Chi ha paura delle prove INVALSI?

Chi ha paura delle prove INVALSI?

Qualche giorno fa, il 7 maggio, è andata in scena una nuova puntata della guerra infinita fra Cobas ed INVALSI, con il consueto accompagnamento di comunicati stampa. A leggerli, si direbbe che sia stata scritta un’importante pagina di libertà pedagogica; a riflettervi, si ha più di un motivo per chiedersi di quale libertà si tratti. Forse quella di continuare a mettere la testa sotto la sabbia per non sapere quel che i nostri alunni hanno appreso? O quella di continuare a guardarsi allo specchio e ripetersi da soli il mantra “nessuno mi può giudicare”?
Spiace che anche qualche importante quotidiano – nel riferire delle prese di posizione contrarie alle prove – sembri strizzare l’occhio a questi atteggiamenti. Poveri bambini, che si pretende di giudicare con un quiz!
Ci sia consentito, allora, di dire anche noi qualcosa nel merito, magari per provare a riflettere in modo meno emotivo ed ideologico sulla questione.
Il Ministero (più che l’INVALSI) ha certamente colpe in questa vicenda: dalla legittimazione “debole” che ha sempre conferito all’Istituto (status incerto, continui riassetti del vertice, definizione fluttuante della missione) alla ambiguità degli strumenti giuridici adottati (perché fare un decreto legge per stabilire che “le scuole partecipano, come attività ordinaria d’istituto, alle rilevazioni nazionali degli apprendimenti degli studenti …”, anziché dire tout court “le prove sono obbligatorie per le scuole e per i loro docenti”?). E come dimenticare che non sono mai state fissate in modo formale le “soglie minime” di apprendimento richieste ai vari livelli: un’omissione incredibile in un paese che non sembra saper fare a meno del valore legale dei titoli di studio?
Ma c’è almeno un’altra colpa da ricordare: ed è colpa grave perché attiene al piano concettuale e culturale. Si è sempre utilizzato con superficialità il termine “valutazione” (fin dalla denominazione ufficiale dell’Istituto) per indicare quella che è in realtà un’azione di “misurazione”. Non si tratta di sinonimi: tutt’altro. La differenza fra i due termini è data proprio dalla mancanza degli standard minimi di prestazione richiesti, che permetterebbe di porre a raffronto i risultati effettivi con quelli attesi/prescritti: e, allora sì, di valutare.
Detto questo, ci sono almeno tre ragioni per dissentire dalla contestazione alle prove e per giudicarla come gravemente pregiudizievole per le sorti della scuola italiana:
– la prima: se è vero che la misurazione su base statistica non costituisce valutazione, è vero però che ne è la premessa indispensabile. Nessuna valutazione può aver luogo se prima non si misura quel che si vuole valutare. E dunque – se pure il quadro normativo attuale è incompleto – è però importante ed essenziale costruire intanto la base dati. Questo gli insegnanti – che valutano ogni giorno – lo sanno bene: ed infatti non rinunciano a compiere le loro verifiche prima di elaborare qualunque giudizio di sintesi. Perché quel che è lecito e normale per i singoli operatori dovrebbe essere negato alla comunità dei cittadini quando si tratta della scuola di tutti?
– la seconda: il “dramma del povero bimbo”, giudicato su un quiz. Questo è un argomento francamente surreale. Prima di tutto, le prove INVALSI (a parte quella di terza media) non entrano
nella valutazione finale degli alunni. In secondo luogo, non sono dei quiz mnemonici, ma delle prove di competenze, che sollecitano l’elaborazione personale di quanto appreso in vista della soluzione di un problema proposto: esattamente quel che ciascuno di loro sarà chiamato a fare ogni giorno da adulto. La scuola non costituisce un’isola, una monade chiusa rispetto al mondo. I bambini ed i ragazzi vengono a scuola per prepararsi alla vita, nel corso della quale saranno molte volte vagliati (e, purtroppo, allora, scartati) proprio con quiz e comunque con prove oggettive.
C’è, in questa critica, un’incapacità (o un rifiuto) di distinguere i concetti. E’ vero che la scuola non ha l’unica missione di trasmettere conoscenze e neppure di sviluppare competenze: è vero che esiste una dimensione di crescita affettiva, valoriale, relazionale, civile che non si lascia ricondurre solo alla misura di quel che si è appreso. Ma le prove INVALSI non si propongono di definire questi aspetti, che sono giustamente lasciati invece alla valutazione “olistica” degli insegnanti.
Qui è in gioco un’altra questione: la comunità civile ha o no il diritto di sapere cosa apprendono i propri futuri cittadini e come sanno mobilitare quelle conoscenze nelle situazioni della vita reale? Ne va del domani del Paese, che rappresenta un interesse collettivo di molte grandezze superiore a quello dei singoli. Non si può da una parte sostenere che la scuola deve essere “pubblica”, cioè finanziata dallo Stato, e dall’altra rifiutare allo Stato il diritto di sapere quali risorse essa appresta alla Repubblica di domani. Le altre dimensioni della crescita sono pur esse fondamentali, ma sono altra cosa: rifiutarsi di comprenderlo è miope, o colpevole, e rompe quel patto di solidarietà civile su cui si fonda la giusta richiesta che l’istruzione di tutti sia assicurata dalla fiscalità generale.
– la terza: il “giardino di casa” è diventato troppo stretto, per le decisioni che riguardano la scuola (come per molte altre, del resto: moneta, economia, cittadinanza, difesa, libertà civili, per non citarne che alcune). I bambini ed i ragazzi che oggi frequentano le nostre aule saranno domani in costante confronto e concorrenza con i loro coetanei dell’Europa e del mondo. La mobilità del lavoro richiede che le competenze di ciascuno siano leggibili al di là dei confini del paese in cui sono state acquisite. E qui si vorrebbe, addirittura, che non uscissero dai confini della singola classe, dagli arcana di un rapporto mistico ed ineffabile fra ciascun docente ed i “suoi” ragazzi! Ma di cosa stiamo parlando? Se rifiutiamo di rendere trasparenti e leggibili le cose che i nostri ragazzi sanno fare, li prepariamo ad un futuro di emarginazione. Quando pure tutto il mondo sbagliasse nello svolgere prove oggettive di misurazione degli apprendimenti, non servirebbe a nulla “aver ragione” da soli.
Non è la prima volta – e non sarà purtroppo l’ultima – che il mondo della scuola si trova percorso da tentazioni “luddistiche” di rifiuto del nuovo: ma la ripetizione di un errore non ne fa una verità. Invece di respingere tutto quel che permette di “leggere” il proprio modo di lavorare, sarebbe opportuno e necessario comprendere come utilizzare quegli strumenti per migliorare. Disporre di misurazioni confrontabili servirebbe in primo luogo agli stessi docenti che vogliono svolgere il proprio compito in modo significativo. Rompere il termometro per non vedere la febbre non ha mai rimosso la malattia: ha solo facilitato il trapasso.