due sezioni: “Documenti” e “Scadenziario”.

La sezione “Documenti” contiene un elenco di possibili documenti che ogni scuola deve avere cura di aggiornare, comunicare e far valutare a tutti i portatori di interesse. Ha il solo scopo di aiutare il Capo d’istituto a verificare la presenza e la comunicazione di alcuni importanti documenti che vengono prodotti in ambito scolastico. Gli elenchi, distinti per tipologia di documento, sono strutturati sotto forma di lista di controllo, offrendo, così, la possibilità di riportare, per ogni documento, la data dell’ultima revisione, la tipologia e la data della comunicazione, il giudizio sul gradimento ricevuto, se, ovviamente, è stato monitorato. Molti dei documenti proposti, se inseriti nel sito web dell’istituto, possono contribuire a dare un’immagine piuttosto ampia di come una scuola funzioni e operi. Ogni scuola, ovviamente, potrà aggiungere alcuni documenti o eliminarne altri, se lo riterrà opportuno. L’elenco dei documenti proposti non ha infatti alcuna ambizione di esaustività.

La sezione “Scadenziario”, pensata per un Istituto comprensivo, è una sorta di lista di controllo dei documenti di routine da trasmettere periodicamente al personale scolastico.

In entrambe le sezioni, sono proposti alcuni esempi di documenti che hanno solo valore esemplificativo; ogni DS potrà eliminare o aggiungere tutti i documenti che ritiene necessari e modificarne la tempistica che, in base alle disposizioni ministeriali, può cambiare.

Gli esempi proposti sono documenti prodotti nella scuola in cui lavoro e, pertanto, non hanno alcuna pretesa di scientificità. Scopo del cruscotto è infatti fornire uno strumento di lavoro per il DS e pertanto può essere utilizzato e modificato nel modo in cui si ritiene opportuno.

Un consiglio: prima di inserire i dati nei vari file del cruscotto, copiare la cartella “CRUSCOTTO DS” e rinominarla “CRUSCOTTO DS A.S. 2014-2015”: a fine anno scolastico, l’intera cartella andrà copiata e incollata nell’archivio presente nella sezione “Documenti”.

CRUSCOTTO DS

 


 

[1] Per avere un’idea, peraltro parziale, dei doveri del DS, si rimanda alla lettura di Marco Graziuso, Avvio del nuovo anno scolastico: adempimenti, in “Scuola & Amministrazione”, n. 7-8, luglio-agosto 2014, pp. 24-44.

La buona scuola e il sostegno, fra realtà, idee innovatrici e nuove prospettive

La buona scuola e il sostegno, fra realtà, idee innovatrici e nuove prospettive

di Giulia Rella

da Scuola e Amministrazione, n. 11, Novembre 2014

La Buona Scuola secondo Padoan

La Buona Scuola secondo Padoan
Ma ancora “imperfetta”

di Giuseppe Adernò

Mentre il premier Matteo Renzi registra la soddisfazione per l’ottima riuscita della consultazione che ha creato attese e speranze, pur nell’incertezza che le proposte formulate trovino attenzione e riscontro.

Il 21 novembre il ministro Padoan ha inviato una lettera al Vice-Presidente della Commissione Europea Valdis Dombrovskis e al Commissario agli affari economici e monetari Pierre Moscovici, con gli impegni dell’Italia.

Queste le informazioni e le scadenze fornite per la scuola, tradotte letteralmente dalla lettera inviata in inglese:

Il Sistema Nazionale di Valutazione è già operativo e sarà rafforzato così da diventare più trasparente per i cittadini (inizio 2015);

Rafforzamento del legame fra scuola e lavoro nella scuola secondaria di 2° grado: alternanza scuola lavoro obbligatoria per gli studenti degli ultimi tre anni degli Istituti Tecnici e fortemente raccomandata in tutte le altre scuole superiori.

Più fondi per le iniziative di alternanza scuola lavoro da Dicembre 2014;

Riforma del sistema scolastico, miglioramento delle competenze degli insegnanti attraverso la formazione continua obbligatoria collegata alla possibilità di valorizzazione della carriera. Retribuzioni degli insegnanti collegate alla performance (Febbraio 2015);

Rafforzamento dell’insegnamento delle lingue straniere e delle competenze digitali. Miglioramento della digitalizzazione delle scuole (Banda larga e WI-FI), compresi i servizi amministrativi (Febbraio 2015).

Forse a queste affermazioni c’è da dare maggior credito, anche se non si conoscono ancora i dettagli applicativi della valutazione delle competenze dei docenti, avendo quasi tutti ritenuto inaccettabile la proposta del 66% per scuola.

Dicembre è alle porte e dovrebbero arrivare i fondi per sostenere le iniziative di alternanza scuola-lavoro.

Auspichiamo che l’agenda del Ministero del Tesoro e delle Finanze non vada perduta o sommersa da altre carte e richieste dai diversi settori della società ammalata e stanca.

Il cronoprogramma di Renzi si è spesso allargato a fisarmonica, senza far giungere un armonico suono, aggiungendo altri zeri all’unità nel ritmo di 10,100,1000 passi, lasciando la meta lontana; le dichiarazioni del Ministro Giannini sono rivestite di stagnola luccicante, ma risultano fragili e poco incisive nel concreto, adesso che il Ministro Padoan si è pronunziato, forse c’è ancora da sperare.

Dopo Natale indirizzeremo lo sguardo verso febbraio 2015, altra tappa di partenza per un nuovo cammino verso il miglioramento della tanto desiderata “buona scuola”, che come sostiene Paolo Sestito già commissario e presidente dell’Invalsi, finché la spesa per finanziare la scuola continuerà ad avere le caratteristiche di un costo e quindi qualcosa che si può sempre ‘tagliare’ (scuola senza “S” e quindi “suola”) resterà “imperfetta” .

Il miglioramento si potrà avere quando la spese per la scuola, assumeranno la caratteristica di “investimento”, e quindi una spesa efficace, utile, e perciò non comprimibile.

All’enfatico ottimismo di Renzi si contrappone la complessa pesantezza burocratica del sistema e si ritiene che, forse, il Governo realizzerà, alcune delle promesse annunciate, perché incalzato dalla sentenza della Corte di giustizia europea, ma si teme che la massiccia immissione in ruolo, avverrà senza nessuna valutazione del merito, assorbendo tutte le risorse e pregiudicando in tal modo qualsiasi futura valorizzazione della docenza.

Centrale e determinante per ogni disegno di riqualificazione del sistema educativo, secondo Sestito, è la buona qualità degli insegnanti, che non passa attraverso l’assegnazione di premi individuali (che sarebbe anzi controproducente perché ridurrebbe la propensione al necessario lavoro di team) ma dipende dalla qualità della loro formazione iniziale e soprattutto dalla predisposizione di efficaci filtri all’ingresso nella professione, “con vere prove selettive d’idoneità e meccanismi che confermino nel ruolo solo i capaci e i meritevoli”.

La cultura del merito spesso non dialoga con le emergenze sindacali e delle masse, ma tutto ciò ha prodotto un impoverimento della scuola che scivola verso il basso.

E allora la scuola continuerà a restare “imperfetta” e difficilmente potrà essere “buona”.

La cercan qua, la cercan là, ma “la buona scuola” dove mai sarà?

La cercan qua, la cercan là, ma “la buona scuola” dove mai sarà?

di Giovanni Fioravanti

Della ‘buona scuola’ condivido alcune affermazioni con le quali viene introdotto il progetto del governo. Quando si sostiene che è necessario uscire dal «si è sempre fatto così», che è necessario pensare in grande, penso che significhi ‘con coraggio’, che dobbiamo rivedere le categorie di pensiero finora usate a proposito del ruolo della scuola, infine entrare nel merito di quello che si fa e avviene nelle nostre scuole. Dovrebbero essere i titoli di altrettanti capitoli, ma la promessa iniziale si riduce a una sola petizione di principi, che non trovano alcuno sviluppo nello scorrere le 130 pagine che vi fanno seguito.
Sperare in un programma ambizioso, quasi radicale, ma soprattutto lungimirante, pare uno specchietto per allodole, un invito a leggere il progetto del governo che di tutto si occupa, fuorché di quello che aveva promesso in apertura.
Allora vorrei provare a scrivere in breve, dal mio punto di vista, i quattro capitoli che mancano, che l’estensore si è scordato di trattare, perché preso a occuparsi d’altro.

Capitolo 1. Uscire dalla “confort zone”, dal si è fatto sempre così.

Intanto l’invito ad abbandonare la tranquillità della routine è un invito erga omnes o rivolto a qualcuno in particolare? In mancanza di indicazioni che ne consentano l’interpretazione corretta, voglio intenderlo rivolto a tutto il paese, a partire dai suoi governanti.
A proposito di sistema scolastico, per come noi lo conosciamo, si tratta di una invenzione piuttosto recente, diffusa per lo più nelle nazioni industrializzate, poco più di un secolo e mezzo fa, che considerato nell’arco della storia dell’umanità, supera di poco lo 0,3%.
Prima che apparissero le scuole, l’apprendistato era il mezzo più comune di apprendimento per trasmettere le conoscenze esperte in settori come le arti, la medicina e la giurisprudenza. Del resto quanta parte dei saperi necessari alla nostra esistenza sono appresi informalmente, con metodi non dissimili dall’apprendistato, attraverso osservazioni, tentativi per prove ed errori, ricorrendo all’assistenza dei più esperti.
Coniugare tecniche scolastiche e vantaggi dell’apprendistato, già sarebbe un modo nuovo di pensare e di procedere. Nel merito non ci mancherebbe il conforto di una vasta letteratura e di esperienze sull’argomento a cui poter attingere idee e pratiche. Il pensiero mi corre, per fare un esempio, all’ «apprendistato cognitivo» di Allan Collins, John Seely Brown e Susan Newman. Ma perché negare che pure il più recente ‘knowledge management’ potrebbe fornire utili spunti e indicazioni, soprattutto nella direzione di rendere tutti ugualmente esperti gli elementi di un sistema, in questo caso il sistema formativo.
Se si volesse percorre questa strada come dovrebbe cambiare la nostra scuola?
Innanzitutto credo che dovrebbe somigliare più a un insieme di botteghe che di classi. La sintesi tra bottega e classe fa subito pensare al laboratorio e, quindi, uscire dal ‘si è sempre fatto così’ della tradizionale lezione, per apprendere a manipolare e produrre ‘artefatti cognitivi’, praticare i saperi nel risolvere problemi, nel costruire situazioni sempre nuove, per mettere alla prova le abilità apprese. Luoghi di fermento cognitivo ma anche operativo, di intelligenza pratica ed esperta, luoghi dove le competenze, queste sconosciute, si praticano e si agiscono calandole nella realtà.
Ma due questioni si pongono: ripensare l’edilizia scolastica, ripensare la formazione dei docenti.
Insieme a queste, abbandonare ‘la confort zone’ significherebbe cancellare dall’immaginario collettivo i topos scolastici della cattedra e dei banchi, delle classi, dei voti e dei registri, le interrogazioni, i compiti in classe e le bocciature.
Il guadagno consisterebbe nel restituire alla scuola il compito di coltivare l’intelligenza e il pensiero delle persone, la dignità del saper fare, in definitiva di non tradire la vita reale di ogni ragazza e di ogni ragazzo.

Capitolo 2. Il rischio più grande è continuare a pensare in piccolo, a restare sui sentieri battuti degli ultimi decenni.

Tra il piccolo e il grande intercorre una vasta gamma di gradazioni, e uscire dai sentieri battuti negli ultimi decenni costa. Cosa di non poco conto per un paese indebitato come il nostro.
Sarebbe sufficiente avere un pensiero forte e di lungo respiro.
Sarebbe sufficiente avere un programma di investimenti che ci permettesse di recuperare il divario che i sentieri citati ci hanno fatto accumulare nei confronti delle altre nazioni. Intanto nei livelli di apprendimento e di competenza, non solo di chi è in età scolare, ma anche e soprattutto nei confronti della popolazione adulta.
La prima domanda da porsi è se ha ancora senso affrontare il tema dell’istruzione, a partire da quella scolastica, in una prospettiva che non sia quella dell’apprendimento per l’intera vita, dalla culla alla tomba.
La ‘buona scuola’ all’istruzione degli adulti neppure accenna, come se ancora ci fosse un’età dello studio, una del lavoro e infine della pensione. Già questo dovrebbe suggerire agli estensori del documento la scarsa dimensione dei loro pensieri. Per non parlare del silenzio, del buio profondo sull’istruzione prescolastica.
Chiedo se da pensare in grande è solo la scuola o il diritto all’istruzione di ogni persona?
E se questo è il tema, come ritengo, la prospettiva da assumere può ancora essere quella scuolacentrica?
Si può ancora insistere su un’idea di istruzione a una sola dimensione, quella della scuola?
E tutti gli altri contesti dove avviene l’apprendimento, sono per sempre condannati ad essere ‘informali’ o ‘non formali’?
Nell’epoca delle reti ancora abbiamo difficoltà a far rete con le opportunità formative offerte dai nostri territori, con la vita delle persone. Non è forse questo uno spreco di risorse che non ci possiamo più permettere?
Lo studio, l’impegno, l’istruzione appresa al difuori dei percorsi scolastici e accademici sono solo da relegare in una sorta di ‘scholè’ greca, di acquisizioni relegate al tempo libero delle persone e, quindi, non degne di assurgere a saperi certificati?
Forse cessare di pensare in piccolo significa avere delle idee su tutto questo. Pensare come dare riconoscimento e peso alle competenze che le persone, piccole o grandi che siano, oggi possono acquisire in un mondo che, contrariamente al passato, quando furono inventate le scuole, è ricco di opportunità di apprendimento e di formazione.
Non si può tutte le volte partire da zero, annullare la storia del sapere delle persone. Purtroppo lo facciamo con chi immigrato nel nostro paese non è in grado, perché troppo economicamente oneroso, di ottenere il riconoscimento dei titoli di studio conseguiti nel paese di origine. È come se i nostri apprendimenti non scolastici e non accademici appartenessero ad un’altra terra da cui dobbiamo emigrare per varcare la soglia dell’istruzione ufficiale.
Se c’è un’espressione che denuncia i pensieri piccoli che hanno segnato i recenti decenni, è quella dei ‘livelli essenziali di apprendimento’. Una sorta di avarizia dell’istruzione.
Pensare grande significa garantire ad ogni singola cittadina, ad ogni singolo cittadino il raggiungimento dei massimi livelli di istruzione possibili. Perché non esiste una misura del sapere, l’ansia della sua conquista, della sua necessità ci accompagna per tutto l’arco della nostra esistenza.

Capitolo 3. Abbiamo bisogno di ridefinire il modo in cui pensiamo, formiamo e gestiamo la missione educativa della scuola.

Pensare, formare, gestire la missione educativa della scuola. Nessuna delle parole che compongono questa proposizione mi piace. Le trovo anacronistiche, fuori dal tempo perché potrebbero appartenere a un tempo qualunque.
Ne colgo però l’intento, buono, positivo: ciò che noi ci proponiamo di conseguire attraverso la scuola necessita di essere ripensato.
Allora partiamo da ‘missione educativa della scuola’. Perché già questo è un pensiero.
La missione è un compito, è un incarico, quindi al nostro sistema scolastico è affidata una funzione specifica che sintetizziamo in ‘educare’.
Si tratta di rivedere i nostri pensieri, le nostre concezioni intorno a questa funzione, che forma essa assume e come deve essere condotta.
Potremmo partire dalla domanda elementare che si pongono i bambini, ‘a cosa serve andare a scuola’? La risposta ovvia degli adulti è ‘a imparare’.
Quando ero bambino io, quel ‘imparare’ mi faceva venire alla mente il mettermi alla pari, essere come gli altri miei coetanei. Non ne conoscevo l’etimologia, del resto la scuola non mi ha mai offerto l’occasione di scoprirla, che è invece ’procurare’. La scuola è il luogo in cui ci si procura il sapere.
Noi oggi usiamo l’espressione ‘imparare ad imparare’, perché il sapere è dinamico, non sta mai fermo. Il diritto allo studio non è più condividere il sapere, ma sapere come sapere, conoscere come conoscere, apprendere ad apprendere. Non so se questa è ‘la missione educativa della scuola’, certo è la sua funzione. Attrezzare le nuove generazioni con tutti gli strumenti della conoscenza.
Per cui la scuola così pensata, va costruita e organizzata.
È il luogo in cui bambine e bambini, ragazze e ragazzi vengono condotti a conquistare la sommità della piramide della conoscenza che dalle nozioni, ai saperi disciplinari, giunge alla ‘saggezza’.
‘Saggezza’ potrà anche apparire un termine desueto per i nostri tempi, ma è il solo corretto per definire in sintesi l’esito a cui dovrebbe traguardare ogni sistema formativo. Prendendo in prestito la definizione che ne dà il dizionario di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, ‘saggezza’ è «L’equilibrio nel comportamento e nel consiglio, che è frutto di una matura consapevolezza ed esperienza delle cose del mondo». Mi sembra che, se proprio di ‘missione educativa’ vogliamo parlare, nulla di meglio la possa sopravanzare.
Una scuola che non sia in grado di condurre i suoi utenti a questo risultato, una scuola che si arresti al piano dei saperi, come è ancora, nella stragrande maggioranza dei casi, la nostra scuola, non solo fallisce la sua missione educativa, ma non assolve neppure alla sua funzione.
Di fronte all’economia della conoscenza, di fronte all’economia del capitale umano che ci sono imposti dalla Banca mondiale e dall’OCSE, c’è un’alternativa, c’è un’altra strada che il nostro paese può decidere di intraprendere, ed è qui che si misura se davvero sapremo ridefinire il modo in cui pensiamo, formiamo e gestiamo la missione educativa della scuola.
L’istruzione non può mai essere estranea nelle sue finalità all’interesse di chi ne intraprende il viaggio qualunque ne sia l’età. Non può essere pensata per un obiettivo che travalichi la persona, per una visione utilitaristica della società e dei suoi mercati.
Ecco perché la ‘saggezza’, perché il fine si fa intrinseco alla persona, alla sua crescita. Perché al servizio della dignità, della libertà, dell’autonomia e del progetto di vita dei nostri giovani.
Temo che questo capitolo necessiterà ancora di molti anni prima di poter essere scritto, soprattutto perché, per poter pensare nuovo, diverso da prima, è necessario sgombrare la mente dai condizionamenti, dai biases, direbbero gli esperti, in particolare quelli che ci sono imposti dalla congiuntura internazionale.

Capitolo 4. Cosa si impara a scuola o come le nostre scuole sono gestite.

Forse il titolo di questo capitolo, che tuttavia pone la questione fondamentale dell’insegnamento, è improprio. Con ogni probabilità se ne può sintetizzare il senso riformulandolo in “Come si impara a scuola”.
Per molti l’esperienza dell’apprendimento scolastico è in solitaria, come se si scalasse la parete di una montagna.
La dimensione individuale domina generalmente le prestazioni richieste dalla scuola, anche se punteggiate da occasionali attività di gruppo, cooperative learning, scaffolding, brain storming che fanno bella mostra di sé nelle programmazioni dei docenti, i quali, per la loro stessa formazione, che ripercorre le orme di quella scolastica, poco hanno dimestichezza con la loro pratica.
I dati confermano il prevalere della lezione frontale. Il lavoro degli alunni è individuale: interrogazioni, esercizi in classe, compiti a casa, in definitiva gli studenti sono giudicati per quello che sanno fare da soli. Una comunità di apprendimento formata da tante monadi.
La vita però delle persone non funziona così, né a casa, né nel lavoro. L’apprendimento fuori della scuola è ricco di interazioni, di strumenti a cui si può ricorrere all’occorrenza, gli ingredienti che si miscelano sono tra i più vari. Tanto che il senso comune ritiene l’apprendimento scolastico lontano dalla vita reale.
È questa discontinuità, questa separatezza, questo isolamento dal mondo di fuori il nucleo che deve essere aggredito, se vogliamo per davvero riformare l’insegnamento. Così come la cronica incapacità di portare a sintesi le due culture, quella umanistica e quella scientifica, che continuano a convivere in un complessivo sbilanciamento della nostra formazione scolastica.
A partire dalle regole del “gioco della scuola” che poggiano sul pensiero puro e astratto, sulla semantica del solo lessico simbolico, spesso mettendo al bando, salvo nei casi certificati, ogni supporto strumentale.
Imparare a pensare e a operare, la confidenza con il problem solving nella scuola non si incontrano mai. Il pensiero è quello che promana dalla voce dell’insegnante e dai libri di testo, il fare è ripetere regole e principi teorici, per poi esercitarsi su di essi.
L’abbiamo già detto, il passaggio dalla classe al laboratorio cambierebbe i ruoli degli attori, in tanto da passivi a attivi, modificherebbe le interazioni e i processi, il sapere non sarebbe fine a se stesso, ma verrebbe praticato nel saper fare. Quell’operare e ricercare che ci accompagnano nel mondo reale, negli apprendimenti della vita, farebbero il loro ingresso a pieno titolo nella scuola, con il vantaggio di rendere famigliari quelle conoscenze che, per come vengono proposte dalla scuola, sembrano abitare un pianeta che non ci appartiene.
È la concezione dell’ambiente di apprendimento come luogo in cui si esercitano non la ripetitività dei saperi, ma l’applicazione, la ricerca, il pensiero critico, la creatività e la produzione. Nulla di nuovo, forse, l’abbiamo sempre detto, però continuando a perseverare nelle nostre tradizionali pratiche d’aula, che hanno finito per dare sepoltura a tutto ciò.
E già, perché se non si prende a mano seriamente il superamento della classe come luogo anonimo e indifferente di apprendimento, per dar vita ad ‘ambienti dedicati’, funzionali a ciò che si vuole apprendere – l’aula di lettere non può essere la stessa di matematica – nessun pensiero critico, creativo, produttivo, nessun apprendistato cognitivo potrà mai essere realizzato. Mai l’extrascuola entrerà nella scuola. Spazi, ambienti, tempi, flessibilità sono la chiave di ‘cosa si impara e di come le nostre scuole sono gestite’. Il tradizionale gruppo classe verrebbe superato e sostituito da gruppi mobili, eterogenei al proprio interno per interesse, motivazione, livelli di competenza. L’insegnante finalmente assumerebbe quelle funzioni prevalentemente di regia, di guida, di tutoring intelligente e di supervisione, di cui tanto inutilmente si continua a dissertare.
Su cosa si impara a scuola ci sarebbe ancora molto da dire. E se ci fosse davvero la volontà e il coraggio di affrontare questo terreno, sarebbe opportuno interrogarsi se tutte le attività che la scuola è chiamata a svolgere, sia proprio necessario perseguirle sempre ed esclusivamente al suo interno. Se solo la scuola è chiamata a fornire legittimità agli apprendimenti. Se forse non sarebbe più vantaggioso, innanzitutto per gli alunni, delegare discipline come, solo per avanzare un esempio, l’educazione motoria e la musica, ma ce ne sarebbero anche altre, a strutture più competenti che operano in modo qualificato sul territorio, creando un sistema formativo, che, superando l’ormai noiosa questione del pubblico e del privato, permettesse di costruire un sistema in rete, mantenendo il fulcro nella scuola. Una scuola che vive e cresce non perché opposta all’extrascuola, ma perché finalmente una ‘scuola-extra’, capace cioè di procedere oltre se stessa.

Declinazioni della singolarità: persone con comportamenti ritenuti autistici

Declinazioni della singolarità: persone con comportamenti ritenuti autistici

di Gabriele Boselli

 

Aumento effettivo o estensione della sensibilità e degli interessi?

Un numero di soggetti sempre maggiore viene percepito e a volte perfino classificato come affetto da autismo o rientrante nel cosiddetto “spettro autistico”. E’ peggiorato il patrimonio genetico della specie? Si è iperestesa la rete diagnostica e questa richiede estensione della clientela? Una quantità sempre più alta di famiglie e di contesti sociali induce i ragazzi a elevare muri di difesa fra sé e il mondo o li porta a frammentarsi e distruggere tutto quello che si trovano davanti e se stessi? O sono invece i criteri di classificazione o la loro rigida applicazione –nonché gli effetti giuridici e la speranza di possibili supporti e docenti aggiuntivi all’ organizzazione scolastica- a determinare l’aumento?

Manca a mio avviso un sereno dibattito scientifico (pluri e inter) disciplinare. Spesso entrano in gioco interessi non puramente scientifici ma di baronia accademica o di “territorio” associazionale. A volte le dichiarazioni di autismo sono sostenute o avversate impropriamente da soggetti a vario titolo professionalmente coinvolti e ciò può influire sull’interpretazione delle situazioni. Come per altri versi accade con la dislessia, ogni discostamento da quella che viene considerata la norma secondo protocolli è talora etichettato con questi termini e a volte accade che qualche insegnante non consideri criticamente i documenti con cui il ragazzo gli viene presentato e tratti il ragazzo come veramente autistico, “suggerendo” o di fatto consolidando in quest’ultimo comportamenti conseguenti a diversi stati di sofferenza. Ciascuno di noi diventa quel che in vari modi anche impliciti gli viene suggerito di essere.

La mia tesi è che:

-L’autismo sia una categoria astratta che non rende ragione del modo di esistere, pensare e sentire, relazionarsi di una varietà di soggetti estremamente differenti e diversi a causa di problemi di varia origine e destinazione. Ne risultano microcosmi irriducibili entro descrizioni standardizzate. Peraltro ogni curvatura propriamente autistica, davvero anomala, ipersingolare dell’assetto intenzionale si configura come una disposizione all’esistenza assai rara e ove davvero sussista va interpretata e trattata nella complessità di più quadri disciplinari (filosofia, medicina, psicologia, pedagogia) raccordati in funzione del caso singolare-

-La risposta a eventuali difficoltà di comunicazione non chiaramente patologiche possa essere epistemologicamente impostata sull’idea di singolarità/ipersingolarità, prescindere da ogni stigma e condursi in gran parte delle situazioni nell’agile, creativa ordinarietà di ogni progetto pedagogico.

In questi ultimi decenni anche le spiegazioni e le proposte di cura sono state le più diverse: dalle speculazioni sul rapporto madre bambino, a quelle sulla figura paterna e la sua supposta “assenza”, alle più recenti tendenze in cui tutto sembra spiegarsi in termini meramente neurologici.

Se le origini di questa curvatura anomala, iper-singolare dell’intenzionalità sono misteriose e una cura radicale è per ora impossibile, noi donne e uomini di scuola dobbiamo interrogarci come sentire e comportarci con il bambino che –per usare il titolo di un vecchio libro di Michele Zappella- sembra stare sulla luna; forse ci può insegnare –per contrasto e qualche volta per analogia- qualcosa che possa andare oltre l’orizzonte degli eventi di ciascuno di noi, aldilà della linea oltre cui non possiamo più comunicare o ricevere messaggi.

 

La prospettiva pedagogica

Per affrontare i casi ordinariamente compresi da questa tipologia bisogna essere forti e agili, culturalmente, intellettualmente ed emotivamente, spesso anche fisicamente; forti per non subire il silenzio, la distanza o l’aggressività dell’altro, forti e agili per riuscire a entrare negli stretti pertugi che ogni tanto si aprono anche nei soggetti più chiusi. Non tutti gli insegnanti sono adatti a interagire con i soggetti davvero autistici. E anche quelli più forti e con più spiccate capacità di muoversi e ricollocarsi entro contesti relazionali fermi o in fibrillazione hanno comunque bisogno di una rete di sostegno per sé stessi, che li aiuti ad affrontare la fatica e la pressione del contatto con l’ipersingolarità.

L’approccio degli operatori scolastici –almeno secondo la prospettiva della pedagogia come scienza filosofica- tien conto che se è l’io a porre il non-io (Fichte, Dottrina della scienza), anche il non-io può con la forza della sofferenza riconfigurare l’io e curvarne il potenziale pedagogico. L’io-docente come tutta la comunità scolastica deve dunque necessariamente condividere alcune caratteristiche auspicabili in ogni tipo di professionalità che si volga ai soggetti che si comportano in modo “altro” rispetto alle attese di interazione: auto-interrogazione, autocoscienza, analisi culturale, confronto con le risultanze di altre scienze che vertono sullo stesso argomento, teorizzazione, sperimentazione, discussione; infine, se possibile, pubblicazione. Gli insegnanti/Maestri effettuano letture e a tutto campo ma per essi, il discorso non si svolge secondo le prescrizioni della scienza medica e psicologica (non appartengono loro, anche se vi si confrontano nel dialogo/dialettica interprofessionali) ma seguendo e ripensando criticamente le risultanze della costellazione scientifica di pertinenza, ovvero quella filosofico-pedagogica e didattica, ed eventualmente della corrente di adozione.

Il progetto può rappresentare un’occasione per capire:

  1. a) che ogni persona, a partire dallo stesso insegnante/Maestro, è altra dalle altre e ha vari problemi di comunicazione fra i vari piani interni (principalmente fra strutture emotive, intellettuali, prassiche). Dunque, è necessario chiedersi come e perché la fluidità e la trasparenza interne (proprie) siano variamente disturbate; questo aiuta a capire anche le difficoltà delle relazioni di altri con l’esterno.
  2. b) che non dobbiamo partire dai documenti con cui il ragazzo è stato presentato ma dal volto della persona cui ci volgiamo, secondo l’indicazione husserliana per cui “tutto ciò che si dà originalmente nell’intuizione è da assumere come esso si dà ma anche nei limiti in cui si dà” (Idee, vol I tr. Costa, Einaudi, 2002). L’apparire (alla singolarità del docente, alla comunità famigliare e scolastica) del ragazzo non è però il suo disvelarsi; ne è invece la struttura emergente. Veritativa ma difficilmente assumibile nella pienezza della sua verità.

E’ dunque importante guardare oltre le parvenze empiriche e burocratiche (la falsa immediatezza di certo apparire e l’apparire secondo documenti) proprio per cogliere attraverso la ragion pedagogica ogni valore di realtà, trovare qualcosa di autentico, un «territorio» che prospetti “spiegazioni” distensioni, stiramenti del foglio che disoccultino la realtà dalle sue “pieghe” (Derrida) e interpretare attivamente (ovvero non facendo ricorso a protocolli precostituiti) il soggetto nella sua singolarità attraverso i comportamenti e i messaggi talora criptici che invia. Ciascuno di noi vive e in qualche modo fa propria l’interpretazione che altri ci offre: l’interpretazione aperta e non standardizzata è già di per sé –in senso heideggeriano- l’inizio della “cura” (A. Sichel in Encyclopaideia, 1990).

 

Iper-singolarità e formazione di percorsi per la con-vivenza

Differenza e diversità spesso indispongono. Costringono a pensare e sentire in modo nuovo, fuori dai rassicuranti schemi relazionali e professionali con cui si è soliti lavorare. Con “differenza” (di-fero) si può intendere il vario peso/levità e qualità della storia che ci si porta appresso. Lo stato dell’ essere con la relativa massa del pregiudizio, del precompreso, del precostituito nel frazionato continuum biologico, cul­turale/subculturale di appartenenza. La differenza viene dal passato, è l’eredità; è ciò che siamo poi che siamo stati, sono stati.

Diversità (di-versus) è la varia intenzionalità, i richiami che vengono dal fu­turo della cultura; le gravità esercitate dalle masse di senso in formazione. La forma non compiuta che preme al di sotto e al di sopra delle evidenze. L’insieme delle energie non unificate da un’intenzionalità del con-vivere che attivano i fenomeni dello stare in campo. La diversità muove dal futuro, è ciò che saremo, che saranno. Siamo ciò che siamo stati, in via per i luoghi ove siamo attesi.

Data l’intensità della pressione/vocazione esterna, diversità e differenza non sono mai lasciate all’esterno: entreranno “dentro”; nessuno è totalmente chiuso, anche se tale può sembrare. Un progetto per l’autismo può favorire l’apertura di finestre. Specie se anche le nostre finestre (disciplinari e relazionali) sono aperte.

 

Un’idea di identità

Pedagogicamente ci si dovrà confrontare con l’inadeguatezza dell’ idea stessa d’identità ( il soggetto come uguale al l’immagine che lo specchio dei suoi riferimenti complessivi gli rinvia, v. Jung). In una società culturalmente complessa difficilmente questa potrà resistere, almeno come la tradizione dell’Occidente l’ha configurata: l’identità come fondo, sedimentazione della memoria, permanenza, inerzia della persona ma anche struttura di fondo delle sue dinamiche (M.Dallari Lo specchio e l’altro, La nuova Italia, Firenze, 1990).

Dovrà in parte farsi -guardandosi dalla schizofrenia- pluridentità. E’ la nuova figura interpretativa dell’attuarsi dell’individuo in un universo divenuto multiverso in quanto composto di una pluralità di orizzonti talora intersecati, internamente articolato in reti di comunicazione complicatissime e interferenti. Il soggetto fatica a formarsi uno in un universo non più unico; comportamenti autistici possono essere una reazione eccessiva e autolesionistica alla frammentazione.  

Molti soggetti denominati “autistici” –in percentuale notevolmente maggiore rispetto agli indigeni- vengono poi da altre culture; sono sostanzialmente altri per cultura, non per struttura psichica, anche se la prima influisce sulla seconda.

Aiutare la formazione di un soggetto destinato a convivere con le varie identità interne necessarie a fronteggiare la pluralità, a non farsene dilaniare, a con-viverci: lo scopo della pedagogia come scienza filosofica si arricchisce di un altro compito.

 

Singolari nell’armonia

E’ l’emotivo (l’e-motu dal cuore) che ci fa muovere, che consente l’andare. Poi i saperi rendono possibile il viaggio offrendo le necessarie strutture trascendentali. Occorre sintonizzarsi in qualche modo con le vibrazioni, le frequenze del cuore della persona con comportamenti autistici.

Ciò che caratterizza la persona in evoluzione è la coscienza di sentire e la sete di Novum. Occorre sapere di sentire e sentire di sentire. La soggettualità è capacità di pensarsi e pensare autenticamente, di riflettere su di sé.

 

-La persona è essere multipreposizionale; copre l’intera gamma delle preposizioni

(di da, a, in, con, su ,per, tra, fra).   Nei soggetti autistici una o più di queste preposizioni sono disattivate. Non si riconoscono persone attraverso la relazione con il mondo e con gli altri; ma si diventa persone con le persone.

Occorre allora evocare la consapevolezza dei legami tra i soggetti e con le cose, far sentire e capire che si viene da una storia e si guarda avanti.   Il nostro mondo della vita è struttura di bisogni e di attese augurabilmente reciproche . Nessuno di noi è solo se stesso; ma tale può sentirsi ed è come se lo fosse.

 

-Il focus educativo si sposta sul chi sono e dove vado.   Questa consapevolezza emerge dalla capacità autoriflessiva e dal bisogno di essere riconosciuti dagli altri.

Ci riconosciamo se siamo raccontati e se ascoltiamo storie.

 

-Personalizzare significa anche attenzione alla storia di ciascuno, al suo modo di essere e alle sue intenzionalità; significa guardare l’altro nella sua differente e diversa singolarità. La differenza e la diversità sono caratteri costitutivi del soggetto.

 

Implicazioni educative sul piano progettuale, didattico e documentativo

Dalla descrizione alla narrazione

-Se la persona è essenzialmente apertura al possibile, è in fieri, è meta, non è un dato, l’esperienza educativa allora non può non rispettare tali costitutività. Questo significa che non ci si può limitare alla descrizione perché la descrizione ferma il soggetto in un momento particolare come in una fotografia, ha carattere statico e sincronico.

 

Disposizione di attesa

Diveniamo il nostro possibile non tanto per effetto di stimoli ma perché accolti entro un contesto di attese.

-La persona-alunno che soffre di problemi di comunicazione e degli “effetti perversi” della diagnosi di autismo va accolta nei suoi tempi di crescita, nelle sue vie; ovviamente non si può mai dire “non sei capace”, “non segui il ritmo della classe”, “sei in ritardo” come se la persona fosse un treno che deve per forza passare a quell’ora in quella predeterminata stazione.

Occorre disponibilità infinita ad accettare l’altro nelle sue singolarità guardando anche e soprattutto a ciò che sta sulla linea dell’orizzonte e anche oltre.

La disposizione di fondo di grande plasticità, è l’attesa, naturalmente un’attesa attiva.

 

Tracce progettuali

-Una piena assunzione della centralità della persona dovrebbe condurre a non impostare l’esperienza educativa attraverso “piani” rigidi o “programmazioni”. Queste pratiche pretendono di stabilire in anticipo dove si vuole andare e in quali tempi.

Si tratta di pensare una progettualità educativa lieve, aperta all’imprevisto, dinamica. Progettualità come canovaccio, trama che accompagna l’esperienza di ciascuno nel gruppo; è una progettualità in cui è noto il senso, non le forme dell’esito.

Se la persona è apertura verso l’inedito, allora poco importa il risultato immediato.   Non so cosa accadrà, ma non mi interessa neanche saperlo perché forse mi impedirebbe di ascoltare pienamente l’altro nel senso che lo piego a ciò che voglio raggiungere e perdo di vista la persona. Un autentico processo educativo è in contrasto con la logica dell’immediato e del verificabile. E’ immateriale e inverificabile; è associabile a un progetto mantenendo un senso del limite.

Essere in ascolto del singolo significa lasciarsi guidare dalle tracce suggerite da ciascuno; significa seguire gli indizi del suo modo di essere in un intreccio complesso e delicato tra le intenzionalità dello scolaro e quelle dell’educatore. Si tratta di coniugare il mio cammino con quello dell’altro.

Penso vada (verbo di opinione + congiuntivo) perciò abbandonata ogni concezione tecnicistica dell’educare.

 

Primato della relazione tra i soggetti

Un approccio educativo centrato sul soggetto-persona nella sua singolarità è soprattutto un orientamento educativo; investe il modo di sentire e di guardare l’altro. Implica consapevolezze di fondo. Il primato è della relazione che si stabilisce tra i soggetti; il modo di essere di ciascun educatore testimonia quotidianamente una presenza significativa a scuola.

 

La persona come “monade” aperta

-La persona vive entro una trama di relazioni con altre persone, in un certo luogo geografico e storico,  è volta verso qualcosa. Cosa? Questo è il punto.

La sua formazione avviene nel dialogo e nella relazione; siamo persone in quanto invitate all’umanità ed è la relazione che ci costituisce, relazione con i viventi e non solo.

La persona ha una storia e delle prospettive. La scuola l’aiuta a sentire e a capire quali possano essere.

 

Valutare i soggetti considerati autistici

Da quanto sopra scritto emergono alcuni corollari sulle forme di valutazione degli alunni singolari o iper-singolari, o comunque ritenuti affetti da ritardi, anomalie, deficit di vario tipo reali, immaginari o “creati” da sovrapposizione alla persona di protocolli tecnici serializzanti e di fatto archivianti.

 

—Il peso dell’etichetta

La valutazione in pedagogia non è riconoscimento di valori oggettivi ma donazione di valore, con-versione a valori: il bambino almeno in parte sarà quello che parole e scritti del valuitare della scuola diranno di lui. L’ etichetta fa la qualità percepita della bottiglia e la qualità percepita è un fattore del qual-essere.

 

—Valutazione come valorizzazione

Emettere giudizi o distribuire voti rappresentano atti di intersoggettivo stabilimento di valore. Ogni soggetto individuale o collettivo rappresenta a suo modo il mondo, gli eventi, il “reale” e la relativa immagine -mediata attraverso concordati con i gruppi di riferimento- dipende da lui come dalle aree osservate. Con il giudizio come con il voto, l’insegnante contribuisce a costruire la realtà, inevitabilmente (ma consapevolmente e responsabilmente!) in-formandola della propria identità. E’ un approccio “spostato dalla credenza ingenua nelle cose e nelle persone come realtà indipendenti dai fatti di coscienza, e quindi (volto a costruire) strutture trascendentali” (R.Massa in “Sugli usi della fenomenologia nella pedagogizzazione attuale” Enciclopaideia, n.2/97).

 

Il docente è invitato a essere sostanzialmente attento e rigoroso sia con le parole che con i numeri. Con attenzione al possesso delle nozioni essenziali (generative di conoscenze ulteriori) come fondazioni solide delle capacità elaborative, critiche e creative. La misura é sempre strettamente dipendente dal metro di riferimento, dal sistema di valori dell’individuo o del sistema che valuta. I giudizi –base dei voti- utilizzano uno strumento “naturale”, prodotto di una cultura tanto storicamente fondato e fondante da divenire natura: la lingua materna. Seguirla é ritrovarsi umilmente con le possibilità e i limiti della propria intelligenza dell’altro e del suo agire culturale.

 

Prove e voti

-Le prove, scritte e orali devono essere il più possibile varie e differenziate. Il loro esito non sarà solo oggetto di presentazione, ma di dialogo. Un dia-logo con alcune persone può apparire impossibile ma in qualche modo si può sempre instaurare. Concorreranno a disegnare intersoggettivamente il profilo dell’alunno.

Pertanto i voti, o i giudizi che siano, condenseranno e motiveranno l’attribuzione di valore; potranno rappresentare per il ragazzo un pur tormentato momento di presa di consapevolezza delle proprie possibilità e dei propri limiti. Attraverso la fase diagnostica, di potenziamento e recupero, il voto o il giudizio denoteranno anche lo sforzo della scuola di una valutazione formativa.

 

Approccio non burocratico, ma attento alle conseguenze

-Compilare i documenti ufficiali avendo ferma la consapevolezza della loro modesta valenza effettuale.

 

Non reagire ma pro-agire

-Non valutare reattivamente (specie nel voto di condotta) ma proattivamente (“quel che hai fatto o non fatto non è buono ma potrai fare di meglio”) avanzando una proposta della regola come via per l’attuazione di sè.

 

Trasparenza

-Esplicitare nel POF e nelle delibere che necessariamente andranno prese motivazioni e azioni adottate in merito alla valutazione

 

Diario

-Tenere un diario che racconti la nostra percezione dell’incontrarsi dei ragazzi con se stessi, con gli altri e con i saperi. Tenendo conto che ciascuno di noi ha vari tratti “autistitici”.

 

Valutazione come suggerimento e invito

-Voti e giudizi non servono tanto a riflettere lo stato presente quanto a disegnare il futuro, costituire una “profezia” almeno in parte destinata ad adempiersi. Attribuire dunque voti e giudizi non solo come risultanze del valore delle prestazioni ma –soprattutto- come indicazioni positive di valore e di fiducia nelle possibilità del ragazzo come intero. Questi è in fase intensamente evolutiva e, anche laddove non lo mostri, vi crederà.

Ars maieutica digitalis

ARS MAIEUTICA DIGITALIS

 

Sintesi dell’intervento al Convegno Internazionale

LE VIE DELLA PEDGOGIA

tra linguaggi, ambienti e tecnologie

Università degli Studi di Macerata

14-15 novembre 2014

 

prof. Giovanni Soldini

(Dirigente Tecnico MIUR- USR Marche)

 

Con Decreto della Direzione Generale per i contratti, gli acquisti e per i sistemi informativi e la statistica del MIUR n.12 del 6 novembre 2014 è stato pubblicato un avviso per la selezione di progetti formativi sulle competenza digitali del personale docente per €1.000.000 .

 

Perché spendere ben 1 milione di Euro per il potenziamento delle competenze del personale docente sui processi di digitalizzazione e innovazione tecnologica?

 

Negli ultimi anni il MIUR ha promosso il “Piano Nazionale Scuola Digitale” articolato in una pluralità di azioni coordinate (LIM in classe, Cl@ssi 2.0, Scuol@ 2.0 e i Centri Scolastici Digitali), che fino ad oggi hanno dato vita ad una rete di istituzioni scolastiche tecnologicamente avanzate. Le attività poste in essere sono state sicuramente molto interessanti ed hanno ottenuto anche risultati degni di particolare attenzione.

Bisogna rilevare però che non c’è stato il cosiddetto “contagio”: il coinvolgimento di altre classi e scuole (escluse dalla sperimentazione) è stato limitato.

 

Nel documento del Governo denominato “La Buona Scuola” – un documento che ha portato per due mesi al dibattito e al confronto non solo gli “addetti ai lavori” (= scuola), ma anche la società civile – si sottolinea che “la sfida dell’alfabetizzazione che ha contraddistinto la scuola nel Novecento, non è finita: si è estesa a nuovi ambiti e a nuovi linguaggi […]Se il secolo scorso è stato quello dell’alfabetizzazione di massa, durante il quale gli italiani hanno imparato a leggere, scrivere e far di conto, il nostro è il secolo dell’alfabetizzazione digitale: la scuola ha il dovere di stimolare i ragazzi a capire il digitale oltre la superficie, a non limitarsi ad essere “consumatori di digitale”, a non accontentarsi di utilizzare un sito web, una app, un videogioco, ma a progettarne uno”. [1]

Programmare non serve solo agli informatici – si sostiene – ma serve a tutti. Pensare in termini computazionali significa applicare la logica per capire, controllare, sviluppare contenuti e metodi per risolvere i problemi e cogliere le opportunità che la società ci offre.

Il MIUR intende quindi introdurre il “coding” (= programmazione) nella scuola italiana, a partire dalla primaria: gli alunni devono imparare a risolvere problemi complessi applicando il paradigma informatico, anche attraverso modalità ludiche (“gamification”), come ad esempio attraverso il sito code.org

 

Se l’ipotesi di introduzione del “coding” nella primaria ha suscitato inizialmente non poche perplessità, ad una analisi più approfondita emergono aspetti degni di particolare attenzione:

 

“Il coding non va visto come conseguimento di una competenza informatica in senso tecnico (la programmazione è ormai una competenza specialistica, viceversa essere un creatore digitale non significa necessariamente programmare) ma nell’ottica della sua valenza formativa trasversale (sviluppo del pensiero logico-analitico, delle abilità di problem solving e di formalizzazione intesa come rappresentazione corretta, completa e coerente di fatti e situazioni complesse). Occorre distinguere la cultura informatica (permanente e con valenza culturale come disciplina autonoma) dalle competenze tecniche (soggette a rapida obsolescenza)[2].” […]

 

Ma ci sono altre importanti criticità: ad oggi, solo il 10% delle nostre scuole primarie e il 23% delle nostre scuole secondarie è connesso ad Internet con rete veloce. Le altre sono collegate a velocità medio-bassa, e con situazioni molto differenziate. C’è un chiaro problema di “digital divide”: semplicemente la connessione non raggiunge le classi e quindi non permette di applicare forme di didattica digitale.

 

Quanto all’introduzione delle LIM (Lavagne Interattive Multimediali ), definirle una tecnologia troppo pesante che ha da una parte ipotecato l’uso di notevoli nostre risorse per innovare la didattica, e ha anche parzialmente “ingombrato” le nostre classi, spaventando alcuni docenti,[3] sembra eccessivo. Le LIM sono senza dubbio uno strumento molto valido ma che, per essere veramente efficace, deve essere utilizzato costantemente dal docente.

 

C’è sicuramente anche un problema di formazione, e dunque nel citato Decreto del 6 novembre 2014 si dice che “obiettivo dei progetti formativi è l’organizzazione, l’erogazione e la verifica della efficacia di corsi di formazione di tipo base e avanzato, in risposta ai livelli differenziati dei bisogni formativi dei docenti, sui linguaggi multimediali e l’integrazione tra risorse cartacee e digitali in una logica di modularità e flessibilità”[4]. Ci piace in particolare evidenziare quest’ultimo aspetto (l’integrazione tra risorse cartacee e digitali): sono stati gli stessi studenti dell’ultimo anno di un liceo maceratese – in un recente dibattito – a rifiutare l’uso esclusivo del digitale, ritenendo che un buon manuale sia ancora un necessario punto di riferimento.

 

Cosa implica ciò?

Una didattica diversa, un capovolgimento della didattica: UPSIDE DOWN, “sottosopra”.

 

Un primo aspetto da tenere in considerazione è quello legato al sistema. Mi piace richiamare una felice argomentazione dell’ispettore Maurizio Tiriticco[5] che da tempo sostiene che abbiamo bisogno di una nuova pedagogia delle 3 C: accanto a conoscenze capacità e competenze, a livello sistemico vanno modificate Classe Cattedra e Campanella.

 

Ciò significa che:

  1. CLASSE – bisogna superare il modello di gruppi di studenti per età cronologica, andando verso una individualizzazione e personalizzazione dei percorsi, in base agli interessi specifici degli alunni.

 

Superamento della classe significa che non esiste più lo spazio classico dell’aula abbinata ad un gruppo di studenti, ma solo l’aula per la disciplina specifica, dove il docente prepara il lavoro, il setting, i materiali.
Grazie alla completa informatizzazione della scuola e alla digitalizzazione della didattica sarà possibile sfondare le pareti, configurare una “scuola trasparente”, una scuola che possa finalmente uscire dalla sua tradizionale immagine “opaca”, per aprirsi a nuovi orizzonti.

C’è una “leggibilità” degli spazi, concetto già caro alla Montessori, per cui gli studenti devono essere in grado di riconoscere, attraverso la lettura dei luoghi, a quale tipo di apprendimento lo spazio è destinato. L’aula-disciplina è uno spazio in cui si può “leggere” l’apprendimento, quindi l’aula di matematica non può essere asetticamente uguale all’aula di italiano o di inglese. Classe e aula non sono più in corrispondenza biunivoca: avremo perciò una “aula disciplina” (lo spazio fisico in cui si svolge l’azione didattica) e la “aula classe” (l’insieme degli alunni). I laboratori sono a tutti gli effetti aule e le aule a tutti gli effetti laboratori. I docenti possono personalizzare gli arredi collegando la leggibilità dello spazio alla disciplina insegnata.

 

  1. CAMPANELLA- l’unità didattica basata sull’ora di lezione va modificata e resa più flessibile. Anche se i Regolamenti del 2010 (DPR 87 per i professionali, 88 per i Tecnici e 89 per i Licei) contemplano la possibilità di una quota di autonomia e di flessibilità nella gestione del tempo-scuola e dell’offerta formativa, in realtà tali e tanti sono i vincoli (tra cui, in particolare, l’espressione “nei limiti dell’organico assegnato”[6] ovvero “senza ulteriori oneri per lo Stato”) che rendono praticamente impossibile un vero cambiamento della struttura oraria e del curricolo. C’è bisogno di garantire maggiore e più reale autonomia alle scuole, come previsto dal DPR 275/99.

 

  1. CATTEDRA- la didattica va profondamente rinnovata e cambiata. Non è più possibile pensare ad un docente che “sale in cattedra” … e non ne scende più! Ritroviamo il docente in cattedra anche in quadri del medioevo, riferiti alle lezioni nelle prime Università europee, in cui si vede il docente in cattedra, appunto, gli studenti delle prime file attenti alla lezione, quelli più indietro disattenti o addirittura addormentati sui banchi. Sembra la fotografia delle nostre classi.

 

Nulla è cambiato. Eppure la “lectio” (che deriva dal latino *legere) aveva originariamente lo scopo di leggere ad alta voce il libro, che era inaccessibile ai più; con l’avvento della stampa a caratteri mobili il libro era a disposizione di molti, ma gli eruditi continuavano a sostenere la necessità di una interpretazione autorevole, di una spiegazione da parte dei “saggi” e questo si è perpetuato nel tempo. Oggi con l’evoluzione della tecnologia e di Internet la diffusione dei contenuti avviene in modo istantaneo e su scala globale; gli stessi contenuti non sono più fissi e definiti come in un testo, ma fluidi, in continuo divenire e generati da tutti (si pensi a Wikipedia, per esempio).

 

La nostra è una società fluida, liquida, come sostiene *Bauman[7] e non c’è più distinzione tra produttore e fruitore di contenuti: tutti possono esprimere le proprie idee senza particolari filtri o impedimenti. Cambia quindi il meccanismo stesso di creazione della conoscenza: questa interconnessione globale ha dato vita a quella che *Levy chiamava già 20 anni fa “intelligenza collettiva”[8]: ci vengono offerte strategie di conoscenza del tutto nuove, come la realtà virtuale, la realtà aumentata, che consentono non solo una grande interattività con i contenuti, ma anche la possibilità di entrare in contatto diretto con le fonti, con persone in tutto il mondo.

 

Dunque, l’innovazione digitale rappresenta per la scuola l’opportunità di superare il concetto tradizionale di classe, per creare uno spazio di apprendimento aperto sul mondo nel quale costruire il senso di cittadinanza ed entrare in contatto con realtà sia locale che internazionali, con il supporto e il mentoring di esperti ed educatori.

 

Una metodologia didattica – già sperimentata da anni negli Stati Uniti e che si va diffondendo sempre più in vari paesi europei – è il cosiddetto “FLIP TEACHING”.

Le classi coinvolte in questa metodologia, chiamate flipped classrooms, sono protagoniste di una inversione delle modalità di insegnamento tradizionale, come ben sottolinea *Graziano Cecchinati[9]. Il termine “flip” indica il ribaltamento della modalità in cui vengono proposti i contenuti e i tempi utili per l’apprendimento, dunque “UPSIDE DOWN”, sottosopra!

La responsabilità del processo di insegnamento viene in un certo senso “trasferita” agli studenti: essi possono accedere ai contenuti in modo diretto, gestendo personalmente fonti, tempi e modalità necessari per l’apprendimento; gli allievi hanno a disposizione una ingente quantità di materiali didattici (video, podcast, websites, DVDs, CDs, o qualsiasi altra forma che fornisca un chiaro messaggio istruzionale), che possono condividere (ad esempio attraverso un forum), annotare, modificare o addirittura creare in maniera collaborativa (scricoll= scrittura collaborativa).

L’insegnante diventa quindi un supporto alla comprensione di ciò che gli studenti hanno appreso: la cosiddetta lezione è finalizzata all’acquisizione di capacità e competenze più che all’ampliamento delle conoscenze.

Tra i vantaggi dell’introduzione dell’insegnamento capovolto va indubbiamente messa al primo posto la motivazione; gli studenti si sentono pienamente coinvolti nel processo di insegnamento-apprendimento e non sono più spettatori passivi, bensì protagonisti attivi e responsabili nella costruzione del proprio sapere. Trasmettere entusiasmo è di certo una carta vincente per il raggiungimento del successo formativo.

 

Gli studenti possono dunque gestire il proprio apprendimento, senza doversi necessariamente adattare ai ritmi e alla velocità espositiva dell’insegnante ma utilizzando le loro indicazioni su come muoversi e sulle risorse che ciascuno di loro può utilizzare. D’altro canto i docenti potranno realizzare attività individualizzate e/o personalizzate, partendo dai diversi stili cognitivi degli alunni, senza alcuna generalizzazione o omologazione! […]

 

Alcuni studiosi ritengono che tra i punti deboli vada inserito il fatto che le relazioni, i rapporti interpersonali potrebbero essere fortemente penalizzati, in quanto l’allievo avrà un contatto molto stretto con il computer sia a scuola che a casa!

 

In realtà è vero il contrario, dal momento che si passa da una didattica fondamentalmente istruzionista (fondata sulla trasmissione del sapere) ad una didattica costruttivista e sociale; infatti le attività di studio e di elaborazione personale sono portate in classe dove verranno svolte in un contesto collaborativo e con la supervisione del docente, attività di elaborazione dei contenuti che prima avvenivano in solitudine; in particolare gli studenti sono chiamati a lavorare sia su ciò che ritengono di aver ben compreso, sia su ciò che risulta ancora poco chiaro. L’attività in aula potrà svolgersi principalmente secondo uno schema basato sul problem solving: viene posta una domanda o viene chiesto di risolvere un problema che impegna a riflettere sui concetti sottesi e ad applicarli in contesti di vita reale (ma non è forse proprio questa la tipologia delle domande proposte dalle rilevazioni INVALSI che suscitano tante perplessità tra i docenti?). Per poter sfidare effettivamente la classe, le domande del docente dovrebbero essere né troppo semplici né troppo complesse, secondo il concetto di “linea di sviluppo prossimale” di *Vygotskij.[10]

Il docente è un mèntore, una persona che funge da sostegno e aiuto nello costruzione e nello sviluppo dei processi di conoscenza, anche in chiave critica. […]

 

L’insegnante deve aiutare l’alunno a tirar fuori ciò che ha dentro: “inside out”, ovvero il metodo socratico della maieutica. Socrate paragonava l’arte dialettica a quella della levatrice: come quest’ultima, il filosofo di Atene intendeva “tirar fuori” all’allievo pensieri assolutamente personali, a differenza di quanti volevano imporre le proprie vedute agli altri con la retorica e l’arte della persuasione.

In tal direzione deve oggi cambiare il ruolo dell’insegnante: egli deve trasformarsi in guida, sostegno alla costruzione della conoscenza negli studenti, stimolo per favorire un’elaborazione personale dei contenuti, per attribuire significato a ciò che studia, per sviluppare pratiche che consentano l’acquisizione di competenze.[11]

E non è forse la competenza digitale (che consiste nel saper utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie della società dell’informazione e richiede quindi abilità di base nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione) una competenza chiave per l’apprendimento permanente?[12]

 

Utilizzare le tecnologie a scuola ha il merito di favorire l’apprendimento di un nuovo tipo di competenza che aiuterà i ragazzi a vivere nella società dell’informazione e ad essere “cittadini digitali”.

Occorre qui precisare che la didattica digitale è la didattica che si avvale delle tecnologie. La tecnologia da sola non fa niente; la tecnologia permette semplicemente di fare una didattica migliore, ci permette di fare cose che se non avessimo la tecnologia non potremmo fare, quindi la tecnologia è uno strumento e non ha nessuna altra funzione.

 

Nel mondo del lavoro di oggi si richiede che le persone siano autonome, che sappiano risolvere i problemi, che lavorino in team, che sappiano andare su Internet, che siano globalizzati: sarà poi l’azienda a provvedere a formarli sulle compente specifiche di cui ha bisogno.

 

Quindi adesso bisogna preparare i nostri ragazzi a un mondo del lavoro diverso, dove occorre  insegnare a saper progettare, a lavorare in gruppo, a condividere del materiale, a collaborare, a interagire nella rete, ad essere un cittadino digitale ‘responsabile’. Bisogna  insegnare loro a muoversi nel digitale, conoscere il copyright, le leggi,  come si fa a selezionare i siti, come si selezionano le risorse digitali e così via. E l’insegnante deve essere disposto ad apprendere insieme al proprio studente. […]

Con le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (TIC) è stato possibile scardinare la dimensione temporale della lezione in classe: le nuove tecnologie  hanno portato ad una socializzazione della conoscenza legata a processi di interconnessione mai visti prima (si pensi ai social network), espandendo le possibilità di conoscenza, collaborazione, progettazione, indipendente dal tempo e dal luogo. E’ la metafora della rete.

Per spiegare questa nuova modalità di apprendere tipica dell’era digitale è emersa recentemente una nuova teoria dell’apprendimento, denominata connettivismo.

Partendo dall’analisi dei limiti del comportamentismo, cognitivismo e costruttivismo nel tentativo di spiegare gli effetti dell’uso delle tecnologie sul nostro modo di apprendere, *George Siemens[13] ha formulata questa teoria, secondo cui l’apprendimento è un processo che crea delle connessioni e sviluppa una rete; un nodo è qualunque cosa che possa essere connessa ad un altro nodo: informazioni, dati, immagini, sentimenti… L’apprendimento è dunque un processo di connessione di nodi specializzati o fonti di informazione e si fonda sulla differenza di opinione. Per facilitare l’apprendimento permanente è necessario alimentare e mantenere le connessioni. […]

Ci sono tuttavia varie critiche al connettivismo che arrivano dal mondo scientifico; in particolare *Antonio Calvani sostiene che “un trasferimento selvaggio del connettivismo alla scuola può indurre a credere che basti mettere gli allievi in rete per produrre conoscenza, consolidando quel famoso stereotipo diffuso, secondo cui più tecnologie si usano, in qualunque modo lo si faccia, e meglio è per l’apprendimento[14].

 

Occorre infatti ribadire che l’introduzione delle tecnologie nella scuola deve avere come scopo principale quello di innovare la didattica, altrimenti la presenza degli strumenti non solo sarà superflua, ma anche controproducente. In alcune scuole sono stati introdotti i tablet ma poi sono stati messi nel cassetto adducendo la motivazione che distraevano e basta; in realtà distraggono se gli insegnati non fanno lavorare seriamente i ragazzi, se non c’è un uso continuo, se non c’è il consolidamento di buone prassi. […]

 

In conclusione possiamo affermare che il web rappresenta una straordinaria opportunità di rinnovamento della didattica se adeguatamente utilizzato.

 

Per far ciò c’è bisogno di formazione continua e aggiornamento da parte degli insegnanti non solo per quanto concerne le competenze tecnologiche e digitali in senso stretto, ma anche e soprattutto per le competenze cognitive, creative, emotive, comunicative, collaborative e… maieutiche, per tirar fuori, per sviluppare le potenzialità delle diverse forme di intelligenza[15] nel rispetto delle attitudini di ciascuno e per creare una cultura della rete o, meglio ancora, una rete della cultura.

ars maieutica digitalis


 

[1] MIUR, La Buona Scuola, settembre 2014, pag. 95

[2] Sintesi del dibattito sulla tematica specifica “La digitalizzazione” promosso dall’USR Marche a San Benedetto del Tronto il 24 ottobre 2014

[3] MIUR, La Buona Scuola, cit., pag. 74

[4] DDG n.12 cit., pag. 2

[5] La rivoluzione copernicana proposta dall’ispettore Maurizio Tiriticco, PVM Scuola, 23 Febbraio 2014,  http://www.pvmscuola.it

[6] Cfr. CM 34/2014

[7] Bauman Z., Modernità liquida, Ed. Laterza, Bari, 2002

[8] Lévy P., L’intelligenza collettiva. Per un’antologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano, 1996

[9] Cecchinato G., Flipped classroom. Innovare la scuola con le tecnologie del Web 2.0, Atti del seminario residenziale “il fascino discreto dell’innovazione”, Lecce, 2012

[10] Vygotskij, Pensiero e linguaggio, 1934

[11] Competenza è “la comprovata capacità di usare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e/o personale; sono descritte in termini di responsabilità e autonomia” – Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’Unione Europea del 23 aprile 2008 sulla costituzione del Quadro Europeo delle Qualifiche per l’apprendimento permanente

[12] Il quadro di riferimento delinea otto competenze chiave: 1) comunicazione nella madrelingua; 2) comunicazione nelle lingue straniere; 3) competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia; 4) competenza digitale; 5) imparare a imparare; 6) competenze sociali e civiche; 7) spirito di iniziativa e imprenditorialità; 8) consapevolezza ed espressione culturale. – Raccomandazione 2006/962/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 dicembre 2006, relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente [Gazzetta ufficiale L 394 del 30.12.2006, pag. 10].

[13] Connectivism: A Learning Theory for the Digital Age, International Journal of Instructional Technology and Distance Learning, Vol. 2 No. 1, Jan 2005

[14] Connectivism: new paradigm or fascinating pout-pourri? , Antonio Calvani, Je-LKS n.1, 2008

[15] Gardner, Frames of mind, 1983

Capaci di stare al mondo

Capaci di stare al mondo

di Cosimo De Nitto

I tempi della scuola non sono quelli della società, specie quella attuale così veloce, economicistica, utilitaristica, individualistica, precaria, competitiva, atomizzata.

Nella “Buona Scuola” di Renzi manca assolutamente la consapevolezza di questa differenza. Il principio dal quale muove è unico e univoco: “la scuola per la società”, dove la “società” è considerata sinonimo di economia, sistema di produzione, distribuzione, vendita di prodotti, accumulo; dove l’organizzazione delle relazioni e della governance aziendale diventano modello unico anche per istituti e organizzazioni, come la scuola, che sono affatto diversi, diversi per missione costituzionale, diversi per contenuti, finalità, mezzi, strumenti, relazioni ecc.
Per l’economia e per l’azienda il futuro è oggi, il futuro sono l’andamento e gli indici di borsa di oggi, il futuro è il tempo che passa tra la produzione di un oggetto e la sua distribuzione e vendita sul mercato. Il passato… semplicemente non esiste se non come insieme di cifre e rendicontazioni utili come parametri per il presente produttivo.

La scuola no, non è fatta così, non ha questi tempi, non può adeguarsi a questi parametri, a queste finalità, semplicemente perché è “cosa” affatto diversa.

La scuola ha un passato lunghissimo quanto quello dell’umanità che si studia, ha un passato meno lungo quanto la vita dei soggetti che la popolano, alunni, genitori o insegnanti che siano. Il passato nella scuola è fondamentale, non è fatto di cifre e conti economici, è esistenza e storia delle persone dalle quali non si può prescindere pena la miopia nel presente e la cecità assoluta per ciò che attiene il futuro.

La scuola ha un futuro lungo quanto si possa proiettare in avanti come rappresentazione della società e come sue implicite possibilità, ma lungo anche quanto la vita degli allievi che molti e molti anni dopo si ritroveranno a vivere in quella società, che certamente sarà cambiata, si spera in meglio.

Schiacciare e appiattire la scuola sul presente è un errore gravissimo. Un gravissimo errore schiacciarla sul “lavoro” che c’è/non c’è oggi, vista la rapidità con cui aziende, prodotti e processi produttivi compaiono e più spesso scompaiono superati da nuove forme produttive, da nuove tecnologie, da nuovi “bisogni” essenziali o indotti che siano.

La “Buona Scuola” dichiara che vuole essere “utile”. Utile al soggetto affinché trovi lavoro, cosa che spesso oggi appare una chimera, un sogno, una presa in giro talvolta. Utile più probabilmente alle aziende il cui orizzonte di interessi è circoscritto al massimo profitto qui ed ora, come è ovvio che sia.

Una scuola buona (potenza della posposizione), invece, della categoria dell’utile non fa parametro, principio, valore unico, ma secondario e integrato. Integrato in un contesto valoriale principale più ampio che comprende ed abbraccia la persona in tutti i suoi aspetti. A partire dal suo diritto alla libertà, alle opportunità, alle possibilità di scegliere e persino di costruire nuovi lavori, nuove “imprese”, alla possibilità e libertà di scegliere il proprio ruolo nella società in relazione ai propri sogni, alle proprie ambizioni, al proprio progetto di vita. Con l’aiuto della sua libertà interiore (frutto dell’educazione e della cultura), con l’aiuto del suo ingegno (frutto di una scuola che “allena” la divergenza), con l’aiuto di contesti favorevoli che ribaltino l’assunto e, accanto e prima della “scuola per la società” vedano quello che rivendica una “società per la scuola”.

Il lavoro, dimensione economica ed esistenziale ancorché importantissima, non assorbe tutto l’arco delle finalità costituzionali e costitutive del sistema formativo. Compito della scuola non è costruire “macchine per lavorare”, ma buoni cittadini, colti, capaci anche di lavorare, ma prima ancora capaci di stare al mondo, non solo in questo mondo, ma anche in quello di domani, dopodomani e di quanti dopodomani e quante società sarà possibile vivere, e per le quali le persone devono avere le capacità, la libertà, gli strumenti culturali al fine di accettarle così come sono, oppure poterle modellare e trasformare come essi ritengono.

La buona scuola? Uno specchio per allodole

La buona scuola? Uno specchio per allodole

di Enrico Maranzana

 

Si osservi da lontano il campo dell’annunciata riforma dalla scuola: i dettagli svaniscono, emergono le macro-aggregazioni.

Due schieramenti appaiono, contrapposti.

Da un lato le conquiste scientifico-culturali fatte proprie dalla legge dello Stato; dall’altro lato il mondo della scuola che si è raggruppato intorno al documento governativo “La buona scuola”[1].

Da un lato il problema scolastico è trattato con approccio progressivo, in funzione dei risultati attesi e nel rispetto della sua struttura; dall’altro lato le singole, specifiche esigenze sono affrontate dopo averle isolate dal contesto: la visione d’insieme svanisce.

Gli esiti della consultazione on line, le slide elaborate per un convegno, le delibere dei Collegi dei docenti, le proposte avanzate dagli studenti, i documenti sindacali   sono inequivocabile sintomo dell’approccio acefalo.

 

La legge – la visione sistemica – la complessità

Il legislatore ha riconosciuto la dimensione del problema educativo e ha abbattuto la corrispondente complessità raffinando: l’ha scomposto in sottoproblemi la cui soluzione è stata assegnata a soggetti interagenti.

Inizialmente ha considerato la relazione della scuola con l’ambiente e ha delegato al Consiglio di circolo/d’istituto il compito di “elaborare e adottare gli indirizzi generali”: le competenze generali definiscono l’OUTPUT di sistema.

Successivamente ha esaminato la necessità di ideare percorsi volti alla promozione delle capacità sottese alle indicazioni del Consiglio: ha dato mandato al Collegio dei docenti di “Programmare l’azione educativa” che consente alla scuola di apprendere, capitalizzando l’esperienza, comparando gli obiettivi programmati con i risultati conseguiti [feed-back].

Ha affrontato infine il problema della comunicazione educativa. Le sinergie tra tutte le sollecitazioni didattiche sono state valorizzate: le capacità elencate dal Collegio dei docenti sono un terreno condiviso, sono i traguardi che unificano gli insegnamenti, sono il lievito per la progettazione di occasioni d’apprendimento disciplinari.

 

Gli interventi a sostegno de “La buona scuola”

Le analisi del documento governativo, che condividono il percorso risolutivo con l’elaborazione ministeriale, infrangono un postulato della cultura contemporanea: non sono le parte a definire il tutto .. è il tutto a definire le parti.

Il singolo componente non ha valore in sé: trae il suo significato dall’interazione con le altre parti per conseguire la finalità del sistema.

Il sistema ha proprietà non direttamente derivabili da quelle dei suoi singoli componenti.

 

Consultazione on line

Focalizzano solo questioni di dettaglio: la diminuzione degli alunni delle classi, l’introduzione di nuove materie e di nuove figure professionali, il potenziamento della strumentazione informatica, la valorizzazione di alcune, esistenti figure professionali … la finalità educativa della scuola è fuori scena.

 

 

Le slide del convegno “L’autonomia per l’innovazione, la professionalità, il merito”

Una conversazione che occulta natura e senso della professionalità docente e rimarca la necessità di un lessico conforme alla legge.

Diapositiva n° 5: “Nasce il “Sistema educativo di Istruzione (generalista) e Formazione (professionale)”.

Le parti tra parentesi cozzano con il pensiero del legislatore: l’interpretazione dell’art. 2 comma 1) lettera a) della legge 53/2003 non lascia spazio interpretativo.

FORMAZIONE … “adeguate all’inserimento nella vita sociale e nel mondo del lavoro, anche con riguardo alle dimensioni locali, nazionale ed europea”.

I Piani dell’Offerta Formativa impegnano solamente gli istituti professionali?

EDUCAZIONE .. “ sviluppare le capacità e le competenze, attraverso conoscenze e abilità, generali e specifiche, coerenti con le attitudini e le scelte personali”; sia dall’art. 1) comma 2) del DPR 275/99. “L’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana [EDUCAZIONE], adeguati ai diversi contesti [FORMAZIONE], alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento”.

Il significato di ISTRUZIONE può essere desunto dalla struttura decisionale prescritta dal TU 297/94, sopra richiamata, affrontando il tema della comunicazione educativa.

Diapositiva n. 10 – autonomia organizzativa

1 – modalità organizzative dei docenti

2 – adattamenti del calendario scolastico

3 – flessibilità dell’orario del curricolo anche sulla

base di una programmazione plurisettimanale

4 – diversificazione delle modalità di impiego dei docenti.

Perché non è stato ricordato che il DPR297/99 si articola intorno alla libertà progettuale (formativa, educativa, dell’insegnamento) “coerente con gli obiettivi generali e specifici di ciascun tipo e indirizzo di studio, curando la promozione e il sostegno dei processi innovativi e il miglioramento dell’offerta formativa”.

Perché la progettualità, “sostanza dell’autonomia” è stata trascurata?
Diapositiva n. 7 – Autonomia didattica

Un elenco delle modalità operative desunte dal comma 2) dell’art. 4 del Dpr sull’autonomia delle istituzioni scolastiche.

Perché non sono state inquadrate all’interno delle indicazioni fornite dal comma 1: “concretizzano gli obiettivi nazionali in percorsi formativi funzionali alla realizzazione del diritto ad apprendere e alla crescita educativa”?
 

Le delibere del collegio dei docenti

Molti Collegi hanno valutato “La buona scuola”.

Le argomentazioni del liceo Pasteur di Roma sono:

  • progressioni stipendiali, mobilità, conflittualità tra docenti;
  • investimenti;
  • preminenza del dirigente scolastico …

 

Le preferenze degli studenti

All’indagine di Studenti.it hanno partecipato più di 4.300 utenti che a grande maggioranza, con il 27%  dei voti, ritengono che la buona scuola sia quella che avvicina di più studenti e mondo del lavoro.

Il 12% chiede connessioni Internet veloci in ogni aula mentre a pari merito, con l’11% di voti ciascuna, c’è la richiesta di dare maggior spazio a laboratori tecnici, introdurre Diritto ed Economia anche nei Licei ed avere l’opportunità di detrarre le spese scolastiche

Il 10% vorrebbe un pedagogista in ogni scuola, il 5% chiede che venga reintrodotta Arte negli Istituti Tecnici, un ulteriore 5% vorrebbe il Project management come nuova materia di insegnamento. Il 4% è a favore dell’utilizzo di software e open source a scuola e infine ad un 3% piacerebbe avere il coding  tra le materie di insegnamento.

Documenti sindacali

La FLC CGIL ha elaborato “La scuola giusta”. “Più risorse e meno chiacchiere”; “Obbligo scolastico da 3 a 18 anni”; “Irricevibile qualsiasi ipotesi di aumento dell’orario”; “Precari abilitati tutti stabilizzati” …

[1] Quattro scritti sono in rete: “La scuola deve essere efficace, non buona” indica il punto di vista da assumere per comprendere la sostanza del problema educativo; “La buona scuola: una composizione infarcita d’errori” confronta il DPR sull’autonomia delle istituzioni scolastiche con il documento governativo e ne mostra le profonde difformità; “La vetustà culturale del Miur” addebita al Ministero l’inefficacia del servizio: muove e si è mosso disattendendo le indicazioni del legislatore; “Il ministro Giannini conosce la legge?” mostra l’importanza di un lessico condiviso.